Sanzioni amministrative, equo processo penale e divieto di bis in idem

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Sanzioni amministrative, equo processo penale e divieto di bis in idem
 OSSERVATORIO L’ITALIA E LA CEDU N. 2/2014
1. SANZIONI AMMINISTRATIVE, EQUO PROCESSO
LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
PENALE E DIVIETO DI BIS IN IDEM :
CENSURA IL
«DOPPIO»
SISTEMA DI
(CORTE
I TALIA , RICC. NN. 18640, 18647,
CONTROLLO SUGLI ABUSI DI MERCATO PREVISTO DALLA LEGGE ITALIANA
EDU, II SEZ., 4 MARZO 2014, GRANDE
18663, 18668 E 18698/2010).
STEVENS C .
La pronuncia in commento, che interviene all’esito di una complessa vicenda
giudiziaria concernente l’accertamento di un’ipotesi di abuso di mercato, censura il duplice
sistema sanzionatorio – penale e amministrativo – vigente nell’ordinamento italiano, la cui
reciproca, ancorché parziale, sovrapposizione è ritenuta dalla Corte europea incompatibile
con la tutela offerta dall’art. 6, par. 1, e dall’art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione.
Dal tenore della decisione emergono rilievi significativi, con specifico riferimento al
carattere sostanzialmente penale del procedimento instaurato innanzi alla CONSOB per
l’accertamento di illeciti solo formalmente amministrativi (tenuto conto, sia della particolare
natura delle infrazioni accertate, sia del rigore dell’impianto sanzionatorio) e al principio di
intangibilità del giudicato, a sua volta collegato con il più ampio tema dell’efficacia delle
sentenze della Corte europea nel diritto nazionale.
All’origine della controversia, come anticipato, vi è l’accertamento della responsabilità
a carico dei ricorrenti per la manipolazione del mercato finanziario derivante dalla
diffusione al pubblico di false comunicazioni (fornite su richiesta della CONSOB ai sensi
dell’art. 114, comma 5, del d. lgs. n. 58/1998, «Testo unico delle disposizioni in materia di
intermediazione finanziaria», d’ora in avanti «t.u.f.»), in relazione a un prestito contratto da
FIAT s.p.a. nei confronti di alcune banche e garantito, inter alia, dall’accordo che, in caso di
mancato rimborso alla scadenza, l’importo del debito sarebbe stato convertito in azioni
della società debitrice. Tuttavia, il comunicato emesso dalle società controllanti
(segnatamente, IFIL Investiments s.p.a. e Giovanni Agnelli & C. s.a.p.a., azionista di
riferimento della FIAT s.p.a. in virtù del contemporaneo controllo delle società EXOR,
IFI, e della stessa IFIL, detentrice di una quota pari al 30,6% delle azioni di FIAT s.p.a.)
della beneficiaria del prestito aveva omesso di menzionare l’esistenza di un progetto di
rinegoziazione del contratto di equity swap (già concluso da EXOR con la banca d’affari
Merril Lynch International Ltd al momento dell’emissione del comunicato), grazie al quale
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la IFIL ha potuto mantenere il controllo di FIAT s.p.a. dopo aver acquistato da EXOR le
azioni di FIAT cedute dalla Merril Lynch.
Tale omissione, motivata dal timore delle ricadute sul prezzo delle azioni di FIAT
s.p.a., è stata formalmente contestata ai soggetti responsabili della diffusione del
comunicato e, per il fatto di integrare una duplice fattispecie di illecito, di natura sia
amministrativa (previsto dall’art. 187-ter, punto 1, del t.u.f.: «[s]alve le sanzioni penali
quando il fatto costituisce reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro
20.000 a euro 5.000.000 chiunque, tramite mezzi di informazione, compreso internet o ogni
altro mezzo, diffonde informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano
suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti
finanziari».), sia penale (disciplinato dal precedente art. 185: «[c]hiunque diffonde notizie
false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare
una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, è punito con la reclusione da
uno a sei anni e con la multa da euro 20.000 a euro 5.000.000»), ha condotto
all’instaurazione di due procedimenti distinti.
Il procedimento amministrativo, avviato dalla CONSOB, si concludeva in prima
istanza con l’applicazione, nei confronti dei responsabili, delle sanzioni amministrative (di
carattere pecuniario, e, tra quelle accessorie, anche di natura interdittiva) previste dall’art.
187-quater del t.u.f. (il provvedimento è del 9 febbraio 2007), la cui misura veniva però
ridotta dalla Corte d’Appello di Torino con sentenza del 23 gennaio 2008. Il 23 giugno
2009, infine, la Corte di cassazione rigettava definitivamente il ricorso.
Il procedimento penale vedeva, invece, gli imputati assolti in primo grado per
insussistenza del fatto (sentenza del 21 dicembre 2010). Tuttavia, la decisione del giudice di
prime cure veniva annullata dalla Corte di cassazione il 20 giugno 2012 e gli atti del
procedimento venivano trasmessi alla Corte d’Appello di Torino, la quale, con sentenza del
21 febbraio 2013, accertava la sussistenza della fattispecie criminosa prevista dall’art. 185
del t.u.f. Avverso tale decisione, gli imputati ricorrevano innanzi alla Corte di cassazione, la
quale, all’udienza del 17 dicembre 2013, ha statuito per l’annullamento del giudizio per via
dell’intervenuta prescrizione del reato.
I ricorrenti, all’esito del procedimento di infrazione di fronte alla CONSOB,
promuovevano ricorso innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo per accertare la
violazione degli articoli 6, paragrafi 1 e 3, 1 del Protocollo n. 1 e 4 del Protocollo n. 7.
Sotto il primo profilo, la Corte europea, accogliendo parzialmente la tesi dei
ricorrenti, ha stabilito che la procedura svoltasi innanzi all’autorità di vigilanza sulle società
e la borsa viola l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU. Ciò in quanto la natura sostanzialmente
penale delle accuse contestate ai soggetti responsabili avrebbe richiesto che detta procedura
si svolgesse innanzi a un organo indipendente e imparziale e che fosse salvaguardato in tal
modo l’impianto complessivo delle garanzie riconosciute dal precitato art. 6.1.
Più precisamente, la Corte ha richiamato la sua giurisprudenza consolidata per
ricordare come il carattere penale di un’accusa sia desumibile in base all’applicazione di tre
criteri distinti: la qualificazione giuridica formale dell’illecito ad opera dell’ordinamento
nazionale, la natura effettiva dell’illecito stesso, nonché la natura e il grado di severità delle
sanzioni applicabili all’esito (cfr., in particolare, Engel e altri c. Paesi Bassi, dell’8 giugno 1976,
al par. 82). Tali criteri, com’è noto, non sono cumulativi, ma alternativi. Pertanto, affinché
una determinata procedura giudiziaria nazionale integri la fattispecie di «accusa in materia
penale» ai sensi dell’articolo 6.1 della CEDU, è sufficiente l’accertamento anche solo di uno
essi, sebbene – precisa la Corte – qualora l’esame separato dei singoli criteri non consenta
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di pervenire a una conclusione chiara sul punto, è sempre possibile ricorrere a una
valutazione complessiva (Jussila c. Finlandia [GC] parr. 30 e 31, e Zaicevs c. Lettonia, par. 31).
Atteso che l’illecito dedotto in giudizio è formalmente qualificato come
«amministrativo» dall’ordinamento italiano, la Corte non manca, tuttavia, di osservare come
gli interessi tutelati dalla CONSOB nell’ambito della propria funzione di vigilanza (vale a
dire l’integrità dei mercati finanziari e la fiducia del pubblico nella trasparenza e sicurezza
dei meccanismi di transazione) siano generalmente tutelati dal diritto penale (sul punto,
mutatis mutandis, cfr. la decisione sul caso Menarini Diagnostics S.r.l. c. Italia, al par. 40). Inoltre,
le stesse sanzioni previste dal t.u.f. presentano un’evidente finalità repressiva, essendo
rivolte a impedire la recidiva dei soggetti responsabili. Tale finalità è immediatamente
desumibile dal fatto che la misura della sanzione è calcolata non in base al danno provocato
agli investitori, ma della gravità della condotta accertata.
L’accertamento della natura sostanzialmente penale degli illeciti oggetto del
procedimento di infrazione innanzi alla CONSOB consente alla Corte di valutare
l’adeguatezza del procedimento medesimo rispetto alle garanzie del giusto processo stabilite
dall’art. 6.1, per far emergere eventuali vizi. Sul punto, la decisione è chiara nel riconoscere
l’impossibilità per i ricorrenti sia di discutere in contraddittorio delle accuse loro ascritte, sia
di avere accesso a un’udienza pubblica (facoltà esclusa anche nell’ambito della procedura di
riesame innanzi alla Corte d’Appello). Ciò che appare più rilevante è, tuttavia, la censura
relativa all’imparzialità dell’organo giudicante, esclusa dalla Corte sul presupposto che
l’ufficio che propone l’applicazione delle sanzioni e la commissione chiamata a comminarle
sono articolazioni dello stesso organo e agiscono sotto l’autorità di un unico Presidente. In
buona sostanza, secondo la Corte, l’esercizio di entrambe le funzioni di indagine e di
giudizio è concentrato nelle mani della medesima istituzione e tale situazione non è
compatibile con l’obbligo di imparzialità del giudice sancito dall’art. 6.1 (Piersack c. Belgio,
parr. 30-32).
Una volta stabilita la rilevanza penale delle fattispecie di illecito riconducibili alla
procedura in esame e del regime sanzionatorio applicato dalla CONSOB, i giudici di
Strasburgo non hanno avuto difficoltà ad accertare anche la violazione del principio di ne
bis in idem, consacrato dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU. In estrema sintesi, secondo
la Corte (v. i parr. 224 ss. della sentenza) tale ulteriore violazione discende dalla circostanza
che i ricorrenti hanno dovuto subire un secondo procedimento – di natura formalmente e
sostanzialmente penale – che ha tratto origine dagli stessi fatti causativi del precedente,
impregiudicata, quindi, la rilevanza degli elementi costitutivi delle rispettive fattispecie di
illecito.
In altre parole, l’inosservanza del divieto del bis in idem si è concretizzata nell’aver
giudicato due volte la medesima condotta (consistente nell’assenza di riferimenti, all’interno
della comunicazione diffusa dai ricorrenti, alle condizioni di rinegoziazione del contratto di
equity swap), senza alcun riguardo alla circostanza che questa integrasse entrambe le precitate
fattispecie di cui agli articoli 185 e 187-ter del t.u.f. È appena il caso di rilevare che il
ragionamento della Corte poggia sul presupposto che l’accertamento delle richiamate
ipotesi di illecito, oltre a scaturire dallo stesso comportamento (la diffusione di false
informazioni), ha, in entrambi i casi, natura sostanzialmente penale. In linea di principio,
infatti, la doppia qualificazione (penale e amministrativa) di un’unica condotta illecita e
l’applicazione dei rispettivi regimi sanzionatori non è vietata, né a livello nazionale, né a
livello europeo (cfr. la direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del
28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del
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mercato).
Il profilo di maggiore interesse della decisione qui richiamata è certamente
l’interpretazione «convenzionalmente orientata» della salvezza contenuta in apertura al
precitato art. 187-ter del t.u.f., utilizzabile in tutti i casi in cui la vittima, già condannata in
via definitiva nell’ambito del procedimento instaurato innanzi alla CONSOB, risulti
destinataria di un ulteriore provvedimento di rinvio a giudizio in ambito penale. Sul punto,
peraltro, era già intervenuta la Corte di cassazione (sentenza 16 marzo 2006, n. 15199),
distinguendo, nell’ambito della medesima condotta tipica, lo spazio riservato
all’accertamento dell’illecito penale, rispetto a quello dell’illecito amministrativo (per un
approfondimento, cfr. A. F. TRIPODI, Uno più uno (a Strasburgo) fa due. L’Italia condannata per
violazione del ne bis in idem in tema di manipolazione del mercato, in Diritto Penale Contemporaneo, 9
marzo 2014, par. 6). Altrettanto interessanti appaiono, inoltre, le possibili ricadute
dell’orientamento proposto dai giudici di Strasburgo per i casi in cui anche il procedimento
penale (oltre a quello amministrativo) si sia già concluso con una sentenza di condanna
definitiva. In simili ipotesi, un accertamento analogo a quello della decisione qui in
commento potrebbe legittimamente condurre alla revocazione del giudicato penale, giusta
l’applicazione dell’ipotesi straordinaria di revisione del processo ex art. 630 c.p.p. introdotta
a partire dalla nota pronuncia della Corte costituzionale 4 aprile 2011, n. 113 «per
conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo».
NICOLA COLACINO ISSN 2284-3531 Ordine internazionale e diritti umani, (2014), pp. 378-381.