CASD CeMiSS Quarterly November 2010

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CASD CeMiSS Quarterly November 2010
NOVEMBRE 2010
http://www.difesa.it/SMD/CASD/Istituti+militari/CeMISS/
Sommario
Osservatorio
Strategico
A N N O X II N U M E R O 11
NOVEMBRE
EDITORIALE
Francesco Lombardi
MONITORAGGIO STRATEGICO
2010
L’Osservatorio Strategico raccoglie analisi e
reports sviluppati dal Centro Militare di Studi
Strategici, realizzati sotto la direzione del
Gen. D. CC. Eduardo Centore.
Le informazioni utilizzate per l’elaborazione
delle analisi provengono tutte da fonti aperte
(pubblicazioni a stampa e siti web) e le fonti,
non citate espressamente nei testi, possono
essere fornite su richiesta.
Quanto contenuto nelle analisi riflette,
pertanto, esclusivamente il pensiero degli
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né delle Istituzioni militari e/o civili alle quali gli
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L’Osservatorio Strategico è disponibile anche
in formato elettronico (file PDF) nelle pagine
CeMiSS del Centro Alti Studi per la Difesa:
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Centro Militare
di Studi Strategici
Vice Direttore Responsabile
Gen. B. Francesco Lombardi
Dipartimento Relazioni Internazionali
Palazzo Salviati
Piazza della Rovere, 83 00165 – ROMA
tel. 06 4691 3204 fax 06 6879779
e-mail [email protected]
Questo numero è stato chiuso
il 30 novembre 2010
Medio Oriente – Golfo Persico
La difficile situazione della comunità cristiana in Iraq
Giacomo Cimetta Goldkorn
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Regione Adriatico – Danubiana – Balcanica
Il vertice di Lisbona e la posizione turca
Paolo Quercia
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Comunità Stati Indipendenti – Europa Orientale
Il nuovo capitolo nel rapporto fra Russia e Comunità euro-atlantica
Andrea Grazioso
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Relazioni Transatlantiche - NATO
Prime considerazioni dopo il vertice di Lisbona
Lucio Martino
23
Teatro Afghano
Dal vertice Nato di Lisbona alla transizione in Afghanistan / L’asse India-USA irrita
il Pakistan
Fausto Biloslavo
29
Africa
Cote d’Ivoire: un paese diviso a metà
Maria Egizia Gattamorta
37
Iniziative Europee di Difesa
Termina la missione EU-SSR GUINEA BISSAU
Lorenzo Striuli
43
Cina e India
Il dollaro e Pechino
Nunziante Mastrolia
49
America latina
Il Brasile da Lula a Dilma
Riccardo Gefter Wondrich
55
Organizzazioni Internazionali e Cooperazione Centro-Asiatica
Il terzo vertice dei paesi del Caspio
Lorena Di Placido
61
Settore energetico
La riscossa del gas arriva a fine anno
Gerardo Iovane
67
Organizzazioni Internazionali
La protezione dei civili nei conflitti armati
Valerio Bosco
71
SOTTO LA LENTE
Le nuove minacce del terrorismo internazionale: Al Qaeda tra lo sviluppo di armi
non convenzionali e l’utilizzo dei terroristi home grown
Laura Quadarella
79
RECENSIONI
85
Anno XII – n°11 novembre 2010
EDITORIALE
Nuovi rapporti tra vecchi attori
Il vertice NATO di Lisbona pare aver aperto nuove possibili formule collaborative tra
l’Alleanza Atlantica e la Russia. L’accordo, ancora allo stato potenziale, su una co-gestione
della difesa anti-missile, oltre ad evidenti valutazioni di natura strategica e militare, rappresenta
una significativa piattaforma su cui veicolare nuovi fattivi rapporti con il gigante euroasiatico.
L’auspicio è che la Russia voglia effettivamente sviluppare, nel terzo millennio, relazioni basate
su formule lontane dalle passate contrapposizioni.
Ma l’avvicinamento all’occidente non vuol dire automatica rinuncia a riacquistare un effettivo
ruolo di potenza globale. A Mosca si è certo compreso che nell’era post-bipolare, gli strumenti
per esercitare la propria influenza sono variegati e vanno dosati ed utilizzati congiuntamente.
Vanno impiegati in relazione alla situazione contingente che, è oramai acclarato, muta molto più
velocemente che in passato.
Alla supremazia militare si affiancano l’uso strategico delle disponibilità energetiche e le
manovre sui mercati finanziari, oltre ai tradizionali strumenti politico-diplomatici e mediatici.
Va sottolineato che in Russia di sicuro si ricorda che al crollo dell’Unione Sovietica contribuì
anche la supremazia tecnologica statunitense. Ha quindi presumibilmente valutato l’opportunità
di cavalcare, con il più elevato protagonismo possibile, il progresso tecnico-scientifico comune.
Con un risparmio di risorse economiche che non guasta in un periodo di crisi generalizzata.
Quanto le scelte della Russia d’oggi siano poi la naturale evoluzione del partenariato avviato a
Pratica di Mare nel 2001, ovvero da annoverare tra i successi della diplomazia nazionale, può
essere oggetto di dibattito e confronto, ma è certo che siamo a un bivio che può essere foriero di
interessanti se non interessantissimi sviluppi. La fiducia e la sicurezza possono alimentarsi
vicendevolmente garantendo un futuro meno problematico dell’oggi. Wikileaks permettendo.
In questa situazione, l’Europa, però, rischia di vedere sempre più lontane le reali ambizioni di
potenza cui aspira.
Le discussioni e le preoccupazioni sui bilanci e sul destino dell’Euro evidenziano, qualora ce ne
fosse ancora bisogno, le tante divisioni e gli arroccamenti di parte. Si continua a nominare e a
chiedere un Esercito Europeo quasi che tale struttura, con la sua sola esistenza, possa
automaticamente garantire scelte politiche comuni e condivise. Le organizzazioni militari sono
strumenti che operano sulla base ed a seguito di scelte politiche. Senza una politica comune
chiara, ha poco senso parlare di Esercito comune.
Un Esercito Europeo potrà essere un monolito organizzativo solo quando la gestione
condominiale dell’Europa sarà sostituita da istituzioni forti e vigorose.
Francesco Lombardi
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
Medio Oriente – Golfo Persico
Giacomo Cimetta Goldkorn
Eventi
►Tarik Aziz condannato a morte. Il 26 ottobre, Tarik Aziz, alto esponente della nomenclatura
di Saddam Hussein, è stato condannato alla pena di morte. La diplomazia internazionale è alla
ricerca di una soluzione politica all'esecuzione di uno dei pochi politici cristiani arrivato alle
più alte cariche di quello Stato. Nelle settimane successive alla sentenza, lo stesso Presidente
dell'Iraq Talabani, a cui spetta la firma per l'esecuzione capitale, si è dichiarato non disponibile per un simile atto.
►Attacchi alle comunità cristiane irakene. Dal 31 ottobre, attraverso autobombe e attacchi
simultanei, in Iraq sono state colpite numerose comunità cristiane. Il numero dei morti solo nel
mese di novembre si aggira intorno alle 75 persone, ma quotidianamente vi sono attacchi e attentati.
►Referendum sul ritiro israeliano dalle alture del Golan e Gerusalemme est. Il 16 novembre,
la Knesset, il Parlamento israeliano, ha approvato una legge secondo la quale ogni ritiro da
Gerusalemme est e dalle alture del Golan dovrà essere ratificato da un referendum popolare.
Con questa decisione Israele vincola parte del proprio futuro strategico, scelta prioritaria di un
governo, alla volontà popolare.
►Report dell’AIEA sul nucleare iraniano. Il 24 novembre le agenzie di stampa hanno riportato l'anteprima dell'ultimo report dell'AIEA sullo stato dell'arte del nucleare iraniano. Oltre ad
affermare alcuni elementi considerati stabili, quali la non evidenza di un possibile uso bellico
dell'uranio arricchito, il report si è soffermato sul fatto che le centrifughe di arricchimento
dell'uranio siano attualmente ferme a causa di problemi di carattere informatico. Da circa un
anno i sistemi informatici iraniani legati al nucleare sembrano essere pesantemente sotto attacco, come confermerebbero le notizie trapelate dall'AIEA. Teheran si è affrettata a replicare che
la situazione è sotto controllo e nessun rallentamento al programma è stato effettuato.
►Vertice dei paesi del Caspio a Baku. Il 18 novembre, a Baku, capitale dell’Azerbaijan, l'Iran
ha respinto la proposta di accordo sulla delimitazione del Mar Caspio. La soluzione della problematica lascia ancora scontenti l'Iran ed il Turkmenistan. Tuttavia lo sfruttamento delle ingenti risorse energetiche offshore del Caspio dipendono in parte dalla soluzione della controversia.
►Nuovo governo per l’Iraq. Il 25 novembre Nouri al-Maliki è stato incaricato di formare il
nuovo governo iracheno. L'accordo trovato tra i partiti ed i movimenti si concretizza in 18 ministri alla coalizione National Alliance formata da al-Maliki stesso, al-Sadr, e al-Hakim, 9 ministeri ad Allawi e alla componente sunnita, 7 ministeri alla coalizione curda ed 1 ai cristiani.
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MONITORAGGIO STRATEGICO
Altri ministeri saranno assegnati senza tuttavia avere a disposizione alcun budget. L'accordo
finale è stato trovato sullo status quo con Maliki Primo Ministro, Allawi presidente del Parlamento e Talabani riconfermato Presidente.
►Nuovo giuramento per la cittadinanza israeliana? Il 28 novembre il Parlamento israeliano
ha iniziato la discussione sulla legge che modifica il giuramento per ottenere la cittadinanza
israeliana, che aggiunge al rispetto delle leggi dello Stato anche la precisazione che questo sia
ebraico. Tale decisione mette a rischio i rapporti con gli Arabi Israeliani, allo stato attuale cittadini dello Stato, e paventa per il futuro l’impossibilità di divenire cittadini per coloro che sono fuggiti da Israele o per i loro discendenti.
►Le rivelazioni di Wikileaks e il contesto mediorientale. Il 28 novembre sono stati resi pubblici da Wikileaks i documenti classificati del Dipartimento di Stato Usa, una parte dei quali
riguardano anche le posizioni politiche dei leader dei paesi arabi e delle loro valutazioni geopolitiche. Da una prima lettura si evince che paesi quali Arabia Saudita ed Emirati hanno fatto
pressione sull'Amministrazione statunitense per un intervento deciso contro l'Iran ed il suo programma nucleare. Non necessariamente sarebbe stato chiesto un intervento militare, ma, certamente, una presa di posizione ancor più dura. L'altro elemento di forte interesse nei documenti fino ad ora analizzati è che i paesi arabi negli anni non hanno chiesto agli Stati Uniti di spingere vigorosamente Israele verso un congelamento definitivo nella costruzione degli insediamenti, fattore di forte tensione tra Israeliani e Palestinesi e nodo cruciale per il rilancio di un
tavolo delle trattative
LA DIFFICILE SITUAZIONE DELLA COMUNITÀ CRISTIANA IN IRAQ
Nelle ultime settimane, all'interno dell'Iraq si sta
intensificando una sempre crescente ondata di violenza sulla comunità cristiana. Più che in passato,
lo scontro che dominava prevalentemente la realtà
sunnita e quella sciita si è esteso anche ad una realtà decisamente marginale del panorama religioso iracheno, quella della comunità cristiana, che
allo stato attuale non possiede influenza di potere
o particolare peso economico. L'instabilità del paese, che dopo le elezioni di marzo ancora stenta a
trovare un governo definitivo, ha acuito in generale le tensioni e la comunità cristiana, priva di forti
legami politici e di un controllo del territorio comincia ad accusare anche sotto il profilo della sicurezza della propria condizione di minoranza.
La situazione
Nel 1980 il numero dei cristiani iracheni superava
il milione di abitanti, quasi il 7% della popolazione,
e ciò prevalentemente grazie al fatto che il secolarismo del partito Baath aveva limitato le persecu-
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zioni e gli omicidi a sfondo religioso nel paese.
Tuttavia, nonostante il netto miglioramento della
condizione della comunità, un forte numero di cristiani fu trasferito in altre parti del paese rispetto ai
luoghi di residenza originari. La spiegazione è da
ricercare nel fatto che la maggior parte della popolazione che fu costretta ad emigrare era costituita
da Curdi che dal nord fu costretta a spostarsi verso
il sud e tra questi alcuni cristiani. Ancora oggi, infatti, le più significative comunità cristiane del paese sono a Kirkuk, Mosul, Irbil e Baghdad. Eccetto
la capitale, le altre città sono prevalentemente a
maggioranza curda. Nel 2003, al momento della
caduta del regime di Saddam, il numero dei cristiani era sceso a circa 800 mila unità. Un report
delle nazioni unite del 2005 rivelava come il 24%
di tutti i profughi iracheni in Siria fosse di fede cristiana. I dati attuali sul numero dei cristiani in Iraq,
specialmente a seguito degli attacchi del mese di
novembre alle chiese e alla popolazione cristiana,
sembra impossibile da determinare. E' tuttavia ve-
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MONITORAGGIO STRATEGICO
rosimile pensare che l'attuale popolazione si sia
ridotta del 50% ovvero a circa 400 mila unità.
Quelli che hanno potuto hanno preso la via della
Siria e un'altra considerevole quota si è rifugiata
nel nord del paese, in particolare nel Kurdistan,
grazie alla rete di rapporti familiari e alla speranza
che il governo regionale possa in qualche misura
ostacolare l'ondata di violenza.
I casi di violenza più eclatanti nel corso degli ultimi tre anni sono certamente stati quello del rapimento dell'arcivescovo della chiesa Cattolica caldea di Mosul, Monsignor Paulos Faraj Rahho, e
l'attacco terroristico dello scorso 31 ottobre, nel
quale sono morti 68 cristiani. Nel periodo della
caduta di Saddam, sono stati uccisi molti cristiani,
in un contesto di scontro settario e religioso, che
spesso ha contrapposto militanti di fede sunnita e
sciita. Colpire i membri della comunità cristiana in
Iraq è piuttosto semplice. Al pari delle altre confessioni spesso è possibile riconoscere, grossolanamente, l'appartenenza ad una fede piuttosto che
all'altra dai nomi o dalle famiglie di appartenenza.
Non deve stupire che la situazione sia particolarmente tesa e priva di un sostanziale controllo da
parte delle forze dell'ordine irachene. Mosul, una
delle città con la più elevata concentrazione di
chiese del paese, ha interrotto in queste settimane
ogni funzione religiosa per evitare di attirare in un
solo luogo fedeli che potrebbero trasformarsi in
potenziali bersagli terroristici. Al contrario delle
altre fedi islamiche o della vasta comunità etnica
dei Curdi, i cristiani non hanno partiti politici di
riferimento forti tanto da poter prendere parte alla
spartizione del territorio, dei posti nel governo o
dell'amministrazione, dell’esercito o della polizia. I
cristiani, molti dei quali si riconoscono nei movimenti politici Assiri, nel 2005 hanno conquistato
tre seggi al Parlamento mentre alle elezioni del
2010 sono arrivati a 5. Partecipazione maggiore e
ruolo di rilievo lo hanno spesso ottenuto, invece,
fin dal 1992 in Kurdistan (anno delle prime elezio-
ni nella regione autonoma). La frammentazione
politica domina anche in questo caso la comunità,
come spesso avviene in altre realtà religiose, e il
peso politico e l'alleanza strategica con i Curdi è
fondamentale per comprendere alcune posizioni di
carattere politico.
I cristiani, la cui vulnerabilità è particolarmente
evidente, a causa della mancanza di sponsor politici influenti, sono caratterizzati anche da un altro
importante elemento: la mancanza di una reale milizia armata organizzata e di un controllo del territorio. In un centro alle porte di Mosul si registra il
caso di una città la cui maggioranza della popolazione, Assira, si è organizzata costituendo la “Qaraqosh Protection Committee”, un'organizzazione
il cui scopo è quello di controllare le strade della
città ed impedire che gli atti di violenza che si verificano a Mosul si estendano anche alla città di Qaraqosh (circa 50 mila abitanti). Si tratta tuttavia di
un esempio più unico che raro, la cui rilevanza sulla sicurezza, nonostante l'attiva collaborazione con
la polizia, risulta decisamente scarsa.
Il legame tra i Curdi, la comunità Assira e quella
Cristiana, si è concretizzato durante le scorse settimane con la sentenza di condanna a morte dell'ex
gerarca di Saddam Hussein, Tarek Aziz, contro la
quale si è pronunciato il Presidente dell'Iraq Talabani (curdo), rifiutando il decreto dell'esecuzione
capitale. Sotto il profilo della politica interna, tale
decisione non è affatto priva di un profondo e lungimirante disegno politico. Una nuova frattura nel
nord del paese, causata dalla condanna a morte di
uno dei pochi cristiani che abbiano raggiunto potere e prestigio internazionali, rischierebbe di creare
all'interno della società curda tensioni al momento
difficilmente gestibili. Oltre alle pressioni internazionali provenienti da paesi occidentali, Italia in
testa, e da autorità religiose quali il Papa, esistono
ragioni di carattere strategico che superano il sentimento etico di salvare la vita dell'anziano ex Ministro di Saddam.
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MONITORAGGIO STRATEGICO
Regione
Adriatico – Danubiana – Balcanica
Paolo Quercia
Eventi
►Turchia, il governo rimuove tre generali accusati di complotto contro l’AKP e sostituisce il
Gran Muftì Bardakoglu. Il Governo civile turco, per iniziativa del Ministro della Giustizia e
del Ministro della Difesa ha per la prima volta proceduto di sua iniziativa alla rimozione di tre
alte cariche dell’esercito, accusate di aver avuto un ruolo nel progettato colpo di stato del 2003
denominato “Sledgehammer”. Secondo informazioni riportate dalla stampa turca sono oltre 40
i militari sotto indagine per aver elaborato questo piano che prevedeva la realizzazione di una
serie di attentati atti a creare un clima di tensione al fine di procurare un intervento dei militari
e sfavorire l’ascesa al potere dell’AKP. Questo processo, che secondo molti critici del governo
è solo una fase dello scontro di potere in atto in Turchia tra il governo islamista e i militari
nazionalisti, rappresenta un’indagine parallela alla più famosa inchiesta Ergenekon che, secondo l’accusa, costituiva una rete trasversale di centinaia di persone aventi dei ruoli chiave in
molti ambienti della società e delle forze armate turche che condividevano l’obiettivo di impedire la presa del potere da parte delle forze islamiste. Nello stesso periodo il governo ha proceduto alla sostituzione del Presidente del Diyanet, il Direttorato degli Affari Religiosi della Turchia, ovverosia l’organo statale di supporto al governo per la gestione delle questioni religiose
interne alla Turchia nonché per la gestione dei rapporti religiosi internazionali del paese. Bardakoglu, al suo secondo mandato, ha gestito il Direttorato per sette anni, coincidenti con il
governo da parte dell’AKP del paese, e si è contraddistinto per una direzione non sempre in
linea con la politica religiosa del governo restando favorevole ad esempio al mantenimento del
divieto dell’uso del velo in pubblico e contrario alle aperture fatte da Erdogan, nel nome della
comune radice islamica, alle minoranze curde ed alavite. Suo successore sarà Mehemet Gormez, già vice di Bardakoglu e da molti identificato come un esponente di un’ala più conservatrice della gerarchia religiosa turca.
►Serbia. Zukorlić rinnova le richieste per l’autonomia nel Sangiaccato. Il muftì della Comunità islamica in Serbia Muamer Zukorlić ha ribadito la richiesta nel corso di una intervista alla
tv araba Al-Jazera di una larga autonomia per la regione del Sangiaccato. Nel corso della stessa intervista Zukorlic è ritornato sulle accuse al governo di Belgrado di discriminazioni etnico
– religiose nei confronti dei mussulmani del Sangiaccato. Probabilmente la ripetuta volontà di
Zukorlic di aumentare la tensione con il governo di Belgrado è legata ai progetti di riforma
amministrativa della Serbia e in particolare al progetto di regionalizzazione del paese, che
comporterebbe una frammentazione del Sangiaccato storico in due o tre diverse aree amministrative.
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MONITORAGGIO STRATEGICO
►Macedonia, Gruevski in visita in Ucraina rilancia la cooperazione economica bilaterale. Il
Premier macedone Nikola Gruevski ha vistato l’Ucraina incontrando, tra gli altri, il primo
ministro Azarov. Oggetto della visita, la prima da dieci anni a questa parte, è stata la cooperazione economica bilaterale, quadruplicatasi negli ultimi anni, e in particolare la cooperazione
in campo energetico nel settore del petrolio e del gas. Tra gli argomenti della visita anche possibili cooperazioni di aziende ucraine nella progettazione del possibile ramo macedone del
gasdotto South Stream.
►Montenegro, accordo finale con l’Italia per la realizzazione del cavo elettrico sottomarino.
La società italiana Terna SpA e la omologa società montenegrina CGES hanno firmato, alla
presenza dei ministri dell’energia dei due paesi, l’accordo strategico di partenariato per la
costruzione di un cavo sottomarino attraverso l’Adriatico che collegherà l’Italia con il Montenegro e che costituirà un ponte elettrico tra l’Italia ed i Balcani per l’importazione e
l’esportazione energetica. Il cavo sottomarino avrà una capacità di 1000 MW una lunghezza di
450 chilometri di cui 375 sottomarini.
Ulteriori collegamenti regionali prevedono reti di trasmissione da 400kV con le vicine Serbia e
Bosnia Erzegovina che consentiranno di realizzare una importante integrazione energetica tra
l’Italia ed i Balcani occidentali.
►Turchia, cancellato il business forum con Israele. A conferma della mancata ricostruzione
dei rapporti tra Ankara e Tel Aviv, è giunta notizia della cancellazione da parte turca di un
business forum bilaterale che i governi dei due paesi avevano pianificato da oltre un anno in
seguito ad un accordo tra i Ministri del Commercio e dell’Economia dei due paesi. Nello stesso
periodo il Consiglio per la Sicurezza Nazionale turco ha inserito Israele tra i paesi ritenuti
costituire una potenziale minaccia per la Turchia e per la stabilità della regione. E’ la prima
volta dalla creazione dello Stato di Israele che esso viene classificato come una minaccia strategica per la Turchia. In particolare Israele viene considerato nel documento come responsabile con le proprie azioni tanto della destabilizzazione della regione quanto di una possibile nuova corsa agli armamenti.
►Serbia, partecipazione alle operazioni internazionali di peace-keeping. Il Ministro della
Difesa Sutanovac ha comunicato i progetti di aumentare la attualmente modesta presenza
dell’esercito serbo nelle missioni internazionali di peace-keeping, limitata a piccoli contingenti
in Ciad, Costa d’Avorio e Liberia. Le prime missioni partiranno sotto il cappello delle Nazioni
Unite e verosimilmente riguarderanno Libano, Cipro e forse Somalia. Future missioni sotto la
bandiera della UE sono per il momento da escludersi a causa della posizione europea sul Kosovo e per il ruolo ivi svolto da Eulex non gradito a Belgrado. Anche se, l’accelerazione del
processo di avvicinamento di Belgrado all’Unione europea, riscontratosi negli ultimi mesi,
potrebbe rimuovere i dubbi e consentire l’avvio di una collaborazione militare Serbia – UE
sulle peace operations. Ugualmente problematica, forse maggiormente per motivi storici ed
ideologici che attuali e reali, è la possibilità di partecipazione serba ad operazioni militari NATO. Anche se, il principale vincolo alla partecipazione militare serba alle missioni internazionali restano prevalentemente le limitate risorse finanziarie e il mancato consenso di una opinione pubblica caratterizzata da una visione geograficamente molto limitata degli interessi del
paese e tuttora fortemente contraria all’invio di truppe all’estero.
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IL VERTICE DI LISBONA E LA POSIZIONE TURCA
La Turchia ha preparato la propria partecipazione al vertice di Lisbona in maniera coerente con gli sviluppi politici internazionali che
hanno caratterizzato l’azione di Ankara negli
ultimi anni. Nel vertice NATO la Turchia ha
portato una complessa serie di questioni che
sono maturate recentemente ma che non potevano non avere conseguenze nel processo di
ridefinizione del nuovo concetto strategico
dell’Alleanza Atlantica di cui la Turchia è un
importante tassello regionale. Tra i vari fattori
che rappresentano la questione turca
all’interno dell’Occidente con cui i paesi NATO hanno dovuto fare i conti vi sono la ricalibratura ed aggiornamento al post guerra fredda del rapporto della Turchia con Washington,
il distacco politico e militare da Israele, la
politica del riallineamento regionale con i
vicini arabi e la costruzione di un vicinato di
profondità strategica, la politica antiisolamento dell’Iran e la condivisione con
Teheran di strategie politiche e di sicurezza
sullo scenario iracheno post americano, la
strategia di non contrapposizione strategica
con la Russia nel Caucaso e in Asia centrale.
Ciascuna di queste questioni riguarda cambiamenti strutturali nella politica estera di un
paese che, nel contesto dell’Alleanza atlantica
rappresenta tanto un rilevante attore militare
quanto un cuneo geopolitico fondamentale
nella proiezione extra europea della NATO,
hanno necessariamente avuto un peso
nell’elaborazione dei contenuti politici del
summit di Lisbona e nell’adozione del nuovo
concetto strategico dell’Alleanza. In particolare la decisione presa nei mesi scorsi dal governo turco di rimuovere dal proprio concetto
strategico nazionale l’indicazione di alcuni
paesi confinanti come potenziali nemici è
stata utilizzata da Ankara per frenare la volontà di alcuni paesi dell’Alleanza, Francia in
particolare, di indicare nelle conclusioni del
summit Iran e Siria come paesi da cui possono
giungere minacce potenziali e da cui è necessario l’alleanza si protegga. La Turchia ha
portato a Lisbona una chiara posizione strategica mirante da un lato ad impedire la realizzazione di un progetto di difesa missilistica
esplicitamente diretto contro il proprio vicino
iraniano, e dall’altro ad evitare che Israele
possa beneficiare indirettamente da tale progetto. Difatti, forse in maniera più retorica che
sostanziale, per Ankara era un punto politicamente significativo quello di escludere la possibilità che eventuali informazioni sensibili
dell’Alleanza legate al progetto di difesa missilistico potessero essere trasferiti a paesi non
membri della NATO. L’obiettivo di escludere
Israele da ogni possibile beneficio informativo
era chiaro e in linea con il pessimo andamento
delle relazioni politiche di Ankara nel bilaterale con Tel Aviv. Se nella preparazione del
vertice di Lisbona Ankara ha operato da un
lato in maniera tale da proteggere i “nuovi
amici” mediorientali e per escludere da una
difesa atlantica di teatro il “nuovo nemico”
israeliano dall’altro ha puntato ad assicurarsi
il beneficio di una inclusione integrale del
proprio territorio dal nuovo programma di
difesa missilistica, segno che l’esclusione da
parte turca di nemici strategici ai propri confini e maggiormente frutto di un calcolo politico e diplomatico legato al nuovo corso della
politica estera turca e non una reale valutazione di carattere strategico militare. Anzi, preparandosi Ankara a giocare nel prossimo futuro
un ruolo internazionale più dinamico ed affermativo è verosimile che sfide e minaccia
alla propria sicurezza possano tendere ad aumentare nel medio lungo periodo piuttosto che
a diminuire e non solo dagli immediati paesi
contermini, le cui relazioni, che ora volgono
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MONITORAGGIO STRATEGICO
al positivo, possono mutare anche rapidamente in funzione delle opportunità o del contesto
strategico.
Gli esiti del vertice di Lisbona rischiano anche
di modificare in qualche modo il rapporto
della Turchia con l’Unione Europea e soprattutto la percezione di Ankara della rilevanza
della UE nei propri equilibri strategici verso
l’Asia e verso il Medio Oriente. Difatti, il
vertice di Lisbona prevedendo la condivisione
di importanti questioni di sicurezza con la
Russia, l’inclusione di Mosca in un partenariato strategico con l’Alleanza (reso possibile
dal progressivo distacco giù registratosi tra
Iran e Russia), rende in un certo senso sempre
più marginale il futuro ruolo dell’Europa sia
nelle relazioni con Mosca che nelle relazioni
con l’Iran. In questo contesto anche il rallentamento del processo di adesione della Turchia nella UE, registratosi negli ultimi anni,
potrebbe finire per essere considerato meno
significativo da Ankara in funzione del riavvicinamento diretto NATO – Russia, reso possibile anche dal distanziamento di Mosca da
Teheran. Difatti, in questo contesto, l’Unione
Europea viene percepita avere un ruolo marginale rispetto alla NATO nei rapporti con
due attori chiave della politica estera turca, la
Russia e l’Iran. In questi due scenari Ankara
potrebbe essere tentata a lavorare più sul peso
specifico ottenibile all’interno dell’Alleanza
Atlantica, che dopo Lisbona è più vicina agli
sviluppi della propria politica estera, piuttosto
che sul difficile cammino di avvicinamento
verso la UE.
Ad ogni modo, il vertice di Lisbona ha gettato
solamente le basi politiche e in parte strategiche di un dialogo più tecnico che riguarda
anche la definizione della struttura di comando del sistema di difesa missilistico che si
svolgerà in buona parte nel corso del 2011 e
solo dalla sua evoluzione sarà possibile capire
quanto Ankara, al di là della retorica, abbia
effettivamente guadagnato o ceduto ai propri
alleati della NATO.
Possiamo dire in sintesi che il vertice di Li-
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sbona ha soddisfatto le aspettative della Turchia, il cui governo ritiene di essere riuscito a
mantenere la NATO all’interno di un disegno
più tradizionale di difesa e sicurezza, riducendo il rischio – che si sarebbe rivelato fatale
per la quadratura del cerchio della politica
estera turca – che l’Alleanza avesse potuto
adottare una linea più esplicitamente aggressiva nei confronti dell’Iran. Il recupero strategico della Russia da parte della NATO, è
anch’esso in linea con i desiderata di Ankara
in quanto ciò consente alla Turchia di migliorare ulteriormente il proprio rapporto con
Mosca, con potenziali benefici politici nei
contesti in cui la geopolitica di Ankara incontra quella russa: nei Balcani, nel Caucaso e
nell’Asia centrale. Il fatto che la NATO escluda la Russia dall’essere una potenziale
minaccia dell’Alleanza e la coinvolga al contrario come alleato strategico condividendo
assieme alcuni aspetti di una futura difesa di
teatro atlantica e rafforzando la cooperazione
in Afghanistan, rappresenta certamente un
fatto positivo per l’attuale dimensione strategica e di sicurezza della Turchia. Una dimensione strategica che Ankara prosegue a costruire con una certa perseveranza sia portando
avanti con determinazione, le proprie linee
rosse strategiche all’interno della NATO
(comportamento in parte tattico negoziale ma
in parte motivato dalla necessità di far vedere
alle opinioni pubbliche islamiche come la
Turchia sia capace di imporre la propria volontà all’interno di una alleanza percepita
come ostile in molti paesi islamici) sia aumentando il proprio outreach regionale. Pochi
giorni dopo il vertice NATO Erdogan si è
recato in visita in Libano riscuotendo un caldo
bagno di folla e mantenendo una linea retorica
aggressiva e dura nei confronti di Israele,
ribadendo – tra le altre cose – che la Turchia
non rimarrà in silenzio se Israele dovesse attaccare il Libano o Gaza e che le relazioni con
Tel Aviv non saranno riparate fino a quando
non vi saranno le scuse del governo israeliano
per la vicenda della Freedom flottilia. La visi-
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ta di Erdogan in Libano seguiva solo di poche
settimane quella di Ahmadinejad, facendo
incrociare, così come per l’Iraq, le diplomazie
turche ed iraniane entrambe al lavoro per affermare la propria sfera di influenza in un
Medio Oriente i cui equilibri politici stanno
mutando molto rapidamente. Il giorno dopo il
bagno di folla di Beirut Erdogan era ad Ankara a ricevere la visita del presidente bosniaco
Itzebegovic che, da poco eletto, ha deciso di
iniziare dalla Turchia le sue visite bilaterali di
Stato. Un segnale di ulteriore rilevanza della
Turchia anche in quella parte dei Balcani occidentali attratti dalla prospettiva europea ma
che nel presente sembrano destinati ad essere
accolti con maggiore interesse ad Ankara
piuttosto che a Bruxelles.
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Andrea Grazioso
Eventi
►Secondo quanto dichiarato dal Ministro della Difesa polacco, Bogdan Klich, a partire dal
2013 la Polonia ospiterà reparti da combattimento e da trasporto del’Aeronautica Militare
statunitense, che si schiereranno sul territorio polacco “a rotazione”, per condurre esercitazioni. Tale soluzione, che richiama quanto in uso per la base di Aviano, prima del trasferimento
in permanenza di uno Stormo statunitense, sarebbe analoga anche alla già avviata rotazione di
Unità contraeree, equipaggiate con missili Patriot, che l’Esercito statunitense ha iniziato a dispiegare in Polonia a partire dallo scorso maggio.
►Il Governo polacco e quello russo hanno sottoscritto un importante accordo relativo al
transito di gas russo attraverso la Polonia, ed alla fornitura di gas alla stessa Polonia. Il nuovo accordo rinnoverà quello già esistente, prolungandone gli effetti fino al 2019, salvo ulteriori
proroghe. L’accordo ha suscitato forti critiche da parte dell’Unione Europea, perché i dettagli
tecnici – in particolare l’assenza di competizione nell’utilizzo delle infrastrutture –violerebbero
i principi della legislazione europea in materia. In tutta evidenza, Varsavia sta cercando di garantirsi una approvvigionamento certo e relativamente a buon mercato di gas, almeno per i
prossimi dieci anni, per sostenere una domanda interna che non ha risentito della crisi economica generale.
►Il 29 ottobre, la Marina russa ha condotto con successo il 14° lancio del nuovo missile balistico lanciato da sottomarino “Bulava”. Dopo il positivo test del 7 ottobre (vedi Osservatorio
Strategico ottobre 2010), questo nuovo successo tecnico migliora le prospettive del programma
“Bulava”, che come noto aveva finora fatto registrare sette fallimenti e tre parziali fallimenti
nei precedenti dodici lanci.
►Il 16 novembre, tre giorni prima del Summit di Lisbona, l’Assemblea Parlamentare della
NATO ha adottato una Risoluzione relativa alla situazione in Georgia, nella quale l’Abkhazia
e l’Ossezia meridionale sono definiti come “territori occupati” e si richiede ai Governi dei Paesi della NATO di riaffermare il principio della “porta aperta” sancito al Vertice di Bucarest,
al fine di valutare l’idoneità della Georgia all’adesione all’Alleanza sulla base dell’effettiva
maturazione del proprio assetto politico e militare.
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
IL NUOVO CAPITOLO NEL RAPPORTO FRA RUSSIA E COMUNITÀ EURO-ATLANTICA
Il 20 novembre, in coincidenza del Summit dei
Capi di Stato e di Governo dei Paesi della
NATO, si è tenuto a Lisbona il terzo Summit
del Consiglio NATO-Russia.
Le grandi aspettative che erano state riposte
nell’evento sembrerebbero essere state confermate nei fatti. Nella Dichiarazione finale,
resa nota al termine del vertice, si legge, infatti, che: (i Paesi della NATO e la Russia)
“… si impegnano a lavorare per raggiungere
una genuina e moderna forma di partnership
strategica, basata sui principi della confidenza reciproca, della trasparenza e della prevedibilità, con l’obiettivo di contribuire alla
creazione di uno spazio comune di pace, sicurezza e stabilità nell’area euro-atlantica.”.
Secondo le parole del Segretario Generale
della NATO, Rasmussen, “… abbiamo concordato, insieme, l’elenco delle sfide alla sicurezza che le Nazioni della NATO e la Russia si trovano oggi a fronteggiare. Ciò che più
conta, è ciò che non c’è nell’elenco: gli uni
per l’altra. Questo, da solo, permette di tracciare una linea fra il passato ed il futuro delle
relazioni fra la NATO e la Russia”.
In sintesi, NATO e Russia avrebbero archiviato definitivamente la “Guerra Fredda” e si
appresterebbero a scrivere un nuovo capitolo
nella storia delle relazioni internazionali.
I contenuti dell’accordo NATO-Russia
La Dichiarazione finale richiama esplicitamente i passi precedenti del rapporto NATO –
Russia, ovvero la Dichiarazione di Roma
(maggio 2002, quando a Pratica di Mare si
concordò di istituire il Consiglio NATO Russia), ma anche L’Atto Fondativo, siglato a
Parigi nel 1997, quando l’allargamento geografico della NATO doveva ancora iniziare
(con l’ovvia eccezione rappresentata dalla ri-
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unificazione tedesca). Come meglio descritto
più avanti, il riferimento all’Atto del 1997,
che a rigore sarebbe stato “superato” dal Vertice di Pratica di Mare, non è affatto banale,
ed è molto verosimilmente stato richiesto da
Mosca.
Si fa poi riferimento alla volontà di dare nuova vita al regime di controllo delle armi convenzionali, con riferimento implicito al Trattato CFE, il rispetto del quale, come noto, è stato “sospeso” da Mosca.
Si tratta, anche in questo caso, di un “impegno
politico”, che non si è però ancora tramutato
in un definito percorso volto al rientro della
Russia nelle clausole del Trattato.
In effetti, risulta che gli Stati Uniti stiano
premendo molto per riattivare il regime di
controlli costituenti la parte strategicamente
più “pregiata” del CFE, essendo ormai da
molto tempo stata superata l’esigenza della
riduzione quantitativa degli stock di armamenti.
C’è anche un riferimento al “Nuovo START”,
cioè al Trattato sulla riduzione delle armi nucleari strategiche. Questo, come noto, non ha
nulla a che fare con la NATO e, quindi, con il
rapporto NATO – Russia, essendo piuttosto
un accordo bilaterale fra Russia e Stati Uniti.
Ma proprio in queste settimane, con
l’evoluzione politica negli Stati Uniti, a seguito delle elezioni di mezzo-termine, e con la
nuova maggioranza repubblicana al Senato, si
stanno facendo insistenti le voci relative al
possibile “disimpegno” statunitense dal Trattato stesso, che potrebbe cioè non essere ratificato, seguendo una sorte simile a quella del
precedente START 2, siglato nel 1993 ma mai
entrato in vigore, sebbene ratificato, a causa
dell’esplicito disaccordo circa lo sviluppo dei
sistemi di difesa anti-missile.
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
In questo caso, è da ritenere che la Russia tema fortemente di dover nuovamente “rincorrere” gli Stati Uniti per raggiungere una parità
strategica, qualora questa non fosse fissata
con un Trattato a un livello compatibile con i
piani di modernizzazione già in atto. Da parte
sua, la Casa Bianca ha forse colto l’occasione
per inserire il riferimento al Nuovo START,
come indiretta pressione verso il Senato, in
mano all’opposizione.
Sembra essere politicamente molto importante,
ma poco risolutiva dal punto di vista
dell’effettiva collaborazione, anche la parte
della Dichiarazione relativa alla difesa antimissile. NATO e Russia concordano sulla valutazione della minaccia, concordano sulla necessità di continuare il dialogo su tale aspetto
e hanno deciso di avviare nuovamente la cooperazione nell’ambito del Consiglio NATORussia. Ma, evidentemente, non è stato raggiunto un accordo tecnico sulla effettiva condivisione delle informazioni, né sulla integrazione di sensori o armi russe nel dispositivo in
via di realizzazione in Europa.
La questione dell’Afghanistan rappresenta
il punto di equilibrio dei rispettivi interessi
L’Afghanistan ha una parte importante nella
Dichiarazione congiunta, così come logico,
data la rilevanza del tema per tutti i Paesi della NATO.
Le parti sottolineano l’importanza degli sforzi
della Comunità internazionale per sostenere il
Governo afgano, e rimarcano anche la rilevanza dei flussi logistici diretti verso quel Paese, che transitano attraverso il territorio russo.
Connessi a tale tematica, risultano essere sia il
“Progetto per l’Addestramento contro il narcotraffico”, sia l’istituzione di un “Fondo di
Garanzia per la manutenzione degli elicotteri”,
ambedue assegnati alla “gestione” del NATORussia Council.
Superficialmente possono sembrare temi secondari, ma un’analisi più approfondita rivela
tutta la loro centralità, tale da renderli, forse, il
centro di gravità nell’effettivo equilibrio di
interessi fra i due protagonisti del panorama
strategico euro-asiatico.
La condizione di insicurezza delle rotte logistiche che raggiungono l’Afghanistan attraversando il Pakistan sono, come ovvio, assolutamente precarie.
Al tempo stesso, le esigenze in termini di rifornimenti provenienti dalle forze dell’ISAF –
ma in misura crescente anche dalle Forze di
Sicurezza afgane, in via di potenziamento –
impongono di assicurare nuove e più sicure
rotte di approvvigionamento, sia per gli equipaggiamenti bellici veri e propri (che giungono in massima parte per via aerea), sia per i
cosiddetti “beni non letali”, quali carburanti,
acqua potabile e materiale di costruzione.
Inesorabile, quindi, la scelta di potenziare fortemente la cosiddetta “rete di distribuzione
settentrionale”, cioè le rotte che, attraverso i
Paesi del Centro Asia, giungono infine in Afghanistan.
Secondo quanto riportato da David Sedney,
Assistente al Segretario alla Difesa statunitense, attualmente fino a mille container standard
possono giungere in Afghanistan ogni settimana, attraverso la “rotta settentrionale”, dei
quali il 98% attraverso l’Uzbekistan (questo
dato è correlato all’esistenza della linea ferroviaria che, attraverso l’Uzbekistan, giunge in
Afghanistan. In effetti, esisterebbe anche una
seconda linea ferroviaria, che attraversa tutto
il Turkmenistan e prosegue per poche centinaia di metri in territorio afgano, fino al
terminal di Towraghondi, nella provincia di
Herat, ma questa linea, quasi incredibilmente
non è sfruttata).
Tale potenziamento ha un’esplicita dimensione tecnico-logistica, ma non può prescindere
dall’instaurarsi di saldi legami politici con tutti i Governi della regione.
Questi ultimi sembrano oggi ben disposti a
sostenere le richieste che provengono
dall’Occidente, e da Washington in particolare.
Sembra superata, quindi, la fase di gelo nei
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
rapporti diplomatici, frutto delle pesanti critiche verso l’operato dei Governi locali in tema
di rispetto dei diritti umani e politici.
Rappresentanti dell’Uzbekistan, cioè di un
Paese per anni rimasto ai margini del dialogo
con l’Occidente, hanno a fine ottobre condotto
una missione “esplorativa” a Washington, incontrando influenti leader politici e della comunità scientifica, proprio per allacciare più
solidi rapporti con l’insieme dei livelli decisionali statunitensi, per non ripetere le esperienze negative dei primi anni Duemila.
Nel quadro di questa nuova “penetrazione”
statunitense e, in senso più lato, occidentale in
Centro Asia, deve necessariamente inserirsi
l’accordo con Mosca.
L’Uzbekistan non è raggiungibile se non attraverso il territorio di almeno altri due Stati,
prima di arrivare ad una via d’acqua internazionale. La Russia, in tal senso, dispone della
risorsa geopolitica per eccellenza, indispensabile ed ineludibile, costituita dal territorio e
dalla sua posizione geografica.
Ben consapevole di questa sua posizione di
forza, e ben conscia dell’importanza strategica
delle “vie logistiche settentrionali” per il successo delle operazioni militari in Afghanistan
e per il futuro sfruttamento delle risorse naturali di quel Paese, Mosca sta cercando di ottenere il massimo dei vantaggi politici e militari,
in cambio della sua collaborazione.
I due accordi cui si è accennato – sul potenziamento delle attività anti-narcotici e sul sostegno logistico alla flotta di elicotteri di costruzione russa, utilizzati in Afghanistan – sono il “prezzo” che la NATO è stata al momento disposta a pagare.
È interesse comune, in linea di massima,
combattere il narcotraffico, perché da un lato
la diffusione degli stupefacenti sta arrecando
danni gravissimi al tessuto sociale della Russia e, dall’altro, le risorse derivanti dal traffico
illecito sono fra le principali fonti di finanziamento degli insorti che combattono contro
le Autorità afgane e le truppe della NATO.
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Il caso del “fondo di garanzia” per il sostegno
logistico degli elicotteri, per contro, sembra
finalizzato a “remunerare” indirettamente la
Russia, garantendo un certo ritorno economico in cambio dell’appoggio politico alla strategia della NATO.
È vero che le macchine ad ala rotante prodotte
dalla Russia si sono dimostrate molto efficaci
nello specifico Teatro dell’Afghanistan, ed è
vero che queste sono relativamente più economiche di quelle prodotte in Occidente. Si
prestano, quindi, sia al sostegno delle operazioni attuali, sia all’equipaggiamento del costruendo Esercito Afgano.
Ma si deve pur rilevare come tutti i principali
eserciti occidentali che operano in Afghanistan utilizzino modelli prodotti in Occidente,
con ragionevole successo, e che i programmi
di ammodernamento delle Forze armate occidentali offrirebbero l’opportunità di riutilizzare per le esigenze afgane le macchine appena
ritirate dal servizio ma ancora più che adeguate.
Dietro le quinte del Vertice: il pre-Vertice
Russia – Francia – Germania
Il 18 e 19 ottobre, a Deauville, in Francia, i
Presidenti di Russia e Francia, insieme al
Cancelliere tedesco, hanno tenuto un Vertice
“a tre” (vedi Osservatorio Strategico, ottobre
2010), durante il quale sarebbe stata tracciata
una linea comune volta al “successo” sia del
Summit di Lisbona, sia del prossimo Vertice
fra Russia ed Unione Europea, programmato
per dicembre.
L’incontro di Deauville è stato molto importante per almeno due aspetti. In primo luogo,
perché si è consolidata ulteriormente la tendenza a definire le linee di politica estera “europee” mediante accordi bilaterali fra alcuni
dei protagonisti dell’Unione e le controparti
“esterne”, senza il coinvolgimento delle istituzioni comunitarie. In secondo luogo, perché
dopo Deauville sembra che la Francia si sia in
buona misura associata alla nuova Ost-Politik
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
della Merkel, già resa esplicita durante la bilaterale russo-tedesca del giugno scorso.
In sostanza, la linea della Germania sembra
essere quella di avviare con la Russia un nuovo partenariato, molto più profondo e vincolante del quadro di relazioni attuali. In quella
che è stata descritta come la risposta tedesca
al reset delle relazioni con Mosca lanciato
dall’Amministrazione Obama, ci sarebbe anche la creazione di un Comitato Politico e di
Sicurezza congiunto Europa-Russia, presieduto dall’Alto Rappresentante dell’Unione e dal
Ministro degli Esteri russo. Un Organismo
che potrebbe rappresentare l’equivalente del
Consiglio NATO-Russia, o, forse, avere un
ruolo persino più importante.
Non sono al momento noti i dettagli della
proposta tedesca, a cui si starebbe associando
la Francia. Molti, tuttavia, intravedono
nell’iniziativa di Berlino una sorta di controproposta alle richieste di Mosca, espresse ormai un anno fa, relative all’istituzione di una
nuova architettura di sicurezza continentale,
atta a “superare” il dualismo fra NATO e Russia.
Ovviamente, l’originale proposta russa di dicembre 2009 fu a suo tempo respinta dai Paesi
della NATO. In pratica, infatti, la bozza di
nuovo Trattato presentato da Mosca prevedeva, più che un “superamento” della NATO, la
sua dissoluzione, a partire dai principi fondanti.
Significativamente, sono “trapelati” alcuni
degli aspetti salienti della proposta russa. Uno
di questi è rappresentato dal divieto per la
NATO di schierare “nella sua regione orientale” Forze da combattimento superiori a una
Brigata (per la precisione: 3.000 uomini, 41
carri, 188 veicoli da combattimento e 90 pezzi
d’artiglieria), o stazionare più di 24 velivoli da
combattimento per più di 42 giorni all’anno.
Ogni eventuale incremento di questi limiti sarebbe sottoposto al consenso da parte russa.
Ma l’aspetto più “interessante” della richiesta
di Mosca è che per “regione orientale” si intenderebbero tutti i Paesi che hanno aderito
alla NATO dopo la fine della Guerra Fredda.
In pratica, la Russia intenderebbe tornare alla
cartina geopolitica del 1997 – a quell’Atto
Fondativo dei rapporti NATO-Russia richiamato proprio nella Dichiarazione di Lisbona –
e sancire “legalmente”, cioè con un Trattato
vincolante, l’esistenza di una “sfera di interessi privilegiati” di Mosca, non sul territorio exsovietico, ma anche sugli ex-membri del Patto
di Varsavia.
Si tratta di una proposta che ha destato reazioni quasi indignate da parte di molti dei “nuovi” Membri della NATO, che hanno vissuto la
loro adesione all’Alleanza proprio quale simbolo dell’affrancamento dal dominio sovietico.
La riaffermazione del principio della “difesa
collettiva” quale ragion d’essere e fondamento
dell’Alleanza Atlantica, sancita al Summit di
Lisbona, è forse anche il frutto della provocatoria mossa russa.
Non si può escludere, tuttavia, che il particolare momento di forte stress economico su
molte delle cancellerie europee permetta alla
proposta russa di fare comunque breccia, magari attraverso forme meno esplicite rispetto
ad un Trattato internazionale, ma nondimeno
capaci di ridisegnare il sistema di relazioni sul
Continente europeo.
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
Relazioni Transatlantiche - NATO
Lucio Martino
Eventi
►Durante queste prime tre settimane di Novembre, il presidente Obama ha sviluppato una
notevole mole di attività diplomatiche che lo hanno portato a visitare in pochi giorni l’India,
l’Indonesia, la Corea del Sud e il Giappone. Al ritorno dal vertice di Seul dei 20 paesi più industrializzati del mondo, il presidente degli Stati Uniti ha poi partecipato al vertice
dell’Alleanza Atlantica di Lisbona e ai successivi incontri organizzati con le autorità europee e
con il presidente della Federazione Russa Dmitri Medvedev.
PRIME CONSIDERAZIONI DOPO IL VERTICE DI LISBONA
Il recente attivismo internazionale dell’amministrazione Obama ha dell’ammire-vole.
Nelle ultime settimane ha letteralmente avvolto il pianeta da Oriente ad Occidente. Così
facendo sembra aver raggiunto due grandi
risultati, la messa in cantiere di una prima via
di uscita dall’Afghanistan e una nuova era di
distensione con Mosca. D’altra parte, l’amministrazione Obama sembra aver mancato
l’elaborazione di una comune strategia transatlantica per debellare una crisi economica
che rischia di cronicizzarsi. Dal punto di vista
delle relazioni transatlantiche, colpisce il fatto che le maggiori difficoltà si siano materializzate proprio in questo settore e che a dichiararlo sia stato lo stesso presidente degli
Stati Uniti. Nessuno dei dissensi che hanno
condizionato il di poco precedente G20 di
Seul è sembrato dopo Lisbona aver approssimato una qualche soluzione. In ogni caso,
l’intensa attività diplomatica degli ultimi
giorni ha più che mai evidenziato lo spostamento del baricentro strategico internazionale
da quel Medio Oriente all’Asia del Pacifico e
l’esigenza di edificare un nuovo equilibrio internazionale che trovi al suo interno il modo
di bilanciare le perturbazioni prodotte da una
Cina in costante ascesa.
Un Concetto Strategico arrivato in ritardo
I leader dell’Alleanza Atlantica si sono incontrati a Lisbona il 19 e 20 novembre per firmare un nuovo Concetto Strategico, il terzo dalla
fine della Guerra Fredda dopo i precedenti del
1991 e del 1999. La NATO ha più volte riscritto il suo Concetto Strategico, vale a dire il
documento che identifica i grandi obiettivi politici dell’alleanza e gli strumenti necessari per
raggiungerli, sempre nel tentativo di tenere
dinamicamente il passo con un sistema inter-
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
nazionale in accelerato fermento. Arrivando in
un momento nel quale la NATO è impegnata
in almeno sei particolari operazioni, l’obbiettivo di Lisbona è il rilancio di un’alleanza
da ultimo percepita come quasi alla deriva.
Lisbona ha trasmesso l’immagine di una NATO divisa. Il grado di coesione dell’Alleanza
Atlantica non è mai stato particolarmente costante, ma da ultimo sembra variare molto più
frequentemente che in passato. In particolare,
è la strategia da adottare nei confronti della
Russia a dividere i paesi membri. Le diverse
impostazioni strategiche nei riguardi di questioni come la gestione del teatro afghano e
l’interazione con la Russia, hanno reso particolarmente laboriosa la stesura di un documento la stessa cui pianificazione è stata con
tutta probabilità programmata in ritardo.
Dell’opportunità di un nuovo concetto strategico sembravano, infatti, da tempo convinte
tutte le principali cancellerie. Nessuna era però disposta a negoziarne i contenuti con la
passata amministrazione repubblicana. L’attesa di una nuova e diversa amministrazione
americana ha contribuito alla stratificazione
dei problemi, finendo con il favorire l’emergere di una serie di visioni strategiche lontane l’una dall’altra.
Con tutta probabilità, il vertice di Lisbona sarà
ricordato come uno dei più importanti
dell’intera lunga storia della NATO. Tuttavia,
solo il tempo potrà stabilire se Lisbona ha segnato l’inizio della fine dell’alleanza oppure
una ennesima rinascita. Comunque andranno
le cose, la sfida insita nel Concetto Strategico
2010 era di trovare quel minimo comune denominatore necessario per placare le preoccupazioni prodotte in tutti e ventotto i paesi
membri dalle due principali dinamiche strategiche contemporanee: il perdurante impegno
militare in Afghanistan e il recente ritorno di
potenza della Russia. Gli ultimi due concetti
strategici, quello del 1991 e quello del 1999,
hanno in comune il tentativo di gestire un processo di allargamento concepito in un contesto
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internazionale sostanzialmente privo di qualsiasi seria minaccia. Gli eventi dell’ultimo decennio hanno condotto all’affermazione di un
contesto internazionale differente. La NATO è
ora operativamente impegnata in Afghanistan,
in Iraq e nel Corno d’Africa, mentre la Federazione Russa è intanto riuscita a riportare sotto la sua sfera d’influenza buona parte del
Caucaso e dell’Asia centrale.
La Federazione Russa come fattore di crisi
della NATO
Questo ritorno di potenza della Federazione
Russa, quasi impensabile dieci anni fa, è stato
giudicato in modo molto difforme dai paesi
membri dell’alleanza. Per alcuni la nuova
Russia costituisce una preziosa opportunità.
Per altri rappresenta una minaccia esistenziale. Germania e Francia sono estremamente
meno preoccupate dal recente consolidamento
politico ed economico russo di quanto non lo
siano Polonia e Lituania. Le ragioni sono apparenti.
Non sentendosi davvero più né militarmente
né ideologicamente minacciati da Mosca, i
vecchi membri dell’alleanza non hanno intenzione d’immolare sull’altare delle preoccupazioni dei nuovi membri orientali un interscambio commerciale e culturale semplicemente sempre più florido. Le tensioni tra vecchia NATO e nuova NATO sono arrivate ad
un punto di rottura proprio nel momento in cui
è giunta all’ordine del giorno la questione
dell’ingresso nell’alleanza di Ucraina e Georgia, e sono poi ulteriormente aggravate con
l’avvento di un’amministrazione statunitense
decisa ad inaugurare una nuova era di distensione con la Federazione Russa.
Ad onor del vero, per la maggior parte degli
osservatori delle vicende internazionali, le linee di frattura che al momento dividono la
NATO sono due perché l’alleanza sembra, in
effetti, dividersi sempre più spesso in tre
gruppi. Il primo è composto dai paesi più propriamente atlantici, vale a dire gli Stati Uniti,
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
il Regno Unito, l’Olanda e la Danimarca. Il
secondo è formato da paesi come la Germania
e la Francia. Il terzo blocco è invece costituito
dai paesi dell’Europa orientale.
Il primo di questi tre gruppi è soprattutto impegnato nel proiettare lo scopo e le capacità
dell’alleanza ben oltre i suoi confini originali,
al fine di contrastare un variegato insieme di
nuove minacce asimmetriche. Il secondo desidera soprattutto proteggere e potenziare le sue
buone relazioni con la Federazione Russa. Il
terzo vede proprio nella Russia una minaccia
diretta alla propria sicurezza ed è in cerca di
rassicurazioni.
A complicare ulteriormente un quadro già
complesso è poi la questione della difesa anti
balistica. Gli Stati Uniti vogliono realizzarla
in ambito NATO, sia per dividerne gli ingenti
costi, sia per renderla più accettabile per Mosca. La Germania è favorevole al suo sviluppo
solo se include anche la Federazione Russa,
mentre la Polonia è scettica di un sistema che
arrivi ad includere anche la Federazione Russa
e desidererebbe lo sviluppo al suo posto di un
sistema di difesa bilaterale con gli Stati Uniti.
Posto quest’insieme di circostanze, la partecipazione della Federazione Russa nel sistema
di difesa antibalistico sembra destinata a produrre ripercussioni anche molto diverse.
Federazione Russa a parte, gli Stati Uniti desiderano dai paesi membri della NATO sostanzialmente tre cose. Un maggior impegno
finanziario, un maggior impegno nel fronteggiare la minaccia costituita dal terrorismo e un
maggior impegno nelle operazioni di ricostruzione e pacificazione. Da parte loro, Francia e
Germania non sembrano particolarmente disposte ad investire nel settore della difesa una
porzione maggiore di ricchezza, e sono preoccupate dalle possibili ripercussioni nei loro
rapporti con la Federazione Russa di qualsiasi
ulteriore allargamento dell’alleanza ad oriente. Inoltre, preferirebbero organizzare le priorità dell’alleanza favorendo la prevenzione
piuttosto che la gestione dei conflitti. Infine, i
paesi dell’Europa orientale sembrano interessati quasi esclusivamente alla dimensione più
prettamente convenzionale del dispositivo di
difesa atlantico.
In ogni caso, il vertice di Lisbona oltre ad aver
annunciato l’adozione di un nuovo concetto
strategico, ha anche annunciato il progetto di
un sistema antibalistico comune, alla cui partecipazione è stata invitata anche la Federazione Russa. Cosa effettivamente comporterà
la partecipazione della Federazione Russa è
un qualcosa ancora da definire in un evento
fissato per il giugno del prossimo anno, ma
tutto lascia supporre che non si arriverà a condividere con i Russi il controllo del dispositivo antimissile NATO.
Le armi nucleari in Europa
Tra le tante problematiche trattate nel Concetto Strategico 2010 una posizione di assoluto
rilievo è occupata dalla questione riguardante
la politica del’alleanza in materia di armi nucleari. Sotto questo punto di vista, il nuovo
documento sembra prodotto dall’interazione
di spinte fortemente contrastanti, e si caratterizza per un relativamente elevato livello di
indeterminatezza.
Le circostanze nel quadro delle quali è contemplabile l’uso di un’arma nucleare sono definite ora come estremamente remote. I paesi
dell’alleanza si sono impegnati alla creazione
delle condizioni necessarie per una drastica
riduzione del numero di queste armi, mentre il
totale disarmo nucleare è ribadito come un
traguardo comune a tutti i membri dell’alleanza. Tuttavia, il documento adottato a Lisbona è privo di qualunque seria indicazione
in merito ai passi da compiere per il conseguimento di questi obiettivi. Ciononostante,
segna comunque un importante momento evolutivo nell’elaborazione concettuale delle capacità nucleari dell’alleanza.
Nell’evitare qualsiasi esplicito riferimento ad
una diretta riduzione del ruolo delle armi nucleari, la NATO ha optato per una formula in
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
base alla quale rimarrà dotata di tali capacità
fintanto che le armi nucleari non cesseranno
completamente di esistere. Inoltre, se nella
formulazione precedente si specificava che le
forze nucleari della NATO non erano puntate
contro alcun paese, ora si sostiene che la NATO non considera più nessun paese come suo
avversario. Di particolare interesse è poi il fatto che il nuovo documento descrive il ruolo
delle armi nucleari in termini molto indefiniti,
quasi sempre riconducendoli nel quadro
d’insieme delle capacità militari dell’alleanza.
In particolare non c’è più traccia del fatto che
le armi nucleari rappresentino lo strumento di
collegamento strategico tra Europa e America
Settentrionale, o che le forze nucleari tattiche
inevitabilmente legate alle forze nucleari strategiche.
Per il Concetto Strategico 2010 sono in particolare le capacità nucleari strategiche degli
Stati Uniti e, più in generale, quelle di Francia
e Regno Unito, ad assicurare la suprema protezione strategica dell’alleanza. Presi nel loro
insieme, questi cambiamenti sembrano testimoniare un tentativo di diminuire l’importanza attribuita dalla NATO alle armi nucleari
tattiche statunitensi dislocate in Europa. Per
effetto dei contenuti del nuovo documento, i
tradizionali impegni statunitensi volti a garantire una qualche forma di capacità nucleare
congiunta con gli alleati europei, potrebbero
in futuro legittimamente ridursi alla periodica
convocazione degli incontri del NATO Nuclear Planning Group e al temporaneo dispiegamento in Europa di una qualche aliquota di
velivoli d’attacco, dalle capacità nucleari ma
privi delle relative armi.
Il numero delle armi nucleari statunitensi
schierate in Europa sembra in questo momento dell’ordine di circa centocinquanta, forse
duecento, bombe termonucleari di tipo B-61
dalla potenza variabile tra dieci e oltre trecento chiloton. Negli ultimi dieci anni, l’Alleanza
Atlantica, prescindendo da qualsiasi altro fattore, ha deciso di ridurre il numero delle armi
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nucleari schierate in Europa di oltre la metà.
Nel nuovo concetto strategico si è persa ogni
traccia di questa determinazione unilaterale,
tanto da condizionare ora qualsiasi ulteriore
riduzione ad una maggiore trasparenza di Mosca riguardo alla dimensione e alle capacità
del proprio arsenale nucleare e ad una sua disponibilità a trasferirlo il più lontano possibile
dai suoi confini europei.
Ora, per quanto importante, ogni tentativo di
giungere ad una riduzione delle capacità nucleari russe dovrebbe essere intrapreso senza
contraddire direttamente un’impostazione fatta propria dalla NATO da più di vent’anni, secondo la quale le armi nucleari dislocate sul
territorio europeo non servono a bilanciare le
analoghe capacità russe. Tanto più che lo stesso Concetto Strategico 2010 si dilunga nello
spiegare come la NATO non rappresenta più
in alcun modo una minaccia per la Federazione Russa. Inoltre, è estremamente improbabile
che la Federazione Russa accetti una qualsiasi
riduzione delle sue capacità nucleari in cambio di un’analoga riduzione della NATO, in
quanto giustifica il proprio arsenale nucleare
sulla ben diversa esigenza di bilanciare la
grande superiorità convenzionale dei dispositivi militari occidentali.
In altre parole, per quanto i cambiamenti previsti dal nuovo documento in materia di armi
nucleari non sono irrilevanti, tanto da sembrare quasi preliminari ad un completo ritiro delle stesse dal territorio europeo, forte è il rischio che tali cambiamenti siano di fatto irrilevanti, in quanto condizionano qualsiasi nuovo passo in materia a delle decisioni che sembra estremamente improbabile possano mai
essere prese dalla Federazione Russa. Proprio
questa decisione di rompere apparentemente
con un passato fatto di prese di posizione unilaterali, e condizionare qualsiasi nuova riduzione dell’arsenale nucleare statunitense in
Europa ad un difficile dialogo in materia con i
Russi, è forse il miglior sintomo di come i
nuovi alleati pesino nell’approccio generale
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
dell’alleanza nei confronti di Mosca. In ogni
caso, questa piccola svolta è una sicura testimonianza di quanto siano duraturi nel tempo
quei meccanismi di pensiero tipici della Guerra Fredda che il presidente Obama, nel suo discorso di Praga di quasi un anno e mezzo fa,
desiderava superare definitivamente.
Alcune considerazioni finali
Tornando alle altre particolarità del Concetto
Strategico 2010, colpisce la particolare lunghezza delle sezioni dedicate alla definizione
dei contenuti e della natura della missione
dell’alleanza. Questa particolare prolissità testimonia meglio di qualsiasi altra cosa la portata del dibattito che ha accompagnato il processo di stesura del documento. Da notare poi
che il Concetto Strategico 2010 copre, in modo molto prevedibile, quasi qualsiasi concepibile problema, spaziando dalla sicurezza degli
approvvigionamenti energetici agli effetti dei
cambiamenti climatici. Ovviamente, la difesa
del continente europeo da qualsiasi minaccia
convenzionale rimane al centro delle prerogative dell’alleanza, ma è difficile al momento
valutare se quanto disposto in merito è sufficiente per ridurre la percezione d’insicurezza
dei nuovi alleati orientali. Almeno per il momento, il Concetto Strategico 2010 sembra poi
aver chiuso la controversa questione riguardante l’eventuale ammissione nella NATO
della Georgia. Pur lasciando aperta anche alla
Georgia la porta dell’alleanza, il documento
specifica che ogni possibile candidato deve
verificare una serie di criteri tra i quali è esclusa qualsiasi disputa territoriale.
Per quanto invece riguarda l’Afghanistan, Lisbona non sembra aver riservato sorprese.
L’impressione è che tanto i capi di Stato e di
governo, quanto i rappresentanti della missione ISAF, abbiano preferito di non affrontare
direttamente la questione di un eventuale incremento dell’impegno militare, ancor meno
quella di un suo esplicito ritiro, optando per
una strategia di transizione che a partire dal
prossimo anno tenterà di consegnare entro il
2014 l’intero paese nelle mani delle nuove
forze di sicurezza afghane.
La strategia necessaria per cedere la responsabilità del controllo territoriale alle autorità locali è stata al centro di una seconda sessione
del vertice allargata alla partecipazione del
segretario delle Nazioni Unite Ban ki-Moon e
ai rappresentanti dei venti paesi che partecipano con la NATO alle operazioni in Afghanistan. Il segretario dell’alleanza, Anders
Fogh Rasmussen, ha chiarito ogni dubbio
spiegando che un certo numero di truppe internazionali rimarrà in Afghanistan anche dopo il 2014, per quanto in esclusiva funzione di
appoggio alla formazione delle forze di sicurezza locali. Da parte sua, il presidente Obama
ha aggiunto che tanto gli Stati Uniti, quanto la
NATO, non abbandoneranno gli afghani a loro stessi anche dopo il 2014.
Sempre a Lisbona, la NATO ha inoltre dichiarato l’avvio di un processo di riforma interna
che dovrebbe condurre ad una riduzione del
trentacinque per cento della sua struttura e dei
suoi dipendenti. L’obiettivo è il varo di una
nuova struttura di comando destinata ad essere
senz’altro più leggera ma non meno efficace
della precedente. La riforma, che dovrebbe
essere completata entro il giugno del 2011,
mira a un taglio dei dipendenti del quartiere
generale superiore al venticinque per cento,
quasi cinquemila unità, mentre le relative agenzie saranno ridotte da quattordici a tre. I
comandi generali passeranno da undici a sei. I
comitati da oltre quattrocento a ottantacinque.
L’Italia dovrebbe mantenere il Joint Force
Command, sebbene la relativa componente
marittima dovrebbero essere riposizionata
proprio a Lisbona.
Lisbona ci consegna una NATO sempre più
concepita come uno strumento utile per il raggiungimento di alcuni obiettivi comuni a tutti
i paesi che la compongono, quali il controllo
delle principali rotte marittime oppure il consolidamento democratico dei pochi paesi bal-
27
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
canici che non ne fanno ancora parte. Ciò nonostante, molti paesi europei stanno già elaborando una piccola serie di alternative, perché
la NATO di oggi sembra sempre meno in grado di evitare che si rimettano in moto dinamiche inter-europee che hanno caratterizzato la
storia di questo continente prima della lunga
parentesi della Guerra Fredda. Proprio per
questo, sembra altamente probabile lo sviluppo di un particolare dispositivo di accordi bilaterali tra gli Stati Uniti e alcuni dei paesi
della periferia orientale europea. Inoltre, nuo
28
vi accordi di garanzia inter-europei sembrano
ormai imminenti. I paesi scandinavi, da sempre divisi tra appartenenti e non appartenenti
all’Alleanza Atlantica, sembrano ormai pronti
ad sviluppare un nuovo dispositivo di sicurezza che comprenda i paesi Baltici, ormai visti
come parte integrante di una loro sfera
d’influenza. Da parte loro, Francia e Regno
Unito stanno intanto sviluppando una serie di
capacità militari congiunte al fine più o meno
implicito di bilanciare delle analoghe capacità
tedesche.
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
Teatro Afghano
Fausto Biloslavo
Eventi /Afghanistan
►Almeno 229 civili sono morti e 313 rimasti feriti in Afghanistan nel solo mese di ottobre in
scontri e attacchi degli insorti. Lo ha annunciato il portavoce del ministero dell'Interno di Kabul, Zamari Bashari, precisando che si tratta di vittime di ''diversi incidenti legati alla sicurezza, la maggior parte dei quali provocati da ordigni esplosivi improvvisati (Ied), bombe collocate lungo le strade e attacchi suicidi''. Gli attacchi, ha aggiunto, ''sono aumentati del 15% rispetto al mese di settembre''. Il numero totale dei civili uccisi e feriti a causa dei combattimenti in
Afghanistan è aumentato del 31% nel primo semestre del 2010 comparato allo stesso periodo
dello scorso anno, secondo le Nazioni Unite.
►Al momento i militari italiani impiegati in Afghanistan sono 3.850 ed entro la fine dell'anno
raggiungeranno le 4.000 unità. Lo ha ribadito il ministro della Difesa, Ignazio La Russa. Al
summit della NATO di Lisbona, il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha annunciato
l’invio di ulteriori 200 addestratori. Il prossimo anno in Afghanistan il contingente italiano
conterà su circa 4200 uomini, il numero più alto del nostro quasi decennale impegno nel paese.
►Il governo afghano ha disposto la chiusura di 149 Organizzazioni non governative, tra le
quali quattro straniere, a causa della mancata presentazione della documentazione richiesta
su progetti e finanziamenti. Lo ha annunciato un portavoce del ministero dell'Economia di Kabul, Sediq Amarkhil. La decisione è stata presa da una commissione creata dal presidente afghano Hamid Karzai nell'ambito della lotta alla corruzione. In Afghanistan operano circa 1300
Ong, 360 delle quali straniere. Nel settore lavorano circa 45mila persone. A maggio la commissione aveva già disposto la chiusura di 172 Ong, 20 delle quali straniere.
►Gli Stati Uniti inviano i carri armati M1 Abrams in Afghanistan nella guerra contro i talebani. E’ la prima volta dall'inizio dell’intervento, nell'inverno del 2001, che vengono dislocati
16 di questi mezzi nel sud del paese a cominciare dalla provincia di Helmand. La loro potenza
di fuoco è un segnale per i talebani che i rinforzi americani vogliono fare sul serio prima che
suoni la ritirata.
Eventi/Pakistan
►Il premier pakistano, Yusuf Raza Gillani, si recherà presto in visita in Afghanistan su invito del presidente Hamid Karzai. Gillani ha sottolineato come Islamabad, interessata alla stabilità dell'Afghanistan, possa giocare un ruolo chiave nei negoziati di pace con talebani. La data
della visita, la prima ufficiale di Gillani a Kabul da quando ricopre l'incarico di primo ministro, non è stata ancora fissata.
►Il presidente pachistano, Pervez Musharraf, è stato formalmente coinvolto nell'inchiesta
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
sull'omicidio dell'ex primo ministro Benazir Bhutto. Lo riferiscono fonti del governo di Islamabad. ''Abbiamo preparato un questionario per l'ex presidente'' sulla mancata protezione alla
leader politica uccisa nel 2007 a Karachi, ha spiegato il direttore generale dell'Agenzia federale di indagini Waseem Ahmed.
►Inizieranno nell'arco di un anno i lavori di costruzione del gasdotto TAPI che partirà dal
Turkmenistan, attraverserà l'Afghanistan e finirà in Pakistan e India. Lo ha annunciato il
ministero delle Finanze di Kabul. ''In base agli accordi tra le parti, i lavori del gasdotto dal
Turkmenistan all'Afghanistan, al Pakistan e infine all'India dovrebbero iniziare nell'arco di un
anno'', ha dichiarato il portavoce del ministero delle Finanze, Aziz Shams.
►Lotta alla droga al centro di un vertice tra i rappresentanti di Pakistan, Iran e Afghanistan
che si è aperto il 24 novembre a Islamabad. I ministri dei tre paesi si sono riuniti due giorni
per studiare nuove strategie nella lotta al traffico di stupefacenti a cominciare dalle operazioni
anti-droga congiunte nella regione. Al vertice hanno partecipato il capo dell'anti droga in Afghanistan, Zarar Ahmad Moqbel Osmani, il suo omologo pachistano, Arbab Muhammad Zahir
e il ministro dell'Interno iraniano, Mostafa Mohammad Najjar.
DAL VERTICE NATO DI LISBONA ALLA TRANSIZIONE IN AFGHANISTAN
Il vertice della NATO di Lisbona, del 19 e 20
novembre, rappresenta una pietra miliare per
la strategia in Afghanistan. Da Lisbona
l’Alleanza atlantica ha ufficialmente annunciato l’avvio della transizione, che fra il 2011
ed il 2014 dovrà passare il testimone della sicurezza alle forze locali. Attualmente esercito
e polizia possono contare su 246mila unità,
ma l’obiettivo è di 350mila uomini per il
2013.
A Lisbona non è stata indicata una scaletta
dettagliata di date e luoghi, ma precisate le
condizioni per rendere possibile il ritiro, o
meglio il passaggio delle consegne agli afghani. Il segretario della NATO, Anders Fogh
Rasmussen, ha assicurato che il disimpegno
sarà graduale “provincia per provincia e distretto per distretto”. Dopo il 2014 lo stesso
presidente Barack Obama ha garantito dal vertice che l’Afghanistan non sarà abbandonato a
se stesso. Sul terreno rimarranno gli addestratori ed i contingenti di azione rapida nelle basi, come in Iraq, da impiegare in caso di necessità.
30
La strategia Usa assomiglia da vicino a quella
adottata in Iraq, con un surge, che ha dato una
svolta al conflitto ed un ritiro che comporta la
presenza nelle basi e come consiglieriaddestratori di 50mila soldati americani.
L’Afghanistan è diverso e non si vedono ancora all’orizzonte dei gruppi, come i Comitati
del risveglio sunnita, che in Iraq hanno deciso
di allearsi con gli americani, che avevano
combattuto, per sconfiggere i terroristi di al
Qaida.
Il presidente Obama dovrà tenerne conto nella
revisione della sua strategia prevista a dicembre. I primi risultati saranno annunciati a fine
anno o all’inizio del prossimo, ma la Casa
Bianca continua a puntare ad un graduale disimpegno dall’estate del 2011. Dal prossimo
anno cominceranno a venire consegnati alla
sicurezza afghana i primi distretti o sub distretti e probabilmente qualche province del
nord. A seconda della pericolosità delle province il processo durerà dai 18 ai 24 mesi. Alcuni distretti di Herat, dove ha sede il comando italiano, probabilmente lo stesso capoluo-
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MONITORAGGIO STRATEGICO
go, saranno fra i primi a passare ufficialmente
agli afghani. In realtà in gran parte della zona
di Herat le forze di sicurezza locali già operano autonomamente.
L'exit strategy della NATO sposa le trattative
con gli insorti fortemente volute dal presidente afghano Hamid Karzai, ma pone dei paletti.
"Continuiamo ad appoggiare - si legge nel documento finale del summit di Lisbona - gli
sforzi guidati dagli afghani per riconciliare e
reintegrare i membri dell'insorgenza che rinunciano alla violenza, tagliano i legami con i
terroristi e accettano la Costituzione afghana".
Il problema è che i famosi negoziati con i talebani sono ancora a livello embrionale, come
conferma Mohammad Masoom Stanekzai incaricato di reintegrare gli insorti che rinunciano alla lotta armata. Contatti ci sono, ma si sta
appena cercando di capire con chi realmente
si può negoziare e quale reale potere e rappresentanza detiene nella frammentaria galassia
degli insorti. Agli incontri segreti degli ultimi
mesi si è presentato pure un impostore, che ha
incassato un sacco di soldi spacciandosi per
mullah Mohammed Akthar Mansour, braccio
destro di mullah Omar. Il leader guercio dei
talebani ha chiuso a qualsiasi ipotesi di trattativa ribadendolo nell’ultimo comunicato in
occasione della festa musulmana dell’Eid. Più
disponibile sembra la fazione dell’Hezb i Islami, di Gulbuddin Hekmatyar, un vecchio
signore della guerra afghano alleato dei talebani. Suo figlio Habib-ur-Rahman ha garantito alla Bbc, che il padre è pronto a discutere
su un piano che prevede il ritiro delle forze
straniere all'interno delle basi principali della
coalizione dispiegate nel territorio afghano.
Successivamente verrebbe definito con il governo afghano un calendario per nuove elezioni ''nell'arco di due anni'' e a questo processo parteciperebbero ''tutti i gruppi'' dell'insorgenza disposti a farlo. Quando un nuovo parlamento verrà eletto ''la NATO potrà lasciare
l'Afghanistan''. Nel frattempo, secondo Rahman, sarebbe possibile un “cessate il fuoco”
con le forze della coalizione. A questo punto
bisognerebbe capire quanto conta l’Hezb i Islami nella galassia dell’insorgenza e fino a
che punto le fazioni più forti dei talebani, che
non ne vogliono sapere di elezioni, processo
democratico e soldati della NATO ancora in
Afghanistan, seppure nelle basi, sono veramente interessati a questo piano.
Scontro aperto sul nuovo parlamento
Due mesi dopo il voto del 18 settembre sono
stati annunciati i risultati definitivi delle elezioni parlamentari, a parte la provincia di
Ghazni ancora congelata, che non soddisfano
il presidente afghano Hamid Karzai e stanno
provocando proteste di piazza. Dei 249 seggi
della Wolesi Jirga, la Camera bassa del parlamento afghano, ne sono stati proclamati
238. Gli 11 di Ghazni rimangono vacanti. I
risultati indicavano che tutti i seggi di questa
provincia sunnita dominata dai pasthun, serbatoio di voti di Karzai, sono stati conquistati da
candidati sciiti Hazara. I talebani hanno favorito la scarsa affluenza alle urne con una campagna di minacce ed intimidazioni. L’alto
numero di reclami ha consigliato la Commissione elettorale di congelare la situazione continuando a verificare le denunce.
Il problema di fondo è che Karzai godrà di
una minoranza ancora più risicata nel nuovo
parlamento. Con il vecchio non era neppure
riuscito a far ratificare la nomina di tutti i ministri del suo governo. L’assemblea appare
estremamente frammentata, ma secondo le
prime valutazioni la compagine governativa
potrebbe contare su un centinaio di deputati.
Dei tradizionali uomini forti del paese solo 88
hanno conquistato un seggio rispetto ai 112
dell’assemblea precedente. E molti dei perdenti erano alleati di Karzai. Il principale rivale del presidente, con la sua alleanza “Speranza e cambiamento” sembrerebbe contare su
una novantina di seggi. I parlamentari rimanenti non sono schierati nettamente con alcuna formazione.
La Commissione elettorale ha invalidato per
brogli ed irregolarità varie l’elezione di 24
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
candidati, compreso un primo cugino del presidente. Su 5,6 milioni di voti, 1,3 sono stati
annullati. I reclami sono stati 5mila, la metà
dei quali considerati “seri” dai funzionari della Commissione elettorale.
Karzai ha fatto sapere in privato che non è affatto soddisfatto del risultato delle elezioni. Si
teme che potrebbe scatenare una crisi costituzionale mettendo in qualche maniera i bastoni
fra le ruote all’insediamento del nuovo parlamento. I primi, preoccupanti segnali, registrano un intervento a gamba tesa del procuratore
generale, nominato dal presidente, Mohammed Ishaq Aloko, che ha emesso un comunicato per criticare duramente le Nazioni Unite.
La missione dell’Onu in Afghanistan ha avallato l’annuncio ufficiale dei risultati, ma il
procuratore lo considera “prematuro ed una
grande tragedia per la nazione afghana ed il
suo governo democratico”. Aloko sta ancora
indagando su presunti brogli, che ci sono stati,
ma la mossa punta a deligittimare la rappresentatività del nuovo parlamento inviso a Karzai.
Un centinaio di candidati, che hanno perso le
elezioni, sono già scesi in piazza e al nord si
accusa la Commissione elettorale di aver sfavorito i candidati anti Karzai. La situazione
rischia di diventare esplosiva, anche se il parlamento sembra estremamente frammentato e
con molte facce nuove che non hanno ancora
deciso come schierarsi.
Mir Joyenda, un candidato perdente della società civile, che si proclama indipendente, sostiene che l’assemblea dipenderà da quanto si
paga ogni voto. E le cifre crescono secondo
Joyenda: “Chi è entrato in parlamento ha speso un sacco di soldi e deve recuperare
l’esborso. Nella precedente assemblea garantirsi un voto di fiducia per confermare un ministro costava 1000 dollari. Adesso la cifra si
moltiplicherà per dieci”.
Karzai, l’amico-nemico dell’Occidente
Il braccio di ferro fra il presidente afghano
Hamid Karzai e la NATO (in particolare gli
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americani) è sempre più intenso in un gioco
delle parti che fa apparire il capo dello stato
come un “amico-nemico” degli occidentali.
Gli ultimi contrasti riguardano i raid dei corpi
speciali della coalizione, che hanno ottenuto
qualche successo nel danneggiare la linea di
comando degli insorti. Dal punto di vista tattico le operazioni speciali hanno raggiunto
l’obiettivo di mettere in difficoltà i talebani,
anche se non si riflette ancora in un successo
strategico della conduzione del conflitto. Fino
a luglio i corpi speciali della NATO nel sud
dell’Afghanistan, soprattutto americani e inglesi, conducevano una media di cinque raid
per notte. Negli ultimi tre mesi, fino all’11
novembre, le missioni sono aumentate a 17
per notte per un totale di 1572 operazioni, che
hanno portato alla cattura, o all’eliminazione,
di 368 comandanti talebani di livello. Altri
968 talebani di rango più basso sono stati uccisi e 2477 fatti prigionieri secondo le statistiche della NATO.
Una volta giunti sull’obiettivo i corpi speciali,
che intervengono sempre assieme ad unità afghane, intimano agli insorti, o presunti tali, di
consegnarsi senza sparare. La resa avviene
nell’80% dei casi.
Non sempre fila tutto per il verso giusto. Oltre
all’intrusione notturna nelle case degli afghani, perchè quasi sempre i talebani si nascondono nei villaggi, fra i civili, si sono verificati
errori anche gravi. In febbraio sono rimasti
uccisi in un raid 23 uomini e 12 fra donne e
bambini feriti da un attacco con elicotteri durante un’operazione delle forze speciali.
L’operatore di un Predator, un velivolo a pilotaggio remoto, aveva smentito due segnalazioni riguardanti la presenza di civili e ragazzini nell’area.
Alla vigilia del vertice NATO di Lisbona,
Karzai, con un’intervista al Washington Post,
ha sparato un siluro contro i raid notturni dei
corpi speciali. “E’ giunto il momento di ridurre le operazioni militari - ha dichiarato il presidente - e la presenza dei (vostri) scarponi in
Afghanistan...per diminuirne l’intrusività nella
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
vita quotidiana degli afghani”.
Il comandante della NATO in Afghanistan, il
generale David Petraeus, è andato su tutte le
furie. Un incontro di un’ora con lo stesso Karzai sarebbe stato molto teso, proprio sul tema
dei raid notturni dei corpi speciali, che sono
una delle armi migliori della coalizione. Petraeus ha sostenuto di essere stato messo in
una situazione “insostenibile”. Anche a Lisbona l’incontro bilaterale fra il presidente
americano Barack Obama ed il suo omologo
afghano è stato a tratti “brusco”. Alla conferenza stampa finale, assieme ad Anders Fogh
Rasmussen, segretario generale della NATO,
Karzai ha dichiarato: “Sono felice di vedere
che c'è stata comprensione nei confronti delle
richieste afghane e delle preoccupazioni per la
popolazione”.
Il leader di Kabul esterna le critiche alla coalizione, che gli garantisce la sopravvivenza, per
due motivi: uno interno, legato all’opinione
pubblica esasperata dalle vittime civili ed una
esterna rivolta ai talebani, con i quali è impegnato in un difficile tentativo di negoziazione,
per non apparire un fantoccio degli Usa. Un
altro aspetto potrebbe essere il tentativo di
porre in secondo piano le criticità del suo governo, a cominciare dalla corruzione, dimostrando alla popolazione che si occupa della
sua incolumità anche se si tratta di confliggere
con le truppe straniere.
In realtà la trasformazione del presidente afghano nell’ambigua figura di amico-nemico è
iniziata da tempo. La svolta, in negativo, è
cominciata lo scorso anno in seguito alle proteste della comunità internazionale per le
fraudolente elezioni presidenziali. Karzai ha
accusato in particolare l’Unione europea di
manipolazioni nel tentativo di mettere al potere il suo rivale taijko Abdullah Abdullah. Prima il capo dello stato si limitava, giustamente,
a protestare quando la NATO si rendeva responsabile di danni collaterali, ovvero di perdite civili durante le operazioni militari. Dal
discusso voto dello scorso anno si è registrato
un crescendo di prese di posizione e dichiara-
zioni “anti occidentali”. Karzai si è scagliato
contro lo sperpero del denaro della comunità
internazionale per la ricostruzione e ha annunciato la chiusura delle attività delle compagnie
di sicurezza private, soprattutto occidentali nel
paese, senza rendersi conto che difficilmente
la loro attività di protezione riuscirà a venir
colmata da altri, a cominciare dalla polizia locale. In agosto ha appoggiato la linea anti occidentale del presidente iraniano Mahmoud
Ahmadinejad per poi ammettere recentemente
di ricevere milioni di dollari in contanti
dall’Iran per non meglio identificate spese
presidenziali.
Il “ritorno” della Russia in Afghanistan
Il rinnovato rapporto con la Russia scaturito
dal vertice NATO di Lisbona riguarda anche
il teatro afghano. Nessun soldato russo tornerà
in Afghanistan a combattere, dopo la sanguinosa e disastrosa invasione sovietica degli anni ottanta. Mosca fornirà propri elicotteri e
addestrerà i piloti afghani, abituati ai velivoli
dell’Est, nelle proprie basi. In passato i russi
hanno già addestrato personale afghano
dell’anti droga. La collaborazione, concordata
con la NATO, potrà estendersi alla formazione delle forze di sicurezza di Kabul. Non solo:
i russi hanno già fornito all’Afghanistan armi
leggere.
Due agenti russi disarmati, che combattono il
traffico di oppio ed eroina proveniente da Kabul, hanno recentemente partecipato alla pianificazione di un raid degli americani contro i
signori della droga nell’Afghanistan orientale.
L’operazione ha sollevato le ire di Karzai, che
non vuol sentir parlare del ritorno di russi sul
terreno.
Mosca è decisa a collaborare con la NATO a
causa del “deterioramento della situazione nel
nord dell’Afghanistan a ridosso del confine
del Tajikistan e dell’Uzbekistan - ha spiegato
l’inviato russo a Kabul Andrey Avetisyan - Il
timore è che l’estremismo, il terrorismo e la
droga muovano nella nostra direzione” .
Un altro aspetto dell’appoggio di Mosca in
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
Afghanistan è l’incremento del passaggio dei
rifornimenti sul territorio russo per la missione NATO nel paese al crocevia dell’Asia. I
camion con il carburante provenienti dal Pakistan vengono regolarmente attaccati. La Russia ha già accettato di far transitare equipaggiamento non letale.
Gli interessanti dati dei sondaggi sull’Afghanistan
Un sondaggio dell’Asia Foundation, finanziato da US AID, su 6467 afghani al di sopra dei
18 anni, rivela che il 47% pensa che il paese
stia imboccando la strada giusta, per uscire
dalla crisi, rispetto al 42% dello scorso anno.
Una stragrande maggioranza, l’83%, appoggia
l’iniziativa di dialogare con i talebani per trovare una via di uscita pacifica. I problemi più
sentiti dagli afghani sono la sicurezza (37%),
la disoccupazione (28%) e la corruzione
(27%), che registra un’impennata di 10 punti
rispetto allo scorso anno.
In occasione del vertice di Lisbona il think
tank International Council on Security and
Development ha reso noto un sondaggio
shock, anche se basato su un campione limitato. Il 92% di mille intervistati in due province
meridionali roccaforti dei talebani non sanno
nulla dell’11 settembre e tantomeno del motivo della presenza delle truppe internazionali
nel loro paese. Non solo: il 61% non crede che
le forze afghane siano in grado di garantire la
sicurezza ed il 56% pensa che la polizia aiuti i
talebani.
Il presidente dell'Icos, Norine MacDonald, ha
sottolineato che "la mancanza di consapevolezza del motivo per cui siamo in Afghanistan
contribuisce alla percezione negativa della
popolazione nei confronti dei militari della
NATO e favorisce l'azione dei talebani".
Nel decimo anno di operazioni nel paese al
crocevia dell’Asia aumentano i contrari alla
guerra negli Stati Uniti. Il 50% degli americani interpellati per un sondaggio realizzato dalla Quinnipiac University vorrebbe ritirarsi,
mentre a sostenere il conflitto è il 44% delle
persone intervistate. Il rilevamento, è stato effettuato tra l'8 e il 15 novembre su un campione di 2.424 elettori.
L’ASSE INDIA-USA IRRITA IL PAKISTAN
Gli attriti fra Pakistan e Stati Uniti sono sempre più evidenti e non riguardano solo la lotta
al terrorismo e l’ambigua posizione di Islamabad sull’Afghanistan. L’ultimo segnale negativo, dal punto di vista pachistano, è
l’importante visita dei primi di novembre del
presidente Barack Obama in India. La Casa
Bianca ha deciso di non fare sosta ad Islamabad promettendo una futura visita in gennaio e
invitando il capo dello stato pachistano Asif
Ali Zardari a Washington, dove potrebbe recarsi in dicembre. “Purtroppo, sulle questioni
chiave, gli Stati Uniti continuano a seguire le
loro tradizionali politiche anti pachistane, che
34
si tratti del nostro programma nucleare, della
disputa per il Kashmir, delle relazioni con
l'India o della posizione rispetto all'Afghanistan - ha commentato un alto funzionario del
ministero degli Esteri di Islamabad citato dal
Washington Post - Fin quando gli Usa non riconsidereranno queste questioni, sarà molto
difficile fare progressi o conquistare i cuori e
le menti in Pakistan''. Un paese dove la popolarità del presidente Obama è ai minimi storici. Secondo un recente sondaggio del Pew Research Center, il presidente statunitense in estate godeva del sostegno dell'8% dei pachistani, rispetto al 13% del 2009.
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
Nonostante Obama abbia chiamato al telefono
Zardari, prima di partire per l’India, e gli Stati
Uniti stiano pensando di aggiungere altri 400
milioni di dollari dei fondi anti antiterrorismo
ai due miliardi di aiuti al Pakistan i rapporti si
stanno sempre più incrinando. Gli americani
insistono per convincere le forze armate pachistane ad un’offensiva incisiva nel Waziristan, una delle zone zone più ostiche dell’area
tribale a ridosso del confine afghano, ma Islamabad nicchia.
Lo schiaffo diplomatico più cocente per Islamabad è stato l’annuncio di Obama, alla fine
della visita in India, di voler appoggiare
un’antica richiesta di New Delhi. “Nei prossimi anni auspico una riforma del Consiglio di
sicurezza dell'Onu che comprenda l'India come membro permanente" ha affermato il presidente americano in un discorso davanti al
Parlamento indiano. L’annuncio ha scatenato
le proteste del Pakistan, sempre più critico nei
confronti degli Stati Uniti, che l’ha bollata
come “incomprensibile”. Il presidente Usa ha
inoltre definito le relazioni bilaterali fra Washington e New Delhi come ''una delle
partnership che definiranno il 21esimo secolo''
e dell'India come ''già ora una potenza mondiale''.
Non solo: Obama ha dichiarato che "continueremo ad insistere con i leader pachistani sul
fatto che rifugi per i terroristi entro i loro confini non sono accettabili e chi si nasconde dietro gli attacchi di Mumbai devono essere consegnati alla giustizia". Il riferimento è al raid
multiplo del 2008, nel capitale finanziaria indiana, che ha provocato centinaia di morti.
L’India teme che la situazione nell’area possa
tornare agli anni novanta, quando i pachistani
favorirono la nascita del movimento talebano
lasciando mano libera ai movimenti estremisti
sunniti per l’indipendenza del Kashmir. India
e Pakistan, che sono potenze nucleari, hanno
combattuto tre guerre, dal 1947, per questo
fazzoletto di terra in gran parte sotto controllo
di New Delhi. Nel 2003 era iniziato un processo di pace, che ha subito un duro colpo con
l’attacco di Mumbai. I responsabili erano terroristi di Lashkar i Taiba, un noto gruppo estremista sorto in Pakistan.
Lashkar i Taiba ha iniziato da tempo una
“proxy war” in Afghanistan in funzione anti
indiana e teleguidata da ambienti dei servizi
pachistani. All’interno dell’organizzazione ci
sono state violente discussioni se dedicare le
proprie attività all’Afghanistan piuttosto che
al Kashmir. I terroristi hanno colpito ripetutamente interessi indiani a cominciare
dall’ambasciata a Kabul con attacchi suicidi.
New Delhi è il primo donatore della regione
nei confronti dell’Afghanistan con un investimento di 1,3 miliardi di dollari in vari progetti, dalla sede del parlamento ad un’autostrada con l’Iran.
L’India teme che l’annunciata exit strategy
americana in Afghanistan e l’appoggio alle
trattative con i talebani possano favorire gli
estremisti ed i loro padrini in Pakistan.
All’interno dell’Isi, il servizio segreto militare
di Islamabad, è concreto il sospetto che diverse fazioni si fronteggiano con opposte visioni
strategiche. Una parte dell’Isi sarebbe ancora
convinta che bisogna appoggiare i terroristi in
funzione anti indiana, sia per l’indipendenza
del Kashmir, che per la crisi afghana.
Gli americani si rendono conto che
sull’Afghanistan l’India è un alleato migliore,
anche se meno influente sulle dinamiche locali, del Pakistan. Non a caso l’ex presidente pachistano, Pervez Musharraf, che si sta preparando a rientrare in patria ed in politica ha recentemente dichiarato che “il ruolo dell’India
è quello di creare un Afghanistan ostile ad Islamabad”.
L’11 novembre, poco dopo la visita di Obama
in India il presidente pachistano si è recato in
Cina. Si tratta della sesta visita in due anni.
Anche se la motivazione ufficiale era di assistere all’apertura dei Giochi asiatici, Zardari è
rimasto in Cina tre giorni incontrando diverse
personalità a cominciare dal presidente Hu
Jintao. La visita è un chiaro segnale agli Stati
Uniti e all’India antica rivale di Pechino.
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
L’offensiva nelle zone tribali rimandata per
timore di rappresaglie
I militari di Islamabad sono restii a lanciare
una nuova offensiva nelle aree tribali per eliminare le basi dei talebani che operano in Pakistan ed in Afghanistan, nonostante le forti
pressioni in tal senso degli Stati Uniti. Lo
scorso anno l’esercito ha lanciato due offensive nella zona di frontiera del nord ovest, ma
poi si è fermato di fronte alla roccaforte del
Nord Waziristan dove godono di una sicura
retrovia i gruppi più estremisti coinvolti negli
attentati in Pakistan e nella insorgenza oltre
confine, contro le truppe della NATO. I motivi della “prudenza” dei generali sono due: il
primo riguarda il dispiegamento dei soldati
nelle zone alluvionate dal cataclisma di agosto, che sono stati pesantemente impegnati
nella difficile emergenza e garantiranno almeno in parte la ricostruzione. Il secondo motivo, forse più determinante, è il timore di rappresaglie, che hanno insanguinato il paese ogni volta che solo si minacciava un intervento
nelle aree tribali. Negli ultimi tre anni i “talebani pachistani” e loro alleati hanno ammazzato circa 2300 persone all’interno dei confini
nazionali. Le tattiche più usate sono quelle
degli attentati suicidi. “Le rappresaglie sono
proporzionali agli attacchi e le operazioni contro di loro (compresi i raid dei velivoli a pilotaggio remoto Usa, che stanno decimando i
comandi degli estremisti nda). Se scateni una
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grossa offensiva loro reagiranno in maniera
ingente” spiega Rahimullah Yusufzai, un esperto dell’area, in contatto con i talebani.
Non a caso una nuova ondata di attentati ha
insanguinato il Pakistan, mentre circolavano
indiscrezioni su possibili offensive nel Waziristan settentrionale. In novembre 15 persone
sono state uccise in un attacco con una macchina minata ad un ufficio di polizia a Karachi
e 71 vittime si segnalano negli attentati a due
moschee a Peshawar, il capoluogo del Nord
ovest. Negli attacchi sono coinvolti sia i terroristi di Lashkar i Jhangvi, vicini ad al Qaida,
che i talebani pachistani. Parte degli obiettivi
fanno parte della guerra settaria fra sunniti e
sciiti, ma puntano a destabilizzare il paese o
comunque a tenere alta la tensione come monito per qualsiasi intervento dell’esercito nelle
zone tribali. Il 22 novembre è stata arrestata
ad Islamabad, la capitale, una donna che trasportava 130 chilogrammi di esplosivo. Durante una visita in Malesia, il capo del Pentagono, il sottosegretario alla Difesa, Robert
Gates, ha ribadito che “il cuore di al Qaida
rimane la zona al confine fra Pakistan ed Afghanistan”. Dalle aree tribali i leader sopravvissuti del terrore "forniscono la guida, indicano le priorità, assicurano legittimazione"
agli affiliati che si stanno diffondendo in varie
parti del mondo, "incluse la penisola arabica,
lo Yemen e il Maghreb nell'Africa settentrionale".
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
Africa
Maria Egizia Gattamorta
Eventi
►Il 15 novembre sono stati rilasciati i dati provvisori delle elezioni presidenziali in Guinea
Conakry (svoltesi il 7 novembre). Secondo tali anticipi, Alpha Condé avrebbe ottenuto il
52,52% delle preferenze dei votanti e Cellou Dalein Diallo avrebbe raccolto il 47,48% dei voti 1. Secondo le prime indiscrezioni, nella formazione del prossimo esecutivo il generale Sekouba
Konaté (uomo chiave per la risoluzione della crisi interna) potrebbe assumere l’incarico di responsabile del Ministero della Difesa.
►Il 17 novembre si è svolto il referendum per approvare una nuova Costituzione in Madagascar. Tale appuntamento è stato promosso da Andry Rajoelina e osteggiato dagli ex presidenti
Marc Ravalomanana, Didier Ratsiraka e Albert Zafy. Lo stesso giorno, un gruppo di ufficiali –
tra cui il generale Noel Rakotonandrasana ed il colonnello Charles Andrianasoavina, considerati uomini di spicco delle Forze armate locali- ha sospeso le istituzioni, annunciando un golpe
militare. L’operazione è rientrata nello spazio di tre giorni, senza alcuno spargimento di sangue.
Il 22 novembre sono stati resi noti i dati da parte della Commissione Elettorale Nazionale: il sì
per il varo della nuova costituzione ha raccolto il 74,13% delle preferenze.
►Il comando di polizia del Borno State il 21 novembre ha rivelato di aver arrestato 13 persone sospettate di appartenere alla setta islamica di Boko Haram, coinvolte negli omicidi di
Maiduguri (17-19 febbraio). Parallelamente, si sono attivate per i controlli territoriali le Forze
dell’ordine del Bauchi State, dell’Adamawa State e del Niger State: nell’ultimo mese sono stati
infatti registrati pericolosi movimenti o operazioni mirate da parte degli appartenenti al gruppo radicale.
►Visita del primo ministro algerino, Ahmed Ouyahia, in Iran il 21 e 22 novembre per copresiedere con il vice presidente Mohamed Redha Rahimii lavori della prima sessione della
Grande Commissione Mista bilaterale. Le relazioni tra i due partner sono “molto buone ed in
pieno sviluppo”, secondo quanto affermato dallo stesso Mahmoud Ahmadinejad lo scorso settembre.
►Conferma del presidente Blaise Compaoré alle elezioni presidenziali del 21 novembre in
Burkina Faso. Compaoré ha ottenuto l’80,2% delle preferenze, Hama Arba Diallo si è classificato al secondo posto con l’8,18% dei voti e Bénéwendé Stanislas Sankara ha ottenuto il
6,34% dei suffragi. Nonostante l’opposizione abbia denunciato i brogli avvenuti durante le consultazioni, secondo le missioni di monitoraggio elettorale dell’Unione Africana e della Communauté Economique des Etats de l'Afrique de l'Ouest (CEDEAO) lo svolgimento del voto è stato
regolare.
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
►Il 21 novembre la National Drug Law Enforcement Agency (NDLEA), in collaborazione
con la United States Drug Enforcement Administration (USDEA) e la Serious Organised
Crime Agency (SOCA) britannica hanno scoperto al Tin Can Island Port di Lagos un carico
di 137 kg di eroina importata dall’Iran.Tale operazione ha evidenziato il successo della collaborazione internazionale nella lotta al traffico degli stupefacenti, ma ha portato alla ribalta anche i movimenti di Teheran in alcuni “settori critici” africani (ad es. traffico armi e droga).
►Il 22 novembre il governo di Banjul (Gambia) ha annunciato la rottura delle relazioni con
l’Iran, a seguito dell’intercettazione nel porto nigeriano di Apapa di un carico di armi provenienti da Teheran lo scorso mese. A differenza di quanto ipotizzato in un primo momento, tali
armi non sarebbero state dirette a supportare delle operazioni di movimenti ribelli sul suolo
della Nigeria, bensì dirette verso il Gambia.
►Il 23 novembre i media senegalesi hanno annunciato che le elezioni presidenziali nazionali
si svolgeranno il 26 febbraio 2012. L’opposizione si è meravigliata della scelta del presidente
Abdoulaye Wade di comunicare con largo anticipo l’appuntamento delle urne, nonché di annunciare la revisione delle liste elettorali a partire dal 1 dicembre 2010 fino al giugno 2011.
►Il 23 novembre la Commissione Elettorale Nazionale nigeriana ha comunicato le date per
le prossime consultazioni: il 2 aprile si svolgeranno le elezioni legislative, 9 aprile si voterà
per la presidenza ed il 16 aprile i cittadini saranno chiamati alle urne per scegliere i governatori dei 36 stati federati.
Fervono intanto i preparativi per le elezioni primarie in ambito del partito di maggioranza, il
People’s Democratic Party. Il 22 novembre il Forum dei leader del Nord ha annunciato la candidatura di Atiku Abubakar come proprio rappresentante. In tal modo, sono venute a cadere le
velleità dell’ex presidente Ibrahim Babangida che nei mesi di settembre-ottobre si era proposto
all’attenzione nazionale come alternativa del Nord al presidente uscente Goodluck Jonathan
(esponente del Sud del paese).
►Nuovo supporto americano al governo ugandese per contrastare l’azione del Lord’s Resistance Army. Il 24 novembre il presidente Barack Obama ha trasmesso al Congresso la “Strategy to support the disarmament of the LRA”. L’obiettivo è quello di accrescere la protezione
dei civili, promuovere la defezione dei combattenti, il disarmo e la smobilitazione dei ribelli,
nonché assicurare un sostegno fattivo alle aree colpite dal gruppo guidato da Joseph Kony.
►Il 25 novembre il Generale Salou Djibo (capo della giunta militare al potere dal 18 febbraio) ha promulgato la nuova costituzione del Niger, adottata con il referendum del 31 ottobre.
Prossima tappa sarà quella delle consultazioni presidenziali e legislative del 31 gennaio 2011.
►Prosegue il braccio di ferro in Zimbabwe tra il Presidente Robert Mugabe ed il Premier
Morgan Tsvangirai. Il 26 novembre il primo ministro si è rivolto all’Alta Corte per richiedere
l’annullamento delle nomine dei governatori delle province, avvenuta in modo unilaterale e non
concordata. Lo stesso giorno è arrivato ad Harare il presidente sudafricano Zuma, mediatore
della Southern African Development Community-SADC (organizzazione regionale di riferimento) con l’obiettivo di pianificare i prossimi step in vista degli impegni elettorali locali del 2011.
►Il 27 novembre il parlamento somalo ha approvato il governo di Mohammed Abdoullahi
Mohamed. Il nuovo esecutivo include alcuni tecnocrati della diaspora e per tali motivi è considerato dagli addetti ai lavori troppo “avulso” dalle dinamiche interne.
►Si è svolto a Tripoli il terzo Summit Africa-Unione Europea (29-30 novembre). L’attenzione
dei partecipanti è stata focalizzata sul tema “Investimenti, crescita economica e creazione
d’impiego”. Ha destato molto scalpore il ritiro all’ultimo momento della partecipazione del
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
presidente sudanese Omar el Bashir, a causa di alcune riserve espresse da parte europea circa
la sua presenza.
In tale occasione, il presidente tunisino Zine el Abidine Ben Ali ha proposto un Forum permanente Africa-Europa con la presenza dei ministri dell’Economia, delle Finanze e della Cooperazione, volto a dinamizzare il partenariato tra i partecipanti all’iniziativa.
COTE D’IVOIRE: UN PAESE DIVISO A METÀ
Un paese diviso a metà, con due presidenti
(Laurent Gbagbo e Alassane Dramane Ouattara – detto comunemente ADO), due eserciti
(quello nazionale guidato dal Generale Philippe Mangou e quello ribelle del Generale
Soumaila Bakayoko), riconoscimenti internazionali distinti, un terreno potenzialmente adatto ad una guerra civile: è questo il quadro
attuale della Côte d’Ivoire, dopo lo svolgimento del secondo turno elettorale presidenziale del 28 novembre scorso.
Se il primo round delle consultazioni il 31 ottobre aveva fornito una fotografia sfuocata
delle preferenze ivoriane (assegnando a Gbagbo il 38% dei suffragi, ad ADO il 32% dei
consensi e a Henri Konani Bedié il 25% dei
voti), il responso della seconda fase delle urne
ha proposto uno scenario anomalo e duplice.
La Commissione Elettorale Indipendente ha
riconosciuto il 54,1% delle preferenze a Ouattara ed il 45,9% a Gbagbo, mentre il Consiglio
Costituzionale ha assegnato il 51,45% dei
giudizi a quest’ultimo decretandone la vittoria.
La situazione è tesa, complessa e suscettibile
di evoluzioni violente. Chi guiderà il paese nei
prossimi anni? Si assisterà ad un’alternanza
del potere, più o meno pacifica? Oppure prevarrà la logica delle armi e si innescherà una
spirale di violenza?
L’alleanza della famiglia houphouetista 2 – in
particolare tra il Parti Democratique de Côte
d’Ivoire – Rassemblement Démocratique Africain (PDCI – RDA) di Bedié ed il Rassem-
blement des Républicains - ha portato i suoi
risultati, insperati fino a pochi mesi or sono,
quando si credeva che ancora una volta il voto
sarebbe stato annullato all’ultimo minuto, ma
come si dirimerà la controversia tra la Commissione Elettorale ed il Consiglio Costituzionale?
Ad oggi (ndr 5 dicembre), sono ipotizzabili
diversi scenari per uscire dalla crisi, in cui si è
venuto a trovare quello che era considerato “il
gioiello” dell’Africa occidentale, dopo 8 anni
di mediazioni diplomatiche e tergiversazioni
interne: 1) un colpo di forza del presidente uscente Laurent Gbagbo, supportato dal sostegno militare; 2) la prevalenza di Ouattara,
grazie all’aiuto all’esterno; 3) un compromesso diplomatico sotto le pressioni regionali,
continentali ed internazionali; 4) un embargo
internazionale; 5) una nuova ondata di proteste per le strade, con possibili spargimenti di
sangue.
Nell’incertezza più totale, una cosa sola è certa: si è svelato completamente il gioco di Laurent Gbagbo, nonché la tattica del suo partito
di appartenenza, il Front Populaire Ivorien.
L’uomo che ha retto abilmente il paese per 10
anni, che ha saputo bilanciarsi all’interno e
trovare forti sostegni regionali, colui che si è
posto come il difensore nazionale contro le
ingerenze francesi (creando, tra l’altro, una
frattura drammatica nel rapporto con Parigi),
ora ha mostrato chiaramente le sue vere intenzioni: restare al potere, con o senza
l’approvazione popolare.
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
Il presidente-professore sembra aver appreso
bene la lezione classica africana: qualora si
arrivi alle urne, si denunciano brogli ma lo
“scettro” non si passa di mano.
Nonostante gli sforzi, sembra che a nulla siano valse le manovre di Gbagbo per assicurarsi
la fedeltà degli uomini chiave delle Forze armate: la protezione garantita dal Generale
Philippe Mangou (attuale Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate ivoriane), dal Generale Adouard Tiape Kassarate (comandante
della Gendarmeria Nazionale), dal Generale
Brunot Dogbo Ble (Capo del Corpo delle
Guardie Repubblicane), dal Generale Guiai Bi
Poin (della Gendarmeria locale, considerato
dal 2005 uno dei garanti della sicurezza urbana) dal Generale Firmin Detoh Letoh (comandante delle Forze di Terra dall’aprile 2009)
non gli ha permesso di superare indenne il responso popolare.
Il paese è fermo e sospeso nel nulla, anche se
gli incidenti degli ultimi giorni a Abidjan (nei
quartieri di Abobo, di Anyama, di Port-Bouet,
di Koumassi) non sono buoni segnali e non
permettono di ipotizzare una stabilizzazione
nel breve periodo. Alcuni esperti internazionali, come il noto studioso Philippe Hugon,
sembrano escludere una soluzione simile a
quella del Kenya e dello Zimbabwe, in cui si è
creata una dicotomia tra presidenza e guida
del governo, L’opinione diffusa è piuttosto
quella che ipotizza che Gbagbo dovrà necessariamente piegarsi al verdetto popolare prima o poi- non avendo il riconoscimento regionale e continentale necessari. Sono questi
ultimi gli elementi-chiave dell’intera vicenda.
Goodluck Jonnathan, presidente di turno della
CEDEAO (Communauté Economique des Etats de l'Afrique de l'Ouest), si è appellato ai
protagonisti politici chiedendo il rispetto della
volontà popolare ed ha garantito il contributo
della comunità regionale con l’Unione Africana e le Nazioni Unite per garantire la pace.
La posizione ferma dell’organizzazione, in
particolare della Nigeria, potrebbe di certo
40
contribuire a frenare ogni velleità del presidente uscente. Si riproporrebbe in tale modo il
quadro della crisi togolese dopo la morte di
Eyadema padre ed il raggruppamento occidentale ne uscirebbe rafforzato dal punto di
vista del rispetto dei principi democratici.
Blaise Compaoré, il facilitatore del Burkina
Faso che è riuscito ad avvicinare le parti avverse ivoriane nel marzo del 2007, ha annullato una missione a Bruxelles prevista il 6-7 dicembre per seguire da vicino l’evoluzione della crisi ed insistere nella promozione del dialogo tra le varie forze.
L’Unione Africana –secondo quanto si legge
in un comunicato ufficiale- ha inviato immediatamente l’ex presidente sudafricano Thabo
Mbeki in “missione urgente”, nel tentativo di
“trovare una soluzione legittima e pacifica
alla crisi”, a sua volta il Consiglio di Pace e
Sicurezza dell’organizzazione panafricana “ha
convenuto di riunirsi per esaminare la situazione e prendere le misure appropriate contro
gli autori di atti suscettibili di rimettere in
causa l’integrità del processo elettorale, ivi
compreso il rispetto dei risultati dell’elezione
presidenziale proclamati dalla Commissione
Elettorale Indipendente”.
A tale posizione degli organismi africani, si
affianca il sostegno di Nazioni Unite, Unione
Europea, Fondo Monetario Internazionale,
Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna perché
venga garantito il responso popolare. La Francia si è dimostrata molto cauta in un primo
momento ma poi ha espresso una posizione a
favore della vittoria netta e incontestabile di
Ouattara.
Il giuramento di Gbagbo di sabato 4 dicembre
viene considerato dalla maggior parte dei player internazionali come non avvenuto, o meglio, come un falso della storia. Ma come giustificare tale evento nei confronti di Angola e
Libano, i cui ambasciatori hanno presenziato
all’investitura del presidente uscente? Come si
porrà la Russia che sembra interessata a ritagliarsi nuovi spazi nel continente? Più che al-
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MONITORAGGIO STRATEGICO
tro, cosa farà la Cina, facilitata dalle aperture
degli ultimi anni del leader del FPI, sia per
l’aggiudicazione di appalti per la costruzione
di infrastrutture che per la spartizione del petrolio nelle acque antistanti le coste ivoriane?
Sono particolari non indifferenti, che inducono a riflettere attentamente su nuove alleanze
strategiche della prossima stagione.
Gbagbo è stato un personaggio che ha guardato apparentemente al futuro del paese e formalmente ha tentato di voltare pagina, in realtà è stato un uomo legato sostanzialmente al
passato, intriso di una reminiscenza indipendentistica e di un nazionalismo esasperato. Le
sue scelte politiche lo hanno reso paladino
della causa africana … 50 anni dopo
l’indipendenza. I suoi omologhi africani lo
hanno sostenuto, ma hanno saputo prendere le
distanze, quando necessario. Mentre lottava
contro le ingerenze francesi, il vecchio oppositore non si è reso conto che il paese perdeva
punti in termini di competitività, soprattutto
non ha compreso che il paese richiedeva riforme più profonde di quelle avviate in vari
settori. Gli scandali sulla corruzione, più o
meno insabbiati, hanno evidenziato delle gravi
debolezze nel sistema, colpendo il settore
chiave dell’economia, quello del caffè-cacao.
Gbagbo era certo di vincere, utilizzando gli
uomini posizionati nei punti chiave della macchina statale (primo fra tutti il potente ministro degli Interni, Desiré Tagro, oltre che il
presidente del Consiglio Costituzionale, Paul
Yao N’Dré), ma non ha considerato che gli
ivoriani volevano una vera apertura
all’esterno, una proiezione dialettica con altri
attori, non esclusivamente una chiusura e una
logica di contrapposizione con il vecchio partner europeo.
1
L’ex presidente potrà ritagliarsi un largo spazio nella spartizione del potere, potrà anche
far invalidare i voti dei dipartimenti del nord
del paese (Bouaké, Khorogo, Ferkessedougou,
Katiola, Boundiali, Dabakala e Seguéla) per
diverse irregolarità denunciate nello scrutinio,
potrà anche fomentare gli animi dei suoi sostenitori, ma l’impressione generalizzata è che
oltre tali manovre non otterrà grandi risultati.
La sua indiscussa capacità politica gli ha permesso di acuire le divisioni locali, è da dimostrare però come ora la sua abilità lo farà uscire da questa impasse, garantendogli spazi di
“sopravvivenza” politica.
Si chiude il capitolo dell’ultimo decennio e se
ne apre uno nuovo: quali le sfide per il neoeletto presidente Ouattara? Malgrado la vittoria ottenuta ed il riconoscimento internazionale, ADO deve dimostrare con i fatti la validità
delle proposte fatte in campagna elettorale:
l’annullamento del debito, la riqualificazione
dei settori cacao e caffè per trainare
l’economia nazionale, la creazione di posti di
lavoro, la costruzione di nuove infrastrutture,
la
garanzia
di
nuovi
investimenti
nell’educazione e nella sanità. La sfida più
grande è, comunque, quella della riunificazione del paese, che si concretizzerà nella capacità di smorzare le tensioni etniche locali.
E’ paradossale che dopo 6 rinvii elettorali, solo ora che il popolo è stato chiamato ad esprimere la sua volontà si rischia veramente
una degenerazione violenta, rimandata per 8
anni.
In tale quadro un governo di unità nazionale
potrebbe smorzare momentaneamente le tensioni, ma solo un forte intervento regionale
avrà la forza per favorire la normalizzazione
ivoriana.
Tali dati sono stati confermati da quelli definitivi rilasciati il 3 dicembre.
2
Si ricorda che il Rassemblement des Houphouetistes pour la Démocratie et la Paix (RHDP) è una coalizione composta da quattro componenti politiche: il Parti Démocratique de Cote d’Ivoire (PDCI) di Henri Konan Bédié, il Rassemblement des Républicains (RDR) di Alssane Dramane Ouattara, l’Union pour la Démocratie et la Paix en Cote
d’Ivoire (UPDCI) di Mabri Toikeusse ed il Mouvement des forces pour l’Avenir (MFA) diInnocent Anaky Koneban.
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
Iniziative Europee di Difesa
Lorenzo Striuli
Eventi
►Il 29 ottobre è stato schierato al confine terrestre tra Grecia e Turchia il primo RABIT (ovvero Rapid Border Intervention Team) dell’agenzia europea per il controllo delle frontiere
FRONTEX, in seguito a una apposita richiesta formulata in tal senso dal governo greco in
piena difficoltà nel gestire un flusso insolitamente grande di immigrati irregolari. Composto da
circa 175 funzionari provenienti da 24 diversi Paesi membri dell’Unione Europea ovvero associati al Trattato di Schengen, il RABIT in questione si pone in assoluto la come prima iniziativa
concreta in tal senso da quando il meccanismo di attivazione di tali team è stato approvato dal
Consiglio Europeo del luglio del 2007. In particolare, i RABIT vengono formati tramite il ricorso a personale nazionale con esperienza nel controllo confinario per essere schierati nel giro di
pochi giorni al fine di coadiuvare le autorità locali nella gestione delle frontiere sotto il controllo diretto di un funzionario del Paese ospitante. L’attivazione di un RABIT ha luogo esclusivamente dietro richiesta di un Paese membro dell'Unione Europea che si trovi ad affrontare
una situazione eccezionale e che abbia già messo in campo risorse nazionali di emergenza, ed è
disposto dal Direttore esecutivo di FRONTEX per un tempo di norma non superiore ai due mesi.
►Il 29 ottobre l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza Lady Ashton ha ufficializzato la nomina dei suoi due vice-Segretari Generali del costituendo Servizio Europeo di Azione Esterna nelle persone del già funzionario del Consiglio
dell’Unione Europea Helga Schmid e del già Parlamentare Europeo Maciej Popowsky. In
particolare, nel primo caso si parla di una navigata diplomatica di carriera quarantanovenne
con esperienza nel gabinetto dell’ex Ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer e che,
nell’ambito del Consiglio dell’Unione Europea, ha lavorato come esperta di Paesi ex-sovietici.
Con la Ashton sarà incaricata dell’ambito degli affari politici, in particolare per ciò che riguarda la posizione dell’Unione Europea in consessi quali il G8 e il G20. Nel secondo caso, si
tratta di un quarantaseienne ex-diplomatico polacco con esperienza sia nella Commissione Europa che come capo di gabinetto del Presidente del Parlamento Europeo Jerzy Buzek. Nel nuovo incarico sarà rivestito delle responsabilità relative agli affari inter-istituzionali, in particolare per quanto di concernente il lavoro di coordinamento sia dei direttorati geografici del Servizio Europeo di Azione Esterna con il suo dipartimento di gestione delle crisi, che dello stesso
Servizio con la Commissione Europea e la sua agenzia di aiuti umanitari comunitari ECHO.
Dopo la nomina del diplomatico francese Pierre Vimont come Segretario Generale del Servizio
e dell’irlandese David O’Sullivan come responsabile del bilancio e del personale, dunque, le
posizioni più apicali hanno visto l’esclusione di importanti (quando non fondatori) Paesi mem-
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
bri dell’Unione Europea, quali l’Italia, la Spagna e la Svezia. Al momento altre cinque nomine
di alto livello sono attese entro la fine del presente anno o l’inizio del prossimo. A queste, verrà
poi da aggiungersi una novantina circa di funzionari diplomatici da distaccarsi presso le rappresentanze estere del Servizio.
►Come anticipato nei mesi scorsi, il Commissario Europeo per la Cooperazione Internazionale, gli Aiuti Umanitari e la Risposta alle Crisi Kristalina Georgieva appare sempre più determinata a perseguire l’idea di inaugurare un Centro Europeo di Risposta alle Emergenze al
fine di monitorare le situazioni di crisi derivanti da disastri e catastrofi naturali, e dotato della
possibilità di accedere a informazioni classificate di livello comunitario nonché di disporre
l’invio di contingenti militari di aiuti nei confronti di tali situazioni. A cavallo fra ottobre e novembre, difatti, ella è tornata sull’argomento delineando come al momento la Crisis Room e il
SITCEN dell’Unione Europea siano troppo confinati nel settore del tempestivo allarme solamente di conflitti o attacchi terroristici. Nella sua ipotesi, invece, il nuovo organismo dovrebbe
attivamente impegnarsi nella redazione di protocolli specifici di intervento sulla base delle varie tipologie di disastri e catastrofi naturali. Esso sarebbe composto da funzionari dell’Unione
Europea affiancati da personale esperto tratto dalle agenzie di protezione civile dei Paesi comunitari, e dovrebbe lavorare a stretto contatto con il nuovo Servizio Europeo di Azione Esterna.
TERMINA LA MISSIONE EU-SSR GUINEA BISSAU
La missione dell’Unione Europea per il sostegno alla riforma del settore della sicurezza in
Guinea Bissau ha concluso il suo mandato il
30 settembre del 2010. La missione era stata
lanciata nel giugno del 2008 dopo apposita
decisione formulata dal Consiglio il 12 febbraio precedente, e aveva lo scopo di fornire
assistenza per l'applicazione di una locale
Strategia Nazionale mirata alla riforma del
settore della sicurezza, finalizzata, in particolare, alla riduzione e riorganizzazione delle
forze armate e di polizia della Guinea Bissau.
In tale ambito, la missione europea, composta
da uno staff di 8 funzionari tra civili e militari
(provenienti da Francia, Portogallo, Italia, e
Spagna) rinforzati da 16 impiegati e funzionari locali, ha contribuito alla stesura di leggi e
documenti organizzativi relativi alle forze armate, alla polizia e alla magistratura, lavorando a stretto contatto con altri soggetti istituzionali locali e internazionali (donors compresi) interessati da questo processo. In particola-
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re, si è concentrata sulla revisione delle basi
normative delle forze armate e di polizia e sulle loro rispettive future riconfigurazioni organiche, sulla rimessa in opera di canali istituzionali fra l’Interpol e la locale Polizia Giudiziaria, sulla delineazione di un’ipotesi di costituzione di una Guardia Nazionale, e sulla
revisione del corpus normativo di materia di
procedura penale e del codice di condotta dei
magistrati. Tali attività si sono nel maggio del
2010 parzialmente tradotte, sul piano
dell’implementazione, in vere e proprie politiche pubbliche tramite l’approvazione, da parte
della locale Assemblea Nazionale, di un pacchetto di leggi riguardanti l’istituzione della
Guardia Nazionale, gli organici delle Polizia
d’Ordine Pubblico, nonché la legge
d’indirizzo delle forze armate.
Il bilancio della missione ha goduto di stanziamenti pari a 5.650.000 Euro fra l’aprile del
2008 e il novembre del 2009, a 1.530.000 Euro fra il dicembre di quello stesso anno e il 20
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
giugno del 2010, e di 630.000 Euro dal luglio
successivo fino al suo effettivo termine.
La missione era intesa inizialmente per una
durata limitata a soli 12 mesi, successivamente tuttavia estesi a 28. In tal senso, recentemente l'Unione Europea si era detta disponibile a valutare l’ipotesi di varo di una nuova
missione di similare categoria per lo stesso
Paese, ma eventi recenti hanno reso impossibile tale eventualità. La Guinea-Bissau è infatti preda di gravi instabilità per le quali, negli
ultimi due anni, si sono verificati due gravi
ammutinamenti dell’esercito, In particolare, in
occasione di uno di questi episodi, risalente
allo scorso 1 aprile, sono stati tenuti in ostaggio il Primo Ministro e l’allora Capo di Stato
Maggiore Zamora Induta, poi sostituito, nel
luglio di quest'anno, dal Generale Antonio Indjai, lo stesso ufficiale che aveva capeggiato
l'ammutinamento!
Va da sé dunque come questi stessi accadimenti abbiano nei fatti denunciato il fallimento di una missione troppo ridotta nei suoi ef-
fettivi in rapporto alle ambizioni (ancorché di
mero supporto e assistenza a un programma di
riforma comunque concepito e condotto
dall’host nation) che si era preposta, come anche sia lecito porre dubbi sulla bontà del particolare meccanismo di pianificazione, comando e controllo per essa adottato, per la
prima volta incentrato sul Civilian Planning
and Conduct Capability, la cellula di gestione
delle missioni esclusivamente civili per la gestione delle crisi. Al momento, dunque, la fine
della missione rappresenta un grosso boccone
amaro per l’Unione Europea, dal momento
che risulta che almeno due alti ufficiali
dell’entourage del Generale Indjai (e cioè il
Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Ibraima Papa Camara e l’ex-Capo di Stato
Maggiore della Marina Jose Americo Bubo
Na Tchuto) siano coinvolti in quei traffici di
droga che pongono la Guinea Bissau come lo
snodo di transito di cocaina proveniente
dall’America Latina e diretta verso l’Europa.
IL NUOVO ACCORDO FRANCO-BRITANNICO IN MATERIA
DI DIFESA E I SUOI RIFLESSI SULLA CSDP
l 2 novembre è stato sottoscritto da Francia e
Regno Unito un innovativo patto in materia di
difesa che non ha mancato di suscitare interrogativi relativi non soltanto al bilaterale intercorrente fra i due Paesi, quanto anche per
tutto ciò di concernente il futuro della dimensione militare dell’Unione Europea. Storicamente tutte le trasformazioni (o i tentativi di
trasformazione) nel settore della “militarità”
europea sono pervenute da azioni congiunte di
Francia e Regno Unito. Lo furono i vari progetti istituzionali di difesa comune europea
post-crisi di Suez come le più concrete (e talvolta fortunate, talaltra meno) collaborazioni
congiunte in materia d’industria degli armamenti e di prodotti per il procurement; e la
stessa CSDP costituisce più o meno diretta
emanazione di un percorso cominciato con la
famosa Dichiarazione di Saint Malò del 1998.
È pertanto importante soffermarsi su questo
accordo, dal momento che si sta comunque
parlando di due realtà che, al di là del loro peso politico specifico in ambito comunitario e
del ruolo più o meno guida che sovente riescono a giocare nell’ambito dell’Unione Europea, rappresentano comunque al momento
con i loro bilanci alla difesa congiuntamente
intesi circa la metà di tutti i bilanci difesa dei
Paesi comunitari presi nel loro insieme, nonché il 65% dello stesso insieme considerato
per ciò di relativo alla ricerca e sviluppo in
ambito militare.
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MONITORAGGIO STRATEGICO
Innanzitutto l’accordo in questione (dalla durata cinquantennale!) riguarderà un ambito finora tabù per qualsiasi governo francese postforce de frappe, ovvero la fine del totale isolazionismo transalpino in materia di nucleare
militare. Il patto difatti prevede la possibilità
di ricerca e sviluppo congiunto fra i due Paesi
in tal senso, anche e soprattutto per ciò che
concerne le questioni legate a test e sperimentazioni. Su di esse è assai probabile che con
tale accordo la Francia mira raggiungere un
posizione di preminenza sul suo partner, dal
momento che mentre tradizionalmente
l’arsenale nucleare di Parigi si è sempre mosso nella (quasi) totale autonomia progettuale,
dottrinale e operativa, quello di Londra si è
negli anni venuto ad intersecare strettamente
con l’arsenale statunitense, tanto che da tempo
osservatori e commentatori nel campo della
difesa giudicano il nucleare militare britannico come non del tutto dotato delle complete
caratteristiche di esclusività di autonomia nazionale. La Francia dal canto suo ha rinunciato da qualche anno alla futura messa in opera
di test nucleari live, conferendo decisivo impulso, proprio a partire dalla Presidenza Sarkozy, alla costruzione di uno speciale sito per
simulazioni software e al laser di esplosioni
nucleari, che entro il 2014 dovrebbe divenire
operativo a Valduc, nella Borgogna. Secondo
il patto in questione, dunque, tale sito dovrebbe giungere a comprendere anche la partecipazione dei britannici alle modalità di test
consentite, e anzi un ulteriore centro congiunto dovrebbe sorgere ad Aldermaston, nel Berkshire, sud-est dell’Inghilterra.
Ufficialmente, in tal situazione, sia gli arsenali
che i test dovrebbero rimanere di separata
competenza nazionale, ma mentre per i primi
ciò non costituisce affatto cosa impensabile,
per i secondi è senz’altro più difficile immaginare come questo possa avvenire, dal momento che da una parte la Francia possiede
maggiore expertise in tal senso, e dall’altra il
carattere congiunto che si vorrebbe conferire
46
ai due siti mira proprio a risparmi derivanti da
attività condotte in comune per quanto riguarda ricerca, sviluppo e sperimentazioni. E difatti l’opposizione laburista britannica ha inteso formulare le maggiori critiche all’accordo
in questione proprio in relazione ai timori derivanti da una possibile futura subordinazione
delle capacità nucleari nazionali alle concezioni dottrinali e operative d’oltralpe, pur
condividendone l’impostazione di fondo mirata ai risparmi conseguibili da una maggiore
integrazione dei rispettivi strumenti militari
nel loro complesso intesi.
L’ultimo aspetto è essenziale in realtà per ambedue i Paesi, dal momento che si colloca nel
quadro da una parte del recentissimo annuncio
dell’esecutivo Cameron di un taglio del bilancio della difesa britannico pari a all’8 % da
conseguirsi nell’arco di cinque anni, e
dell’altra di un trend francese di continua riduzione delle spese militari negli ultimi dieci
anni.
In tal senso, l’accordo è stato quasi contestualmente accompagnato da un altro documento relativo ad altre intese riguardanti la
costituzione di una forza di spedizione congiunta composta da circa 5.000 uomini per
ciascuna parte (di carattere esclusivamente on
call però, a differenza di molte iniziative precedenti, percorse in tutta Europa, più legate e
modelli standing e forse proprio per questo
nei fatti presto rimaste sulla carta o quasi),
l’accesso di personale alle reciproche portaerei (ve ne sono tre in tutto, delle quali due britanniche e di inferiori capacità rispetto alla
francese CHARLES DE GAULLE) quando
quelle di un Paese si trovano impegnate in lavori di refitting (che in media occupano circa
il 30 % del tempo di vita di una di queste unità), la cooperazione congiunta in materia di
addestramento e supporto ai futuri (e forse
chimerici) aerei da trasporto strategico
A400M, l’accesso francese alle capacità britanniche relative al rifornimento in volo e alla
tecnologia UAV, e lo sviluppo comune di fu-
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
ture tecnologie concernenti le comunicazioni
militari satellitari, la contromisure mine, la
missilistica e il cyber warfare.
In tal senso probabilmente si sta assistendo a
una quasi disperata manovra di risparmio su
base bilaterale di investimenti nel settore difesa da parte di due Paesi dei quali uno, il Regno Unito, si trova in una fase di crisi economica abbastanza preoccupante anche qualora
intesa in forma di proiezioni future. Anche in
questo caso, dunque, non v’è alcun motivo di
scorgere qualche prodromo di futuri passi verso la (da troppi) agognata difesa integrata eu-
ropea. Anzi, nella presente occasione, a differenza delle precedenti passate prima in rassegna (Dichiarazione di Saint-Malò, etc.) non è
stata nemmeno abbozzata alcuna esortazione
in tal senso, addirittura registrandosi parole
come quelle del Segretario britannico alla Difesa Liam Fox che testualmente ha affermato:
“Non v’è alcuna spinta in direzione di un esercito UE al quale noi ci opponiamo […] è
sempre stato nel mio punto di vista considerare la difesa come un ambito di sovranità e pertanto da trattarsi solamente in maniera intergovernativa”.
47
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
Cina e India
Nunziante Mastrolia
Eventi
►Aumentano le pressioni cinesi per una diserzione della cerimonia prevista per il prossimo
dicembre, per la consegna del premio Nobel a Liu Xiaobo, agli arresti in Cina, condannato a
11 anni di reclusione con l'accusa di “sovversione del potere statale”, in quanto autore dell'appello Charta08. A oggi c'è ancora incertezza su chi possa ritirare il premio. Russia, Kazakhstan, Cuba, Marocco, Iraq hanno declinato senza motivare l’invito della Commissione del
Nobel e così Pechino stressa.
►Il 5 novembre scorso il ministro del Commercio cinese Chen Deming ha confermato i tagli
alle esportazioni di terre rare. Sono in territorio cinese circa il “ 36% dei giacimenti conosciuti
di questo gruppo di 17 minerali”. Sino ad oggi la Cina “ha sopperito al 97% del fabbisogno
mondiale, vendendo a prezzi bassi e provocando l’abbandono dello sfruttamento dei giacimenti
in altri Paesi”. “Quest’anno Pechino ne ha diminuita l’esportazione di circa il 40% rispetto al
2009 e addirittura del 72% negli ultimi mesi, adducendo la necessità di non esaurire le riserve”.
IL DOLLARO E PECHINO
Il G-20 di Seoul non ha portato i risultati sperati: la guerra delle monete continua e si aggrava. Al di sotto di una sottile patina di concordia generale, più o meno retorica, si è registrato un livore preoccupante. L'esercizio non
è filologicamente corretto, ma se si legge la
dichiarazione finale del summit e, ad alcuni
passaggi, si da il significato opposto si può
avere un quadro abbastanza fedele della situazione attuale. Qualche esempio. Al punto sette
si legge: “uneven growth and widening imbalances are fueling the temptation to diverge
from global solutions into uncoordinated actions”. E' proprio quanto sta accadendo. La
volontà di individuare delle vie di intervento
globale coordinato e condiviso pare scemata e
ciascun paese sta cercando con ogni mezzo di
evitare il peggio, anche a rischio di danneggiare altri.
Al punto otto i massimi vertici politici del G20 confermano “our determination to resist
protectionism”, frase ripetuta a più riprese sin
dal primo incontro di Washington del novembre del 2008, ma, pare, invano. Di fatto il vento del protezionismo ha ripreso a soffiare con
forza. Dal 2008 ad oggi infatti, nonostante i
solenni impegni in questo senso sono ben 332
le barriere tariffarie introdotte ex novo, per
49
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
proteggere i mercati interni o come ritorsioni,
come si legge in un recente rapporto della
Commissione europea. Delle quali ben 277
proprio ad opera dei paesi del G-20: ai primi
posti Argentina e Russia con rispettivamente
62 e 60 nuove barriere tariffarie. Quasi a pari
merito Stati Uniti e Cina (23, 20). A seguire
Corea del Sud, India e Brasile. A ciò vanno
aggiunti altri due elementi preoccupanti: il
primo, l'uso politico di alcune risorse è il caso
delle restrizioni alle esportazioni delle terre
rare imposto da Pechino nei confronti del
Giappone, in occasione della controversia sul
fermo da parte della autorità nipponiche
dell'equipaggio di un peschereccio che esercitava in acque contese; il secondo il silenzio
del WTO.
I paesi G-20 inoltre, come si legge nel documento finale, si impegnano a: 1) promuovere
la stabilizzazione del mercato finanziario (il
che significa, continuando l'esercizio di prima,
che i mercati finanziari sono ancora nel pieno
della turbolenza); 2) a muoversi “toward more
market- determined exchange rate systems,
enhancing exchange rate flexibility to reflect
underlying economic fundamentals”; 3) ad astenersi “from competitive devaluation of currencies”.
Come si può notare nel testo non si fa esplicito riferimento allo yuan. Eppure il punto 2) è
chiaramente una stoccata americana nei confronti della posizione cinese che, stando al Seoul consensus (così infatti è stato enfaticamente definito l'accordo raggiunto sul testo
del comunicato finale) dovrebbe abbandonare
la direzione politica del cambio e consentire
che questo sia lasciato alla libera determinazione dei mercati e rifletta i fondamentali
dell'economia nazionale. Come in un incontro
di scherma, il punto 3) è, invece, la stoccata
cinese nei confronti di Washington, che attraverso la FED sta di fatto procedendo ad una
svalutazione del dollaro (da giugno si è svalutato del 13%). Bernanke, infatti, ha dato il via
al Quantitative Easing 2 o QE2: la FED nei
50
prossimi mesi, fino a giungo del prossimo anno, sottoscriverà buoni del Tesoro americano
per un valore di seicento miliardi di dollari.
Il che significa due cose, la FED stampa moneta e inietta liquidità nel mercato (in una situazione economica che tende alla deflazione)
che ha come implicazione una caduta del
prezzo del dollaro. In secondo luogo, acquistando così massicciamente T-bond, la Fed ne
fa crescere il prezzo e quindi diminuire il rendimento, che è già quasi praticamente nullo.
In questo modo i titoli del Tesoro diventano
meno convenienti e altri investitori cercheranno altre e migliori opportunità di investimento.
La speranza della FED è che questi capitali
vengano investiti in attività produttive che dovrebbero far partire l'economia e con essa assorbire la disoccupazione che continua a crescere e riprendere a trainare la domanda globale (certo ad una intensità diversa ed insieme
a quella cinese e tedesca): in questo senso le
parole di Obama: “Il maggior contributo che
gli Usa possono dare alla ripresa mondiale è
una forte ripresa che crei lavoro e reddito”.
Al contrario Pechino guarda con orrore al
QE2, per una serie di ragioni. I capitali così
liberati dall'intervento della FED possono inondare il mercato internazionale generando
inflazione. Su questo fronte la Cina è abbastanza tranquilla, visto lo stringente controllo
che applica alla libera circolazione dei capitali.
Più preoccupanti gli altri aspetti. Pechino è
costretta, per mantenere stabile il proprio
cambio, ad incrementare i proprio acquisti di
dollari. Se decresce il valore del dollaro, i
produttori di materie prime (energetiche, alimentari, industriali) vedono calare i propri incassi. La soluzione? Diminuire l'offerta di materie prime per aumentarne il prezzo. Importando materie prime, quindi, Pechino importerebbe inflazione che vista la rigidità dei salari,
potrebbe essere causa di instabilità interna in
una situazione in cui il costo della vita è già in
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MONITORAGGIO STRATEGICO
forte crescita 1. D'altro canto un dollaro in picchiata libera, significa la perdita di valore degli investimenti cinesi in dollari.
I margini di manovra di Pechino sono strettissimi, può solo cercare di drenare liquidità dal
mercato (aumentando il costo del denaro e/o
la riserva obbligatoria delle banche), ma tali
misure hanno un costo “Le operazioni di sterilizzazione effettuate dalla Banca centrale cinese equivalgono a una tassa sull'attività d'intermediazione e una compressione degli investimenti produttivi. Ciò alimenta ulteriormente il saldo commerciale nei confronti del resto
del mondo.”
In breve, la guerra tra le monete è un modo
per intendere un confronto durissimo che sta
avendo luogo tra Washington e Pechino. Un
confronto che mette la Cina nell'angolo, o
meglio, è presa in un meccanismo che la costringe obtorto collo ad agire in un modo che,
a Pechino ritengono vada contro i propri interessi: vorrebbe fuggire dal dollaro, ma non
può farlo in maniera significativa e repentina,
pena veder collassare il valore delle proprie
riserve, essendo, costretta ad incrementare ulteriormente le proprie riserve in dollari, anzi,
volendo mantenere la propria moneta ancorata
al dollaro in rapporto fisso. Ha fatto della lotta
all'inflazione una priorità ma è “costretta” ad
importarla attraverso l'acquisto di materie
prima all'estero e via dicendo.
Ora se il QE1 era una misura di emergenza
per rispondere nell'immediato a difficoltà
economiche interne il QE2 è “the atomic
bomb”: “America has in effect issued an ultimatum to China and G20: either you stop this
predatory behaviour and agree to some formula for global rebalancing, or we will deploy QE2 `a l’outrance’ to flood your economies with excess liquidity. We will cause you
to overheat and drive up your wage costs. We
will impose a de facto currency revaluation by
more brutal and disruptive means, and there
is little you can do to stop it” 2. Il dollaro, infatti, continua ad essere l'unica moneta internazionale “the only plausible rival to the dol-
lar right now is doing a lovely job of imploding right now” 3, il riferimento è all'euro. Di
qui si comprende l'insistenza con cui Pechino
nei mesi passati ha cercato un'alternativa, dai
diritti speciali di prelievo a un'area dello yuan.
Ma il tempo agisce a suo sfavore. Per usare le
parole di John Connally, segretario al Tesoro
nella prima amministrazione Nixon “the dollar may be our currency but it’s your problem”. Nonostante a più riprese nei mesi passati ne sia stato segnalato il tramonto, il dollaro, infatti continua a detenere un exorbitant
privilege, nelle parole con cui Valéry Giscard
d'Estaing, che consiste essenzialmente nella
possibilità, teoricamente infinita, di ripianare i
proprio debiti in dollari, semplicemente stampando carta moneta.
Tuttavia il QE2 è solo “di riflesso” una misura
che ha amare implicazioni per Pechino. Ben
Bernanke, il governatore della Federal Reserve è uno dei massimi esperti della grande depressione del 1929. Dai suoi critici è soprannominato Helicopter, perchè citando Milton
Freedman affermò che in caso di crisi economica come quella del ventinove, pur di rianimare la domanda interna, sarebbe stato utile
distribuire soldi gettandoli da un elicottero. Di
qui il soprannome. Un ulteriore elemento. Nei
suoi studi, Milton Friedman, fondatore della
scuola monetarista, sostenne che, se il giovedì
nero di Wall Street si era trasformato in una
recessione globale, la colpa era tutta da attribuire all'operato della FED. Il occasione del
novantesimo compleanno di Friedman Bernanke affermava “Let me end my talk by abusing slightly my status as an official representative of the Federal Reserve. I would like to
say to Milton and Anna: regarding the Great
Depression. You're right, we did it. We're very
sorry. But thanks to you, we won't do it
again.”
E ancora in un discorso del 2002 argomentava
come, anche quando i tassi di interesse siano
prossimi allo zero (quando cioè una delle
principali armi di una banca centrale risulta di
fatto inutilizzabile) la FED, può ancora inter-
51
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
venire per sostenere la domanda: “the U.S.
government has a technology, called a printing press (or, today, its electronic equivalent), that allows it to produce as many U.S.
dollars as it wishes at essentially no cost. By
increasing the number of U.S. dollars in circulation, or even by credibly threatening to do
so, the U.S. government can also reduce the
value of a dollar in terms of goods and services, which is equivalent to raising the prices
in dollars of those goods and services. We
conclude that, under a paper-money system, a
determined government can always generate
higher spending and hence positive inflation”.
Nient'altro che il QE2.
Il altre parole Bernanke non sta facendo altro
che mettere in atto i risultati delle proprie ricerche sulla Grande Crisi. Il che significa che
il QE2 non è né una misura estemporanea dettata dalla disperazione, come pur alcuni osservatori hanno sostenuto, né una misura post
elettorale per rilanciare la politica economica
della presidenza Obama. Il che significa, inoltre, che se pure questa immensa immissione di
liquidità non dovesse funzionare le FED potrebbe continuare ad libitum finché le tendenze deflattive non verranno invertite e il vento
non riprenderà a spirare nel senso di una “positive inflation”, nonostante le smentite ufficiali che il presidente della FED ha fatto nei
giorni scorsi ("We're not in the business of
trying to create inflation").
Ora si sa che l'inflazione fa gli interessi del
debitore (come gli USA), non del creditore
(come la Cina). Anzi a giovare di un po' di inflazione sarebbe anche l'Europa: Jacques Attali lo scrive esplicitamente nel sul libro “La
crisi, e dopo?”, dello stesso parere Jacques
Delors, come scrive in “Investir dans le social”, posizione che trova l'opposizione della
BCE e della Bundesbank e degli investitoricreditori internazionali (pubblici e privati).
Di qui, dunque, le durissime reazioni da parte
tedesca e cinese, secondo cui Washington dopo aver tanto criticato Pechino, non sta facen-
52
do altro che manipolare il cambio, abbassando
il valore del dollaro per sostenere le proprie
esportazioni. Sulla stessa linea tutti i paesi che
negli anni passati hanno accumulato investimenti – monetari e non – denominati in dollari
e più in generale tutti i paesi in surplus (eccetto i paesi esportatori di petrolio e materie prime).
Il punto è che la crisi, come si è ripetuto già in
precedenza, potrà essere superata solo quando
gli squilibri commerciali internazionali saranno riequilibrati: riduzione dei surplus e dei deficit. In altre parole, gli Stati Uniti dovranno
risparmiare di più e (almeno in parte) consumare di meno, la Cina (o la Germania) consumare di più e risparmiare di meno. Un processo lungo e difficile soprattutto per Pechino
e che richiede l'abbandono delle proprie posizioni acquisite: di qui le recriminazioni tedesche e cinesi che accusano gli USA di voler
far pagare loro il conto di una crisi di cui non
sono responsabili. Cosa, per inciso, non del
tutto vera: non ci sarebbe stato nessun miracolo cinese senza gli iper consumi americani. Il
QE2 impone tale svolta, dopo il fallimento del
tentativo negoziale di Geithner di raggiungere
un accordo per stabilire un tetto del 4% rispetto al PIL ai surplus e ai deficit commerciali. Il
QE2, dunque, impone la svolta e potrebbe avere anche il benefico effetto di rompere la
spirale di disgregazione dell'ordine internazionale che le singole reazioni/iniziative nazionali stavano causando.
In altre parole il G-20, dopo il fallimento
dell'incontro preliminare dei ministri della Finanze e dei governatori delle banche centrali
dell'ottobre scorso, rischiava di trasformarsi in
una dieta polacca: se ogni paese ha il diritto di
veto, il risultato è la paralisi e di conseguenza
la disgregazione. Il sistema economico internazionale va riequilibrato e il perno non possono che essere gli Stati Uniti. Washington
pertanto con decisione ha ripreso l'iniziativa.
Chi ha più da temere dal QE2 è Pechino, non
solo a livello monetario e/o finanziario (perdi-
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MONITORAGGIO STRATEGICO
ta di valore dei propri investimenti in dollari –
T-bond – e dell'enorme massa di riserve valutaria di cui il 70% in dollari, che, a settembre
2010, ammontava a 2.648 miliardi di dollari,
quasi metà del suo prodotto interno lordo). La
Cina teme che la stabilità interna possa saltare
a seguito di una impennata del costo della vita
(già alti i prezzi dei generi alimentari) e un
aumento della disoccupazione a seguito di una
crollo dei settori legati all'export e quindi al
basso valore dello yuan.
Ora se si considera che Pechino non ha gli
strumenti finanziari per potersi opporre a livello internazionale alla decisione della FED,
si può essere indotti nel cercare una connessione con le recenti fibrillazioni nella penisola
coreana.
Già in un precedente numero dell'Osservatorio
si era provato a stabilire in questo senso una
sorta di equazione: ogni qual volta le nubi si
addensano sulla Cina sale la tensione nella
penisola coreana. Nel 2006 i lineamenti della
Quadrilateral Defence Iniziative – un asse di
cooperazione rafforzata tra India, Giappone,
Australia e Stati Uniti – si andavano definendo con chiarezza: una struttura di alleanze con
funzione di containment nei confronti di Pechino. Nel luglio del 2006 il test di un missile
intercontinentale nordcoreano. Il Giappone
reagì duramente, tanto che l'allora aspirante
premier Shinzo Abe paventò il ricorso ad un
attacco preventivo contro Pyongyang. Tale
atteggiamento non fece altro che far riemergere i timori per un ritorno dell'imperialismo
giapponese. Il risultato fu che solo Pechino
poteva assicurare la pace nella penisola coreana, per gli antichi legami e la diretta dipendenza economica del regime nordcoreano dalla Cina, senza generare paure nella regione. Il
che d'altra parte significa (o almeno è quello
che Pechino vuole comunicare) che più la Cina è debole (o in difficoltà) minori sono le sue
capacità di gestire il regime di Kim Jong-Il.
La situazione attuale potrebbe non essere molto dissimile da allora, per una serie di considerazioni. Alla strategic reassurance di Obama
non ha corrisposto nessuna concessione da
parte cinese: nonostante il carattere privato
della visita del Dalai Lama alla Casa Bianca, a
Pechino ci fu una levata di scudi. Reazioni
ancora più dure per la decisione di procedere
alla vendita di armi a Taiwan nel gennaio
scorso nonostante il pacchetto non includesse
gli F-16 richiesti da Taipei. Posizione sostanzialmente ferma anche sullo yuan. Nel frattempo Pechino ha aumentato la propria assertività nelle aree contese, dal Mar cinese meridionale alla disputa con Tokyo sulle isole
Senkaku/Diaoyu, all'Arunachal Pradesh (la
questione dei visti). In questo senso grande
impressione ha fatto a Tokyo ed in altre capitali dei paesi sviluppati la decisione di procedere ad un embargo de facto dell'esportazione
delle terre rare: senza di esse interi settori
dell'high-tech potrebbero essere messi in ginocchio. Di qui la reazione: il ritorno ad un
accento sul containment e alla possibile riattivazione della Quadrilateral Iniziative, quella
che venne definita una sorta di NATO asiatica.
In questo senso la visita di Manmohan Singh
in Giappone ha fatto registrare importanti risultati: la firma dell'accordo di cooperazione
economica è uno di questi; qualche spiraglio
pare poi realmente aprirsi nella possibilità che
Tokyo possa cooperare nell'ambito dell'industria nucleare civile indiana a fronte, ed è questo il dato significativo, dello sfruttamento da
parte giapponese dei giacimenti di terre rare
presenti in India.
D'altro canto (pur tra qualche ombra: il caso
Headley e gli aiuti militari al Pakistan) il viaggio di Obama in India ha alleviato le ansie
indiane. Come si faceva notare nel precedente
numero dell'Osservatorio (e nonostante le parole di Swaminathan S Anklesaria Aiyar con
cui si chiudeva quell'articolo) le voci, circolate prima del viaggio indiano di Obama, di un
impegno formale da parte della Casa Bianca a
sostegno di un seggio permanente per Nuova
Delhi in seno al Consiglio di Sicurezza ONU,
condizionato ad una risoluzione della questio-
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
ne kashmira, avevano un senso all'interno della strategia americana. Così nel suo discorso
davanti al parlamento indiano Obama si è
formalmente impegnato a sostenere le ambizioni dell'India, senza tuttavia fare riferimento
al diritto di veto 4. E' vero che non si è fatto
nessun cenno esplicito ad un legame tra il
seggio permanente e la risoluzione della disputa con il Pakistan, ma tutta una serie di accenni e di passaggi lasciano intendere che la
questione sia stata affrontata nel faccia a faccia a porte chiuse tra Singh e Obama. Se così
stanno le cose, nei prossimi mesi dovrebbe registrarsi qualche novità positive nelle relazioni con Islamabad.
Vista da Pechino, quindi, la situazione potrebbe non apparire delle più rosee. Tokyo, già legata da una special relationship a Washington
(che ne sostiene le aspirazioni in sede di Consiglio di Sicurezza), guarda all'India come
mercato alternativo a quello cinese e come
fornitore alternativo di terre rare. I legami tra
Washington e Seoul, nonostante la mancata
firma dell'accordo di libero scambio, restano
saldissimi. Di fatto gli Stati Uniti si sono
schierati con il Giappone nella questione delle
isole Senkaku e con il Vietnam, per le dispute
nel Mar Cinese meridionale e l'alleanza con
Nuova Delhi si va rinsaldando.
Su questo sfondo il 3 novembre arriva la notizia del QE2. Il 12 novembre il G-20 di Seoul
si chiude con un nulla di fatto (il Currency
Reform for Fair Trade Act deve ora essere esaminato dal Senato americano e non è da escludere che ci possa essere il via libera a sanzioni contro Pechino). Lo stesso giorno allo
scienziato nucleare americano Siegfried S.
Hecker le autorità nordcoreane mostrano un
nuovo impianto per l'arricchimento dell'uranio
dove, secondo i nordcoreani, sono già state
installate 2.000 centrifughe. Il 23 novembre la
Corea del Nord, con tiri di artiglieria, colpisce
l'isola sudcoreana di Yongpyeong. Pechino
esprime la propria preoccupazione, ma come
nel caso dell'affondamento della corvetta
Cheonan, non condanna esplicitamente. Per
usare le parole dell'ammiraglio Mullen, U.S.
Joint Chief of Staff Chairman “The one country that has influence in Pyongyang is China
and so their leadership is absolutely critical”.
1
“A ottobre l’indice dei prezzi al consumo è salito in Cina del 4,4%, record da 25 mesi. Il dato preoccupa
perché l’aumento colpisce soprattutto alimentari (+10,1%) ed energia, settori nevralgici per il benessere
popolare e lo sviluppo del Paese”, Asia News, 17 novembre 2010.
2
http://contemporaryanalysis.com/2010/10/october-11-2010/
3
http://drezner.foreignpolicy.com/posts/2010/05/06/facebooks_exorbitant_privilege
4
“As two global leaders, the United States and India can partner for global security —- especially as India serves on the Security Council over the next two years. Indeed, the just and sustainable international
order that America seeks includes a United Nations that is efficient, effective, credible and legitimate.
That is why I can say today, in the years ahead, I look forward to a reformed United Nations Security
Council that includes India as a permanent member.”
54
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
America Latina
Riccardo Gefter Wondrich
Eventi
►Ondata di violenza a Rio de Janeiro. Sabato 20 novembre i due principali gruppi criminali
della capitale carioca Comando Vermelho e Amigos dos Amigos si sono uniti con l’obiettivo di
destabilizzare il progetto di sicurezza pubblica lanciato dal governo statale, che si basa sulla
creazione di Unità di Polizia Pacificatrice (UPP) in 14 favelas della città, e contro il trasferimento di alcuni dei loro capi in carceri federali lontane da Rio. Assalti, scontri a fuoco contro i
posti di polizia, incendi di macchine e autobus e la minaccia di una bomba in un edificio di Ipanema hanno fatto precipitare la città in un clima di violenza inaspettato, anche in quartieri considerati generalmente tranquilli come il Jardim Botánico. La polizia militare e quella civile
hanno risposto con incursioni nelle principali favelas. Il governatore Sergio Cabral ha fatto dispiegare 17.500 agenti nelle strade, ha autorizzato operazioni militari in 27 favelas e ha chiesto
aiuto a Esercito e Marina Militare. Giovedì 25 novembre il saldo era di 34 morti, decine di feriti e 46 veicoli incendiati. Secondo informazioni dell’intelligence un grande attacco da parte dei
gruppi criminali era in programma per sabato 27. Per questa ragione, alla chiusura del presente numero dell’Osservatorio Strategico, 350 effettivi delle truppe speciali della polizia militare
di Rio de Janeiro -il BOPE- erano impegnate nell’occupazione della favela Vila Cruzeiro nella
zona settentrionale della città, utilizzando anche sei mezzi blindati M113 della Marina Militare.
I trafficanti della favela si sono rifugiati in un triangolo di tre favelas chiamato Complexo do
Alemão, ed è possibile che durante la notte proseguano gli scontri armati. È la prima volta che
il BOPE utilizza i blindati della Marina, dietro autorizzazione del ministro della Difesa Nelson
Jobim, in quella che è a tutti gli effetti una guerra contro i narcotrafficanti per il controllo e la
messa in sicurezza del territorio.
►Crisi diplomatica tra Nicaragua e Costa Rica. A inizio novembre il governo costaricano ha
accusato il Nicaragua di aver invaso il proprio territorio nazionale e distrutto una parte di foresta protetta, durante le operazioni civili-militari di dragaggio del fiume San Juan, al confine
tra i due paesi centroamericani. Managua ha negato di aver oltrepassato la frontiera e ha risposto accusando il Costa Rica di voler appropriarsi di parte del fiume. Il presidente del Costa
Rica Laura Chinchilla ha dato ordine di schierare un’unità armata nella zona oggetto di disputa. Nonostante il Cosa Rica non disponga di un esercito formale, ha una Forza di polizia addestrata e ben armata, e un budget per la Difesa tre volte superiore a quello del Nicaragua. In risposta, il presidente nicaraguense Daniel Ortega ha attaccato l’immagine del Costa Rica quale
paese pacifico e demilitarizzato, accusandolo di voler generare un conflitto attraverso una sistematica campagna per la conquista del territorio nicaraguense. Di più, ha affermato che i militari nicaraguensi nella regione stanno contrastando il traffico di droga, e chi li vorrebbe tene-
55
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
re lontani evidentemente difende gli interessi dei trafficanti. Il 17 novembre il Costa Rica ha
emesso un ordine di cattura nei confronti dell’ufficiale nicaraguense responsabile delle operazioni di dragaggio, Eden Pastora, un ex leader sandinista negli anni ottanta. Fino ad ora le
schermaglie non hanno oltrepassato il livello politico-diplomatico. Istituzioni regionali come
l’Organizzazione degli Stati Americani non sono state in grado di intervenire per la soluzione
della controversia e il litigio sarà risolto dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, chiamata l’11 gennaio a decidere se i lavori in corso debbano essere sospesi o possano proseguire.
Difficilmente lo scontro passerà alle vie di fatto. Troppo grande sarebbe il danno di immagine
per il Costa Rica che ha nel turismo e negli investimenti di grandi aziende multinazionali i suoi
asset principali. Per Ortega, questi attacchi verbali ai paesi esterni utilizzando la carta del nazionalismo puntano ad accrescere la sua popolarità, per aiutarlo a modificare la Costituzione e
ri-candidarsi nel 2011.
►L’ex-presidente argentino Néstor Kirchner, marito dell’attuale presidente Cristina Fernández, è deceduto in seguito a una crisi cardiorespiratoria il 27 ottobre scorso. La sua scomparsa sta generando conseguenze profonde sulla politica interna del paese sudamericano, a un
anno dalle elezioni presidenziali. Kirchner infatti era il segretario del Partito Giustizialista (peronista) e l’uomo forte di tutte le negoziazioni politiche dietro le quinte, creatore di un modello
economico caratterizzato da una forte ingerenza e ampia discrezionalità del governo sulle imprese private e in particolare sul settore agro-esportatore. Senza di lui i rapporti del governo
con il principale sindacato nazionale, la Confederazione Generale dei Lavoratori, entrano in
una fase di maggiore incertezza. I vari settori dell’economia stanno rivendicando aumenti salariali nell’ordine del 30% e premono per una svalutazione del peso che imprima competitività a
un’economia trainata dalla crescita dei consumi e dagli alti prezzi internazionali degli alimenti.
Sul fronte internazionale, Kirchner era stato nominato nel maggio scorso Segretario Generale
dell’Unione delle Nazioni Sud-Americane –UNASUR. Per la sua sostituzione uno dei nomi più
accreditati è l’ex presidente dell’Uruguay Tabaré Vásquez, il quale tuttavia non gode
dell’appoggio dell’Argentina.
►Dopo l’uccisione di Victor Suárez Rojas detto “Mono Jojoy”, il governo colombiano guidato
da Juan Manuel Santos ha assestato un altro importante colpo alle FARC, bombardando
l’accampamento dove si trovava il numero due del Blocco Centrale della guerriglia, Fabián
Ramírez. I guerriglieri rimasti uccisi nell’operazione sono una decina. Circa 200 militari stanno cercando il corpo di Fabián Ramírez. Per la Polizia Antinarcotici colombiana, Ramírez coordina l’esportazione di dieci tonnellate di cocaina mensili, e aveva partecipato ad alcuni dei
principali assalti ai posti di polizia e basi militari alla fine degli anni novanta. Nel frattempo
continua il lavoro diplomatico del presidente Santos per normalizzare le relazioni con Venezuela ed Ecuador, dopo le crisi bilaterali occorse degli ultimi anni. È chiara l’intenzione del nuovo
governo colombiano di dare priorità al re-inserimento del Paese nella regione latinoamericana,
uscendo dal ruolo di principale alleato politico e militare degli Stati Uniti.
►Haiti: cresce il numero di morti per l’epidemia di colera e aumentano le proteste contro la
missione di pace internazionale, a pochi giorni dalle elezioni presidenziali. Nel paese caraibico, già martoriato dal terremoto dello scorso 13 gennaio e dall’uragano Tomás a inizio novembre, il colera ha provocato più di 1.340 vittime da metà ottobre. Ci sarebbero 23.000 persone
sotto cure medico-ospedaliere e 60.000 contagiati. La propagazione dell’epidemia ha alimentato vaste manifestazioni di protesta contro le truppe delle Nazioni Unite impegnate nella missione di Stabilizzazione MINUSTAH. È circolata infatti la voce che il virus sia stato portato dai
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MONITORAGGIO STRATEGICO
soldati del contingente nepalese, che sono stati visti mentre gettavano dei rifiuti in un fiume. La
situazione sanitaria è critica, ma il governo ha deciso di non rimandare la data delle elezioni,
previste per domenica 28 novembre. Si vota per eleggere il nuovo presidente, i 99 deputati e 11
dei 30 senatori. Per il capo della missione ONU ad Haiti, Edmond Mulet, i 12.000 caschi blu di
stanza nell’isola sono in grado di assicurare gli aspetti logistici, tecnici e di sicurezza del processo elettorale. In testa ai sondaggi elettorali c’è Mirlande Manigat, moglie dell’ex presidente
Leslie Manigat, seguita da Jude Célestin, appoggiato dal presidente Préval, e altri 17 candidati. Chiunque vinca, dovrà governare un paese in grande difficoltà, in cui l’epidemia di colera
rischia di paralizzando quel poco di ripresa economica che era in atto.
IL BRASILE DA LULA A DILMA
Le elezioni brasiliane hanno sancito la terza
incontestabile vittoria del presidente uscente
Luiz Inácio Lula da Silva. Si può dire infatti
che sia stato lui a far eleggere la candidata
del Partito dei Lavoratori (PT) Dilma Rousseff, trasferendole in termini elettorali la sua
popolarità e i risultati ottenuti sul fronte economico e sociale. Lula aveva scelto Dilma
quale erede già nel novembre 2007, quando le
affidò il compito di annunciare la scoperta
dell’enorme giacimento petrolifero chiamato
“Tupi” al largo delle coste di Rio de Janeiro.
Successivamente, l’aveva incaricata di gestire
il Programma di Accelerazione della Crescita,
un piano quadriennale di investimenti nel settore trasporti, energia, edilizia, reti fognarie e
risorse idriche per un totale di 504 miliardi di
reais (216 miliardi di euro). La gestione del
PAC ha portato Dilma a guadagnarsi la stima
del presidente, fino appunto alla candidatura
e la vittoria elettorale al secondo turno il 31
ottobre scorso. Sarà chiamata a governare un
paese in forte crescita che ha saputo approfittare delle eccezionali condizioni internazionali degli ultimi anni appoggiandosi e favorendo
lo sviluppo del mercato interno. Ciononostante, diversi elementi inducono alla cautela.
Durante gli otto anni al governo, Lula ha mantenuto l’economia sugli stessi binari disegnati
dopo la svalutazione del 1998 dal suo prede-
cessore Fernando Henrique Cardoso: sistema
di mete di inflazione, cambio flessibile, attivo
primario nei conti dello stato, legge di responsabilità fiscale per impedire la crescita del debito pubblico, ruolo centrale del capitale privato anche grazie alle privatizzazioni in settori
chiave come le telecomunicazioni, le attività
minerarie, il petrolio e il gas. È sulla base di
questi fattori che l’economia brasiliana ha potuto stabilizzarsi e attrarre investimenti e capitali esterni (anche grazie a tassi d’interesse tra
i più alti del mondo). Comunicatore dotato di
eccezionale carisma, si può dire che nel 2002
Lula si sia “convertito al mercato” e abbia
raccolto i frutti dei programmi di Cardoso.
Oltre a questo efficace pragmatismo, i principali meriti che possono essere ascritti alla
doppia presidenza Lula sono due.
Il primo è l’aver colto appieno l’importanza
dei programmi di assistenza sociale in chiave
di sviluppo economico. Insieme all’aumento
dei salari, i programmi di trasferimento di
reddito come il Bolsa Família (sussidi alle
famiglie che vaccinano e mandano i figli a
scuola anziché farli lavorare) hanno impresso
dinamismo economico agli strati più poveri
della società senza mettere a rischio la stabilità del sistema finanziario. In otto anni sono
stati creati 15 milioni di nuovi posti di lavoro
e 32 milioni di persone sono uscite dalla si-
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
tuazione di indigenza e povertà. Sono state
gettate le basi per lo sviluppo delle economie
locali. Ora, nell’ipotesi più ottimista di una
crescita al 5% annuale, il Brasile potrebbe entro il 2014 far uscire dallo stato di povertà altri 36 milioni di persone, su una popolazione
totale che supera i 185 milioni di abitanti. Il
reddito politico di questi programmi è confermato dai risultati delle urne: laddove più
vasta è la portata dei programmi di assistenza
sociale, maggiore la percentuale di voti per
Dilma Rousseff e il PT. Una macchina quasi
perfetta, che nessun candidato durante la
campagna ha osato mettere in discussione e
che anzi è stata presa a modello da altri paesi
latinoamericani.
La seconda eredità positiva del governo Lula
è l’aver trasferito diversi conflitti sociali
all’interno dell’alveo istituzionale. Così, il decennale contrasto tra gli interessi dell’agrobusiness e quelli dei sostenitori della riforma
agraria si è incanalato nella dialettica tra Ministero dell’Agricoltura e Ministero dello Sviluppo Agrario. Il conflitto tra monetaristi rigorosi e progressisti “neo-keynesiani” che mettono la crescita al primo posto si è declinato
nel dialogo tra la Banca Centrale e il Ministero dell’Economia, e non è un caso che il giorno dopo la vittoria di Dilma, Lula le abbia
suggerito di mantenere al loro posto entrambi
i titolari di queste due istituzioni, rispettivamente Hernique Meirelles e Guido Mantega.
In tema di diritti umani ed eredità della dittatura degli anni settanta e ottanta, i contrasti
sono stati ricondotti nell’ambito dei rapporti
tra Segreteria dei Diritti Umani e Ministero
della Difesa. E così via di seguito. Questa capacità di contenere all’interno della sfera istituzionale anche le pulsioni più radicali proprie
del Partito dei Lavoratori ha raggiunto la massima espressione nel 2005, quando un vituperato George W. Bush fece scalo a Brasilia di
ritorno dal vertice delle Americhe di Mar del
Plata dove era stato oggetto di ostilità e scherno da parte del governo venezuelano con
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l’accondiscendenza di quello argentino. Mentre Bush pronunciava un discorso al lato di
Lula, salutato come un grande amico degli
Stati Uniti, fuori dal Palazzo del governo il
Partito dei Lavoratori, di Lula, inscenava una
manifestazione di protesta. In quel momento è
apparsa in tutta chiarezza la capacità di Lula
di disinnescare le domande dei settori della
sinistra, dando loro nella maggior parte dei
casi dei riconoscimenti più simbolici che reali.
Salvo poi recuperare l’antica piattaforma politica del PT quando si trattava di contrastare
l’agenda elettorale di stampo più conservatore
di José Serra, basata su sicurezza, lotta al terrorismo delle FARC in Colombia, difesa della
vita e dei valori nazionali di matrice cristiana,
denuncia contro la deriva sindacalista del governo.
Il successo delle politiche sociali ha garantito
il voto degli strati più poveri della popolazione senza perdere quello delle classi medie e
alte, che hanno comunque tratto beneficio da
un gioco economico a somma positiva. Le capacità di leadership e di mediazione di Lula
hanno permesso di portare a maturazione la
democrazia brasiliana e le sue istituzioni, nonostante gli alti tassi di corruzione e i diversi
scandali degli ultimi anni. Oggi il Brasile è un
paese che ha fiducia in se stesso e percepisce
che i problemi maggiori per la crescita economica provengono più dal contesto internazionale che da politiche interne sbagliate.
Alla vigilia delle elezioni del 2002 la comunità economica internazionale manifestò profonda preoccupazione nei confronti di un possibile governo Lula. Pochi mesi più tardi le
cose cambiarono, ed ebbe inizio una luna di
miele che raggiunse l’apice con il recente riconoscimento di Barack Obama a Lula suggellata dalla famosa frase: “he is the guy”. Le
maggiori critiche sono state indirizzate nei
confronti della politica estera (rapporti con
l’Iran, silenzi sulla dittatura cubana, appoggio
al presidente honduregno Zelaya dopo lo
pseudo golpe), non di quella economica e so-
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MONITORAGGIO STRATEGICO
ciale.
Ora, Dilma non possiede l’intelligenza intuitiva, l’esuberanza scenica, la capacità di stabilire un contatto quasi affettivo con la gente, il
talento di saper utilizzare un arsenale simbolico come ha saputo fare Lula. Non ha nemmeno la statura intellettuale di Fernando Henrique Cardoso. Il suo è un profilo eminentemente tecnico e questa è stata la sua prima campagna elettorale da candidata. La sua vittoria era
ampiamente prevista, e le incognite principali
riguardano l’autonomia di azione rispetto al
padrino politico e la capacità di continuare a
comporre le pulsioni più stataliste del PT
all’interno di un’azione di governo responsabile e modernizzatrice.
I rischi principali per l’economia brasiliana
nei prossimi anni sono di natura esterna e interna.
Sul fronte esterno l’elezione di Dilma coincide con uno dei momenti più delicati per la finanza e l’economia internazionale. La “guerra
delle monete” sta producendo conseguenze
profonde sulla competitività produttiva, sulla
bilancia commerciale e sul livello di inflazione del Brasile. La recente decisione del governo americano di iniettare liquidità per ulteriori 600 miliardi di dollari attraverso
l’acquisto di titoli di Stato può portare a un
rafforzamento del real e all’ingresso di capitali speculativi, un problema condiviso con diverse economie emergenti e contro il quale
misure come l’imposizione di una tassa
sull’ingresso dei capitali speculativi appaiono
poco o per nulla efficaci. Si rincorrono le voci
di una prossima svalutazione della moneta,
con probabili effetti inflazionari. Dilma ha deciso di sostituire il governatore della Banca
Centrale, nonostante Lula avesse suggerito di
mantenerlo nell’incarico. Il prescelto è Alexandre Tombini, già responsabile per l’area di
Regolazione del Sistema Finanziario della
stessa Banca Centrale. Una svalutazione del
real brasiliano obbligherebbe il governo argentino a fare lo stesso con il peso, per non
perdere ulteriore competitività negli scambi
bilaterali, anche considerando che il commercio tra i due paesi si sta sempre affrancando
dalla mediazione del dollaro.
Sul fronte interno le sfide maggiori riguardano
la sfera microeconomica. È necessario ridurre
il peso della burocrazia, espandere il credito al
settore privato e semplificare il sistema fiscale
per migliorare la competitività produttiva e
l’ambiente degli affari. Il rischio è di avere
una crescita basata solamente sui consumi e
con bassi tassi di risparmio. Oggi il Brasile sta
vivendo una sensazione di benessere inedita,
che in larga misura è da attribuire alla forza
della moneta nazionale rispetto al dollaro. Ciò
tuttavia porta a un crescente deficit di conto
corrente sempre più difficile da finanziare a
meno di impopolari tagli alla spesa pubblica.
Andrebbe potenziato il ruolo delle agenzie di
controllo della concorrenza nei diversi settori
dell’economia, anche se ciò finisce per ridurre
il margine di azione discrezionale del governo
e va contro gli interessi dell’articolazione sindacal-burocratica del PT. Su questo terreno è
chiamato a misurarsi il profilo tecnico e manageriale di Dilma e del suo gabinetto, che assumerà i poteri il 1 gennaio prossimo.
Prima di quella data il governo uscente di Lula dovrà sciogliere alcune questioni importanti
con conseguenze di carattere internazionale.
Tra queste, si segnalano la decisione finale
sull’acquisto dei 36 caccia e relativo trasferimento di tecnologia -tutto lascia presagire che
i vincitori saranno i francesi Dassault-Rafale-,
e la delicata decisione sull’estradizione
dell’italiano Cesare Battisti.
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MONITORAGGIO STRATEGICO
Organizzazioni Internazionali
e cooperazione centro asiatica
Lorena Di Placido
Eventi
►Guardie afgane addestrate in Kazakhstan Nel corso del mese di novembre guardie afgane
hanno partecipato a un progetto di formazione presso un Centro kazako, che vanta
un’esperienza ventennale nel campo dell’addestramento di cani e specialisti cinofili impegnati
nella ricerca di narcotici, materiale esplosivo, armi e danaro. Ultimato il periodo di istruzione,
le guardie dovranno a loro volta formare in Afghanistan altre unità di specialisti. Il responsabile delle Unità cinofile del Comitato di Controllo Doganale del Ministero delle Finanze kazako
riferisce che quel Centro già addestra guardie da Kirghizstan, Tagikistan, Uzbekistan e Mongolia.
►Il Kazakhstan presta aiuto militare al Tagikistan Sulla base di un accordo bilaterale in materia di cooperazione militare, siglato il 16 dicembre 1999, il Kazakhstan ha fornito gratuitamente al Tagikistan aiuto militare e speciali equipaggiamenti e apparecchiature, utilizzabili dai
reparti chimici, dai servizi logistici, dal genio e da altre armi. Nel giro di pochi giorni, un IL-76
ha effettuato la consegna dei vari dispositivi militari tra Almaty e Dushanbe.
►Rinnovo del contratto di fornitura di carburante alla base di Manas Il 3 novembre il Dipartimento per la Difesa (DoD) americano ha rinnovato per altri cinque anni alla Mina Corp. Ltd.
il contratto per la fornitura di carburante al Centro di transito Manas, nei pressi della capitale
kirghiza Bishkek, in locazione alle Forze Armate statunitensi. Il contratto ha un valore annuo di
315 milioni di dollari per un corrispettivo di 96 milioni di galloni. Il presidente kirghizo, Roza
Otunbaeva, ha espresso disappunto per tale decisione, in quanto il governo sta ancora conducendo un’inchiesta per corruzione sulla società incaricata, richiedendo una sospensione del
contratto finché non saranno concluse tutte le indagini. Secondo la Otunbaeva, il DoD ha ignorato il fatto che le entrate della vendita di carburante alla Mina per il tramite di compagnie locali abbia raggiunto cifre elevatissime, che superano il budget statale, destando fortissimi sospetti di corruzione, e che tracciare il funzionamento di queste compagnie è molto difficile, per
via della riservatezza che copre il servizio. Dal canto loro, sia il DoD che la Mina sostengono
di non essere al corrente di episodi di corruzione da parte dei contractors kirghizi. Intanto, il
Congresso americano ha chiesto al DoD di assicurare trasparenza nei contratti per la fornitura
di carburante. La presidente Otunbaeva ha lanciato una massiccia campagna anticorruzione,
per arginare un fenomeno dilagante nel Kirghizstan, innanzitutto smantellando l’Agenzia Centrale per lo Sviluppo, gli Investimenti e l’Innovazione, fino a qualche mese fa diretta dal figlio
del presidente costretto alla fuga lo scorso aprile 2010. L’Agenzia era stata voluta da Bakiev
proprio per gestire e controllare i flussi finanziari, aiuti e crediti inclusi, provenienti
dall’estero, ivi compresi quelli riguardanti le principali compagnie nazionali nel settore idroe-
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MONITORAGGIO STRATEGICO
lettrico e aurifero. La Otunbaeva ha annunciato l’intenzione di costituire una nuova agenzia di
stato, denominata “Manas”, la quale rileverà il rifornimento di carburante del Centro di transito. Attualmente, il governo kirghizo sta cercando di inserirsi sempre più nel controllo delle
aziende locali legate al rifornimento di carburante, auspicando di passare dal 20% al 50% nel
corso del 2011. Benché nessuno dei partiti vincitori alle elezioni parlamentari del 10 ottobre
2010 risulti essere contrario alla presenza americana nel paese, l’inchiesta sulla corruzione relativa alla fornitura di carburante potrebbe mettere in cattiva luce le attività del Centro di
Transito.
►Riunione capi di governo della CSI Il 19 novembre si è svolta a San Pietroburgo la consueta
riunione dei capi di governo della CSI. Nel corso dei lavori sono stati discussi più di 20 progetti
di documento, orientati allo sviluppo e all’approfondimento della cooperazione negli ambiti economico, umanitario e della sicurezza.
►L’Iran apre un ufficio commerciale in Tagikistan Il 19 novembre è stato inaugurato a Dushanbe, presso l’albergo “Tagikistan”, un ufficio commerciale della Repubblica Islamica
dell’Iran. Gli operatori del settore prevedono un sostanziale incremento dei già buoni scambi
commerciali bilaterali, promuovendo innanzitutto l’esportazione di merci iraniane di elevata
qualità.
►Il ministro della Salute kirghizo ringrazia i membri della SCO (Shanghai Cooperation Organization) Nel corso della riunione dei ministri della Salute dei paesi della SCO, svoltasi il 19
novembre ad Astana, il rappresentante kirghizo, Sabirzhan Abdikarimov, ha ringraziato i membri dell’Organizzazione per l’aiuto fornito alle vittime dei disordini avvenuti dallo scorso giugno 2010 nel sud del paese. In particolare, il ringraziamento è andato alla Federazione Russa,
che ha prestato aiuto umanitario, fornendo specialisti in psicologia e sostegno alle famiglie delle vittime, ed alla Cina che ha soccorso i bambini con cure e riabilitazione.
►Wen Jabao in Russia e Tagikistan Su invito del primo ministro russo Vladimir Putin e di
quello tagiko Akil Akilov, dal 22 al 25 novembre il primo ministro del Consiglio di Stato cinese
Wen Jiabao ha compiuto una visita nei due paesi. Nel corso della tappa a Mosca si è svolto il
15mo incontro bilaterale russo-cinese dei capi di governo, mentre in Tagikistan Wen Jiabao ha
preso parte alla nona riunione dei capi di governo della SCO, che ha avuto luogo a Dushanbe.
►Uno sbocco al mare per l’Uzbekistan? Il 23-24 novembre, il presidente uzbeko Islam Karimov si è recato in visita in Qatar, su invito dello sceicco Hamad bin Khalifa Al Thani. Al centro
dei colloqui il rafforzamento della cooperazione bilaterale, la discussione di questioni di sicurezza regionale, nonché energia e trasporti. La strategia multivettoriale dell’Uzbekistan nelle
relazioni internazionali passa anche attraverso la definizione di corridoi infrastrutturali capaci
di aprire per il paese nuove rotte commerciali, vantaggiose in prospettiva anche per l’intero
spazio centroasiatico. In tal senso vanno letti i progetti di transito regionale annunciati a settembre durante la visita di Karimov al presidente azero Aliev, tesi a rinvigorire le antiche rotte
commerciali della Via della Seta, unitamente a quelli analoghi proposti al presidente turkmeno
Berdymuhammedov nel corso della visita del 20 ottobre 2010. La ricerca di nuove aperture è
comune anche al Turkmenistan, attualmente protagonista di un progetto infrastrutturale nordsud che lo collegherà al Golfo mediante una linea ferroviaria Kazakhstan-Turkmenistan-Iran. E
proprio in Iran ha avuto luogo il 17 novembre un incontro quadrilaterale tra Uzbekistan, Turkmenistan, Iran e Sultanato dell’Oman, nel corso del quale sono stati meglio definiti i tempi e
le modalità per la realizzazione di un corridoio di trasporti e comunicazioni tra i paesi convocati. Oltre che all’esportazione di energia, l’Uzbekistan è interessato ad aprire il commercio
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MONITORAGGIO STRATEGICO
del cotone – di cui è quinto produttore mondiale – a mercati alternativi a quelli occidentali, i
cui acquisti si sono notevolmente ridotti negli ultimi anni.
IL TERZO VERTICE DEI PAESI DEL CASPIO
Il 19 novembre si è svolto a Baku, capitale
dell’Azerbaigian, il terzo vertice dei paesi del
Caspio, al quale hanno partecipato i presidenti di Russia, Kazakhstan, Turkmenistan,
Azerbaigian e Iran. Sul tappeto, l’annosa questione dello status giuridico del bacino unitamente a problemi legati alla sicurezza. A meno di due settimane dal vertice di Astana,
conclusivo della presidenza dell’OSCE tenuta
dal Kazakhstan nel corso del 2010, i lavori di
Baku accendono i riflettori sullo spazio euroasiatico e sull’attivismo dei suoi protagonisti.
Status giuridico e sfruttamento delle risorse
Il vertice dei paesi rivieraschi del mar Caspio
che si è celebrato il 19 novembre a Baku rappresenta il terzo tentativo per cercare una soluzione condivisa ai problemi aperti relativi
alle modalità per lo sfruttamento delle immense risorse del bacino, minerarie e ittiche. Dopo
il primo summit ad Ashgabat nel 2002 e il secondo a Tehran nel 2007, Russia, Iran, Azerbaigian, Kazakhstan e Turkmenistan si sono
nuovamente riuniti per definire le questioni
rimaste aperte dalla disgregazione dell’Unione
Sovietica. Fino ad allora, gli Stati che si affacciavano sul mar Caspio erano solo due, URSS
e Iran; dai primi anni ’90, con l’indipendenza
delle repubbliche ex sovietiche, divennero
cinque e saltarono gli equilibri che fino ad allora avevano regolato i rapporti bilaterali tra
le due sole potenze caspiche. In primo luogo,
è divenuta urgente la questione della definizione delle aree di competenza di ciascuno
Stato, conseguente all’adozione di un criterio
condiviso di spartizione delle acque e dei fondali marini. Fino al 1991 era stato adottato il
principio del “codominio sovietico-iraniano”,
in base al quale, al di là della definizione di
spazi giuridicamente assegnati e sulla scorta
dell’esperienza e dei trattati conclusi tra gli
imperi zarista e persiano prima, e tra URSS e
Iran poi, il Caspio veniva riconosciuto quale
spazio chiuso a terzi e sfruttabile da parte delle sole potenze rivierasche. La comparsa dei
tre nuovi attori avrebbe richiesto di affrontare
la questione della spartizione del mare secondo il diritto internazionale, ma i diversi interessi che la definizione del Caspio come mare
o lago andrebbe a colpire fanno sì che lo sfruttamento delle risorse avvenga ancora sulla base di scelte statali di comodo, non senza creare crisi bilaterali, anche profonde.
Qualora il mar Caspio venisse definito “mare”
in termini legali, secondo la Convenzione del
Diritto del Mare del 1982, dovrebbe essere diviso in settori nazionali di competenza, ovviamente di ampiezza diversa a seconda delle
caratteristiche fisiche di ciascuno stato. Se, al
contrario, lo si definisse giuridicamente come
un “lago” dovrebbe essere diviso in parti uguali tra tutti i rivieraschi. Ovviamente, su tutto gravano questioni di interesse che vanno al
di là del mero dato giuridico. Mentre le repubbliche ex sovietiche spingono per una soluzione che tenga conto della lunghezza delle
coste –che favorirebbe soprattutto il Kazakhstan- l’Iran preferisce una suddivisione in
parti uguali. Inoltre, Iran e Russia, al fine di
non perdere lo storico controllo di acque e
traffici, tendono a sensibilizzare sulle sempre
più urgenti questioni ambientali suscitate da
uno sfruttamento intensivo. In linea di principio si può considerare che la Russia cerchi di
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
ostacolare la creazione di strutture di trasporto
alternative alle proprie per collegarsi alla rete
europea, al fine di mantenere la posizione di
privilegio ereditata dalla dissoluzione della
URSS, conservando così una sorta di monopolio tendenziale delle rotte energetiche,
condiviso in gran parte con l’Iran. Quest’ultimo, che possiede una consistente flotta navale per il trasporto di greggio, è pure incline a
ostacolare la costruzione di pipeline sottomarine che inciderebbero sul primato attualmente
detenuto. Di contro, il Turkmenistan,
l’Azerbaigian e il Kazakhstan rappresentano
al momento potenze energetiche in rapida crescita e contese, quali partner di riferimento da
parte degli attori extraregionali interessati a
partecipare allo sfruttamento delle risorse caspiche.
Il vertice di Baku e gli incontri a latere
Anche il terzo vertice del Caspio si è concluso, come già i precedenti, con un nulla di fatto
relativamente alla questione della definizione
dello status giuridico. L’impressione che se ne
ricava, nonostante l’impegno dichiarato per
cercare una soluzione concordata, è che negli
anni si sia effettivamente raggiunto nello
sfruttamento delle risorse naturali del Caspio
un certo equilibrio ibrido, dettato da capacità,
intraprendenza e potenzialità di ciascuno stato
rivierasco. Anche sulla questione della costruzione di nuove pipeline, osteggiata dalla Russia, che preme per mantenere il tradizionale
controllo delle rotte di distribuzione, sembrerebbe esserci l’interesse di tutti e cinque i rivieraschi sulla proposta del presidente turkmeno Berdymuhammedov di costruire una
pipeline trans caspica che confluisca nella rete
esistente in Azerbaigian. In tal modo, si potrebbero aprire nuove possibilità anche per estensioni delle condutture verso occidente,
proprio mentre il vice primo ministro turkmeno, Baymurad Khojamukhamedov, annuncia,
al rientro ad Ashgabat, che il suo paese è
pronto a rifornire Nabucco (la progettata
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pipeline sostenuta dall’UE) con 40 miliardi di
metri cubi di gas. Il primato di Russia e Iran
resta confermato dai termini dell’Accordo sulla sicurezza siglato al vertice, che preludono a
un rafforzamento della presenza navale sul
Caspio. Certamente la questione della sicurezza è e resta prioritaria, soprattutto relativamente ai traffici illegali che avvengono attraverso quelle acque, ma assume un significato
particolare se l’incremento della presenza navale russa e iraniana viene associato
all’interesse di entrambe a mantenere
l’abituale primato sul Caspio.
A margine dei lavori del vertice, il presidente
russo Medvedev si è incontrato con Nazarbaev, presidente del Kazakhstan, paese con il
quale ha rinsaldato negli ultimi anni già buone
relazioni bilaterali, grazie al varo dell’unione
doganale a tre con la Bielorussia, e con Ahmadinejad. Iran e Russia vantano buone relazioni bilaterali, che, in funzione antiamericana, hanno raggiunto l’apice nel periodo della guerra fredda. Meno brillanti sono stati, invece, gli ultimi sviluppi, alla luce della difficile posizione internazionale goduta dall’Iran a
causa delle proprie ambizioni nucleari. La
Russia, che pure ha partecipato, sotto il controllo dell’AIEA, alla realizzazione dell’impianto di Busher, per la produzione di energia
elettrica, al momento vive una fase di raffreddamento, che secondo alcune dichiarazioni di
Ahmadinejad, sarebbe dovuta ai migliorati
rapporti con gli Stati Uniti. Al vertice del Caspio, comunque, Iran e Russia hanno discusso
dello sviluppo di progetti economici e commerciali che non ricadono nell’ambito delle
sanzioni decise dalla Nazioni Unite. La Russia
si è pure resa protagonista del rilancio della
proposta di costituire una Organizzazione dei
cinque paesi rivieraschi, di possibile realizzazione, secondo Medvedev, comunque solo
dopo che sia stato raggiunto un accordo sulle
questioni primarie.
È stato annunciato che il prossimo vertice si
svolgerà in Russia.
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
Preludio al vertice OSCE di Astana
Il vertice dei paesi del Caspio ha acceso i riflettori sulla regione che ospiterà il primo
summit dell’OSCE dopo quello di Istanbul del
1999. Il Kazakhstan ha fortemente voluto lasciare un segno importante dell’esperienza e
del lavoro svolto nel corso della prima presidenza affidata ad un paese ex sovietico, attraverso la testimonianza del vertice che si svolgerà ad Astana il 1 e 2 dicembre. Si tratta
dell’ultimo atto di un periodo intenso di lavoro che ha rappresentato un considerevole risultato e una preziosa conquista, poiché la fiducia accordata appare essere il riconoscimento internazionale alla complessiva maturazione politica raggiunta dal Kazakhstan e al
completamento di un articolato percorso di
transizione, coronato da un successo non riscontrato in altre realtà uscite dall’esperienza
post sovietica.
Dall’agenda della presidenza kazaka del 2010
emerge con chiarezza un impegno profondo e
articolato su più fronti, primi fra tutti quelli
aperti proprio nello spazio centroasiatico, estremamente urgenti e caratterizzati da una
criticità che va oltre i confini regionali: la
questione afgana, affrontata nella Conferenza
di Kabul del 20 luglio, e la grave crisi kirghiza, che ha impegnato la presidenza fin dal suo
dirompere ai primi di aprile, la proposta di costituire una forza di polizia sotto egida OSCE
da dispiegare in loco a sostegno della stabilizzazione (decisione assunta a Vienna il 22 luglio 2010).
Benché le criticità che attraversano l’Asia
Centrale abbiano necessariamente orientato
l’attività della presidenza kazaka, l’obiettivo
di lasciare un profondo segno nella vita
dell’Organizzazione è stato evidenziato anche
da altre iniziative, quali, ad esempio
l’impegno profuso per la riduzione delle armi
strategiche (statement del ministero degli Esteri kazako per sollecitare un nuovo accordo
tra Stati Uniti e Russia) e per la messa al bando dei test nucleari (Giornata internazionale
contro i test nucleari nel XIX anniversario
della chiusura del poligono nucleare di Semipalatinsk, Astana, 26 agosto 2010).
Sarà senz’altro interessante seguire lo svolgimento del vertice OSCE di Astana e, ancor
più, constatare, nei prossimi mesi, quanto di
questa esperienza il Kazakhstan saprà trasferire in una più matura politica regionale.
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MONITORAGGIO STRATEGICO
Settore Energetico
Gerardo Iovane
Eventi
►Il gas è stato il vero protagonista del mese di novembre. La russa Gazprom ha infatti ripreso
i dialoghi con l’Ucraina e contemporaneamente ha siglato un accordo con la Bulgaria per il
passaggio sul Mar Nero nell’ambito del progetto South Stream. Intanto, la situazione per
l’approvvigionamento italiano sembra non presentare criticità grazie agli stoccaggi e alla riapertura del transito via Svizzera del gasdotto Transitgas che permette il passaggio del gas dal
Nord Europa all’Italia proprio dalla vicina Svizzera.
►Le energie rinnovabili non cedono il passo. Mentre negli USA l’Amministrazione Obama
approva il più grande progetto mondiale per la produzione energetica da fonte solare con un
impianto da mille megawatt, l’Europa non resta a guardare; infatti, in Germania la Siemens
costruirà entro il 2014 un impianto eolico offshore composto da ottanta turbine per 288 megawatt complessivi che fornirà l’energia elettrica per 500.000 famiglie sulle coste tedesche del
Mar del Nord.
►Governance illuminata in Posteitaliane: TLC ed efficienza energetica rappresentano un
ulteriore obiettivo da perseguire per un traguardo raggiungibile da chi sa osare. Con una governance illuminata, Posteitaliane non perde l’occasione per mostrare al Paese come si possa
coniugare cooperazione e competizione ed allo stesso tempo porre in essere iniziative che abbiano attenzione all’ambiente ed all’energia. Così, l’Amministratore Delegato del gruppo Massimo Sarmi, per il tramite dell’azienda Poste Mobile, lancia il primo telefono cellulare costruito
per il 75% con materiali riciclati e funzionante sfruttando l’energia solare. Inoltre, parte dei
ricavi saranno devoluti all’Oasi del WWF ed il costo del telefono sarà rimborsato ai clienti in
traffico telefonico.
►L’Italia verso il nucleare? Il Commissario dell’ENEA Giovanni Lelli ha sottolineato quanto
sia importante in questo momento una stabilità politica, che sia di indirizzo alla creazione e al
rafforzamento di partnership tra il mondo della ricerca e dell’impresa, affinché l’Italia possa
riprendere il cammino del nucleare per la produzione dell’energia elettrica.
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
LA RISCOSSA DEL GAS ARRIVA A FINE ANNO
Mentre il petrolio ha visto una forte variazione dei prezzi nel mese di novembre, oscillando addirittura tra 81 e 87 dollari a barile, possiamo sicuramente affermare che il mese di
novembre è stato la vetrina del gas. Infatti,
all’evento ICV China 2010 – dedicato allo
sviluppo dei veicoli a metano in Cina - è stato
consolidato il dato secondo il quale, ad oggi,
nel paese il parco auto a metano supera i
500.000 veicoli e per il 2012 si punta a raddoppiare tale valore superando il milione di
veicoli. Anche in Italia negli ultimi tre anni si
è avuta una crescita contenuta dell’utilizzo di
veicoli a metano, poiché, come noto, essi sono
meno inquinanti e le norme di sicurezza dettate dall’Unione Europea con la normativa ECE/ONU 67/01 sembrano rassicurare la popolazione. Rimanendo nello scenario internazionale merita menzione anche la notizia proveniente da Kiev circa la joint venture tra
l’azienda ucraina Naftogaz e la russa Gazprom. Il primo ministro ucraino Mykola Azarov ha, infatti, evidenziato che, seppure non
si tratterà di una fusione tra le due aziende,
l’accordo tra le due società ed i due Paesi dovrà essere vantaggioso per entrambi.
La situazione di equilibrio nel contesto del gas
è stata anche manifestata dal fatto che la stessa Gazprom alla fine del mese di ottobre, come dichiarato dal suo portavoce Sergey Kupriyanov, ha soddisfatto la richiesta turca di
circa 50 milioni di metri cubi di gas a fronte
delle interruzioni delle forniture iraniane.
Intanto, il 13 novembre Russia e Bulgaria si
sono incontrate affinché il progetto South
Stream, il gasdotto che trasporterà il gas russo
all’Unione Europea attraverso il Mar Nero,
possa trovare passaggio nel Paese balcanico.
L’obiettivo dell’Unione Europea resta, però,
di aumentare del 20% l’energia da fonti rin-
68
novabili: ciò però sembra non spaventare la
Russia. Infatti, secondo il ministro russo
dell’energia Sergei Shmatko, gli investimenti
per il progetto del South Stream, come ulteriore passaggio verso l’Unione Europea in aggiunta alla via dell’Ucraina, sono necessari
poiché l’importanza del gas russo non è destinata a diminuire anche con l’ingresso delle
rinnovabili. Egli ritiene che l’attuale crisi finanziaria internazionale ed i ritardi nella realizzazione degli impianti permetteranno al gas
russo di giocare un ruolo fondamentale nel
mix energetico al fine di gestire le diverse esigenze dell’Unione Europea e dei singoli Paesi
membri. Intanto, Kiev non è rimasta a guardare. A fine Ottobre lo stesso premier Putin dopo i colloqui con Azarov affermava: “siamo
pronti a proseguire i dialoghi su tutti i temi e
sono sicuro che troveremo sempre soluzioni in
grado di soddisfare entrambe le parti”.
Secondo il Ministro dello Sviluppo Economico Romani e del Presidente dell’Eni Scaroni
non vi è alcuna preoccupazione circa le forniture invernali di gas per l’Italia. Infatti, il Comitato di Emergenza e Monitoraggio del Sistema Gas ha evidenziato come le scorte siano
sufficienti ed il ripristino del gasdotto Transitgas permetterà nuovamente, entro la fine
dell’anno, l’arrivo del gas dal nord Europa attraverso la Svizzera, grazie a un gruppo congiunto di lavoro italo-svizzero.
L’efficienza energetica non cede il passo e
Posteitaliane dà il buon esempio in Italia
Nel 2010, come era prevedibile, non si sono
spenti i riflettori su energie da fonti rinnovabili ed efficienza energetica. Infatti, a fine ottobre l’amministrazione Obama a Washington
ha approvato il più grande progetto mondiale
sulla produzione di energia da fonte solare. Il
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
progetto denominato Blythe Solar Power Project permetterà agli USA di produrre mille
megawatt guidando così lo scenario internazionale nella produzione di energia elettrica
da solare e mettendo tale fonte produttiva al
pari di impianti di gas naturale e di centrali
elettriche tradizionali in termini di capacità
produttiva. Anche sul versante eolico gli sviluppi in ambito internazionale continuano. Infatti, la Germania ha commissionato alla Siemens la realizzazione di 80 turbine eoliche di
grande produzione, con un rotore di 120 metri,
per il parco eolico di Dan Tysk, un impianto
che fornirà energia elettrica per oltre 500.000
famiglie tedesche nel 2014. Con tale ordine la
Siemens diventa leader sul mercato tedesco,
occupando altresì 100 nuove unità ed avendo
anche la manutenzione delle linee elettriche e
di trasmissione che collegano l’impianto offshore con la terraferma. Lo scenario nazionale
è altrettanto ricco di eventi di interesse nel settore dell’efficienza energetica e delle fonti
rinnovabili. Infatti, la sensibilità sul tema è
molto alta tanto che anche il colosso nazionale
Posteitaliane mostra grande attenzione e sensibilità al tema con il PM1005 Eco, il telefono
cellulare ad energia solare costruito per il 75%
con materiale riciclato. Da menzionare è anche l’iniziativa della E.ON Climate & Renewables Italia Solar che ha avviato in Puglia,
Piemonte, Lombardia e Lazio la realizzazione
di quattro impianti fotovoltaici, che forniranno
energia elettrica per 23 milioni di chilowattora
all’anno per soddisfare i consumi di circa
6.500 famiglie. Di interesse è stato anche
l’evento della Borsa Internazionale Ambiente
ed Energia che si è tenuto a Torino ai primi di
novembre. L’iniziativa ha permesso a trentasette aziende delle province di Torino, Cuneo,
Asti e Alessandria di mostrare le loro soluzioni nei settori della bioedilizia, delle energie
rinnovabili, dell’ingegneria, dei reflui urbani
ed industriali, della bonifica e del rumore, ad
una platea che ha visto ospiti di eccellenza tra
cui una rappresentanza della Divisione Ambiente del Comune di Casablanca, per un tota-
le di 14 Paesi, tra cui diverse nazioni europee,
nord africane, Cina e USA. E’ stata inoltre anche ospitata una delegazione coreana del
KIAT (Korean Institute for Advancement of
Technology), l’ente che gestisce i fondi governativi per gli investimenti in ricerca e sviluppo.
Cosa accade sul versante del nucleare in Italia?
Mentre l’Iran conferma che dall’autunno del
2011 sarà in grado di produrre combustibile
nucleare per un reattore di ricerca, suscitando
nuove preoccupazioni nel mondo, in Italia avanzano le attività per la ripresa del nucleare
per la produzione energetica.
Il Commissario dell’ENEA Giovanni Lelli al
Convegno “Ricerca pubblica e imprese: fare
sistema” ha sottolineato quanto sia importante
in questo momento una stabilità politica per il
Paese, in cui è necessario un forte rapporto tra
il mondo della ricerca ed il sistema delle imprese per avanzare in questa nuova sfida, in
cui sicuramente la politica deve giocare il ruolo fondamentale sia normativo e di indirizzo,
ma soprattutto quello di armonizzatore tra le
parti, nell’interesse e nella salvaguardia della
Collettività. Lelli con forza ha affermato che
l’ENEA non intende sottrarsi ai suoi impegni
istituzionali, anzi intende promuovere ulteriormente collaborazioni e cooperazioni di ricerca, difesa e valorizzazione di brevetti e risultati della ricerca immediatamente industrializzabili con la creazione di spin off, consorzi
e società, che vedano coinvolti i principali attori del trasferimento tecnologico, quali istituzioni, università, imprese ed investitori.
“Il piano energetico nazionale ed il ruolo del
nucleare” è stato anche il tema dominante della conferenza organizzata dalla Fondazione La
Malfa. In tale consesso è emerso chiaramente
che mentre nel mondo ci sono 441 reattori nucleari per scopi pacifici e la produzione di energia elettrica, 61 sono in costruzione e 149
sono stati programmati, in Italia la creazione
di quattro centrali nucleari si deve scontrare
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
con una cattiva informazione ed una strumentalizzazione della stessa, che ha fatto riscontrare
un’arretratezza
del
Paese
ed
un’insopportabilità del costo dell’energia elettrica, che per gli italiani è stato del 25-30% in
più rispetto alla media europea.
Wikileaks, la cyberwarfare ed le minacce
per le infrastrutture critiche energetiche
Proprio a fine novembre Julian Assange promotore di wikileaks ha pubblicato notizie di
interesse strategico USA che erano state sottratte al Dipartimento di Stato riguardanti i
principali Capi di Stato, alti dirigenti
dell’ONU ed altro ancora. Si è solo all’inizio,
poiché i file ammonterebbero ad oltre tre milioni. In esso appaiono informazioni sui rapporti tra il Governo italiano e quello russo su
diversi temi tra cui gli investimenti nel settore
energetico. Wikileaks ha posto sul web informazioni circa gli interessi e gli accordi in ambito energetico tra Putin e Berlusconi evidenziando fatti già noti relativamente al progetto
South Stream e l’arrivo del gas in Europa, con
un ruolo strategico dell’Italia. Tali notizie non
possono che essere positive, poiché si tratta di
azioni poste in essere dal Governo nell’interesse del paese, considerato il ruolo
dell’energia nello sviluppo economico di una
nazione. E’ invece da evidenziare come il sistema delle informazioni statunitense abbia
fallito permettendo addirittura il furto di un
archivio di tre milioni di file. Wikileaks quindi deve preoccupare non per il fatto in sé, ma
poiché al giorno d’oggi tutti i sistemi paiono
vulnerabili alle azioni di cyber crime emergenti. Esse nascono nel mondo virtuale di
internet, ma hanno un immediato impatto sullo spazio reale. Pertanto, oggi l’hacker o il
cracker di sistemi non solo può portare alla
ribalta informazioni riservate, ma anche assumere il controllo di infrastrutture critiche,
come nel caso dell’intrusione nei sistemi
SCADA iraniani. L’energia può essere erogata solo grazie al funzionamento di tali strutture infotelematiche di comando, controllo ed
70
intelligence; pertanto, sapere la sicurezza internazionale oggi sia messa fortemente in discussione per il furto di notizie rivelate da wikileaks, deve preoccupare le istituzioni, poiché domani potrebbe trattarsi di informazioni
di carattere economico o delle singole persone.
Se un hacker decidesse di attaccare un’infrastruttura energetica, un eventuale esito positivo potrebbe portare addirittura al black out di
un’intera nazione. Risulta necessario porre
una maggiore attenzione sulla protezione delle
infrastrutture critiche, prime fra tutte quelle
energetiche, poiché oggi non vi e’ più una netta distinzione tra cyberspace e spazio fisico
reale, dove normalmente spendiamo le nostre
azioni. I terroristi dei nostri tempi potrebbero
non avere la necessità di farsi esplodere su un
autobus per porre in essere un attentato, ma
potrebbero invece essere innanzi al loro personal computer e comandare a distanza una
centrale energetica, elettrica o nucleare. Si
comprende allora che proprio adesso che in
Italia si sta ripartendo sul tema del nucleare,
risulta necessario affrontare con immediatezza
il tema della protezione delle infrastrutture
critiche, poiché se l’Italia ad oggi non rappresenta un obiettivo particolarmente sensibile
dal punto di vista del cyber terrorismo è altrettanto evidente che gli investimenti sul gas
precedentemente citati o quelli sul nucleare
forniranno anche al paese una maggiore visibilità ed esposizione ad attacchi di cyber terroristi. E’ auspicabile, pertanto, che in Italia
oltre ai tavoli di lavoro e osservazione sul fenomeno si creino reali strutture con specifiche
competenze nel settore Protezione Informatica
e Sistemistica delle Infrastrutture Critiche, a
tutela della rete energetica, elettrica, idrica,
sanitaria, dei trasporti, oltre ovviamente a
quelle governative e ministeriali, fino ad arrivare a quelle della private economy, delle aziende e del cittadino. Una rete, quindi, fortemente capillare e distribuita sul territorio in
grado di migliorare e meglio articolare il tema
della sicurezza territoriale e delle infrastrutture.
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
Organizzazioni Internazionali
Valerio Bosco
Eventi
►Il 4 novembre il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, in occasione della sua visita di
Stato a Nuova Delhi, si è espresso in favore dell’ingresso dell’India in Consiglio di Sicurezza
(CdS) come nuovo membro permanente. Obama ha sottolineato come la recente elezione
dell’India in qualità di nuovo membro non permanente del Consiglio per il biennio 2011-2012
offra l’opportunità per il rafforzamento della partnership globale tra Washington e Nuova Delhi in materia di sicurezza e mantenimento della pace internazionale.
►L’11 novembre la terza commissione dell’Assemblea Generale dell’ONU (AG) ha approvato, per la terza volta in quattro anni, una risoluzione sulla moratoria universale della pena di
morte. La risoluzione, approvata con 107 voti a favore, 38 contrari e 36 astensioni, chiede agli
Stati membri di restringere il ricorso alla pena capitale e ridurre il numero di reati per i quali
possa essere applicata.
►Il 12 novembre la nona sessione dello Human Rights Council (HRC) ha esaminato la performance degli Stati Uniti in materia di rispetto dei diritti umani nel quadro della Universal
Periodic Review. La sessione ha discusso un articolato pacchetto di raccomandazioni le quali
richiedono a Washington – che ha accettato di far parte del Consiglio archiviando il precedente
veto dell’Amministrazione Bush - di procedere alla ratifica di convenzioni internazionali
tutt’ora in discussione presso il Senato Americano (la convenzione per l’abolizione di tutte le
forme di discriminazione contro le donne, la convenzione sui diritti delle persone disabili, etc),
di procedere all’introduzione della moratoria sulla pena di morte, di combattere la discriminazione sociale e razziale, di difendere i diritti degli immigrati. Il pacchetto di raccomandazioni
includeva inoltre ripetuti inviti alla repressione delle violazioni dei diritti umani con riferimento
alle missioni militari in Iraq e in Afghanistan e alle politiche anti-terrorismo di Washington.
Pur biasimando la natura strumentale di tali critiche, la delegazione americana a Ginevra ha
sottolineato la propria volontà di partecipare in modo costruttivo ai lavori dello HRC, annunciando l’avvio di un processo di consultazione tra tutte le agenzie del governo federale sul contenuto e l’applicazione delle 228 raccomandazioni indicate nel rapporto. La delegazione americana, ricordando la repressione degli abusi compiuti in Iraq e Afghanistan e l’imminente
chiusura delle prigioni di Guntanamo, ha sottolineato altresì i progressi compiuti
dall’Amministrazione Obama nella difesa del diritto alla salute - mediante la riforma
dell’assistenza sanitaria – e nella tutela degli immigrati. La delegazione ha inoltre ricordato
come solo negli ultimi cinque anni gli Stati Uniti abbiano regolarizzato oltre 5 milioni di nuovi
“permanent residents”, naturalizzando 4 milioni di persone e concedendo ospitalità a mezzo
milione di rifugiati politici.
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Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
►Il 16 novembre un meeting dei ministri degli Esteri del Consiglio di Sicurezza ha discusso
la situazione in Sudan con specifico riferimento all’imminente referendum per
l’autodeterminazione del Sud del Paese. In particolare, il meeting ha visto la partecipazione
del Segretario di Stato Americano, Hillary Clinton, e del Segretario di Stato britannico per gli
Affari Esteri e del Commonwealth, William Hague. Il Segretario Generale Ban Ki-Moon, sottolineando come il referendum abbia la potenzialità di cambiare il futuro del Paese e inviare
“shockwaves” nella regione, ha invitato le parti a riconoscere la persistente validità della “visione del Sudan” indicata dai Comprehensive Peace Agreeement (CPA). A conclusione del dibattito, il CdS ha approvato una dichiarazione presidenziale che ribadisce l’invito alle parti ad
assicurare l’integrale applicazione dei CPA, nonché a risolvere in maniera pacifica le questioni
post-referendarie “including borders, security, citizenship, debt, assets, currency and natural
resource”. Le parti sono state infine incoraggiate a mantenere un clima di pace ed assicurare
che “i diritti, la sicurezza e le proprietà di tutti i cittadini del Sudan, “including southerners in
the North and northerners in the South”, siano rispettati a prescindere dal risultato della consultazione referendaria.
►Il 18 novembre il CdS ha adottatto la risoluzione 1948 che prolunga per un anno il mandato della European Union Stabilization Force (EUFOR) incaricata di assicurare il rispetto degli accordi di pace di Dayton.
Il 20 novembre il SG dell’ONU ha partecipato al meeting della NATO sull’Afghanistan svoltosi a Lisbona. Ban Ki Moon ha manifestato apprezzamento per la firma della dichiarazione di
Lisbona e la formalizzazione della partnership tra NATO e Afghanistan. Il Segretario Generale
ha sottolineato come la ricerca di una soluzione politica alla difficile transizione in corso nel
Paese sarebbe solo “allo stadio iniziale”: tale processo, secondo Ban Ki-Moon, sarebbe altresì
desinato ad essere costellato di incertezze, progressi e improvvisi “setbacks”.
LA PROTEZIONE DEI CIVILI NEI CONFLITTI ARMATI
Come era già stato anticipato nel corso dei
numeri precedenti, il Consiglio di Sicurezza
dell’ONU ha rilanciato con vigore la sua attenzione alla questione alla protezione dei civili nei conflitti armati. Nelle ultime settimane, il gruppo di lavoro informale del Consiglio si è riunito diverse volte per discutere la
questione della protezione dei civili in relazione ai rinnovi dei mandati della forza ibrida
ONU-Unione Africana in Darfur (UNAMID),
della missione ONU in Iraq (UNAMI) e della
forza di stabilizzazione internazionale in Afghanistan, ISAF1. In particolare, lo scorso 22
novembre, il CdS ha dedicato un’intera giornata all’esame del nuovo rapporto del Segre-
72
tario Generale sulla protezione dei civili nei
conflitti armati. Il dibattito ha rappresentato
un’occasione preziosa per valutare le difficoltà riscontrate nell’implementazione della risoluzione 1894, ad un anno dalla sua approvazione 2.
Il rapporto di Ban Ki-Moon
Il nuovo rapporto del SG sulla protezione dei
civili nei conflitti armati, pubblicato lo scorso
11 novembre, ha fornito un quadro ancora
preoccupante sul tema. Secondo il SG, la popolazione civile, obiettivo mirato di attacchi o
vittima accidentale dell’uso della forza, continua ad essere gravemente afflitta dalla violen-
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
za dei conflitti armati. Secondo il rapporto,
nel recente passato, la proliferazione e frammentazione di “gruppi armati non statali” “Non State armed groups” - in Paesi come
Afghanistan, Pakistan, Somalia, Repubblica
Democratica del Congo (RDC), Sudan e Yemen - avrebbe causato una crescita esponenziale del numero di vittime civili, conseguenza di un nuovo trend che ha visto tali gruppi
ricorrere in maniera intensiva a strategie apertamente contrarie al diritto internazionale come unica soluzione per risolvere il problema
della loro inferiorità militare. Secondo i dati
riportati dall’United Nations Mission in Afghanistan, nel solo 2009, oltre 6mila civili sono stati uccisi; nella prima metà del 2010 sono
stati documentati più di 3200 feriti tra i civili.
Nonostante la crescita del numero di vittime
per effetto degli attacchi aerei condotti dalle
forze ISAF, il 75% dei morti e feriti dell’anno
in corso sono ancora il risultato dell’azione
militare dei gruppi talebani o antigovernativi.
Mentre il SG ricorda come attacchi contro le
popolazione e innumerevoli episodi di violenza continuino a segnare la situazione nelle
province orientali del Kivu, in RDC, in relazione alla Somalia, secondo i dati forniti da
Médecines Sans Frontières, dei 3000 pazienti
curati dai medici dell’Organizzazione nella
prima metà del 2010, ben il 48% è stato vittima di “war-related injuries”. Secondo la forza ONU-Unione Africana in Darfur, le vittime
civili nella regione orientale del Sudan nei
primi 6 mesi del 2010 avrebbero sfiorato le
mille unità3. Nonostante le cifre indicate, il
rapporto ha sottolineato l’importanza degli
sviluppi positivi emersi a livello “normativo”:
in particolare, l’entrata in vigore della convenzione internazionale sulle “cluster munitions”, l’adozione da parte dell’Unione Africana di una convenzione continentale sulla
protezione e assistenza degli sfollati – uno degli strumenti giuridici più avanzati in materia
– l’adozione del documento di Montreux sul
tema dell’applicazione del diritto internazionale rispetto all’operato delle compagnie mili-
tari private, l’avvio di uno studio da parte dello Human Rights Council sulla possibilità di
definire un trattato internazionale sulla regolamentazione e monitoraggio dei private contractors 4. Non possono del resto essere dimenticati i continui appelli del CdS ad assicurare l’inclusione di una precisa dimensione
umanitaria nei mandati delle missioni di pace
dell’ONU. Il rapporto ha dedicato particolare
attenzione alle cinque difficoltà, indicate nel
2008 da Ban Ki-Moon 5, in materia di protezione dei civili nei conflitti armati: i) la necessità che le parti dei conflitti accrescano il loro
grado di rispetto e conformità al diritto internazionale; ii) il rispetto del diritto internazionale da parte dei non-State armed groups; iii)
il rafforzamento del mandato delle operazioni
di pace dell’ONU in materia di protezione dei
civili; iv) la promozione di un migliore accesso all’assistenza umanitaria; v) la promozione
di meccanismi capaci di identificare e perseguire i responsabili delle violazioni del diritto
internazionale umanitario. Su ciascuno di questi temi, il SG ha formulato precise raccomandazioni. Mentre con riferimento al rispetto del
diritto internazionale da parte degli attori/protagonisti dei conflitti Ban Ki-Moon ha
suggerito di considerare scrupolosamente il
costo umano del ricorso alle armi esplosive, in
relazione alla condotta dei non-State armed
groups, il SG ha notato come in tutte le situazioni di conflitto – dall’Afghanistan alla Colombia, dalla RDC ai territori palestinesi, dalla Somalia all’Uganda o al Sudan –
“l’esperienza dimostri che molte vite possono
essere salvate attraverso una politica di
engagement – ovvero di dialogo – con i gruppi armati, fondamentali per richiedere ed ottenere il rispetto del diritto internazionale
umanitario” 6. Il SG ha fatto riferimento alle
politiche e alle legislazioni adottate da alcuni
Stati membri che introducono pesanti limiti
allo svolgimento di operazioni di assistenza
umanitaria in aree controllate da gruppi e movimenti armati “politicamente squalificati”,
come nel caso di Al-Shabab in Somalia e Ha-
73
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
mas nella striscia di Gaza. In relazione alla
situazione della Somalia è stato ricordato come diversi donatori abbiano adottato legislazioni che definiscono precisi limiti al finanziamento di organizzazioni umanitarie che
operano in aree controllate da Al-Shabab; altrettanto drammatica sarebbe la situazione a
Gaza dove i limiti ai contatti con Hamas rischierebbero di impedire l’accesso della popolazione della striscia all’assistenza umanitaria.
Pur mostrando consapevolezza e rispetto di
fronte all’esistenza di orientamenti diversi sul
tema all’interno del CdS, il SG ha ricordato
l’invito operato dalle organizzazioni umanitarie sulla necessità del dialogo con i gruppi armati, soluzione pragmatica rispetto alla necessità fondamentale di assicurare un sicuro ed
efficace accesso all’assistenza e agli aiuti da
parte delle popolazioni in difficoltà. Per tale
motivo, Ban Ki Moon ha invitato gli Stati
membri a considerare con estrema attenzione
l’ipotesi di adottare misure politiche tese ad
impedire o criminalizzare “the engagement
with non-State armed groups” e a valutarne
con realismo e sensibilità le conseguenze umanitarie. Oltre a raccomandare l’inclusione
di precisi “benchmarks” nella protezione dei
civili nel contesto di processi di ridimensionamento delle forze di pace, in materia di
“humanitarian access e accountability”, il
CdS è stato invitato ad adottare un atteggiamento più fermo nella repressione delle azioni
di deliberato impedimento dell’accesso
all’assistenza umanitaria, disponendo cioè il
deferimento di tali situazioni al giudizio della
Corte Penale Internazionale e stabilendo altresì un dialogo istituzionale con l’Emergency
Relief Coordinator, incaricato di sottoporre
all’attenzione del palazzo di vetro episodi di
tale natura.
Il dibattito in Consiglio e la dichiarazione
presidenziale
Il dibattito del 23 novembre ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Valerie Amos, nuovo
74
Under-Secretary-General for Humanitarian
Affairs and Emergency Relief Coordinator,
Navy Pillay, Alto Commissario ONU per i diritti umani, Yves Daccord, direttore generale
del Comitato Internazionale della Croce Rossa
ed Alain Le Roy, capo del Dipartimento delle
operazioni di pace delle Nazioni Unite. Organizzato dalla delegazione austriaca alle Nazioni Unite, che ha fatto della protezione dei
civili nei conflitti armati un tema centrale del
suo mandato in Consiglio, il dibattito ha visto
la partecipazione di oltre 40 Stati membri.
Gran parte dei membri del Consiglio, pur con
diverse sfumature, si sono dichiarati piuttosto
soddisfatti dei progressi ottenuti “sul campo”
nell’assicurare, in situazioni conflittuali o
post-conflittuali, protezione e accesso
all’assistenza umanitaria da parte della popolazione civile. Molti Stati membri hanno apprezzato la formulazione di un preciso concetto operativo in materia sviluppato dal dipartimento di operazioni di pace dell’ONU e destinato ad essere progressivamente integrato
in tutte le missioni di peacekeeping; diversi
Paesi dell’Unione Africana e dell’Unione Europea hanno ricordato come le rispettive Organizzazioni abbiano adottato una medesima
iniziativa in relazione alle operazioni di gestione delle crisi da esse condotte. Molti sono
stati i riferimenti ai progressi registrati in Sudan con la creazione di un inter-agency
working group coordinato dalla UN Mission
in Sudan, UNMIS, chiamato a raccogliere informazioni sull’accesso all’assistenza umanitaria e risolverne eventuali impedimenti; allo
stesso modo, la crescita della cooperazione tra
componenti militare, civile e di polizia
all’interno degli joint protection team creati
dalla missione ONU in RDC (MONUSCO)
sembra aver creato le condizioni per un efficace monitoraggio delle situazioni suscettibili
di arrecare minacce alla sicurezza della popolazione civile e all’accesso agli aiuti7. Al termine del dibattito, il Consiglio ha ribadito la
propria preoccupazione per il fatto che la po-
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
polazione civile continui ad essere la più colpita dai conflitti anche come risultato di “deliberate targeting”, attacchi indiscriminati e
sproporzionati, ricordando altresì come gli
Stati membri conservino una responsabilità
primaria (“primary responsibility to protect”)
nella protezione della popolazione e
nell’assicurare il rispetto dei diritti umani di
tutti i cittadini e gli individui “within their territories” 8. Il Consiglio ha del resto dichiarato
l’urgenza di porre fine a tutte le forme di violenza e intimidazioni condotte contro il personale umanitario, sottolineando l’urgenza di
garantire una diffusione efficace dell’informazione relativa alla dimensione umanitaria del
mandato delle missioni ONU all’interno di
tutti i livelli della catena di comando delle operazioni condotte dai caschi blu. Il Consiglio
ha infine “preso nota” del documento di Montreaux sulla necessità di creare uno strumento
giuridico internazionale che disciplini le attività condotte dai “private contractors” in situazioni di conflitto9.
Prospettive per il rafforzamento della protezione dei civili nei conflitti armati
Il dibattito del 22 settembre e la dichiarazione
presidenziale adottata alla sua conclusione
hanno indubbiamente ancora risentito
dell’estrema delicatezza del tema e le cui implicazioni sollevano controversie di difficile
soluzione, soprattutto all’interno del “circolo
privilegiato” dei membri permanenti. Russia e
Cina, come ormai da tradizione, hanno nuovamente enfatizzato il principio della responsabilità degli stati nel garantire la protezione
della popolazione civile, manifestando scetticismo rispetto all’ipotesi di estendere il focus
del Consiglio a tutte le situazioni di conflitto,
incluse quelle non ufficialmente inserite
nell’agenda del massimo organo del Palazzo
di Vetro. È sulla base di tale impostazione che
Mosca e Pechino hanno negato la partecipazione delle rispettive delegazione al gruppo
(informale) di esperti del Consiglio sulla protezione dei civili, un organo di cui si preferi-
rebbe congelare, al momento, ogni ipotesi di
istituzionalizzazione. Non c’è dubbio che da
parte di Stati Uniti e Gran Bretagna, in particolare, permanga l’ostilità al principio ad
un’apertura incondizionata ai gruppi armati
in nome della tutela dell’accesso sicuro della
popolazione civile all’assistenza umanitaria.
Nondimeno, recenti ricerche, analisi e studi
sui gruppi armati e sugli incentivi per essi esistenti in materia di rispetto del diritto internazionale umanitario sembrano tenere viva la
questione, quasi preconizzando l’emergere di
un nuove politiche e orientamenti più flessibili
sul tema. In particolare, è stato osservato come incentivi di natura militare e politica spesso possano ispirare una condotta rispettosa
del diritto internazionale da parte di tali
gruppi. Mentre dal punto di vista militare il
rispetto delle norme internazionali da una
delle parti in conflitto sembra suggerire spesso comportamenti analoghi da parte di altri
gruppi, dal punto di vista politico l’osservanza del diritto internazionale creerebbe
in molti casi le condizioni per un riconoscimento della legittimità del movimento/organiz-zazione che ha optato per la
“compliance”10. Occorre altresì sottolineare
la positività del pur accennato riferimento della dichiarazione al documento di Montreux, il
quale, assieme all’iniziativa lanciata dal Consiglio dei diritti umani – la definizione di uno
strumento internazionale chiamato a regolare
l’operato dei private contractors - ha schiuso
le prospettive per il superamento di quel vuoto
giuridico nel quale sono sembrate operare in
taluni casi le compagnie private di sicurezza.
Sulla scia del dibattito dello scorso 22 novembre è comunque lecito prevedere la realizzazione di nuovi progressi. In particolare, la
maggiore interazione dell’Emergency Relief
Coordinator con il Consiglio di Sicurezza
consentirà di portare all’attenzione del Palazzo di Vetro situazioni in cui le operazioni umanitarie sono deliberatamente ostacolate e
suggerire l’adozione di azioni più energiche
da parte del CdS. Nuovi progressi potranno
75
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
indubbiamente emergere sul “field”: la piena
inclusione del mandato della protezione dei
civili nei mandati delle operazioni di pace sarà
presto pienamente operativa. La principale
sfida in tal senso sarà tuttavia rappresentata
dalla capacità di combinare nella pratica il
principio della “presenza uguale protezione”
con il più flessibile approccio della “mobilità
come protezione”, specialmente in teatri operativi con scarse infrastrutture o dove le dimensioni geografiche del conflitto sono troppo estese rispetto al numero dei caschi blu disponibili. Chiave del miglioramento da parte
delle operazioni di pace del monitoraggio sulla situazione dei civili è indubbiamente la
promozione di precise linee direttive in materia di interazione e contatto quotidiano con la
popolazione, risorsa indispensabile per raccogliere informazioni di early warning ed avviare contromisure idonee. Come ricordato dalla
delegazione italiana nel corso del dibattito del
22 novembre, la protezione dei civili da parte
delle missioni di pace dell’ONU si è ormai
imposta come un imperativo morale, il cui rispetto condiziona evidentemente il grado di
credibilità dell’azione dei peacekeepers. Nondimeno, nuove risorse finanziarie e logistiche
dovrebbero essere messe a disposizione
dell’ONU per assicurare che i compiti di protezione affidati ai caschi blu siano svolti con
efficacia. I sofisticati e costosi sistemi di monitoraggio h24 approntati dalla forza ibrida
1
ONU-UA attorno al perimetro dei campi profughi in Darfur sembrano aver contribuito in
maniera decisiva alla riduzione del numero di
attacchi contro la popolazione civile. Progressi importanti potrebbero infine riguardare il
tema dell’accertamento delle responsabilità
per le violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani. La creazione di
un panel di esperti incaricati di consigliare il
Segretario Generale sulla repressioni delle
violazioni commesse nel corso del recente
conflitto in Sri-Lanka è destinata ad ispirare
medesime iniziative in futuro. Già da qualche
mese è sembrata del resto consolidarsi non solo la pratica delle pubbliche scuse per gli attacchi involontari compiuti contro la popolazione civile, ma anche quella relativa ai pagamenti di cospicue indennità alla famiglie e
alle comunità coinvolte. Assieme alla repressione delle suddette violazioni, la riparazione
può indubbiamente giocare un ruolo al contempo deterrente e “restauratore”. In questo
senso, la decisione della NATO, adottata lo
scorso giugno, di definire un articolato pacchetto di guidelines sull’esecuzione di atti riparatori rispetto ai danni e alle sofferenze causate alla popolazione civile, miranti peraltro
ad assicurare “onestà e sensibilità nei confronti delle vittime”, potrebbe favorire lo sviluppo di nuove importanti iniziative in materia11.
Cfr: UN Security Council Report, Protection of Civilians, November 2010, consultabile sul sito
www.securitycouncilreport.org, ultimo accesso 23 novembre 2010.
2
United Nations Security Council Resolution, S/RES/1894/2009, 11 November 2009. Cfr Valerio Bosco,
Organizzazioni Internazionali-ONU, sezione eventi, in Osservatorio Strategico, novembre 2009.
3
United Nations, Security Council, Report of the Secretary-General on the protection of civilians in
armed conflict, 11 November 2010, S/2010/579.
4
Il 17 settembre 2008, 17 Paesi – Afghanistan, Angola, Australia, Austria, Canada, Francia, Germania,
Iraq, Polonia, Sierra Leone, Sud Africa, Svezia, Svizzera, Gran Bretagna, Ucraina e Stati Uniti – trovarono l’accordo su un documento relativo ad uno schema di regolamentazione internazionale e di good practices per gli Stati in relazione alle attività delle compagnie militari e di sicurezza private, “private contractors”, in situazioni di conflitti armati (documento di Montreux).
5
United Nations Security Council, Report of the Secretary-General on the protection of civilians in
armed conflict, 29 May 2009, S/2010/579.
76
Anno XII – n°11 novembre 2010
MONITORAGGIO STRATEGICO
6
Cfr. Report of the Secretary-General, 11 November 2010, S/2010/579, cit. , pag. 11-12.
United Nations Security Council, PV/6427th meeting, 22 November 2010.
8
United Nations Security Council, Presidential Statement, S/PRST/2010/25.
9
United Nations, Department of Public Information, United Nations Security Council, “In Presidential
Statement Security Council Reaffirms Committment to Protection of Civilians in Armed Conflict”, 22 November 2010, 6427th meeting, SC/ 10089.
10
Geneva Academy of International Humanitarian Law and Human Rights, “Armed non State actors and
international norms: towards a better protection of civilians in armed conflicts”, consultabile sul sito:
www.adh-geneve.ch/pdfs/armednonstateactors.pdf, ultimo accesso 22 novembre 2010. Di particolare interesse lo Special Report “Mediating Peace with Proscribed Armed Groups”, pubblicato dall’ United States Institute for Peace (Véronique Dudoet), nel quale si suggerisce l’avvio di politiche più flessibili nel
inclusione/rimozione di gruppi armati in “liste nere” (“listing/de-listing) alfine di favorire nuovi approcci
alle soluzioni delle crisi e risolvere questioni legate alla protezione dei civili e alla tutela delle vittime dei
conflitti armati.
11
Cfr su questo: NATO Nations Approve Civilian Casualties Guidelines, 6 August 2010, consultabile sul
sito www. nato.int/cps/en/SID-9D98832-42250361/natolive/official_texts_65114.htm, ultimo accesso 22
novembre 2010.
7
77
Anno XII – n°11 novembre 2010
SOTTO LA LENTE
LE NUOVE MINACCE DEL TERRORISMO INTERNAZIONALE: AL QAEDA TRA LO SVILUPPO DI
ARMI NON CONVENZIONALI E L’UTILIZZO DEI TERRORISTI HOME GROWN
di Laura Quadarella
Premessa
A quasi dieci anni dagli attentati dell’11
settembre è lecito interrogarsi su quali siano le
reali minacce che il terrorismo islamico
potrebbe portare all’Occidente nel prossimo
futuro. Se è infatti indubbio che dopo la
reazione agli attacchi del 2001 Al Qaeda
abbia cambiato la sua struttura e il suo modus
operandi, risulta interessante analizzare tali
cambiamenti per comprendere quali siano ora
i suoi obiettivi ed in che modo intenda
perseguirli.
Come noto, l’evoluzione delle modalità
operative
utilizzate
dal
terrorismo
internazionale nella seconda metà del XX
secolo, fece ipotizzare negli anni Novanta un
ulteriore passo in avanti del terrorismo,
mediante l’utilizzo di armi di distruzione di
massa.
L’11 settembre 2001 il terrorismo internazionale ha invece dimostrato di essere
capace di provocare migliaia di morti anche
usando armi già conosciute, semplicemente
facendone un uso diverso: senza dover
neppure ricorrere ad armi di distruzione di
massa, ha infatti colpito l’intera Comunità
internazionale in un modo tale che nessuno
aveva potuto non solo prevedere, ma neanche
immaginare, ed ha cambiato per sempre il
modo con il quale dobbiamo confrontarci con
esso. Ancorché abbia fatto tecnicamente
ricorso alla fusione di modalità operative già
conosciute: il dirottamento aereo e gli attacchi
suicidi, si tratta comunque di un terrorismo
internazionale completamente nuovo. Un
terrorismo che, in primo luogo, è divenuto
globale e non mira più con i suoi atti ad
attirare l’attenzione dell’opinione pubblica su
una determinata causa, ma ad uccidere il
maggior numero possibile di persone, a
terrorizzarne milioni di altre ed a causare
ingenti danni economici. In secondo luogo, un
terrorismo che intende attaccare tutti gli Stati
occidentali, perché mira a distruggere quella
Comunità internazionale che essi rappresentano e che non rispetterebbe i suoi
fanatici e deliranti ideali, che mira a sovvertire
lo status quo ed a cancellare quei principi di
democrazia, pace e rispetto dei diritti umani
che sono alla base dell’attuale Comunità
internazionale. Infine, un terrorismo che è
riuscito a colpire migliaia di persone con
attacchi suicidi condotti nel rispetto di un
progetto politico unitario, elaborato da un c.d.
non – State actor. Al Qaeda, è una potente
organizzazione che dopo la risposa militare
dell’Occidente ha saputo in questi anni
adattarsi dando vita ad un radicalismo
islamico che, pur riconoscendo ancora
centralità ai vertici di Al Qaeda, si è ora variamente ramificato.
L’attuale struttura di Al Qaeda
In prima approssimazione, è possibile dire che
sia corretto attribuire l’etichetta “Al Qaeda”
all’organizzazione vera e propria di Bin Laden
ed ad alcuni gruppi jihadisti ad essa collegati,
e naturalmente alle cellule che l’una e gli altri
hanno sparse in Occidente, ma non invece alle
decine di gruppi che si rifanno all’ideologia
definita da Bin Laden.
Al Qaeda è infatti oggi un fenomeno a più
strati, o meglio a cerchi concentrici, in cui il
nucleo centrale, c.d. Al Qaeda Core, continua
ad essere l’organizzazione con sede tra
Afghanistan e Pakistan (recentemente soprat-
79
Anno XII – n°11 novembre 2010
SOTTO LA LENTE
tutto in Pakistan grazie alla presenza militare
NATO nel territorio afghano), direttamente
controllata ancor’oggi da Bin Laden e dagli
altri leader storici.
Accanto a questo nucleo si trova l’anello dei
gruppi terroristici che potremmo definire
affiliati, che sono stati ufficialmente riconosciuti dai leader di Al Qaeda Core e, seppur
con adattamenti dovuti al contesto regionale
in cui operano, condividono totalmente ideologia e sistemi operativi. Ancorché ogni
gruppo affiliato disponga di proprie basi
addestrative, e sia in grado di fare opera di
reclutamento e di raccolta fondi, è indubbio il
legame con il nucleo centrale dell’organizzazione, sotto la cui direzione continuano di
fatto ad operare.
Vi è poi un terzo livello, definibile “esterno”,
composto da gruppi islamici minori e da
cellule più o meno grandi che, pur sempre con
l’obiettivo della jihad, operano autonomamente, ed anche quando al loro interno si
trovano individui che hanno seguito corsi di
addestramento nei campi di Al Qaeda, non
hanno né il riconoscimento dell’organizzazione centrale, né il suo sostegno. Ancor più
difficili da monitorare, sono gruppi comunque
non in grado di pianificare né condurre a
termine attacchi su larga scala: le cellule
senza leadership con forti legami con Al
Qaeda sono meno pericolose, normalmente
non in grado di pianificare attacchi importanti
e tendono a sciogliersi più facilmente.
Tra gli elementi più significativi che si sono
sviluppati in questi anni ritroviamo la presenza, soprattutto nei gruppi estremisti islamici
minori, dei c.d. fondamentalisti home grown,
che vivono in Occidente da anni, se non
addirittura dalla nascita, e che facilmente
dopo brevi soggiorni nei campi di addestramento di Al Qaeda o addirittura utilizzando
semplici manuali scaricabili da siti internet si
trasformano in self made terrorists, che vanno
alla ricerca del martirio per colpire le strutture
presso le quali non sono riusciti ad integrarsi.
80
Si tratta pertanto di individui difficili da
individuare, apparentemente insospettabili,
che per anni hanno magari condotto una vita
irreprensibile, e poi manifestano un malessere che spesso sfugge anche alle persone con
cui hanno i legami più stretti. Si tratta di
individui che, a differenza dei membri di Al
Qaeda, non vogliono instaurare la legge
islamica, ma semplicemente colpire gli
occidentali.
Al Qaeda e l’utilizzo di armi non
convenzionali
Anche alla luce dell’attuale struttura di Al
Qaeda e dei gruppi a vario titolo ad essa
legati, ci si può chiedere quali siano i possibili
sviluppi del terrorismo internazionale, quali i
suoi obiettivi e quali le modalità operative
utilizzate per raggiungerli. Siamo forse vicini
a quell’ulteriore passo in avanti del terrorismo
mediante l’utilizzo di armi di distruzione di
massa ipotizzato alla fine dello scorso secolo
e ritenuto prossimo nel primi anni del nuovo
millennio a tal punto da invadere l’Iraq? Stato
che, pur notoriamente colpevole di numerosi
crimini contro l’umanità ai danni di proprie
minoranze, si dimostrò poi non solo privo di
legami con Al Qaeda, ma anche di quelle armi
di distruzione di massa che alcuni Stati
occidentali credevano possedesse e fosse
intenzionato a passargli.
Si deve tener presente che il possesso di armi
non convenzionali offre sicuramente ad
un’organizzazione internazionale enorme
potenzialità, sia operativa, per l’elevato
numero di persone che permette di colpire
contemporaneamente, sia mediatica per la
forza terrorizzante che può avere una tale
minaccia; forza terrorizzante che consente di
per sé di raggiungere comunque l’obiettivo
del terrorismo internazionale, indipendentemente dall’eventuale messa in pratica e
riuscita dell’attentato.
Al riguardo, Al Qaeda è sicuramente da
decenni interessata allo sviluppo di tali armi,
Anno XII – n°11 novembre 2010
SOTTO LA LENTE
ma l’intervento militare in Afghanistan e
l’indubbia difficoltà di sviluppo e utilizzo
rende tuttavia non primaria la loro
realizzazione anche perché, come già rilevato,
la sola minaccia basta a generare quel clima di
terrore, che è suo obiettivo ultimo.
Quanto invece al reale interesse allo sviluppo
di tali armi, risulta comunque doveroso
analizzare distintamente le quattro tipologie
che rientrano sotto tale definizione. Nello
specifico, infatti, si ritiene poco probabile che
nei prossimi anni Al Qaeda possieda e utilizzi
armi biologiche e nucleari, mentre si deve
guardare alle armi chimiche e radiologiche
come scenario possibile, ancorché non molto
probabile.
L’utilizzo di armi biologiche, ovvero il
rilascio di virus, batteri o altri agenti tossici,
sarebbe infatti da escludere per l’alta difficoltà
nel maneggiare tali armi, mentre le armi
nucleari sono fortunatamente ancora al di là
delle capacità delle organizzazioni terroriste,
salvo che non trovino l’appoggio di taluni
Stati o che riescano a sfruttare il vuoto di
potere derivante da un loro eventuale collasso.
Sicuramente alla portata del terrorismo
islamico entro pochi anni potrebbero invece
essere le armi chimiche e quelle radiologiche.
Le prime sono sicuramente le più facili da
utilizzare, sia sotto l’aspetto della loro produzione che della loro dispersione. Si tratta
ovviamente di armi più complesse e delicate,
ma che potrebbero venire nella disponibilità di
Al Qaeda entro qualche anno, anche mediante
l’acquisto di materiale radioattivo quali le
scorie.
Il terrorismo aereo e gli home grown
terrorists quale maggiore minaccia nell’immediato futuro
Analizzata l’attuale struttura di Al Qaeda e
l’interesse reale che questa nutre per le varie
tipologie di armi non convenzionali, è quindi
da ritenere che non ci sarà nel breve periodo
la paventata escalation verso l’utilizzo di armi
di distruzione di massa.
Quale sarà allora il prossimo passo che potrà
compiere il terrorismo islamico nella sua
evoluzione?
Difficile fornire una risposta certa a tale
domanda, ma la maggiore minaccia proveniente dal terrorismo islamico alqaedista
continuerà probabilmente a manifestarsi con
le stesse modalità operative già utilizzate nel
corso della seconda parte del XX secolo,
magari combinate e/o riadattate in vario
modo. Si pensi ad esempio ai numerosi recenti
attacchi che il terrorismo internazionale
islamico ha tentato di condurre a termine
mediante l’utilizzo del mezzo aereo, con
complotti che, seppur fortunatamente falliti
e/o scoperti per tempo, hanno di fatto tenuto
costante il livello di paura e di insicurezza
dell’Occidente costringendo di volta in volta
ad adottare misure di sicurezza che hanno
sensibilmente modificato i nostri comportamenti. Come sappiamo il fallito attentato
del c.d. “terrorista delle scarpe” del dicembre
2001 portò a più severi controlli al momento
dell’imbarco, mentre il piano che nell’agosto
2006 che avrebbe dovuto far saltare con
utilizzo di esplosivo liquido vari aerei su rotte
transatlantiche ha condotto alle restrizioni
relative alle quantità di liquidi trasportabili in
cabina. Analogamente la nuova modalità
utilizzata nell’attacco del Natale dello scorso
anno con esplosivo accuratamente nascosto
negli indumenti intimi sta portando nuove
risposte da parte delle Autorità dei Paesi
occidentali, che per garantire la sicurezza
aerea, modificheranno per l’ennesima volta, le
nostre abitudini con la possibile introduzione
di body scanner negli aeroporti e nuove forme
di schedatura e controllo dei c.d. dati
biometrici. Infine, la recentissima scoperta di
pacchi bomba spediti per mezzo aereo dallo
Yemen comporterà restrizioni anche nel
trasporto merci, con maggiori controlli dei
voli cargo e, probabilmente, il divieto di
trasportare merci in quelli di linea.
Il maggior rischio, comunque, viene oggi da
attacchi coordinati, che facendo uso delle
81
Anno XII – n°11 novembre 2010
SOTTO LA LENTE
modalità operative sviluppate dal terrorismo
nel secolo scorso vengono condotti a termine
in un certo senso “dall’interno”, da terroristi
che apparentemente sono integrati nell’attuale
struttura globalizzata dei Paesi occidentali.
Ci si deve riferire agli home grown terrorists
ed a quei terroristi che sono comunque in
grado di apparire integrati nelle società
occidentali al punto da muoversi da un Paese
all’altro e di sembrare a pieno titolo in essi
inseriti. Si tratta di tipologie di terroristi che
non necessariamente sono dei self made
terrorists, ma che talvolta sono invece
direttamente guidati da Al Qaeda, che li utilizza per infiltrarsi in Occidente e poi condurre a
termine attacchi spesso coordinati, anche su
larga scala, pianificati centralmente dai vertici
dell’organizzazione e tesi a colpire contemporaneamente vari punti di una città o,
come il caso degli attacchi progettati nel 2006,
per far esplodere in volo diversi aerei su rotte
transatlantiche.
Il pericolo proveniente dalla diffusione di
riviste alqaediste online
In tale contesto risulta ad esempio quanto mai
pericolosa la diffusione di riviste online che
hanno al contempo il duplice scopo di
diffondere i messaggi di Al Qaeda e far
proseliti, e di addestrare i possibili nuovi
terroristi fornendo loro idee e rudimenti su
tecniche operative.
In particolare, oltre ai numerosi siti in lingua
araba inneggianti alla lotta santa ed al grande
numero di gruppi islamici presenti nei
maggiori social networks, meritano attenzione
riviste come Inspire: magazine in lingua
inglese pubblicato da Al Qaeda in the Arabian
Peninsula con lo scopo di promuovere la
nascita di nuovi terroristi direttamente nei
Paesi occidentali, soprattutto Stati Uniti e
Gran Bretagna. Il nome stesso della rivista ne
82
lascia trasparire lo scopo se pensiamo che,
come spiegato all’inizio della lettera
dell’editore contenuta nel primo numero,
deriva da un versetto del Corano nel quale
Allah – secondo la traduzione inglese
suggerita dall’editore – comanda a Maometto
«And inspire the believers to fight», laddove
inspire sarebbe la traduzione del verbo arabo
ĥariđ che «is an ispiration that saves a person
and guides them towards what is good for
them».
La rivista, il cui primo numero è uscito a
luglio ed il secondo ad ottobre di questo anno,
è opera di quella che è forse oggi (insieme ad
Al Qaeda in the Islamic Magreb) la maggiore
organizzazione affiliata ad Al Qaeda Core. Si
tratta di un gruppo con sede in Yemen che,
nato nel gennaio 2009 dalla fusione di due
precedenti organizzazioni con basi operative
rispettivamente in Yemen e Arabia Saudita, è
da molti ritenuto il gruppo terrorista islamico
più importante al di fuori dell’area
Afghanistan/Pakistan.
Se si leggono i due numeri sinora usciti di tale
rivista si rimane innanzitutto colpiti per i
deliranti messaggi propagandistici in essa
contenuti, che intrisi di versetti coranici e di
altri riferimenti ad Allah e Maometto,
presentano una visione della realtà distorta e
condita da richiami profetici. Il terrorismo è
rappresentato come guerra santa, che altro non
sarebbe se non la giustificata risposta di ogni
buon mussulmano alle atrocità subite dai
propri fratelli. E’ operato un continuo e fin
troppo evidente indottrinamento contro gli
Occidentali (Stati Uniti in primis), che sono
visti come il nemico, il male assoluto, il
tiranno che porta morte e distruzione nei loro
Paesi. Un nemico che si comporta in modo
blasfemo, non rispettando né Allah né il suo
Profeta, e calpestando diritti come quello delle
donne di velarsi integralmente. Un nemico
Anno XII – n°11 novembre 2010
SOTTO LA LENTE
che è tale soprattutto perché è alleato di
Israele, che soffoca il popolo palestinese. In
tale contesto vengono esaltate le azioni
terroriste: sono spiegati e lodati gli attacchi
condotti da Al Qaeda; attacchi che appaiono
talvolta come azioni contro il nemico
Occidente, altre volte come azioni a difesa e
garanzia
delle
popolazioni
islamiche,
raffigurate come vittime in diverse aree
geografiche.
Vi sono inoltre traduzioni in inglese di messaggi dei leader di Al Qaeda e interviste
inedite anche a sedicenti terroristi operanti in
Occidente, che si definiscono orgogliosi del
loro “tradimento”. Come in ogni rivista non
mancano poi rubriche su quelle che potremmo
definire le “notizie dal mondo”, le “lettere dei
lettori” e gli “approfondimenti storici”, con
articoli ed interventi che colpiscono per
l’apparente naturalezza con cui presentano
una realtà distorta e sono esaltate le azioni
terroriste, mentre sono riportate frasi di
importanti personaggi definiti friend and foe,
con commenti volti a lodare i primi e
screditare i secondi. Continue sono le
preghiere, a volte generiche, altre specifiche
con nominativi e foto, per gli “eroi” martiri
della jihad e per tutti quei prigionieri che sono
detenuti nelle carceri occidentali.
Ma se quelle analizzate sinora sono gravi e
potenzialmente pericolose azioni di pura
propaganda e proselitismo, a destare preoccupazione è la possibilità con cui ogni
fanatico può mettere in pratica le istruzioni
recepite. E’ infatti presente in ogni numero
della rivista una sezione con tale scopo, che si
chiama Open Source Jihad ed è esplicitamente definita come una fonte da cui
trarre manuali che consentono di addestrarsi
per la jihad da casa, senza dover partecipare a
corsi di addestramento che comportano rischiosi viaggi.
L’articolo principale di tale sezione contenuto
nel primo numero è un manuale su come
costruire una bomba a casa utilizzando
materie prime semplici da trovare e contiene,
accompagnati da pratiche illustrazioni, tutti i
passaggi che si devono operare fino alla
realizzazione della bomba. Nell’articolo, che
si intitola “Make a bomb in the kitchen of your
Mom” ed è firmato da “The AQ Chef”, si
insegna a costruire bombe artigianali collegate
ad un timer ed i cui effetti sono potenziati
dall’utilizzo di chiodi, partendo da “ingredienti” molto semplici: basti pensare che la
polvere esplosiva è ad esempio ricavata dai
fiammiferi, che, tra l’altro, come è specificato
nell’articolo, non destano sospetti né sono
individuabili dai cani addestrati al riconoscimento degli esplosivi, ma consentono
comunque di uccidere decine di persone dopo
appena un paio di giorni di esperienza/preparazione.
Ancor più preoccupanti per la facilità di
realizzazione sono i suggerimenti contenuti
nell’articolo del numero di ottobre, che invita
ad utilizzare fuoristrada, possibilmente 4 x 4
perché più potenti, per falciare pedoni nemici
di Allah: si spiega come scegliere con cura gli
obiettivi ed i tempi, preferendo isole pedonali
nell’ora di maggior affollamento, se possibile
di portare con se un’arma da usare contro chi
tenta di fermare la corsa del veicolo, e si fa
presente che si tratta di un tipo di operazione
che difficilmente ha un esito finale diverso dal
martirio.
Sempre dal punto di vista operativo, sono
infine inoltre presenti in entrambi i numeri
sofisticate istruzioni per la sicurezza nello
scambio di informazioni, contenute in una
rubrica che mira alla “sicurezza delle informazioni”, con accurate spiegazioni su
come utilizzare alcuni software, creare una
chiave, e procedere poi a criptare e decriptare
messaggi da inviare e ricevere, metodo da
utilizzare anche per inviare eventuali contributi alla rivista.
Conclusioni
Il pericolo che Al Qaeda possa venire in
possesso di armi non convenzionali rimane
significativo e da non sottovalutare per le
83
Anno XII – n°11 novembre 2010
SOTTO LA LENTE
possibili conseguenze. A parere di chi scrive
però, la minaccia più immediata per
l’Occidente è la capacità di addestrare ed
impiegare gli ormai noti home grown
84
terrorists, in quanto possono condurre degli
attacchi coordinati verso molteplici obiettivi
simultaneamente ed in diverse città, sia
europee che statunitensi.
Anno XII – n°11 novembre 2010
RECENSIONE
Titolo:
Autore:
Assi geopolitici e flussi di tecnologie:
un approccio di Network Analysis (con grafi reticolari di relazione).
Giuseppe Anzera
Il rapporto di ricerca Ce.Mi.S.S. (disponibile online) si occupa di introdurre gli elementi di base
(sia teorici che applicativi) della Network Analysis, in una breve, ma necessaria, trattazione per
poter poi introdurre la parte di ricerca pura preceduta da un logico preambolo metodologico sui
principi che hanno governato la raccolta e l’elaborazione dei dati relazionali; nel seguito
vengono presentati i grafi esplicativi (il cuore delle analisi di rete) sui rapporti tra gli Stati e i
flussi di tecnologia militare attualmente presenti nel sistema internazionale.
Di rilievo la potenza di sintesi espressiva dello strumento grafico utilizzato, e la sua facilita’ di
consultazione, anche per i “non-esperti” del settore.
T.Col. Volfango Monaci
Edizione:
2009
Editore:
Centro Militare di Studi Strategici
Prezzo:
Disponibile gratuitamente, all'indirizzo web:
http://www.difesa.it/SMD/CASD/Istituti+militari/CeMISS/Pubblicazioni/det
taglio-ricerche.htm?DetailID=10758
oppure dall'URL abbreviato: tiny.cc/2009t22
85
Anno XII – n°11 novembre 2010
RECENSIONE
Titolo:
Autori:
Technology, Policy, Law, and Ethics Regarding U.S. Acquisition and Use of
CYBERATTACK CAPABILITIES
William A. Owens, Kenneth W. Dam, Herbert S. Lin
Quella che oggi e’ l’infrastruttura di tutte le
infrastrutture e’ nata ( e poi cresciuta a dismisura ) in
un limbo legislativo, etico e applicativo ove si
sovrappongono diverse generazioni tecnologiche, tutti
i possibili intenti dei fruitori, e le recenti
preoccupazioni di tutti coloro che si domandano:
“E’ sufficiente dotarsi di Cyber-defence ?”.
L’ambiente “cyber” sembra favorire naturalmente gli
assetti offensivi, e le misure di protezione collettiva
cui siamo abituati nel “mondo reale” non reggono qui
il passo con la criminalita’ informatica individuale od
organizzata.
Alcuni stakeholders non-statali hanno gia’ intrapreso i
primi passi necessari per dotarsi di “difese
esplorative” e capacita’ di “ritorsione difensiva”.
Per una collettivita’ statuale e’ giunto il momento di domandarsi quali siano le capacita’
offensive o coercitive che sia lecito “schierare” a fianco di quelle protettive e informative.
Lo studio pubblicato e’ esauriente e completo, anche se centrato principalmente sulle necessita’
percepite dagli statunitensi, e’ propositivo e interessante, variegato e facilmente calabile sulle
particolari necessita’ di altre nazioni, non ignorando ne’ le “Laws of Armed Conflicts”, ne’ le
possibili ricadute di rilevanza sociale ed economica.
T.Col. Volfango Monaci
Edizione:
2009
Editore:
The National Academies Press (NAP)
Prezzo:
$ 44,10 (paperback)
oppure $ 34,00 (PDF download 1,8 Mbytes)
http://www.nap.edu/catalog.php?record_id=12651
86
Anno XII – n°11 novembre 2010
RECENSIONE
Titolo:
Autore:
Wired for War (The robotics revolution and conflict in the 21st century)
P.W. Singer
Un libro di spessore, eppure leggibile in tre lunghi pomeriggi.
In esso l'autore ci informa e ci appassiona ai cambiamenti
tecnologici che l'uomo sta apportando, ed anche ai
cambiamenti che la tecnologia apporta nel comportamento
umano, individuale e collettivo, di combattimento.
Non e' un libro per ingegneri, ma per industriali, economisti,
persone che pagano le tasse, decisori e comandanti militari, e
per chiunque voglia essere informato. In campo bellico si
profila la possibilita' di delegare l'esecuzione di compiti "duri
e sporchi", ma e' davvero cosi ?
P.W. Singer ci spiega quali siano le possibili "trappole", che
non sono tecnologiche, come si potrebbe pensare, ma
eminentemente umane, perche' la guerra (o anche il semplice
uso della violenza per scopi settari) e' sempre stata un
fenomeno profondamente umano, a prescindere dalle armi e
dalle uniformi in uso. ... Eppure potrebbe non essere piu' cosi', in futuro. L'avversario potrebbe
essere, fisicamente, non-umano.
Per la prima volta nella storia esiste la possibilita' che la natura ontologica della guerra venga
mutata, non solamente le sue "regole" .... e se ne osservano gia' le prime avvisaglie, sul campo:
dal Sergente Strategico al Generale Tattico, dal "warporn" su Youtube all'etica robotica,
dall'erosione del principio di unicita' del comando all'esperienza del combattente remoto, che la
sera rientra in famiglia per cena.
T.Col. Volfango Monaci
Edizione:
Editore:
Prezzo:
29 Dic 2009
Penguin books http://us.penguingroup.com
17,00 USD (softcover)
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Anno XII – n°11 novembre 2010
RECENSIONE
Titolo:
Autore:
Monitoraggio via Satellite dei Flussi Migratori nell’Area del Mediterraneo
(Remote Monitoring of Migrants Vessels in the Mediterranean Sea)
Francesco Topputo
Lo studio, interamente in lingua inglese, parte da circostanze “euromediterranee” che forniscono
lo spunto per un esercizio di progettazione concettuale di un sistema satellitare di sorveglianza
non-militare.
Prosegue descrivendo come l'impiego di sorveglianza satellitare sia gia’ stato sperimentato per
problematiche tecnicamente non troppo dissimili (sorveglianza della pesca commerciale)
sebbene in circostanze diverse (con “bersagli” cooperanti).
Viene poi mostrato come, considerando l’impiego nel ristretto campo dell’impiego umanitario
e/o “homeland-security” in senso lato, esistano ventagli di opzioni tra le quali e’ possibile
operare mediazioni progettuali:
a.
la molteplicita’ di orbite possibili;
b.
e’ possibile ottimizzare la dotazione sensoristica;
c.
esiste l’opportunita’ di impiegare satelliti gia’ sperimentati
(viene preso a riferimento Cosmo-SkyMed).
Lo studio e' accessibile al lettore con moderate conoscenze scientifiche.
T.Col. Volfango Monaci
Edizione:
Settembre 2009
Editore:
Centro Militare di Studi Strategici
Prezzo:
Disponibile gratuitamente, all'indirizzo web:
http://www.difesa.it/SMD/CASD/Istituti+militari/CeMISS/Pubblicazioni/dettaglioricerche.htm?DetailID=10836
oppure scaricato direttamente dall'URL abbreviato: tiny.cc/1sdum
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