PREMESSA Alla voce «Stima», uno fra i più noti dizionari

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PREMESSA Alla voce «Stima», uno fra i più noti dizionari
PREMESSA
Stimare tutti è lo stesso che non stimare nessuno
(Molière, Il misantropo,
Alceste, Atto I, Scena I, versi 57-58)
Alla voce «Stima», uno fra i più noti dizionari etimologici della
lingua italiana rileva la forte ambivalenza semantica – reale e, insieme,
personale – di questo concetto. La stima, infatti, vi è definita come
«valutazione, assegnazione di un prezzo a un bene o servizio», nonché
come «opinione buona, favorevole, delle qualità altrui»1. Una simile
ambivalenza non può che suonare decisamente familiare a quanti si
occupino della relazione, altrettanto ambivalente, che nelle società di
antico regime lega la qualità delle cose all’identità delle persone a cui
sono destinate.
Riferendosi alla nozione di «cultura materiale», Renata Ago ha rimarcato l’importanza di definirla come «quella parte della cultura che si
oggettiva nelle cose, che prende le cose a materializzazione della propria
esistenza», e che «comprende tutti gli aspetti del rapporto tra oggetti
ed esseri umani»2. A fronte di questo ventaglio plurale di aspetti, gli
articoli offerti in questo numero di «Quaderni Storici» tentano di misurarsi con una dimensione peculiare del rapporto fra gli uomini e le cose:
quella prettamente economica. Una dimensione che, nella fattispecie,
si è deciso di esplorare rivolgendo lo sguardo ad una pratica e, insieme,
una procedura fra le più diffuse e ricorrenti in età medievale e moderna:
la valutazione di beni e persone attraverso il ricorso alla stima.
Non è la prima volta che le pagine di «Quaderni Storici» si occupano di stime: trattando di mercati, di etica ed economia, di informazioni
e scelte economiche e, ancora, di consumi culturali e scambi di prodotti artistici3, si è in più di un’occasione fatto riferimento all’ossessione,
decisamente tipica del mondo di antico regime, di identificare, qualificare, classificare e stimare i beni, in specie se destinati allo scambio4.
Nel concepire un intero numero monografico su questo tema, ci proponevamo di proseguire idealmente sulla strada dell’approfondimento
di questi percorsi analitici, e, insieme, di riconnettere i fili che uniscono
tali percorsi a un altro ambito d’indagine, altrettanto importante e altrettanto battuto da questa rivista: la storia delle procedure di giustizia5.
Fin dai primi passi di questo progetto, infatti, ci è risultato evidente come, mutatis mutandis, la stima costituisca un dispositivo suscettibile di innescare, sul versante economico, molti dei meccanismi
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che è possibile osservare in azione nelle procedure giudiziarie di antico
regime: anzitutto perché è essa stessa uno strumento di prova molto
spesso utilizzato in sede di contenzioso legale; ed in secondo luogo perché si tratta di un modo d’operare che è portatore di precise grammatiche e di altrettanto specifiche istanze di giustizia. In aggiunta a ciò,
esiste un’interessante analogia, che ben traspare dai contributi offerti in queste pagine, fra la procedura estimativa, capace di farsi carico
dell’eccezione e dell’unicità del caso singolo, e la procedura del diritto
civile protagonista di diversi numeri di «Quaderni Storici»6.
Nel trattare di stime di antico regime, abbiamo dunque ritenuto
potenzialmente fruttuoso indagarle anzitutto nei loro aspetti procedurali, senza, con questo, trascurare il loro essere anche, e soprattutto
(le due cose non sono peraltro in contraddizione), delle pratiche dal
forte contenuto empirico ed esperienziale, cariche di convenzioni che le
rendono capaci di rispondere al problema dell’attribuzione del valore
economico a cose e persone sulla base di criteri socialmente condivisi.
Partendo dalla volontà di analizzare le stime nelle direzioni appena delineate, le storie di cui parlano i saggi inclusi in questo volume ci hanno
tuttavia portato ancora più lontano, a esplorare una serie di questioni
che hanno a che fare con molte altre storie, fra cui la questione dei
prezzi, l’analisi dell’incertezza e dei modi per fronteggiarla, la ricostruzione del senso di giustizia e dell’idea di disuguaglianza vigenti nelle
società di antico regime.
Un simile percorso non è stato esente da qualche scelta e da qualche
sacrificio. La grande inflazione con cui le stime compaiono nelle fonti
documentarie d’età medievale e moderna (contratti di compravendita,
di locazione, inventari post mortem, apprensioni operate dalle autorità
giudiziarie, ecc.) ci ha infatti imposto di operare una drastica selezione
dei casi da affrontare. Conviene, al riguardo, dare conto di un’assenza
«pesante» ma al tempo stesso non casuale: la mancanza, in queste pagine, di un saggio dedicato alle stime redatte a scopi fiscali e catastali,
e la connessa mancata trattazione specifica del problema della stima
dei beni immobili e fondiari (sebbene la questione venga in parte trattata da diversi contributi presenti nel volume)7. Si tratta, dicevamo, di
un’assenza voluta ed imposta da due ordini di ragioni: da un lato, dalla
constatazione dell’esistenza di un’ampia mole di studi, anche recenti,
espressamente dedicati a questi temi8; dall’altro, dalla stessa vastità dei
temi in questione, i quali, da soli, avrebbero richiesto la realizzazione
di un intero numero monografico dedicato alla loro esplorazione9. In
questa occasione abbiamo invece provato a imboccare strade meno battute e, insieme, a ripercorrere sentieri più usuali e circoscritti adottando
un approccio critico e problematico, utile a sollevare nuove domande
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più che a fornire risposte a interrogativi già posti. Il numero, così, affronta la questione della stima a partire da un’ampia eterogeneità di
contesti, di soggetti e di oggetti: dalla valutazione di una serie di doti
veneziane esaminate da Paola Lanaro alle procedure di confisca sui beni degli inquisiti milanesi analizzate da Germano Maifreda; dalla stima
dei premi assicurativi del commercio marittimo sulle piazze toscane dei
secoli XV-XVI di cui parla Giovanni Ceccarelli all’esame degli usi delle
stime delle rendite sui titoli del debito pubblico dell’Hôtel de Ville di
Parigi studiate da Katia Béguin e Pierre-Charles Pradier; dalla trattatistica economica cinque e seicentesca ricostruita da Monica Martinat
alla rassegna critica della questione della formazione dei prezzi degli
oggetti artistici operata da Guido Guerzoni. Questa pluralità di temi
ha consentito di effettuare un’iniziale, ma a nostro avviso molto significativa incursione nell’immensa area delle stime di antico regime: stime
basate, come vedremo, su criteri valutativi plurali, e sempre fondate
sulla costruzione di conoscenze processuali prodotte dall’interrelazione
locale e contestuale, più che su conoscenze astratte già totalmente acquisite che anticipano e generano l’azione; stime, inoltre, rivelatrici di
istanze di giustizia ma, al tempo stesso, così duttili e flessibili da prestare in più d’un caso il fianco alla creazione di zone opache di elusioni,
sottrazioni ed omissioni altamente indiziarie dell’esistenza di precise
strategie o rapporti di forza. Ne è emerso, in definitiva, un quadro
nel quale la stima si è rivelata un dispositivo ancor più «anfibio» di
quanto potessimo immaginare all’inizio: non soltanto per la sua duplice
natura reale e personale, ma anche per il suo rapporto ambivalente,
se non addirittura ambiguo, con i confini fra il giusto e l’ingiusto, il
lecito e l’illecito, il valutabile e l’incommensurabile, il discrezionale e
l’imparziale. Proviamo ad osservare tutto ciò più da vicino.
Un primo, importante elemento che emerge dai contributi presentati nel fascicolo ha a che vedere con la questione, cruciale in specie (ma
non solo) per la storia economica, dei complessi meccanismi della formazione, del riconoscimento e della giustificazione del valore dei beni.
Come mostrano in maniera esplicita e diretta i saggi di Guerzoni, Lanaro e Martinat, l’esame delle stime presenta il considerevole vantaggio di
permettere di effettuare una benefica inversione di sguardo rispetto alle
analisi di storia dei prezzi tradizionalmente praticate10, offrendo la possibilità di rivolgere l’attenzione non al mero – e spesso poco eloquente
– «precipitato numerico» dello scambio economico (il prezzo), quanto
alle convenzioni alla base della formazione del valore, grandezza economica non sempre coincidente col prezzo11, e dai contenuti informativi
sovente più ricchi di quest’ultimo. Distogliere lo sguardo dal prezzo per
concentrarsi sulle convenzioni del valore12 consente di gettare luce sui
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rapporti, spesso tesi e affatto lineari, fra i principi della giustizia commutativa e quelli della distributiva, che il ricorso alle stime, facendosi
carico sia della «natura delle cose» che della «qualità delle persone»13,
tenta precisamente di avvicinare e di armonizzare. Come correttamente
ricorda Monica Martinat nel suo saggio, alle procedure estimative è
implicitamente demandata la delicata funzione di tradurre sul piano
operativo l’embeddedness e la moralità proprie dell’etica mercantile di
antico regime, attraverso una fissazione del valore realizzata sulla base
di criteri trascendenti la pura dimensione economica, nel tentativo di
mantenere quest’ultima entro la sfera sociale senza mai renderla totalmente autonoma.
Ma di quali criteri si tratta? Implicitamente l’abbiamo già detto: i
saggi qui raccolti mostrano in vario modo come le operazioni di stima,
a prescindere da ogni altra specificazione, implichino sempre un doppio grado di valutazione: una valutazione della qualità intrinseca degli
oggetti dello scambio e, insieme, una valutazione delle caratteristiche
relazionali e statutarie degli individui partecipanti allo scambio. Questo
aspetto traspare con particolare evidenza nel saggio di Paola Lanaro
sulla stima delle doti delle donne veneziane: cose e persone sono rese
protagoniste di una minuziosa attività di classificazione e qualificazione che è, in se stessa, il preludio necessario e indispensabile ai fini di
giungere a quantificare il valore economico dei beni. Tutto ciò, nella
pratica, si riverbera nell’adozione di una pluralità composita di criteri
valutativi, persino all’interno di una stessa stima. Lo stesso può dirsi
per le tante logiche estimative che presiedono alle confische perpetrate
a carico degli inquisiti milanesi studiati da Germano Maifreda, ove la
descriptio dei beni non è soltanto un elemento chiave ai fini della determinazione del loro valore (e della loro successiva apprehensio da parte
dell’autorità giudiziaria), ma è anche in grado di alimentare, mediante
il ricorso massiccio a testimoni e custodi dei beni sequestrati, una rete
diffusa di soggetti laici suscettibili di amplificare il potere dei tribunali
inquisitoriali.
L’importanza cruciale dell’attività di qualificazione non è certamente una peculiarità veneziana o milanese. Sia che si tratti di stimare un immobile da confiscare o una collana destinata a dotare una
fanciulla, sia che sia questione di assegnare un valore a beni più immateriali quali le rendite dell’Hôtel de Ville di Parigi o i rischi dei
commerci marittimi a lunga distanza, le procedure estimative comportano sempre un’opera classificatoria che si accompagna, a sua volta, a processi di valutazione spesso approssimativi, sempre contestuali, mai universali. Nel caso della determinazione dei premi assicurativi sui traffici marittimi studiati da Giovanni Ceccarelli, la ca-
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pacità della stima di farsi carico dell’alea e dell’eccezionalità del caso singolo diviene visibile quasi all’ennesima potenza. L’elevata quantità di variabili in gioco (il clima, la distanza, la rotta, le caratteristiche intrinseche del carico e della nave, l’affidabilità dell’equipaggio,
ecc.), unita alla molteplicità di situazioni che il loro intreccio tende
a creare, impone agli assicuratori che operano sulla piazza fiorentina l’adozione di criteri di stima estremamente flessibili e congetturali. Nelle situazioni (affatto rare) di elevatissima imprevedibilità, il
«fattore pericolo», addirittura trasforma l’assicurazione in un’autentica
scommessa, e la stima del premio diviene una valutazione simbolica dai tratti fortemente istintivi. Come questo caso ben documenta, oltre a dare valore al rapporto fra qualità delle cose e delle persone, le stime rendono dunque possibile un’altra importante operazione: la valutazione dell’incertezza incorporata negli scambi. Ciò
è vero anche nel caso delle rendite sui titoli del debito pubblico, lungamente considerati dalla storiografia come privi di rischi e
altamente stabili nel loro valore, e invece caratterizzati – è quanto dimostrano Béguin e Pradier nel loro articolo – da incertezze
di non poco momento sui loro rendimenti attuali e futuri: incertezze di cui la loro stima consente, invece, di tenere adeguatamente
conto.
Viste da vicino le stime mostrano, dunque, una plasticità e una duttilità che, da sole, contribuiscono in larga parte a giustificare i motivi
della loro massiccia presenza nelle carte d’archivio. Come spiegare, tuttavia, il fatto che la pluralità dei criteri valutativi utilizzati non costituisca
un ostacolo alle transazioni economiche? Ai fini di rispondere a questa
domanda i saggi qui raccolti invitano a puntare l’attenzione sull’altra
metà delle procedure estimative: la «stima di chi stima». Il corretto
funzionamento dei meccanismi su cui le stime si appoggiano, infatti,
è in gran parte nelle mani di quanti sono investiti del ruolo concreto
di effettuarle. Cosa rende, di conseguenza, un individuo un «esperto»
legittimato a compiere una stima? Anzitutto il suo essere un soggetto
anch’esso anfibio, estraneo alla transazione ma interno al contesto nel
quale essa è effettuata. L’esperto è considerato tale poiché è depositario di un sapere «terzo» e in qualche misura sovralocale, e tuttavia, in
modo solo all’apparenza contraddittorio, le competenze di cui è portatore sono strettamente dipendenti dal suo applicare con giustezza le
convenzioni locali di stima e misura. Non è del resto un caso, come ben
dimostrano gli articoli di Lanaro e Maifreda, che le fonti parlino molto
raramente di stimatori «stranieri»: molto più spesso si tratta di «amici»,
vicini, colleghi, profondi conoscitori delle consuetudini del luogo, e la
cui stima, nel senso di reputazione, poggia su una solida rete relazionale
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anch’essa locale, suscettibile sia di certificarne la fama, sia di consentire
un loro più facile accesso alle informazioni necessarie ai fini di operare
la valutazione.
L’appartenenza locale dell’esperto14 fa, poi, tutt’uno con il suo essere «pratico», ovvero con la sua familiarità con gli oggetti e i soggetti
della stima. Nel loro mobilitare una perizia accumulata negli anni, così
come nel loro frequente ricorso alle testimonianze, gli stimatori esprimono un sapere intimamente legato all’esercezio ripetuto, diretto («ho
fatto») o indiretto («ho visto, ho sentito»), di certe attività. L’esperienza
che si richiede all’esperto segnala così l’esistenza, nello statuto multiforme di questa figura, di uno spessore conoscitivo e relazionale non solo spaziale, ma anche cronologico: il farsi di un esperto, in altri termini,
richiede sempre il compimento reiterato di azioni nel tempo. Un’altra
caratteristica comune agli stimatori di cui ci parlano i saggi di questo
volume è, infine, il loro appartenere a un gruppo ristretto e contemporaneamente attivo su più fronti: è il caso non solo di notai o architetti,
ma anche degli operatori plurispecializzati che valutano i rischi sulla
piazza assicurativa fiorentina studiata da Giovanni Ceccarelli, il cui profilo coincide esattamente con quello dei membri dell’élite mercantile e
finanziaria della città.
Grazie alle analisi condotte in queste pagine, in definitiva, è lo stesso
concetto di stima a risultarne arricchito: una stima che, come abbiamo
visto, è al tempo stesso sinonimo di reputazione, autorevolezza ed esperienza, ma anche di giudizio soggettivo, congettura e approssimazione,
e che come tale include sempre una dose inevitabile di parzialità, personalismo e discrezionalità e, con loro, il rischio di generare o amplificare
disparità e disuguaglianze. Spesso simili disparità riescono a rimanere
entro i confini della giustizia, ma va da sé, in qualche modo, che un
sistema poggiante su equilibri così precari possa prestare il fianco a scivolamenti ai limiti della legalità. Dai loro rispettivi osservatori, Guido
Guerzoni e Paola Lanaro ci invitano, così, a considerare anche i tranelli
e le opacità delle stime, il loro piegarsi a scopi non pienamente leciti e ad
alterare il corretto e trasparente funzionamento degli scambi. Ancora,
Katia Béguin e Pierre-Charles Pradier ci mostrano un altro importante
risvolto della storia ambivalente delle procedure estimative: non tanto
il loro farsi, quanto il loro venire strategicamente eluse. Come i due autori documentano, le motivazioni che i detentori delle rendite parigine
adducono nell’evitare la valutazione economica dei loro titoli rinviano a
una chiara volontà di sottrarli alla circolazione mercantile, congelandoli
mediante disposizioni dotali o testamentarie e istituendo, in tal modo,
un netto discrimine fra quanto è disponibile e appropriabile – e dunque
legittimamente stimabile – e quanto non lo è15.
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Nei loro chiaroscuri e nelle loro ambivalenze, le «storie di stima»
raccontate in queste pagine ci pare abbiano consentito di raggiungere,
in ultima analisi, almeno due obiettivi significativi. Anzitutto, ci hanno
permesso di penetrare ancora più a fondo nel senso di giustizia – e di
giustezza – delle società di antico regime, mostrandone in controluce
non solo le logiche di funzionamento, ma anche i contorni ed i confini.
In secondo luogo, ci hanno messo nelle condizioni di poter osservare
da vicino la complessa dialettica fra le pratiche dello scambio ed il loro
rovescio: i circuiti dell’incommensurabile e dell’inestimabile, ove cose
e persone, per varie ragioni, sono gelosamente tenute al riparo dalla
valutazione e dalla mercificazione.
Due risultati certamente preliminari, ma a nostro avviso affatto trascurabili.
M. B., J-F. C., L. M.
Note al testo
1 M. CORTELLAZZO, P. ZOLLI (a cura di), Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna
1999, vol. V, pp. 1275 e 1409.
2 R. AGO, Il gusto delle cose. Una storia degli oggetti nella Roma del Seicento, Roma 2006,
p. XV.
3 Il riferimento è ai seguenti numeri di «Quaderni Storici»: B. SALVEMINI (a cura di), Mercati,
96 (1997); M.L. PESANTE (a cura di), Etiche economiche, 105 (2000); R. AGO, O. RAGGIO (a cura
di), Consumi culturali, 115 (2004); L. SPEZZAFERRO (a cura di), Mercanti di quadri, 116 (2004);
B. SALVEMINI, W. KAISER (a cura di), Informazioni e scelte economiche, 124 (2007).
4 Si tratta di aspetti ben enucleati anche da J.-Y. GRENIER, Une économie de l’identification.
Juste prix et ordre des marchandises dans l’Ancien Régime, in A. STANZIANI (a cura di), La
qualité des produits en France (XVIIIe-XXe siècle), Paris 2003, pp. 25-53. Sul ruolo cruciale della
classificazione, della misura e della stima, si vedano anche i seguenti tre saggi, tutti comparsi in
B. SALVEMINI, Mercati cit.: R. AGO, Gerarchia delle merci e meccanismi dello scambio a Roma nel
primo Seicento, pp. 663-84; C. PONI, Standard, fiducia e conversazione civile: misurare lo spessore
e la qualità del filo di seta, pp. 717-34; R. TOLAINI, Istituzioni mercato, fiducia. Le misure della
seta nell’Ottocento, pp. 769-94.
5 Cfr., in proposito, R. AGO, S. CERUTTI (a cura di), Procedure di giustizia, in «Quaderni
Storici», 101 (1999).
6 Sulla questione dell’eccezione ed il ruolo rilevante che essa gioca nelle società di antico
regime, rimandiamo al recente numero di «Quaderni Storici» esplicitamente dedicato a questo
tema: M. VALLERANI (a cura di), Sistemi di eccezione, 131 (2009), e ai saggi in esso contenuti.
7 Si vedano, in particolare, i saggi di Paola Lanaro e Germano Maifreda.
8 Sul ruolo giocato dalle procedure estimative all’interno di estimi e catasti, cfr. i saggi
contenuti nel recente volume di G. ALFANI, M. BARBOT (a cura di), Ricchezza, valore e proprietà
in età preindustriale (1450-1800), Venezia 2009.
9 La questione della stima dei beni immobili è stata da noi affrontata all’interno dei seguenti
saggi, a cui ci permettiamo di rinviare: J.-F. CHAUVARD, La formation du prix des maisons
dans la Venise du XVII siècle, in «Histoire et mesure», 3-4 (1999), pp. 331-68; L. MOCARELLI,
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Ascesa sociale e investimenti immobiliari: la famiglia Clerici nella Milano del Sei-Settecento, in F.
BENFANTE, A. SAVELLI (a cura di), Proprietari e inquilini, in «Quaderni Storici», 113 (2005), pp.
419-36; M. BARBOT, A ogni casa il suo prezzo. Le stime degli immobili della Fabbrica del Duomo
di Milano fra Cinque e Settecento, in J.-F. CHAUVARD, L. MOCARELLI (a cura di), L’économie
de la construction dans l’Italie moderne, in «Mélanges de l’Ecole Française de Rome, Italie et
Méditerranée», 119/2 (1997), pp. 249-60.
10 La Price History, vera e propria branca della storia economica, è sorta, com’è noto,
dall’allestimento, all’indomani della crisi del 1929, dell’International Scientific Committee on
Price History voluto da Lord Beveridge. Seppur nella varietà di correnti in cui è andata
sviluppandosi nei decenni successivi, essa poggia su alcuni assunti teorici ben precisi e consolidati.
Fra loro, l’adozione di un approccio eminentemente seriale e quantitativo alla questione dei
prezzi.
11 L’analisi delle procedure di stima permette di accedere ai meccanismi di formazione
del valore, un tema fra i più dibattuti dagli economisti preclassici e classici, per poi venire
messo all’angolo a seguito della rivoluzione marginalista di fine Ottocento. Sull’esplusione della
questione del valore dalla scienza economica, cfr. le riflessioni, sempre attuali, di J.A. SCHUMPETER,
Storia dell’analisi economica, Torino 1972.
12 Dopo decenni di oblio, la questione del valore, della sua qualificazione e quantificazione
è stata di recente ripresa dal programma di ricerca dell’«Economia delle convenzioni», secondo
il quale l’esistenza di un mercato è strettamente correlata alla presenza di convenzioni, ovverosia
di criteri di valutazione diffusi e comunemente convisi. In proposito – e all’interno di un’ormai
vasta bibliografia – si vedano L. THÉVENOT, Economie et formes conventionnelles, in R. SALAIS, L.
THÉVENOT, Le travail. Règles, negociations, conventions, Paris 1986, pp. 195-215, e F. EYMARD
DUVERNAY, Conventions de qualité et formes de coordination, in «Revue économique», 2 (1989),
pp. 329-59.
13 Sulla corrispondenza che le società di antico regime tendono ad istituire fra «natura delle cose» e «qualità delle persone», cfr. S. CERUTTI, Giustizia sommaria. Pratiche e ideali di giustizia in una società di Ancien Régime (Torino XVIII secolo), Milano 2003, pp. 81109.
14 La questione delle appartenenze e dei «saperi» locali è stata di recente esplorata da S.
CERUTTI in Travail, mobilité et légitimité. Suppliques au roi dans une société d’Ancien Régime
(Turin, XVIIIe siècle), in «Annales H.S.S.», 3 (2010), pp. 571-611.
15 Queste riflessioni, peraltro, rinviano alle osservazioni di Yan Thomas, il quale spiegava come nel mondo romano i beni indisponibili e non appropriabili fossero fondamentalmente non valutabili, e dunque sottratti alle operazioni di stima che intervenivano sia nel
quadro dello scambio mercantile sia in quello della procedura giudiziaria: Y. THOMAS, La
valeur des choses. Le droit romain hors la religion, in «Annales H.S.S.», 6 (2002), pp. 14311462.