- Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze

Transcript

- Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze
January 2016
Potere e donne in Rwanda: costruzione dello
Stato e identità nazionale attraverso le categorie
di genere
Author: Davide Marena
Abstract
This paper focuses on an analysis of Rwanda through a gendered interpretative lens, both in the
1994 genocide period, both during and after. The use of a gender approach allows us to
understand the current social changes, which have led to a significant improvement of the living
conditions of women in contemporary Rwandan society. The analysis follows a chronological path,
which allows us to identify gender differences in the conduct of genocidal violence in 1994 and see
how it was used the gender by Hutu extremists. The genocide, as historic watershed, creates a
real break with the past and the regime change involves the replacement of ethnicity to gender as
categories on which to build the new national policy. In fact, after the phase of national
reconstruction women have played a central role with unprecedented public spaces, bringing
significant changes in gender roles. The innovative idea of this paper is to understand the reasons
that underlie the gender transformation that characterize the contemporary Rwanda, analyzing the
identity construction of the new state through public rhetoric.
Keywords: Rwanda, Gender studies, State-building
Language: Italian
About the author
DAVIDE MARENA
PhD in Women’s History and Gender Identities, University of Naples “L’Orientale”
Collaborator of the “Africa and Latin America” Programme, IsAG, Rome
[email protected]
ISSN: 2281-8553
© Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
3
Indice
1. Introduzione .......................................................................................... 4
2. Genere e genocidio .............................................................................. 4
3. L’equità di genere nella costruzione dello Stato post-genocidio ............ 14
4. Conclusioni ........................................................................................... 17
Bibliografia ................................................................................................ 18
www.istituto-geopolitica.eu
www.geopolitica-rivista.org
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
4
1. Introduzione
Il genocidio del 1994 in Rwanda ha
lasciato ferite evidenti nel tessuto sociale
ed economico del paese, svolgendo, al
contempo, un ruolo fondamentale nella
costruzione discorsiva ed identitaria del
nuovo Stato. Nella fase di ricostruzione
dello Stato, il genere assurge a categoria
edificante del nuovo assetto istituzionale.
Per comprendere come si costruisce il
discorso pubblico sul genere nel Rwanda
post-genocidio è fondamentale compiere
un’azione
di
revisione
storica,
concentrandosi su un’analisi retrospettiva
delle dinamiche e sulla retorica di genere,
che si innesta e si mescola alla
propaganda genocidaria a partire dalla
guerra civile del 1990. Determinata dalla
volontà di annientare il nemico interno,
l’Inyenzi1, il Tutsi, la politica di distruzione
delle frange estremiste del governo di
Juvenal Habyarimana, sfociata nel
genocidio, ha determinato la necessità di
sforzarsi, nella fase di ricostruzione
nazionale,
di
abbandonare
la
discriminante etnica nella costruzione
identitaria sia sociale che politica del
nuovo Stato rwandese. L’istaurazione di
pratiche, volte alla costruzione della
nuova identità nazionale, ha finito per
assumere connotazioni di genere,
producendo profondi cambiamenti nei
significati socioculturali associati alla
mascolinità e alla femminilità. Le
trasformazioni dei significati di genere,
ovviamente, si ripercuotono nello spazio
politico e viceversa, performandosi
reciprocamente.
Il primo passo, che questo saggio
vuole compiere, consiste nell’utilizzare il
genere come una prospettiva analitica
per esaminare il genocidio rwandese.
Questo risulta essere un utile strumento
che consente di valutare sia l’impatto che
il genocidio esercita sulle dinamiche di
1
Epiteto che in Kinyarwanda vuol dire scarafaggi,
con cui si connota spregiativamente i Tutsi, da
parte degli estremisti hutu.
www.istituto-geopolitica.eu
genere, sia il modo in cui la violenza di
genere si esprime attraverso il genocidio.
In tal modo, si tenta di determinare come
i discorsi di genere creano il maschile e il
femminile e come i significati del maschile
e del femminile determinano l’uso della
violenza durante il genocidio. Infatti,
l’analisi della violenza di genere consente
di comprendere i progetti politici, che gli
estremisti hutu intendono realizzare con il
genocidio. È, dunque, possibile affermare
che la violenza di genere costituisce lo
strumento principale di scrittura dei
confini della “Nazione Hutu” sul corpo
delle donne tutsi.
Inoltre,
analizzare
il
genocidio,
attraverso una prospettiva di genere,
consente di comprendere in che modo
l’etnia cessa di essere la base di
costruzione discorsiva della politica e
della retorica di Stato nel nuovo Rwanda
post-genocidio. Solo seguendo questi
passi, è possibile comprendere i processi
attraverso cui la donna arriva ad
occupare la centralità nello spazio politico
del Rwanda contemporaneo.
2. Genere e genocidio
Analizzare il genocidio rwandese
attraverso una prospettiva di genere,
consente di poter rintracciare sfumature
che sono omesse o poco evidenziate
nella narrazione ufficiale. Il genocidio non
costituisce uno scontro di genere, nel
senso classico del termine, che vede
contrapposti uomini e donne in posizioni
antitetiche: solitamente i primi dalla parte
dei carnefici e le seconde dalla parte
delle vittime. Infatti, uomini e donne
prendono parte, anche se in numeri
diversi, al genocidio sia come assassini
che come vittime, per questa ragione, il
genocidio può essere considerato uno
strumento significante di genere, in
quanto attribuisce significato al maschile
e al femminile attraverso la perpetrazione
degli atti di violenza, giudicati in maniera
del tutto arbitraria, “tipicamente maschili”.
Utilizzare
il
genere
come
lente
www.geopolitica-rivista.org
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
5
interpretativa consente di scardinare la
narrazione
ufficiale
del
genocidio
rwandese, portando in evidenza i lati bui
e nascosti degli eventi del 1994.
La dimensione di genere nel genocidio
rwandese emerge non solo nel tipo di
violenza che viene realizzata durante i
massacri sui corpi delle donne e che
trova il suo culmine nello stupro di massa
e nella schiavitù sessuale, ma anche nel
linguaggio utilizzato dagli organizzatori
del genocidio durante la propaganda antiTutsi. Però non va dimenticato che, come
molti studiosi e diversi rapporti delle
Nazioni Unite sottolineano, le donne non
sono state solo vittime, ma partecipano
esse stesse alle violenze e ci sono alcuni
casi di donne 2 , come Pauline
Nyiramasuhuko, la Ministra delle pari
opportunità del 1994, che organizzano e
preparano il genocidio.
Analizzare un genocidio attraverso la
lente interpretativa del genere consente
di sostenere che, come suggerisce
Lentin,
«come
procreatrici
delle
generazioni future, le donne, in quanto
appartenenti ad un gruppo definito come
razzialmente o etnicamente inferiore,
sono esposte ad un rischio specifico» 3 .
Dall’analisi del genocidio rwandese e
dall’impatto che questo esercita sulle
donne è possibile condividere la teoria di
Lentin secondo cui la definizione di
genocidio non può prescindere da una
connotazione di genere, soprattutto
quando la realizzazione di progetti politici
avviene attraverso i corpi delle donne:
schiavitù sessuale, stupro di massa,
sterilizzazioni forzate. Gli strumenti di
violenza
utilizzati
risultano
essere
finalizzati, alla definitiva eliminazione di
uno specifico gruppo etnico, nel caso del
Rwanda, i Tutsi, attraverso le donne. Per
questo motivo, è molto importante
comprendere che il genocidio, in quanto
progetto politico, si ripercuote in maniera
forte ed incisiva sulle costruzioni sociali
della mascolinità e della femminilità
rwandese. Questo tipo di filoni di studi sta
avendo una notevole crescita di
interesse. Infatti, la letteratura recente
sull’argomento si focalizza sempre più
sulle connotazioni di genere delle guerre,
dei conflitti e dei genocidi piuttosto che
sul loro impatto sulle donne. Lungi dal
considerare le donne come una massa
unitaria di vittime, si adotta, sulla scia del
lavoro di Kimmel e Messner4, l’analisi di
genere all’interno di un contesto sociale
costruzionista, nel quale la violenza di
genere e il genocidio vengono utilizzati
per la realizzazione del progetto politico
di costruzione della Nazione Hutu. In
perfetta armonia con Lentin, quando
afferma che
Tutto ciò dimostra come le guerre e i
genocidi siano sempre connotati dal
punto di vista del genere al fine di
modellare
la
struttura
sociale,
storicamente
specifica,
delle
mascolinità e delle femminilità. Tuttavia,
l’impiego di immagini femminili per
rappresentare eventi genocidari e
l’identificazione delle donne come
(ri)produttrici di collettività etniche fanno
sì che anche i genocidi siano
femminilizzati e che alle donne si
assegni il ruolo di vittime universali
nonostante oppongano spesso una
resistenza attiva a tale vittimizzazione5.
Questo fenomeno, identificato come
femminilizzazione del genocidio, consiste
nel
percepire
le
donne
come
rappresentazioni simboliche di collettività
nazionali
ed
etniche.
Tale
femminilizzazione tende ad oscurare i
progetti
politici
insiti
nel
piano
genocidario. Per quanto riguarda il
Rwanda, infatti, proprio in virtù di questa
femminilizzazione, nonostante fossero gli
uomini tutsi il principale bersaglio
2
African Rights, Not so innocent: when women
become killers, “African Rights”, London, 1995.
3 Lentin R., Lo stupro della Nazione: le donne
raccontano il genocidio, DEP: deportate, esuli,
profughe, 10, 2009.
www.istituto-geopolitica.eu
4 Kimmel M. and Messner M. A. (eds.), Men’s
Lives, Ally and Bacon, Boston and London, 1998.
5 Lentin R., cit., p. 157.
www.geopolitica-rivista.org
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
6
dell’eliminazione genocidaria, le donne
vengono descritte e considerate come le
principali vittime, come sostenuto dalla
narrazione ufficiale propagandata dallo
stesso governo rwandese. Come riportato
dal rapporto di “African Rights” del 19956,
la femminilizzazione del genocidio oscura
e oblia la partecipazione delle donne nel
perpetrare e, a volte, organizzare le
violenze.
Un altro elemento di genere, che
caratterizza il genocidio rwandese,
consiste nella possibilità di riscatto
sociale, attraverso la partecipazione alle
violenze dei giovani hutu arruolati. Come
sostenuto anche da Adam Jones, nel
1994 il Rwanda è uno Stato molto povero
in cui la maggior parte della popolazione
vive sotto la soglia della povertà. Per
moltissimi ragazzi rwandesi la crisi
economica innesca anche una crisi
esistenziale, perché senza terra e senza
lavoro non riescono a sposarsi e a
raggiungere lo status sociale dei loro
genitori7. In questo contesto, il genocidio
consentirebbe di fornire una risposta alla
crisi della mascolinità, offrendo anche
opportunità di arricchimento mediante
l’appropriazione dei beni delle vittime e
attraverso la minaccia e il ricatto. Ciò è
testimoniato anche dall’utilizzo del
termine kinyarwanda “akazi”, che significa
lavoro, per indicare l’occupazione svolta
dai miliziani durante il genocidio. Quindi,
la partecipazione al genocidio e la
perpetrazione delle violenze arriva a
costituire una pratica di “soggettivazione
politica maschile” attraverso cui è
possibile per un povero giovane hutu di
bassa estrazione sociale divenire un
interahamwe (dal kinyarwanda: coloro
che combattono insieme). Far parte di
queste milizie significa acquisire potere,
con l’aspettativa di ribaltare le gerarchie
politiche e sociali. Gli interahamwe nella
6
African Rights, Not so innocent: when women
become killers, cit.
7 Jones A., Gender and genocide in Rwanda,
“Journal of genocide research”, 4(1), 2001, pp.
65-94.
www.istituto-geopolitica.eu
realizzazione degli omicidi di massa,
infatti, tentano di attuare un ribaltamento
sociale e politico a loro favorevole,
affermando attraverso la violenza la loro
supremazia etnica sui Tutsi e imponendo
il loro dominio maschile attraverso lo
stupro. Infatti, come riportato da Lentin,
citando Hague, «la politica militare dello
stupro genocidario […] costituì un tipo
specifico di “mascolinità etero-nazionale”
contrapposta
ad
una
“femminilità”
8
impotente e inferiore» , riferendosi in
questo caso al conflitto serbo-bosniaco,
ma ritrova una fortissima analogia nel
caso del genocidio rwandese. Attraverso
l’analisi di genere del conflitto rwandese
è, dunque, possibile comprendere, oltre
alle dinamiche interetniche, anche le
radici del mutamento sociale, che
determina un ribaltamento dei ruoli di
genere.
A questo punto, per comprendere
come il genocidio eserciti un profondo
impatto di genere sulla popolazione
rwandese, è indispensabile compiere
l’analisi di come il nazionalismo hutu, che
produce gli eventi del 1994, si costruisca
e si inventi sulla base di un lessico, che
non è esclusivamente etnico, ma anche
di genere, definendo e forgiando i confini
della nazione sul corpo delle donne.
Infatti, mascolinità e femminilità, in quanto
costruzioni sociali, non incidono solo
sull’appartenenza e sulla definizione dei
confini etnici del progetto nazionalista
hutu, ma contribuiscono anche e in larga
misura alla realizzazione delle violenze,
che, durante il genocidio, si differenziano
a seconda del genere dei soggetti a cui
sono indirizzate. Il modo più efficace, per
entrare nel merito della questione della
violenza di genere perpetrata durante il
genocidio, è concentrarsi sull’analisi della
dialettica di genere, che si diffonde
durante il regime di Habyarimana e si
inasprisce e consolida soprattutto nei
primi anni Novanta, all’interno della
propaganda anti-Tutsi dell’Hutu Power.
8
Lentin R., cit., p. 155.
www.geopolitica-rivista.org
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
7
Con l’inizio della guerra tra l’esercito
rwandese e il FPR (Fronte Patriottico
Rwandese), nel 1990, l’odio interetnico
raggiunge livelli elevatissimi, tanto che si
assiste a vere e proprie campagne
mediatiche anti-Tutsi. Radio RTLM
(Radio Télévision Libre des Mille
Collines) e il settimanale “Kangura”
costituiscono i due principali strumenti
mediatici che gli estremisti hutu utilizzano
per veicolare la propaganda anti-Tutsi.
“Kangura” e RTLM rappresentano le più
virulente, ma non le uniche, voci dell’odio.
Kangura, che in Kinyarwanda vuol dire
“svegliatevi”, nonostante abbia una
tiratura limitata di circa 10.000 copie,
viene distribuito ai borgomastri e gode
dell’appoggio dei leader del potere
politico e militare.
Ben presto le donne tutsi diventano il
bersaglio
privilegiato
di
questa
propaganda razzista, essendo descritte
come potenziali spie del nemico, per
carpire i segreti e le intenzioni degli Hutu.
Questo contesto è il risultato
accumulato nei lunghi anni del regime di
Habyarimana
ed
è
fondamentale
conoscerlo per capire le dinamiche di
violenza di genere che si innescano
durante il genocidio. Per questo motivo è
opportuno soffermarsi in via introduttiva
sui contenuti della propaganda razzista
portata avanti dagli estremisti hutu, per
mobilitare le masse ad unirsi alla causa
hutu.
Il principale documento che racchiude i
principi razzisti dell’ideologia dell’Hutu
Power
è
rappresentato
dai
“10
comandamenti Bahutu”, pubblicati in
lingua francese su Kangura nel dicembre
del 1990. I Comandamenti enunciavano
quanto segue:
 Ogni Hutu deve sapere che una
donna tutsi, ovunque essa si trovi,
lavora al soldo della sua etnia tutsi.
Quindi è un traditore qualsiasi Hutu
che: sposi una donna tutsi, che
prenda una Tutsi come concubina,
www.istituto-geopolitica.eu









faccia di una Tutsi la sua segretaria o
la sua protetta.
Ogni Hutu deve sapere che le nostre
giovani ragazze hutu sono più degne
e più coscienti del loro ruolo di donna,
moglie e madre di famiglia. Non sono
forse belle, buone segretarie e più
oneste?
Donne hutu, siate vigili e riportate i
vostri mariti, fratelli e figli alla ragione.
Tutti gli Hutu devono sapere che ogni
Tutsi è disonesto negli affari. Egli mira
solo alla supremazia della sua etnia.
Pertanto è traditore ogni Hutu che:
• Si allea con un Tutsi nel mondo degli
affari.
• Investe i suoi soldi o soldi dello Stato
nell’impresa di un Tutsi.
• Concede favori ai Tutsi negli affari
(concessioni
di
licenze
di
importazione, prestiti bancari, terreni
edificabili, appalti…).
I posti strategici in campo politico,
amministrativo, economico, militare e
di sicurezza devono essere riservati
agli Hutu.
Il settore dell’istruzione (alunni,
studenti, insegnanti) deve essere a
maggioranza hutu.
Le forze armate rwandesi devono
essere
esclusivamente
hutu.
L’esperienza della “guerra d’ottobre”
ce lo insegna. Nessun militare deve
sposare una donna tutsi.
Gli Hutu devono smettere di avere
pietà dei Tutsi.
Gli Hutu dentro e fuori dal Rwanda
devono cercare costantemente amici
e alleati per la causa Hutu, a
cominciare dai loro fratelli Bantu.
• Devono contrastare costantemente
la propaganda tutsi.
• Gli Hutu devono essere fermi e vigili
contro il loro comune nemico tutsi.
La rivoluzione sociale del 1959, il
referendum del 1961, e l’ideologia
hutu devono essere insegnate a tutti
gli Hutu e a tutti i livelli. Ogni Hutu
www.geopolitica-rivista.org
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
8
deve diffondere ampiamente questa
ideologia9.
Il primo, il secondo, il terzo e il settimo
di questi comandamenti esplicitano in
maniera inequivocabile la necessità di
evitare qualsiasi forma di contatto o di
legame con donne tutsi. Agli esordi della
violenza donne e bambini di matrimoni
misti costituiscono un gruppo altamente a
rischio. Le unioni miste vengono
condannate e considerate deprecabili,
perché minano la purezza della razza
hutu. Infatti, nonostante la patrilinearità
tipica della società rwandese, le unioni di
uomini hutu con donne tutsi non solo
vengono viste come condannabili, ma
addirittura considerate anti-nazionali, in
quanto danno come frutto una progenie
insana e pericolosa per il mantenimento
dei confini etnici, minando la costruzione
e l’affermazione del progetto politico di
costruzione della Nazione Hutu.
Dalla propaganda degli estremisti hutu
emerge con chiarezza non solo l’intento
di eliminare fisicamente il nemico tutsi ma
anche
quello
di
riappropriarsi
completamente e in maniera irreversibile
e definitiva del comando, della gestione e
dell’amministrazione
dello
Stato
rwandese.
Sulla di scia dei lavori di Michela
Fusaschi e di Christopher Taylor, credo
sia importante soffermarsi anche sulla
simbologia rwandese, che attribuisce
significati importanti alla mascolinità e alla
femminilità. Tradizionalmente, infatti, il
Rwanda è una società tipicamente
patriarcale e patrilineare, dove la terra,
prima della riforma del diritto di famiglia,
avvenuta solo dopo il genocidio all’inizio
del nuovo millennio, è proprietà esclusiva
dell’uomo e le donne nemmeno in caso di
vedovanza possono ereditarla.
La donna, moglie e madre, diviene
come la terra proprietà del marito e, al
contempo, è la sola a garantire la
9
Chrétien J.P., Rwanda: les médias du génocide,
Karthala, Paris, 1995, pp. 141-142.
www.istituto-geopolitica.eu
perpetuazione del patrilignaggio. Il suo
corpo allora ne diventa il simbolo per
eccellenza, al punto che esso è la
personificazione tanto dell’abitazione
quanto del terreno circostante10.
La donna tutsi, quindi, diviene
simbolicamente
l’incarnazione
della
collettività e del mantenimento e
proseguimento della sua stessa etnia. La
donna tutsi viene, infatti, colpita proprio in
quanto incarnazione simbolica della
collettività, che rappresenta. Il potere
riproduttivo
è
espressione
tipica
dell’essere donna e ciò consente la
sopravvivenza e la continuità, nel caso
specifico, dell’etnia tutsi, gestendo anche
i processi di socializzazione primaria e
trasmettendo quei valori fondanti che
determinano l’appartenenza ad un dato
gruppo.
Allo stesso modo, Taylor 11 sostiene
questa tesi, affermando che le donne
sono prese di mira dagli interahamwe,
soprattutto nelle parti corporee che ne
garantiscono la fertilità e quindi la
capacità riproduttiva. Questo deriva dal
fatto che in Rwanda le donne, sia in virtù
della loro natura riproduttiva sia per il
lavoro agricolo ad esse associato,
simboleggiano
la
terra
stessa.
L’appropriazione attraverso la forza delle
donne
tutsi,
dunque,
rappresenta
l’appropriazione simbolica della terra dei
Tutsi, del loro spazio. Ricollegandosi alla
teoria colonialista12, secondo cui gli Hutu
sono contadini bantu mentre i Tutsi sono
allevatori nomadi di stirpe nilotica,
discendenti di Cam, figlio di Noè, gli
estremisti hutu vogliono rivendicare il loro
diritto sulla terra rwandese, rubatagli dagli
stranieri tutsi. Durante il genocidio, quindi,
10 Fusaschi M., Corpo non si nasce, si diventa.
Antropologiche di genere nella globalizzazione,
CISU, Roma, 2013, p. 70.
11 Taylor C.C., Sacrifice as terror: the Rwandan
genocide of 1994, Berg, Oxford, 1999.
12 Dettagli sull’ipotesi camitica sono contenuti in:
Fusaschi M., Hutu-Tutsi: alle radici del genocidio
rwandese, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.
M’Bokolo E., Amselle J.L., L’invenzione dell’etnia,
Meltemi, Roma, 2008.
www.geopolitica-rivista.org
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
9
le azioni di violenza sessuale degli
interahamwe sulle donne sarebbero
dettate dalla volontà di appropriarsi
simbolicamente della terra dei Tutsi e dal
fatto che l’annientamento del nemico
passa attraverso le violenze praticate sul
corpo delle donne.
Lentin, anche se non in relazione al
caso specifico del Rwanda, parla di
assimilazione della donna con la terra del
nemico. Lentin intreccia le costruzioni di
genere con quelle di etnicità per asserire
che, in tempo di guerra, lo stupro delle
donne non ha semplicemente a che fare
con il sesso o la violenza di genere e
nemmeno solo con il potere degli uomini
sulle donne o con la volontà di
contaminare il gruppo nemico attraverso il
ventre della donna. Lo stupro, secondo
Lentin, «riguarda la conquista del
territorio nemico»13. La profanazione del
corpo femminile, attraverso lo stupro e la
schiavitù sessuale, trasforma le vittime in
“esseri asociali”, come ci ricorda Taylor14.
Queste donne sopravvissute, vittime di
violenza
sessuale,
spesso,
come
vedremo nel paragrafo sugli effetti del
genocidio, scontano l’onta dello stupro e
subiscono le conseguenze dello stigma
sociale. Tenere presenti le implicazioni,
che le violenze di genere hanno poi nel
tessuto sociale e comunitario, ci svela il
disegno politico che si cela dietro ai
singoli atti di violenza genocidaria.
Lo stupro e la schiavitù sessuale
costituiscono le principali forme di
violenza utilizzate sulle donne (tutsi ma
anche hutu moderate) da parte degli
interahamwe
durante
il
genocidio
rwandese del 1994. Dalle testimonianze
delle sopravvissute a queste forme di
violenza sessuale di massa è possibile
ricostruire in maniera abbastanza precisa
una “scenografia” della violenza, intesa
appunto come una sorta di rituale di
“detutsizzazione” delle donne tutsi,
mettendo in scena sempre identici atti.
L’allusione al mondo del teatro deriva
13
Lentin R., cit., p. 160.
14 Taylor C.C., cit., p. 177.
www.istituto-geopolitica.eu
dalla
mia
personale
convinzione,
rafforzata dalle testimonianze delle
sopravvissute, che il corpo delle donne
tutsi non costituisce solo l’oggetto su cui
e attraverso il quale si esprime la politica
etnica degli estremisti hutu, ma è anche
lo strumento di comunicazione della
stessa politica. È sul corpo delle donne,
infatti, che si scrive il disegno politico dei
genocidari: la volontà di eliminare i Tutsi
in quanto gruppo nemico in maniera
definitiva ed irreversibile. Una fonte utile a
riguardo, oltre alle riunioni dei gruppi di
donne
stuprate,
organizzate
periodicamente
dall’organizzazione
Kanyarwanda, che mi concede il
privilegio di assistere, durante la mia
permanenza in Rwanda, è costituita dal
rapporto di Human Rights Watch del
1996 15 , che raccoglie le testimonianze
delle violenze subite durante il genocidio
da alcune donne tutsi, provenienti da
diverse parti del paese. Tutte parlano di
stupro, singolo o collettivo, schiavitù
sessuale,
matrimonio
forzato
e
mutilazioni. Il rapporto contiene anche la
testimonianza di quattro donne hutu
(Christine, Claudine, Rose e Maria)
stuprate durante il genocidio, perché
sono mogli di uomini tutsi e quindi in un
certo senso si sono tutsificate. Ma il
rapporto dimostra come in realtà basta
non aver abbracciato la causa hutu per
essere potenziali vittime di violenza. Nel
contesto rwandese, dunque, non solo la
dimensione etnica, ma anche quella di
genere
finisce
per
acquisire
un’importanza fondamentale.
A questo punto, con la volontà di
decostruire la femminilizzazione del
genocidio, di cui si parlava in precedenza,
è opportuno spostare l’analisi su due
aspetti importanti:

il ruolo che alcune donne giocano
nell’esecuzione
materiale
e
nella
organizzazione del genocidio;
15 Human Rights Watch, Shattered Lives. Sexual
violence during the Rwandan genocide and its
aftermath, HRW, September 1996.
www.geopolitica-rivista.org
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
10

il processo di femminilizzazione
della sofferenza, a cui si assiste
nell’immediato post-genocidio in Rwanda,
anche grazie ai discorsi pubblici della
nuova classe dirigente.
Nell’immediato
dopo-genocidio
la
letteratura ci fornisce varie fonti
romanzate di testimonianze dirette. Infatti,
molte sopravvissute, rifugiate in Europa,
diffondono le proprie storie sotto forma di
romanzi. I più celebri sono La morte non
mi ha voluta di Jolande Mukagasana16 e Il
fiore di Stephanie di Esther Mujawayo17.
Questo processo di femminilizzazione
delle conseguenze del genocidio trova
una sua legittimazione nell’uso politico,
che il regime fa di queste testimonianze,
attraverso la lettura di estratti in
occasione di cerimonie ufficiali ed altro. In
Rwanda, prima del 1994, gli episodi di
violenza sono essenzialmente rivolti agli
uomini, mentre donne e bambini vengono
solitamente risparmiati. Precedentemente
le Chiese costituiscono un riparo per le
persone minacciate dalla violenza
nemica, nel 1994, invece, diventano le
camere della morte, dove gli autori dei
massacri si rivolgono tanto agli uomini
quanto alle donne e ai bambini. La
differenza sostanziale sta nel fatto che
spesso le donne prima di essere uccise
vengono violentate e torturate, magari in
presenza dei loro parenti. In generale
tutte le donne tutsi sono a rischio, anche
quelle sposate con uomini hutu, così
come lo sono anche le donne hutu
16
Jolande Mukagasana, famosa superstite del
genocidio, ha raccontato la sua storia nel
romanzo sopracitato. Tutta la sua famiglia, marito,
figlie, sorelle e fratelli sono stati uccisi durante il
genocidio. Dopo essersi rifugiata in Belgio,
attualmente vive a Kigali dove lavora come
dipendente
pubblico
nella
Commissione
Nazionale di Lotta contro il Genocidio.
17 Anche Esther Mujawayo è una superstite del
genocidio che racconta la sua esperienza nel suo
libro. Attualmente residente in Germania, dove
lavora come psicoterapeuta. È una delle fondatrici
delle più note associazioni di donne che lavorano
in Rwanda dopo il genocidio AVEGA (Association
des Veuves du Genocide).
www.istituto-geopolitica.eu
sposate con uomini tutsi o che vengono
identificate come appartenenti a gruppi di
esponenti dell’opposizione del regime di
Habyarimana. Una delle prime donne
uccise durante il massacro, che ha inizio
il 7 aprile 1994, è proprio una donna hutu,
Agathe Uwilingiyimana, leader del
Movimento Democratico Rwandese, che
viene nominata Primo Ministro nel
governo che nasce dagli accordi di pace
di Arusha. Le violenze subite dalle donne
durante il genocidio hanno effetti che si
protraggono nel periodo successivo e che
non riguardano solo le singole donne ma
spesso
si
ripercuotono
a
livello
comunitario.
Una
delle
principali
conseguenze delle violenze subite è
sicuramente
rappresentata
dalla
disgregazione del tessuto sociale e
comunitario, attraverso la perdita e la
distruzione della fiducia. Questo spesso
non si ripercuote solo a livello sociale, ma
comporta anche limiti personali nella vita
quotidiana del singolo individuo. La
guerra e il genocidio distruggono le fitte
reti locali di solidarietà comunitaria, che
costituiscono un importante strumento
tradizionale che garantisce alle donne
conforto e sostegno. I familiari vengono
uccisi o trovano rifugio all’estero e i vicini
di casa, un tempo amici, si sono
trasformati spesso nei carnefici che
massacrano i propri parenti. Con la
dissoluzione della fiducia sociale e
comunitaria, molte donne cominciano a
risentire dell’isolamento, della solitudine e
dell’abbandono, trovando difficoltà a
fidarsi degli altri, fuori dalla cerchia della
propria parentela più stretta. La maggior
parte delle donne sopravvissute al
genocidio giungono a trovarsi in
condizioni di deprivazione economica e
povertà
estrema.
La
situazione
economica risulta maggiormente gravosa
per
le
donne
capofamiglia,
che
costituiscono
uno
dei
gruppi
maggiormente vulnerabili nell’immediato
post-genocidio. Ovviamente le donne
capofamiglia costituiscono un fenomeno
largamente diffuso dopo un conflitto, ma
www.geopolitica-rivista.org
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
11
nel caso specifico del Rwanda la
situazione è aggravata dalla presenza di
una rete sociale instabile e logora. Dopo il
genocidio,
questa
vulnerabilità
è
particolarmente
grave
e
colpisce
vastissime porzioni della popolazione
femminile rwandese. Molte donne si
ritrovano senza mezzi di sussistenza,
senza nemmeno un posto per vivere. In
questa condizione di estrema povertà, è
enormemente difficile per le donne
prendersi cura anche dei bambini e degli
altri familiari sopravvissuti e spesso
portatori di gravi disabilità. I vincoli e le
restrizioni normative ostacolano gli sforzi
per ottenere l’accesso alle proprietà e alla
terra appartenenti ai loro mariti morti o ad
altri familiari (la riforma del diritto di
famiglia e la legge sull’eredità vengono
promulgate infatti solo nel 2003. Prima di
queste riforme le donne erano legalmente
impossibilitate ad ereditare i beni dei
propri familiari). Nell’immediato postgenocidio, il governo di transizione
sostiene che le differenze etniche sono
svuotate del loro significato originario ed
afferma la propria volontà di volerle
trascendere e di promuovere i mezzi
necessari al loro superamento. Ma la
realtà dei fatti mostra come nel periodo
immediatamente successivo alla fine del
genocidio, le donne sperimentano
situazioni differenti in base all’etnia di
appartenenza. Come dimostrato dalle
testimonianze raccolte dal già citato
rapporto di Human Rights Watch, le
donne tutsi, sopravvissute al genocidio,
sembrano molto sfiduciate e si trovano in
un persistente stato di paura che nutrono
nei confronti dei loro vicini hutu, che
spesso accusano di coinvolgimento nelle
violenze subite. Molte altre sopravvissute
al genocidio, invece, palesano il loro
rifiuto a voler ritornare nei luoghi di
origine dove spesso sono state vittime di
violenza e torture, non solo a causa degli
orribili ricordi, ma soprattutto per la
presenza in quegli stessi luoghi dei propri
aggressori o carnefici dei propri parenti.
Molte donne hutu invece, sia in aree rurali
www.istituto-geopolitica.eu
che urbane, risentono di un forte grado di
insicurezza per i discorsi pubblici del
governo post-genocidio che tendono a
dipingere tutti gli Hutu come genocidari.
Tale insicurezza determina un fortissimo
isolamento sociale soprattutto per le
donne che nel 1997 ritornano dai campi
profughi in Tanzania o Zaire, ritrovandosi
non solo economicamente indigenti ma
anche stigmatizzate socialmente come
complici di genocidio. Per non parlare del
fatto che gli uomini arrestati con l’accusa
di
coinvolgimento
nel
genocidio
costituiscono un vero e proprio peso per
le loro mogli, che, oltre a prendersi cura
dei loro bambini, devono anche fornire il
cibo per i loro mariti, finendo spesso per
essere marginalizzate anche nelle
comunità in cui vivono. Una situazione
particolare, che spesso sfocia in forme di
isolamento estremo, è vissuta dalle
donne legate in unioni miste, come ad
esempio una vedova hutu, il cui marito
tutsi è stato ucciso nel genocidio, può
trovarsi respinta dalla famiglia del marito
e vedersi negato l’accesso alle proprietà
e alla terra del suo sposo defunto. Tale
tipo di situazione può essere vissuta
anche da una donna tutsi, vedova di un
hutu. Questo perché il genocidio esercita
un
potere
di
annullamento
e
disgregamento
anche
dei
rapporti
familiari. In un simile contesto i soggetti
sono singolarmente isolati e il tessuto
sociale
completamente
disgregato.
Ovviamente, uno dei fardelli più onerosi,
del genocidio, che grava sulle spalle delle
donne,
è
rappresentato
dalle
conseguenze delle violenze sessuali
subite. È difficile individuare con
esattezza il numero di donne stuprate
durante il genocidio sia perché moltissime
vengono uccise in seguito alle violenze,
sia perché moltissime altre non le
denunciano, temendo lo stigma sociale
che deriva nella società patriarcale
rwandese. Tuttavia secondo le stime di
Human Rights Watch le vittime di stupro
in Rwanda sono tra le 250.000 e le
500.000 e tra le 2.000 e le 5.000 donne
www.geopolitica-rivista.org
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
12
mettono al mondo dei figli in seguito agli
stupri. Le milizie ed i soldati infliggono un
trattamento particolarmente brutale alle
donne tutsi, perché, come abbiamo visto,
la violenza sessuale viene usata come
arma per umiliare i Tutsi in quanto
gruppo, attraverso la distruzione delle
loro donne. Le sopravvissute a queste
torture sessuali vengono descritte come
“living dead” (morti viventi). Nei racconti
delle sopravvissute emergono i particolari
di una violenza che si riproduce sempre
allo stesso modo e su vasta scala. Alcune
donne, esposte al rischio di essere
infettate con l’AIDS e altre malattie
sessualmente trasmissibili, in seguito alle
violenze subite, vengono mutilate, altre
soffrono di dolore cronico ed altre danno
alla luce i figli dei loro stupratori. I pesi
psicologici che derivano sono molto
onerosi. Spesso gli stupri da parte degli
interahamwe avvengono in pubblico o
davanti ai familiari delle vittime, in
particolare padri o mariti. Non è raro
costringere donne tutsi a servire, come
schiave sessuali, uomini hutu.
Spesso le milizie sono prese anche
dalla rabbia di classe contro le donne
privilegiate, che, indipendentemente dalla
loro etnia, finiscono per subire abusi.
Reyntjens 18 afferma che le donne hutu
vengono prese di mira prima nelle zone
settentrionali del Rwanda, controllate dal
FPR, e poi durante e dopo il genocidio le
donne hutu pagano per quello che gli
uomini hutu hanno fatto. In Rwanda, lo
stupro comporta un enorme stigma
sociale, per questo chi ne è vittima,
spesso, preferisce esitare a parlarne. Ne
consegue, in maniera inevitabile, che il
trauma
psicologico
sia
aggravato
ulteriormente dall’isolamento sociale.
Infatti molte donne stuprate sono additate
dalla comunità che le rimprovera di aver
venduto i loro corpi per salvarsi la vita,
mentre uomini e bambini periscono
indiscriminatamente sotto i colpi dei
18
F. Reyntjens, La Guerre des Grands Lacs:
Alliances mouvantes et conflits extraterritoriaux en
Afrique centrale, l’Harmattan, Paris, 1999.
www.istituto-geopolitica.eu
machete dei genocidari. Nei casi più
estremi le donne stuprate trovano forti
ostilità tra i loro stessi familiari. Le donne
stuprate, dunque, non solo sono vittime
della guerra e della lotta politica ma
vengono anche pesantemente denigrate
dalle società di appartenenza. In questo
modo si vedono negata anche ogni
possibilità
di
matrimonio.
Ciò
è
particolarmente vero soprattutto per
quelle donne che partoriscono bambini
che, molto spesso, esse stesse poi
rinnegano. Molte donne scelgono di non
tenere i bambini nati dallo stupro, molte
altre, che invece decidono di mantenerli,
incontrano resistenza e riprovazione da
parte delle loro famiglie e della comunità
di appartenenza.
Una delle più evidenti conseguenze,
che si manifesta nell’immediato postgenocidio,
è
l’espansione
delle
responsabilità familiari per le donne.
Svariate decine di migliaia di bambini
rwandesi restano orfani a causa del
genocidio, perdendo uno o entrambi i
genitori. Per far fronte a questa
emergenza molte donne sopravvissute
adottano alcuni di questi orfani, spesso
figli di vicini o amici ma anche di
sconosciuti. Ma molte donne si ritrovano
a doversi prendere cura non solo di
questi bambini, presi in affidamento, ma
anche di anziani e dei disabili, prodotti dal
genocidio. È chiaro ed evidente che le
donne si vedono costrette ad assumersi
enormi pesi e nuove responsabilità
generate dalle esigenze e dalle
emergenze che la guerra e il genocidio
producono. Infatti, oltre alla cura per la
sopravvivenza dei membri delle loro
famiglie nucleari, molte donne forniscono
cibo e vestiti e pagano le tasse
scolastiche per la miriade di bambini
orfani. Le vedove del genocidio, le donne
i cui mariti sono in prigione e le ragazze
capofamiglia costituiscono i gruppi
maggiormente vulnerabili nel postgenocidio, trovandosi spesso isolate e
senza alcuna protezione legale a
salvaguardia dei propri interessi. In tali
www.geopolitica-rivista.org
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
13
condizioni, sulle donne sono cadute le
responsabilità
di
attività,
la
cui
competenza,
precedentemente,
era
esclusivamente maschile. Tutto ciò ha un
peso maggiore nelle aree rurali, dove le
donne
hanno
sempre
partecipato
attivamente alla produzione e coltivazione
di cibo sia per la sfera domestica che per
il mercato. Nelle campagne del Rwanda
post-conflitto le donne si trovano costrette
a coprire l’assenza degli uomini,
svolgendo, in aggiunta al lavoro agricolo
e a quello di cura dei parenti
sopravvissuti, tutte le altre funzioni, un
tempo
di
competenza
maschile:
elaborazione di nuove strategie di reddito,
costruzione o riparazione di case,
manutenzione dei bananeti, cura del
bestiame, etc. Nelle aree urbane, invece,
la maggiore difficoltà, riscontrata dalle
donne, è quella di vedersi garantito il
diritto alla casa o trovare le risorse
economiche
per
pagarsi
l’affitto,
soprattutto a causa della mancanza di
lavoro salariato o di altre fonti di
guadagno.
In ultima istanza vanno analizzati
anche gli spazi inediti che il genocidio
apre per le donne e mi riferisco
soprattutto
all’incremento
della
partecipazione femminile nella sfera
pubblica.
Per
lungo
tempo,
gli
atteggiamenti e le pratiche patriarcali
permeano la vita politica e la società in
Rwanda. La guerra e il genocidio
contribuiscono
a
rafforzare
la
subordinazione della donna, enfatizzando
il militarismo e i valori militari e ponendo
le donne giovani in forte competizione tra
loro per il limitato numero di uomini da
sposare. Tuttavia, si manifestano alcune
importanti controtendenze: sia a livello
nazionale che locale, donne singole o
organizzate in associazioni o gruppi
informali svolgono un importantissimo
ruolo negli sforzi di ricostruzione
comunitaria. Va però precisato che le
donne che acquisiscono posizioni di
leadership non sono un fenomeno nuovo
e la nascita dei primi movimenti di donne
www.istituto-geopolitica.eu
in Rwanda può essere fatta risalire alla
metà degli anni Ottanta. Il fatto inedito
rispetto al periodo precedente consiste
nelle azioni poste in essere dal governo,
che coglie le prime spinte dal basso,
legittimandole
e
riconoscendo
la
necessità di avere un maggiore spazio
politico di espressione e manifestazione
dei propri interessi e bisogni. Nascono
così le istituzioni votate alla promozione
della donna, prima fra tutte il Ministero
della donna e della promozione familiare.
Soprattutto con la fine del governo di
transizione, nel 2003, il numero di donne,
che occupano alte posizioni nelle
istituzioni
centrali,
è
aumentato
considerevolmente. Conseguentemente,
anche ai livelli più bassi dello Stato, le
donne hanno cominciato a ricoprire posti
di responsabilità in maniera crescente. In
realtà, lo spazio in cui la leadership delle
donne trova maggiore espressione nel
post-conflitto è rappresentato dal settore
non governativo, che costituisce, in molti
casi, un vero e proprio campo di
formazione,
poiché
fornisce
professionalità e competenze, tanto che
molte di queste donne vengono poi
cooptate nelle strutture di governo.
Quello che finora ho tentato di
dimostrare è che nella narrazione ufficiale
del genocidio si assiste ad un fenomeno
di femminilizzazione della violenza.
Questo tipo di fenomeno tende ad
oscurare un’altra verità: la partecipazione
delle donne alle violenze di massa. Una
fonte preziosissima a questo riguardo è
rappresentata dal rapporto di “African
Rights”19, ma molto utile è anche un libro
di Yolande Mukagasana20, che raccoglie
nel carcere internazionale di Arusha
testimonianze di vittime e carnefici, sia
uomini che donne, del genocidio. Il
rapporto di “African Rights” analizza la
partecipazione
attiva
femminile
al
19
African Rights, Not so innocent: when women
become killers, cit.
20 Mukagasana
Y., Le ferite del silenzio.
Testimonianze sul genocidio del Rwanda, La
Meridiana, Molfetta, 2008.
www.geopolitica-rivista.org
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
14
genocidio e dimostra come donne,
appartenenti a diverse classi sociali,
abbiano commesso atti di violenza. Ma
secondo gli autori, l’onere delle maggiori
responsabilità ricade sulle donne istruite,
che usano la loro formazione, esperienza
e posizione nella comunità per sollecitare
le altre donne ad abbracciare la causa
hutu e a perpetrare violenze. Il
coinvolgimento delle donne non è
casuale, perché gli architetti del genocidio
cercano di coinvolgere il maggior numero
di persone hutu, compresi donne e
bambini, per creare una nazione di
estremisti legata dal sangue del
genocidio. Il rapporto riporta casi di
donne che hanno non solo partecipato
attivamente nella perpetrazione della
violenza, ma che hanno organizzato e
pianificato il genocidio. Un esempio è
rappresentato dalla già citata Ministra
delle pari opportunità del 1994, Pauline
Nyiramasuhuko,
molto
attiva
nel
coordinamento delle azioni genocidarie
nella zona di Butare, a Sud del paese.
Questa donna è stata condannata per
genocidio e stupro dal Tribunale Penale
internazionale per il Rwanda. In questo
caso l’accusa di stupro è legata alla
diretta
responsabilità
di
Pauline
Nyiramasuhuko nell’incitazione pubblica
degli interahamwe a perpetrare violenza
sessuale sulle donne tutsi. L’elemento
interessante riportato nel rapporto di
“African Rights” sta negli episodi di
impunità che derivano dal ritenere le
donne
esclusivamente
vittime.
La
femminilizzazione della sofferenza ha
portato alla creazione di un’etichetta di
innocenza che si imprime sulle donne e
che tende a nascondere e a dimenticare il
loro coinvolgimento alle violenze. A
questo fenomeno della femminilizzazione
della sofferenza, ovviamente, fa da
contrappunto la “mascolinizzazione” della
violenza,
che
trova
la
massima
espressione nello stupro come arma di
guerra. Dimenticare i ruoli svolti dalle
donne nel genocidio può portare a
episodi di impunità, che indeboliscono
www.istituto-geopolitica.eu
qualsiasi sforzo di ricostruzione sociale e
di riconciliazione nazionale. Inoltre,
riconoscere il coinvolgimento delle donne
nella violenza, è utile e necessario per
restituire loro quell’agency di cui la
narrazione ufficiale e dominante del
genocidio le ha private.
3. L’equità di genere nella costruzione
dello Stato post-genocidio
Il fenomeno della femminilizzazione
della
sofferenza
determina
un
appiattimento delle esperienze vissute
dalle donne durante il genocidio,
ignorando che le esperienze erano
diversificate non solo in base all’etnia ma
anche della classe di appartenenza. Le
politiche
di
genere
nel
periodo
precedente
al
genocidio
vengono
costruite nel sangue, attraverso l’uso
della violenza di massa. Nella seconda
metà degli anni Novanta, invece, la
politica di genere si iscrive nel tentativo di
ribaltare i significati attribuiti al maschile e
al femminile, ridisegnando le loro sfere
simboliche. La narrazione ufficiale
propagandata dal regime enfatizza
l’immagine della donna come estranea a
una violenza, espressione esclusiva della
mascolinità dominante, dipingendole
esclusivamente
come
vittime
del
genocidio. Le donne, infatti, vengono
disegnate e costruite come soggetti di
una forma di pace, che si esprime
attraverso la cura materna e l’affettività.
Nella
fase
di
ricostruzione
immediatamente successiva al genocidio,
si costruisce e si diffonde questa
narrazione dominante che identifica le
donne come vittime della violenza, ma, in
virtù delle nuove qualità riconosciute
come tipiche della femminilità, le donne
diventano titolari di una nuova capacità di
azione, che si esprime nella loro attiva
partecipazione
ai
processi
di
riconciliazione e di ricostruzione del
paese. La principale giustificazione
addotta per spiegare le politiche di
genere del post-genocidio è collegata alla
situazione demografica, che, anche
www.geopolitica-rivista.org
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
15
senza la presenza di statistiche ufficiali, è
caratterizzata da una popolazione
costituita dal 70% di donne, come
riportato dalla maggior parte della
letteratura. Anche Elizabeth Powley 21
utilizza questo dato demografico per
spiegare il motivo della crescente
partecipazione politica delle donne nelle
istituzioni del paese. La maggiore
presenza demografica delle donne
rispetto agli uomini avrebbe costretto le
istituzioni a dover promuovere le donne,
che
rappresentavano
appunto
la
maggioranza della popolazione, e ad
integrarle nei processi di ricostruzione
nazionale. A dire il vero questo legame
con il dato demografico traspare in molte
testimonianze raccolte, da cui emerge
che è molto diffusa l’idea che, data la
mancanza degli uomini, l’inclusione delle
donne costituisce l’unica possibilità
concreta per avviare la ripresa economica
del paese. La promozione della donna,
almeno inizialmente, non appare dunque
legata al principio di equità di genere, ma
più alla necessità di superare la fase di
emergenza umanitaria e di ricostruzione,
per entrare nello sviluppo a lungo
termine, raggiungibile solo attraverso il
coinvolgimento dell’intera popolazione,
sia maschile che femminile.
Dalla ricerca, condotta sul campo,
emerge un’altra importante osservazione,
che riguarda il parallelismo tra il
riconoscimento di uno spazio politico per
le donne e la democrazia. Il Rwanda dal
2003 raggiunge il primato mondiale per la
presenza femminile in Parlamento.
Questo primato è spesso identificato in
maniera molto semplicistica come
processo di democratizzazione da parte
delle istituzioni. L’incremento della
presenza femminile nella sfera pubblica è
spesso utilizzato dal governo per
mascherare il deficit democratico, la
21
Powley E., Strengthening governance: the role
of women in Rwand’s transition, Sanam Naraghi
Anderlini, Washington DC, 2003.
www.istituto-geopolitica.eu
mancanza di rappresentanza partitica e
l’assenza di rappresentanza etnica22.
Subito dopo la guerra e il genocidio, le
donne si organizzano in maniera del tutto
spontanea per tentare di realizzare azioni
volte alla ricostruzione del paese,
soprattutto
a
livello
comunitario.
Inizialmente, come riportano Newbury e
Baldwin 23 , questi gruppi femminili
riuniscono donne della medesima etnia,
Hutu o Tutsi, ma successivamente
diventano gruppi abbastanza trasversali e
misti, uniti dalla comunanza dei problemi
quotidiani da affrontare e fronteggiare.
Vengono ricostruite le associazioni che
esistevano prima del genocidio e ne
vengono create di nuove. La nascita di
associazioni, in realtà, non costituisce un
fenomeno nuovo in Rwanda, dove le
prime associazioni locali nascono già
nella seconda metà degli anni Ottanta.
Ma in seguito al genocidio, il numero
delle
associazioni
cresce
esponenzialmente, anche grazie ai
consistenti aiuti internazionali.
Nel
contesto
post-conflitto,
caratterizzato da precarietà economica e
politica e da lacerazione sociale, le donne
si trovano costrette alla solidarietà,
ricostruendo in primis le reti sociali, per
superare il “divisionismo etnico” e per far
fronte alle sfide poste in essere dal
genocidio. Nel periodo immediatamente
successivo alla fine della guerra, infatti, il
governo si trova sprovvisto dei mezzi
necessari a rispondere ai bisogni più
immediati, per questo le donne devono
sforzarsi
di
trovare
modalità
di
cooperazione per affrontare i problemi
comuni. La situazione del post-conflitto
non solo crea le condizioni, che
favoriscono la rinascita del tessuto
22
Hogg C.L., Women’s Political Representation in
Post-Conflict Rwanda: a politics of inclusion or
exclusion?, “Journal of International Women’s
Studies”, 11(3), Bridgewater, sep. 2009, pp. 3455.
23 Newbury C., Baldwin H., Aftermath: women’s
organizations in post-conflict Rwanda, Working
Paper No 304, Center for Development
Information and Evaluation, Washington, 2000.
www.geopolitica-rivista.org
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
16
associativo, ma offre anche la possibilità
di un ribaltamento dei significati dei ruoli
di genere, spingendo le donne a svolgere
mansioni, precedentemente di esclusiva
competenza maschile, come testimoniato
soprattutto dalla fitta presenza di donne
capofamiglia. In questo senso il genocidio
ha determinato un cambiamento nei ruoli
di genere, non solo per l’assunzione di
nuove responsabilità da parte delle
donne, ma anche ridisegnando la stessa
mascolinità. Infatti, la cospicua presenza
di nuclei familiari diretti da donne rende
obsoleta e sorpassata la visione del
maschio come capofamiglia, che non
rappresenta più l’unico soggetto a
produrre
reddito
monetario
extradomestico. Il genocidio, attraverso la
ridefinizione dei ruoli di genere, nati
dall’apertura di spazi inediti per le donne,
innesca un processo di ridefinizione della
femminilità e della mascolinità, sulla base
dei cambiamenti vissuti nella vita
quotidiana. Per diversi autori, le capacità
e le energie femminili, dispiegatesi negli
sforzi di ricostruzione postbellica, hanno
determinato il superamento delle divisioni
etniche lungo una linea di genere. Il ruolo
delle istituzioni statali è stato solo quello
di ufficializzare processi spontanei di
empowerment, nati dal dispiegamento
delle forze di ricostruzione da parte delle
donne in un contesto di costrizione e
necessità. Attraverso riforme istituzionali
e legislative, lo Stato, in collaborazione
con le ONG, favorisce il dispiegarsi e il
rafforzamento
di
queste
energie
spontanee, realizzate dalle donne in tutto
il territorio nazionale. È grazie a queste
azioni spontanee che le donne riescono a
superare l’isolamento e a ricostruire reti di
solidarietà e relazioni di fiducia.
Secondo Elizabeth Powley, poiché le
conseguenze della guerra e del genocidio
si ripercuotono maggiormente sulle
donne, queste avrebbero un maggiore
interesse nel prevenire qualsiasi forma di
tensione e conflitto e nella sua analisi i
Rwandesi, anche per questo motivo,
percepiscono la popolazione femminile
come biologicamente o culturalmente
predisposta
al
perdono
e
alla
24
riconciliazione . Emerge, dunque, una
visione della donna come un soggetto
maggiormente orientato, rispetto agli
uomini,
al
bene
comune.
Tale
convinzione è intimamente connessa con
il ruolo di cura, culturalmente associato
alle donne. Infatti, in Rwanda è
convinzione comune che le donne
pensino agli altri, alla famiglia e ai figli
prima di pensare a loro stesse, mentre gli
uomini sono dediti a consumare risorse
per soddisfare bisogni personali e
soprattutto per il consumo di alcool.
Associare le donne al bene comune
comporta l’inevitabile idea che le donne
siano meno inclini alla corruzione. Quello
che emerge fino a questo punto è il
tentativo di costruzione di una femminilità,
caratterizzata
da
connotazioni
contrapposte alla mascolinità violenta e
sanguinaria tipica degli estremisti hutu,
che organizzano e realizzano il genocidio.
La donna incarna i valori della pace e
della non violenza e il suo coinvolgimento
nel mondo politico concretizza le
opportunità
di
ricostruzione
e
riconciliazione del paese. È attraverso
l’implementazione delle nuove politiche di
genere che il nuovo Stato rwandese
giunge al superamento del “divisionismo
etnico”. Il genere trova la sua centralità
nella politica dello Stato post-genocidio e
ne permea il discorso pubblico,
sostituendo l’etnia come base su cui
costruire e definire i contenuti politici del
governo. I significati di genere contenuti
nella retorica pubblica sono intrisi,
dunque, di un forte essenzialismo di
genere. La femminilizzazione della
politica e, quindi, della sfera pubblica,
viene utilizzata dai vertici delle istituzioni
governative per disegnare le finalità, da
esse perseguite, di pace e riconciliazione,
in contrapposizione con quelle precedenti
volte alla frammentazione sociale e
all’esclusione etnica. La centralità delle
donne, come attori politici, nel nuovo
24
www.istituto-geopolitica.eu
Powley E., cit., 2003, pp. 15-16.
www.geopolitica-rivista.org
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
17
Stato rwandese, portatrici dei valori
culturalmente e socialmente a loro
associati, consente di estendere queste
loro caratteristiche alla sfera pubblica e
allo Stato.
4. Conclusioni
L’intento di questo saggio era
analizzare il processo di ricostruzione
dello Stato post-genocidio in Rwanda,
usando
il
genere
come
lente
interpretativa, attraverso lo studio del
discorso pubblico sull’equità di genere e
l’empowerment
della
donna.
La
costruzione di questo discorso pubblico,
connaturato dalla retorica di genere, è
strettamente legata alla considerazione
sociale della donna, che era diffusa in
Rwanda prima del genocidio, con un
necessario processo di ribaltamento dei
significati attribuiti alla mascolinità e alla
femminilità. Lo stesso progetto di
costruzione di una Nazione Hutu, che
prende corpo alla fine del regime di
Habyarimana nelle frange più estreme
dell’hutu power, si fonda su un uso
strumentale dei ruoli sociali di genere. Il
corpo delle donne, infatti, diventa il
terreno sul quale si scrivono e
ridisegnano i confini nazionali, lungo una
linea di demarcazione etnica. Non è un
caso che nella propaganda anti-Tutsi
dell’inizio degli anni Novanta, gli
estremisti hutu si concentrano sulla
denigrazione della donna tutsi, che
diventa l’incarnazione del ventre che
riproduce
e
ricrea
il
nemico,
simboleggiando l’intera comunità tutsi.
Quindi, la donna va colpita e distrutta
utilizzando proprio le parti biologiche che
la caratterizzano per la sua capacità
riproduttiva. Lo stupro diventa l’arma di
guerra che consente di conquistare il
territorio nemico. Analizzare il genocidio
rwandese da una prospettiva di genere
consente di poter rintracciare quelle
sfumature trasversali delle identità
maschili e femminili, i cui significati
dipendono dall’appartenenza etnica. La
costruzione della mascolinità hutu e della
www.istituto-geopolitica.eu
supremazia dell’uomo passano attraverso
il rituale della violenza sessuale sulle
donne
tutsi.
I
fenomeni
di
femminilizzazione della sofferenza e di
mascolinizzazione della violenza sono
utilizzati dalla nuova classe dirigente
rwandese per delineare una femminilità
che è l’incarnazione dell’affettività, della
maternità, del pacifismo e del rifiuto della
violenza, dimenticando le responsabilità
che le donne hanno avuto nel genocidio e
che, volutamente, la narrazione ufficiale,
propagandata
dal
governo,
vuole
omettere. A ciò corrisponde, dunque, un
fenomeno di femminilizzazione della
politica, che sostiene la necessità che la
classe politica sia dotata di tutte quelle
caratteristiche, che, in base alle
affermazioni del discorso pubblico, sono
possedute dalle donne. Quindi, la classe
dirigente rwandese afferma che il
genocidio sia il prodotto di una politica
maschile, che trova la sua espressione
nella violenza, come strumento di
coercizione e di annientamento del
nemico. Da ciò emerge la necessità di
cambiare, attribuendo alla politica quelle
caratteristiche tipiche dell’essere donna.
In altre parole, il processo di costruzione
nazionale, nella ricostruzione postconflitto, si basa sulla retorica di genere
che sostituisce quella etnica, utilizzata,
invece, dal regime precedente al
genocidio. Infatti, le donne rappresentano
i nuovi attori della politica rwandese, che
vanno a sostituire le etnie, incarnando
una simbologia di pace e riconciliazione.
Le attribuzioni di queste qualità, che la
retorica di Stato identifica come tipicità
naturalmente
femminili,
vengono
concepite come comportamenti esemplari
che pongono in essere azioni politiche
virtuose. Grazie a queste qualità, le
donne sono chiamate a svolgere ruoli
tradizionalmente attribuiti alla sfera
maschile, mantenendo le qualità femminili
e materne che le contraddistinguono,
trasportandole nella sfera pubblica e nelle
istituzioni.
www.geopolitica-rivista.org
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
18
Bibliografia
African Rights, Rwanda Not So Innocent:
When Women Become Killers, “African
Rights”, London, 1995.
Baines E.K., Body politics and the
Rwandan Crisis, “Third World Quarterly”,
Vol. 24, No. 3, 2003, pp. 479-493.
Bayisenge F., The quota system in
Rwandan local government: women’s
representation
and
political
empowerment, ISS, The Hague, The
Netherland, 2008.
Burnet J.E., Gender balance and the
meanings of women in governance in
post-genocide Rwanda, “African Affairs”
107, 2008, pp. 361-386.
Chrétien J.P., Rwanda: les médias du
génocide, Karthala, Paris, 1995.
Develin C., Elgie R., The effect of
increased women’s representation in
Parliament: The case of Rwanda,
“Parliamentary Affairs”, Vol. 61 No. 2,
2008,
237–254.
Advance
Access
Publication 23 February 2008.
El-Bushra J., Mukarubuga C., Women,
war and transition, “Gender and
Development”, Vol. 3, No. 3, october
1995, pp. 16-22.
Fusaschi M., Hutu – Tutsi: alle radici del
genocidio rwandese, Bollati Boringhieri,
Torino, 2000.
Fusaschi M., Rwanda: etnografie del
post-genocidio, Maltemi editore, Roma,
2009.
Fusaschi M., Corporeità etnicizzata.
Abusi e violenze sessuali sulle donne
nella regione dei Grandi Laghi Africani, in
“Zapruder”, n. 22, maggio – agosto 2010,
pp. 22 – 36.
www.istituto-geopolitica.eu
Fusaschi M., Corpo non si nasce, si
diventa. Antropologiche di genere nella
globalizzazione, CISU, Roma, 2013.
Guenivet K., Stupri di guerra. Le violenze
sessuali come nuova arma, L. Sossella
edizioni, Roma, 2002.
Hogg N., Women’s participation in the
Rwandan genocide: mothers or mosters?,
“International Review of the Red Cross”,
92 (877), 2010, pp. 69-102.
Jones A., Gender and Genocide, Taylor &
Francis Ltd., 2000.
Jones A., Gender and genocide in
Rwanda, “Journal of genocide research”,
4(1), 2001, pp. 65-94.
Lentin R., Lo stupro della Nazione: le
donne raccontano il genocidio, DEP:
deportate, esuli, profughe, 10, 2009.
Mackintosh A., Rwanda: beyond ethnic
conflict, “Development in Practice”, Vol. 7,
No. 4, 1997, pp. 464-474.
Mamdani Mahmood, When victims
become killers: colonialism, nativism and
the genocide in Rwanda, Princeton
University Press, Princeton e Oxford,
2001.
Mamilton, Heather B., Rwanda’s Women:
the key to reconstruction. The future of
the African Great Lakes Region, “The
journal of Humanitarian Assistance”,
2000.
19
maggio
2002
(http://www.jha.ac/great-lakes/boo1.htm).
Meierhenrich J., (2006) Presidential and
parliamentary elections in Rwanda, 2003,
“Electoral Studies”, Vol. 25, No. 3, pp.
611-634.
Muganza A., Integrating the national
gender policy into the new Constitution,
Le processus d’intégration du genre dans
la nouvelle constitution du Rwanda, atti
www.geopolitica-rivista.org
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
19
del seminario, Kigali 20-22 giugno 2001.
pp. 49-52.
Mujawayo E., Il fiore di Stéphanie, e/o
edizioni, Roma, 2007.
Mukagasana Y., La morte non mi ha
voluta, La Meridiana, Molfetta (BA), 1998.
Mukagasana Y., Le ferite del silenzio.
Testimonianze sul genocidio del Rwanda,
La Meridiana, Molfetta (BA), 2008.
Taylor C. C., Sacrifice as terror: the
Rwandan genocide of 1994, Berg,
Oxford, 1999.
Tilly C., The politics of collective violence,
Cambridge University Press, Cambridge,
2003.
Yuval-Davis N., Gender and Nation,
Sage, London, 1997.
Newbury C., Baldwin H., Aftermath:
Women
in postgenocide
Rwanda,
Working Paper No. 303, USAID,
Washington, 2000.
Newbury C., Baldwin H., Aftermath:
women’s organizations in post-conflict
Rwanda, Working paper No. 304, Center
for
Development
Information
and
Evaluation, Washington, 2000.
Powley E., Strengthening governance:
the role of women in Rwand’s transition,
Sanam Naraghi Anderlini, Washington
DC, 2003.
Powley E., Gender is society: inclusive
lawmaking in Rwanda’s Parliament,
“Critical Half”, Vol. 1, 2007, pp.15-21.
F. Reyntjens, La Guerre des Grands
Lacs: Alliances mouvantes et conflits
extraterritoriaux en Afrique centrale,
l’Harmattan, Paris, 1999.
Schoepf B.G., Genocidio e violenza di
genere
in
Rwanda,
1994,
in
“Antropologia”, No. 8 (2006), pp. 113 –
143.
Sharlach L., Gender and genocide in
Rwanda: women as agents and object of
genocide, “Journal of genocide research”,
1 (3), pp. 387-399, novembre 1999.
www.istituto-geopolitica.eu
www.geopolitica-rivista.org