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January 2016 Potere e donne in Rwanda: costruzione dello Stato e identità nazionale attraverso le categorie di genere Author: Davide Marena Abstract This paper focuses on an analysis of Rwanda through a gendered interpretative lens, both in the 1994 genocide period, both during and after. The use of a gender approach allows us to understand the current social changes, which have led to a significant improvement of the living conditions of women in contemporary Rwandan society. The analysis follows a chronological path, which allows us to identify gender differences in the conduct of genocidal violence in 1994 and see how it was used the gender by Hutu extremists. The genocide, as historic watershed, creates a real break with the past and the regime change involves the replacement of ethnicity to gender as categories on which to build the new national policy. In fact, after the phase of national reconstruction women have played a central role with unprecedented public spaces, bringing significant changes in gender roles. The innovative idea of this paper is to understand the reasons that underlie the gender transformation that characterize the contemporary Rwanda, analyzing the identity construction of the new state through public rhetoric. Keywords: Rwanda, Gender studies, State-building Language: Italian About the author DAVIDE MARENA PhD in Women’s History and Gender Identities, University of Naples “L’Orientale” Collaborator of the “Africa and Latin America” Programme, IsAG, Rome [email protected] ISSN: 2281-8553 © Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 3 Indice 1. Introduzione .......................................................................................... 4 2. Genere e genocidio .............................................................................. 4 3. L’equità di genere nella costruzione dello Stato post-genocidio ............ 14 4. Conclusioni ........................................................................................... 17 Bibliografia ................................................................................................ 18 www.istituto-geopolitica.eu www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 4 1. Introduzione Il genocidio del 1994 in Rwanda ha lasciato ferite evidenti nel tessuto sociale ed economico del paese, svolgendo, al contempo, un ruolo fondamentale nella costruzione discorsiva ed identitaria del nuovo Stato. Nella fase di ricostruzione dello Stato, il genere assurge a categoria edificante del nuovo assetto istituzionale. Per comprendere come si costruisce il discorso pubblico sul genere nel Rwanda post-genocidio è fondamentale compiere un’azione di revisione storica, concentrandosi su un’analisi retrospettiva delle dinamiche e sulla retorica di genere, che si innesta e si mescola alla propaganda genocidaria a partire dalla guerra civile del 1990. Determinata dalla volontà di annientare il nemico interno, l’Inyenzi1, il Tutsi, la politica di distruzione delle frange estremiste del governo di Juvenal Habyarimana, sfociata nel genocidio, ha determinato la necessità di sforzarsi, nella fase di ricostruzione nazionale, di abbandonare la discriminante etnica nella costruzione identitaria sia sociale che politica del nuovo Stato rwandese. L’istaurazione di pratiche, volte alla costruzione della nuova identità nazionale, ha finito per assumere connotazioni di genere, producendo profondi cambiamenti nei significati socioculturali associati alla mascolinità e alla femminilità. Le trasformazioni dei significati di genere, ovviamente, si ripercuotono nello spazio politico e viceversa, performandosi reciprocamente. Il primo passo, che questo saggio vuole compiere, consiste nell’utilizzare il genere come una prospettiva analitica per esaminare il genocidio rwandese. Questo risulta essere un utile strumento che consente di valutare sia l’impatto che il genocidio esercita sulle dinamiche di 1 Epiteto che in Kinyarwanda vuol dire scarafaggi, con cui si connota spregiativamente i Tutsi, da parte degli estremisti hutu. www.istituto-geopolitica.eu genere, sia il modo in cui la violenza di genere si esprime attraverso il genocidio. In tal modo, si tenta di determinare come i discorsi di genere creano il maschile e il femminile e come i significati del maschile e del femminile determinano l’uso della violenza durante il genocidio. Infatti, l’analisi della violenza di genere consente di comprendere i progetti politici, che gli estremisti hutu intendono realizzare con il genocidio. È, dunque, possibile affermare che la violenza di genere costituisce lo strumento principale di scrittura dei confini della “Nazione Hutu” sul corpo delle donne tutsi. Inoltre, analizzare il genocidio, attraverso una prospettiva di genere, consente di comprendere in che modo l’etnia cessa di essere la base di costruzione discorsiva della politica e della retorica di Stato nel nuovo Rwanda post-genocidio. Solo seguendo questi passi, è possibile comprendere i processi attraverso cui la donna arriva ad occupare la centralità nello spazio politico del Rwanda contemporaneo. 2. Genere e genocidio Analizzare il genocidio rwandese attraverso una prospettiva di genere, consente di poter rintracciare sfumature che sono omesse o poco evidenziate nella narrazione ufficiale. Il genocidio non costituisce uno scontro di genere, nel senso classico del termine, che vede contrapposti uomini e donne in posizioni antitetiche: solitamente i primi dalla parte dei carnefici e le seconde dalla parte delle vittime. Infatti, uomini e donne prendono parte, anche se in numeri diversi, al genocidio sia come assassini che come vittime, per questa ragione, il genocidio può essere considerato uno strumento significante di genere, in quanto attribuisce significato al maschile e al femminile attraverso la perpetrazione degli atti di violenza, giudicati in maniera del tutto arbitraria, “tipicamente maschili”. Utilizzare il genere come lente www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 5 interpretativa consente di scardinare la narrazione ufficiale del genocidio rwandese, portando in evidenza i lati bui e nascosti degli eventi del 1994. La dimensione di genere nel genocidio rwandese emerge non solo nel tipo di violenza che viene realizzata durante i massacri sui corpi delle donne e che trova il suo culmine nello stupro di massa e nella schiavitù sessuale, ma anche nel linguaggio utilizzato dagli organizzatori del genocidio durante la propaganda antiTutsi. Però non va dimenticato che, come molti studiosi e diversi rapporti delle Nazioni Unite sottolineano, le donne non sono state solo vittime, ma partecipano esse stesse alle violenze e ci sono alcuni casi di donne 2 , come Pauline Nyiramasuhuko, la Ministra delle pari opportunità del 1994, che organizzano e preparano il genocidio. Analizzare un genocidio attraverso la lente interpretativa del genere consente di sostenere che, come suggerisce Lentin, «come procreatrici delle generazioni future, le donne, in quanto appartenenti ad un gruppo definito come razzialmente o etnicamente inferiore, sono esposte ad un rischio specifico» 3 . Dall’analisi del genocidio rwandese e dall’impatto che questo esercita sulle donne è possibile condividere la teoria di Lentin secondo cui la definizione di genocidio non può prescindere da una connotazione di genere, soprattutto quando la realizzazione di progetti politici avviene attraverso i corpi delle donne: schiavitù sessuale, stupro di massa, sterilizzazioni forzate. Gli strumenti di violenza utilizzati risultano essere finalizzati, alla definitiva eliminazione di uno specifico gruppo etnico, nel caso del Rwanda, i Tutsi, attraverso le donne. Per questo motivo, è molto importante comprendere che il genocidio, in quanto progetto politico, si ripercuote in maniera forte ed incisiva sulle costruzioni sociali della mascolinità e della femminilità rwandese. Questo tipo di filoni di studi sta avendo una notevole crescita di interesse. Infatti, la letteratura recente sull’argomento si focalizza sempre più sulle connotazioni di genere delle guerre, dei conflitti e dei genocidi piuttosto che sul loro impatto sulle donne. Lungi dal considerare le donne come una massa unitaria di vittime, si adotta, sulla scia del lavoro di Kimmel e Messner4, l’analisi di genere all’interno di un contesto sociale costruzionista, nel quale la violenza di genere e il genocidio vengono utilizzati per la realizzazione del progetto politico di costruzione della Nazione Hutu. In perfetta armonia con Lentin, quando afferma che Tutto ciò dimostra come le guerre e i genocidi siano sempre connotati dal punto di vista del genere al fine di modellare la struttura sociale, storicamente specifica, delle mascolinità e delle femminilità. Tuttavia, l’impiego di immagini femminili per rappresentare eventi genocidari e l’identificazione delle donne come (ri)produttrici di collettività etniche fanno sì che anche i genocidi siano femminilizzati e che alle donne si assegni il ruolo di vittime universali nonostante oppongano spesso una resistenza attiva a tale vittimizzazione5. Questo fenomeno, identificato come femminilizzazione del genocidio, consiste nel percepire le donne come rappresentazioni simboliche di collettività nazionali ed etniche. Tale femminilizzazione tende ad oscurare i progetti politici insiti nel piano genocidario. Per quanto riguarda il Rwanda, infatti, proprio in virtù di questa femminilizzazione, nonostante fossero gli uomini tutsi il principale bersaglio 2 African Rights, Not so innocent: when women become killers, “African Rights”, London, 1995. 3 Lentin R., Lo stupro della Nazione: le donne raccontano il genocidio, DEP: deportate, esuli, profughe, 10, 2009. www.istituto-geopolitica.eu 4 Kimmel M. and Messner M. A. (eds.), Men’s Lives, Ally and Bacon, Boston and London, 1998. 5 Lentin R., cit., p. 157. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 6 dell’eliminazione genocidaria, le donne vengono descritte e considerate come le principali vittime, come sostenuto dalla narrazione ufficiale propagandata dallo stesso governo rwandese. Come riportato dal rapporto di “African Rights” del 19956, la femminilizzazione del genocidio oscura e oblia la partecipazione delle donne nel perpetrare e, a volte, organizzare le violenze. Un altro elemento di genere, che caratterizza il genocidio rwandese, consiste nella possibilità di riscatto sociale, attraverso la partecipazione alle violenze dei giovani hutu arruolati. Come sostenuto anche da Adam Jones, nel 1994 il Rwanda è uno Stato molto povero in cui la maggior parte della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Per moltissimi ragazzi rwandesi la crisi economica innesca anche una crisi esistenziale, perché senza terra e senza lavoro non riescono a sposarsi e a raggiungere lo status sociale dei loro genitori7. In questo contesto, il genocidio consentirebbe di fornire una risposta alla crisi della mascolinità, offrendo anche opportunità di arricchimento mediante l’appropriazione dei beni delle vittime e attraverso la minaccia e il ricatto. Ciò è testimoniato anche dall’utilizzo del termine kinyarwanda “akazi”, che significa lavoro, per indicare l’occupazione svolta dai miliziani durante il genocidio. Quindi, la partecipazione al genocidio e la perpetrazione delle violenze arriva a costituire una pratica di “soggettivazione politica maschile” attraverso cui è possibile per un povero giovane hutu di bassa estrazione sociale divenire un interahamwe (dal kinyarwanda: coloro che combattono insieme). Far parte di queste milizie significa acquisire potere, con l’aspettativa di ribaltare le gerarchie politiche e sociali. Gli interahamwe nella 6 African Rights, Not so innocent: when women become killers, cit. 7 Jones A., Gender and genocide in Rwanda, “Journal of genocide research”, 4(1), 2001, pp. 65-94. www.istituto-geopolitica.eu realizzazione degli omicidi di massa, infatti, tentano di attuare un ribaltamento sociale e politico a loro favorevole, affermando attraverso la violenza la loro supremazia etnica sui Tutsi e imponendo il loro dominio maschile attraverso lo stupro. Infatti, come riportato da Lentin, citando Hague, «la politica militare dello stupro genocidario […] costituì un tipo specifico di “mascolinità etero-nazionale” contrapposta ad una “femminilità” 8 impotente e inferiore» , riferendosi in questo caso al conflitto serbo-bosniaco, ma ritrova una fortissima analogia nel caso del genocidio rwandese. Attraverso l’analisi di genere del conflitto rwandese è, dunque, possibile comprendere, oltre alle dinamiche interetniche, anche le radici del mutamento sociale, che determina un ribaltamento dei ruoli di genere. A questo punto, per comprendere come il genocidio eserciti un profondo impatto di genere sulla popolazione rwandese, è indispensabile compiere l’analisi di come il nazionalismo hutu, che produce gli eventi del 1994, si costruisca e si inventi sulla base di un lessico, che non è esclusivamente etnico, ma anche di genere, definendo e forgiando i confini della nazione sul corpo delle donne. Infatti, mascolinità e femminilità, in quanto costruzioni sociali, non incidono solo sull’appartenenza e sulla definizione dei confini etnici del progetto nazionalista hutu, ma contribuiscono anche e in larga misura alla realizzazione delle violenze, che, durante il genocidio, si differenziano a seconda del genere dei soggetti a cui sono indirizzate. Il modo più efficace, per entrare nel merito della questione della violenza di genere perpetrata durante il genocidio, è concentrarsi sull’analisi della dialettica di genere, che si diffonde durante il regime di Habyarimana e si inasprisce e consolida soprattutto nei primi anni Novanta, all’interno della propaganda anti-Tutsi dell’Hutu Power. 8 Lentin R., cit., p. 155. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 7 Con l’inizio della guerra tra l’esercito rwandese e il FPR (Fronte Patriottico Rwandese), nel 1990, l’odio interetnico raggiunge livelli elevatissimi, tanto che si assiste a vere e proprie campagne mediatiche anti-Tutsi. Radio RTLM (Radio Télévision Libre des Mille Collines) e il settimanale “Kangura” costituiscono i due principali strumenti mediatici che gli estremisti hutu utilizzano per veicolare la propaganda anti-Tutsi. “Kangura” e RTLM rappresentano le più virulente, ma non le uniche, voci dell’odio. Kangura, che in Kinyarwanda vuol dire “svegliatevi”, nonostante abbia una tiratura limitata di circa 10.000 copie, viene distribuito ai borgomastri e gode dell’appoggio dei leader del potere politico e militare. Ben presto le donne tutsi diventano il bersaglio privilegiato di questa propaganda razzista, essendo descritte come potenziali spie del nemico, per carpire i segreti e le intenzioni degli Hutu. Questo contesto è il risultato accumulato nei lunghi anni del regime di Habyarimana ed è fondamentale conoscerlo per capire le dinamiche di violenza di genere che si innescano durante il genocidio. Per questo motivo è opportuno soffermarsi in via introduttiva sui contenuti della propaganda razzista portata avanti dagli estremisti hutu, per mobilitare le masse ad unirsi alla causa hutu. Il principale documento che racchiude i principi razzisti dell’ideologia dell’Hutu Power è rappresentato dai “10 comandamenti Bahutu”, pubblicati in lingua francese su Kangura nel dicembre del 1990. I Comandamenti enunciavano quanto segue: Ogni Hutu deve sapere che una donna tutsi, ovunque essa si trovi, lavora al soldo della sua etnia tutsi. Quindi è un traditore qualsiasi Hutu che: sposi una donna tutsi, che prenda una Tutsi come concubina, www.istituto-geopolitica.eu faccia di una Tutsi la sua segretaria o la sua protetta. Ogni Hutu deve sapere che le nostre giovani ragazze hutu sono più degne e più coscienti del loro ruolo di donna, moglie e madre di famiglia. Non sono forse belle, buone segretarie e più oneste? Donne hutu, siate vigili e riportate i vostri mariti, fratelli e figli alla ragione. Tutti gli Hutu devono sapere che ogni Tutsi è disonesto negli affari. Egli mira solo alla supremazia della sua etnia. Pertanto è traditore ogni Hutu che: • Si allea con un Tutsi nel mondo degli affari. • Investe i suoi soldi o soldi dello Stato nell’impresa di un Tutsi. • Concede favori ai Tutsi negli affari (concessioni di licenze di importazione, prestiti bancari, terreni edificabili, appalti…). I posti strategici in campo politico, amministrativo, economico, militare e di sicurezza devono essere riservati agli Hutu. Il settore dell’istruzione (alunni, studenti, insegnanti) deve essere a maggioranza hutu. Le forze armate rwandesi devono essere esclusivamente hutu. L’esperienza della “guerra d’ottobre” ce lo insegna. Nessun militare deve sposare una donna tutsi. Gli Hutu devono smettere di avere pietà dei Tutsi. Gli Hutu dentro e fuori dal Rwanda devono cercare costantemente amici e alleati per la causa Hutu, a cominciare dai loro fratelli Bantu. • Devono contrastare costantemente la propaganda tutsi. • Gli Hutu devono essere fermi e vigili contro il loro comune nemico tutsi. La rivoluzione sociale del 1959, il referendum del 1961, e l’ideologia hutu devono essere insegnate a tutti gli Hutu e a tutti i livelli. Ogni Hutu www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 8 deve diffondere ampiamente questa ideologia9. Il primo, il secondo, il terzo e il settimo di questi comandamenti esplicitano in maniera inequivocabile la necessità di evitare qualsiasi forma di contatto o di legame con donne tutsi. Agli esordi della violenza donne e bambini di matrimoni misti costituiscono un gruppo altamente a rischio. Le unioni miste vengono condannate e considerate deprecabili, perché minano la purezza della razza hutu. Infatti, nonostante la patrilinearità tipica della società rwandese, le unioni di uomini hutu con donne tutsi non solo vengono viste come condannabili, ma addirittura considerate anti-nazionali, in quanto danno come frutto una progenie insana e pericolosa per il mantenimento dei confini etnici, minando la costruzione e l’affermazione del progetto politico di costruzione della Nazione Hutu. Dalla propaganda degli estremisti hutu emerge con chiarezza non solo l’intento di eliminare fisicamente il nemico tutsi ma anche quello di riappropriarsi completamente e in maniera irreversibile e definitiva del comando, della gestione e dell’amministrazione dello Stato rwandese. Sulla di scia dei lavori di Michela Fusaschi e di Christopher Taylor, credo sia importante soffermarsi anche sulla simbologia rwandese, che attribuisce significati importanti alla mascolinità e alla femminilità. Tradizionalmente, infatti, il Rwanda è una società tipicamente patriarcale e patrilineare, dove la terra, prima della riforma del diritto di famiglia, avvenuta solo dopo il genocidio all’inizio del nuovo millennio, è proprietà esclusiva dell’uomo e le donne nemmeno in caso di vedovanza possono ereditarla. La donna, moglie e madre, diviene come la terra proprietà del marito e, al contempo, è la sola a garantire la 9 Chrétien J.P., Rwanda: les médias du génocide, Karthala, Paris, 1995, pp. 141-142. www.istituto-geopolitica.eu perpetuazione del patrilignaggio. Il suo corpo allora ne diventa il simbolo per eccellenza, al punto che esso è la personificazione tanto dell’abitazione quanto del terreno circostante10. La donna tutsi, quindi, diviene simbolicamente l’incarnazione della collettività e del mantenimento e proseguimento della sua stessa etnia. La donna tutsi viene, infatti, colpita proprio in quanto incarnazione simbolica della collettività, che rappresenta. Il potere riproduttivo è espressione tipica dell’essere donna e ciò consente la sopravvivenza e la continuità, nel caso specifico, dell’etnia tutsi, gestendo anche i processi di socializzazione primaria e trasmettendo quei valori fondanti che determinano l’appartenenza ad un dato gruppo. Allo stesso modo, Taylor 11 sostiene questa tesi, affermando che le donne sono prese di mira dagli interahamwe, soprattutto nelle parti corporee che ne garantiscono la fertilità e quindi la capacità riproduttiva. Questo deriva dal fatto che in Rwanda le donne, sia in virtù della loro natura riproduttiva sia per il lavoro agricolo ad esse associato, simboleggiano la terra stessa. L’appropriazione attraverso la forza delle donne tutsi, dunque, rappresenta l’appropriazione simbolica della terra dei Tutsi, del loro spazio. Ricollegandosi alla teoria colonialista12, secondo cui gli Hutu sono contadini bantu mentre i Tutsi sono allevatori nomadi di stirpe nilotica, discendenti di Cam, figlio di Noè, gli estremisti hutu vogliono rivendicare il loro diritto sulla terra rwandese, rubatagli dagli stranieri tutsi. Durante il genocidio, quindi, 10 Fusaschi M., Corpo non si nasce, si diventa. Antropologiche di genere nella globalizzazione, CISU, Roma, 2013, p. 70. 11 Taylor C.C., Sacrifice as terror: the Rwandan genocide of 1994, Berg, Oxford, 1999. 12 Dettagli sull’ipotesi camitica sono contenuti in: Fusaschi M., Hutu-Tutsi: alle radici del genocidio rwandese, Bollati Boringhieri, Torino, 2000. M’Bokolo E., Amselle J.L., L’invenzione dell’etnia, Meltemi, Roma, 2008. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 9 le azioni di violenza sessuale degli interahamwe sulle donne sarebbero dettate dalla volontà di appropriarsi simbolicamente della terra dei Tutsi e dal fatto che l’annientamento del nemico passa attraverso le violenze praticate sul corpo delle donne. Lentin, anche se non in relazione al caso specifico del Rwanda, parla di assimilazione della donna con la terra del nemico. Lentin intreccia le costruzioni di genere con quelle di etnicità per asserire che, in tempo di guerra, lo stupro delle donne non ha semplicemente a che fare con il sesso o la violenza di genere e nemmeno solo con il potere degli uomini sulle donne o con la volontà di contaminare il gruppo nemico attraverso il ventre della donna. Lo stupro, secondo Lentin, «riguarda la conquista del territorio nemico»13. La profanazione del corpo femminile, attraverso lo stupro e la schiavitù sessuale, trasforma le vittime in “esseri asociali”, come ci ricorda Taylor14. Queste donne sopravvissute, vittime di violenza sessuale, spesso, come vedremo nel paragrafo sugli effetti del genocidio, scontano l’onta dello stupro e subiscono le conseguenze dello stigma sociale. Tenere presenti le implicazioni, che le violenze di genere hanno poi nel tessuto sociale e comunitario, ci svela il disegno politico che si cela dietro ai singoli atti di violenza genocidaria. Lo stupro e la schiavitù sessuale costituiscono le principali forme di violenza utilizzate sulle donne (tutsi ma anche hutu moderate) da parte degli interahamwe durante il genocidio rwandese del 1994. Dalle testimonianze delle sopravvissute a queste forme di violenza sessuale di massa è possibile ricostruire in maniera abbastanza precisa una “scenografia” della violenza, intesa appunto come una sorta di rituale di “detutsizzazione” delle donne tutsi, mettendo in scena sempre identici atti. L’allusione al mondo del teatro deriva 13 Lentin R., cit., p. 160. 14 Taylor C.C., cit., p. 177. www.istituto-geopolitica.eu dalla mia personale convinzione, rafforzata dalle testimonianze delle sopravvissute, che il corpo delle donne tutsi non costituisce solo l’oggetto su cui e attraverso il quale si esprime la politica etnica degli estremisti hutu, ma è anche lo strumento di comunicazione della stessa politica. È sul corpo delle donne, infatti, che si scrive il disegno politico dei genocidari: la volontà di eliminare i Tutsi in quanto gruppo nemico in maniera definitiva ed irreversibile. Una fonte utile a riguardo, oltre alle riunioni dei gruppi di donne stuprate, organizzate periodicamente dall’organizzazione Kanyarwanda, che mi concede il privilegio di assistere, durante la mia permanenza in Rwanda, è costituita dal rapporto di Human Rights Watch del 1996 15 , che raccoglie le testimonianze delle violenze subite durante il genocidio da alcune donne tutsi, provenienti da diverse parti del paese. Tutte parlano di stupro, singolo o collettivo, schiavitù sessuale, matrimonio forzato e mutilazioni. Il rapporto contiene anche la testimonianza di quattro donne hutu (Christine, Claudine, Rose e Maria) stuprate durante il genocidio, perché sono mogli di uomini tutsi e quindi in un certo senso si sono tutsificate. Ma il rapporto dimostra come in realtà basta non aver abbracciato la causa hutu per essere potenziali vittime di violenza. Nel contesto rwandese, dunque, non solo la dimensione etnica, ma anche quella di genere finisce per acquisire un’importanza fondamentale. A questo punto, con la volontà di decostruire la femminilizzazione del genocidio, di cui si parlava in precedenza, è opportuno spostare l’analisi su due aspetti importanti: il ruolo che alcune donne giocano nell’esecuzione materiale e nella organizzazione del genocidio; 15 Human Rights Watch, Shattered Lives. Sexual violence during the Rwandan genocide and its aftermath, HRW, September 1996. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 10 il processo di femminilizzazione della sofferenza, a cui si assiste nell’immediato post-genocidio in Rwanda, anche grazie ai discorsi pubblici della nuova classe dirigente. Nell’immediato dopo-genocidio la letteratura ci fornisce varie fonti romanzate di testimonianze dirette. Infatti, molte sopravvissute, rifugiate in Europa, diffondono le proprie storie sotto forma di romanzi. I più celebri sono La morte non mi ha voluta di Jolande Mukagasana16 e Il fiore di Stephanie di Esther Mujawayo17. Questo processo di femminilizzazione delle conseguenze del genocidio trova una sua legittimazione nell’uso politico, che il regime fa di queste testimonianze, attraverso la lettura di estratti in occasione di cerimonie ufficiali ed altro. In Rwanda, prima del 1994, gli episodi di violenza sono essenzialmente rivolti agli uomini, mentre donne e bambini vengono solitamente risparmiati. Precedentemente le Chiese costituiscono un riparo per le persone minacciate dalla violenza nemica, nel 1994, invece, diventano le camere della morte, dove gli autori dei massacri si rivolgono tanto agli uomini quanto alle donne e ai bambini. La differenza sostanziale sta nel fatto che spesso le donne prima di essere uccise vengono violentate e torturate, magari in presenza dei loro parenti. In generale tutte le donne tutsi sono a rischio, anche quelle sposate con uomini hutu, così come lo sono anche le donne hutu 16 Jolande Mukagasana, famosa superstite del genocidio, ha raccontato la sua storia nel romanzo sopracitato. Tutta la sua famiglia, marito, figlie, sorelle e fratelli sono stati uccisi durante il genocidio. Dopo essersi rifugiata in Belgio, attualmente vive a Kigali dove lavora come dipendente pubblico nella Commissione Nazionale di Lotta contro il Genocidio. 17 Anche Esther Mujawayo è una superstite del genocidio che racconta la sua esperienza nel suo libro. Attualmente residente in Germania, dove lavora come psicoterapeuta. È una delle fondatrici delle più note associazioni di donne che lavorano in Rwanda dopo il genocidio AVEGA (Association des Veuves du Genocide). www.istituto-geopolitica.eu sposate con uomini tutsi o che vengono identificate come appartenenti a gruppi di esponenti dell’opposizione del regime di Habyarimana. Una delle prime donne uccise durante il massacro, che ha inizio il 7 aprile 1994, è proprio una donna hutu, Agathe Uwilingiyimana, leader del Movimento Democratico Rwandese, che viene nominata Primo Ministro nel governo che nasce dagli accordi di pace di Arusha. Le violenze subite dalle donne durante il genocidio hanno effetti che si protraggono nel periodo successivo e che non riguardano solo le singole donne ma spesso si ripercuotono a livello comunitario. Una delle principali conseguenze delle violenze subite è sicuramente rappresentata dalla disgregazione del tessuto sociale e comunitario, attraverso la perdita e la distruzione della fiducia. Questo spesso non si ripercuote solo a livello sociale, ma comporta anche limiti personali nella vita quotidiana del singolo individuo. La guerra e il genocidio distruggono le fitte reti locali di solidarietà comunitaria, che costituiscono un importante strumento tradizionale che garantisce alle donne conforto e sostegno. I familiari vengono uccisi o trovano rifugio all’estero e i vicini di casa, un tempo amici, si sono trasformati spesso nei carnefici che massacrano i propri parenti. Con la dissoluzione della fiducia sociale e comunitaria, molte donne cominciano a risentire dell’isolamento, della solitudine e dell’abbandono, trovando difficoltà a fidarsi degli altri, fuori dalla cerchia della propria parentela più stretta. La maggior parte delle donne sopravvissute al genocidio giungono a trovarsi in condizioni di deprivazione economica e povertà estrema. La situazione economica risulta maggiormente gravosa per le donne capofamiglia, che costituiscono uno dei gruppi maggiormente vulnerabili nell’immediato post-genocidio. Ovviamente le donne capofamiglia costituiscono un fenomeno largamente diffuso dopo un conflitto, ma www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 11 nel caso specifico del Rwanda la situazione è aggravata dalla presenza di una rete sociale instabile e logora. Dopo il genocidio, questa vulnerabilità è particolarmente grave e colpisce vastissime porzioni della popolazione femminile rwandese. Molte donne si ritrovano senza mezzi di sussistenza, senza nemmeno un posto per vivere. In questa condizione di estrema povertà, è enormemente difficile per le donne prendersi cura anche dei bambini e degli altri familiari sopravvissuti e spesso portatori di gravi disabilità. I vincoli e le restrizioni normative ostacolano gli sforzi per ottenere l’accesso alle proprietà e alla terra appartenenti ai loro mariti morti o ad altri familiari (la riforma del diritto di famiglia e la legge sull’eredità vengono promulgate infatti solo nel 2003. Prima di queste riforme le donne erano legalmente impossibilitate ad ereditare i beni dei propri familiari). Nell’immediato postgenocidio, il governo di transizione sostiene che le differenze etniche sono svuotate del loro significato originario ed afferma la propria volontà di volerle trascendere e di promuovere i mezzi necessari al loro superamento. Ma la realtà dei fatti mostra come nel periodo immediatamente successivo alla fine del genocidio, le donne sperimentano situazioni differenti in base all’etnia di appartenenza. Come dimostrato dalle testimonianze raccolte dal già citato rapporto di Human Rights Watch, le donne tutsi, sopravvissute al genocidio, sembrano molto sfiduciate e si trovano in un persistente stato di paura che nutrono nei confronti dei loro vicini hutu, che spesso accusano di coinvolgimento nelle violenze subite. Molte altre sopravvissute al genocidio, invece, palesano il loro rifiuto a voler ritornare nei luoghi di origine dove spesso sono state vittime di violenza e torture, non solo a causa degli orribili ricordi, ma soprattutto per la presenza in quegli stessi luoghi dei propri aggressori o carnefici dei propri parenti. Molte donne hutu invece, sia in aree rurali www.istituto-geopolitica.eu che urbane, risentono di un forte grado di insicurezza per i discorsi pubblici del governo post-genocidio che tendono a dipingere tutti gli Hutu come genocidari. Tale insicurezza determina un fortissimo isolamento sociale soprattutto per le donne che nel 1997 ritornano dai campi profughi in Tanzania o Zaire, ritrovandosi non solo economicamente indigenti ma anche stigmatizzate socialmente come complici di genocidio. Per non parlare del fatto che gli uomini arrestati con l’accusa di coinvolgimento nel genocidio costituiscono un vero e proprio peso per le loro mogli, che, oltre a prendersi cura dei loro bambini, devono anche fornire il cibo per i loro mariti, finendo spesso per essere marginalizzate anche nelle comunità in cui vivono. Una situazione particolare, che spesso sfocia in forme di isolamento estremo, è vissuta dalle donne legate in unioni miste, come ad esempio una vedova hutu, il cui marito tutsi è stato ucciso nel genocidio, può trovarsi respinta dalla famiglia del marito e vedersi negato l’accesso alle proprietà e alla terra del suo sposo defunto. Tale tipo di situazione può essere vissuta anche da una donna tutsi, vedova di un hutu. Questo perché il genocidio esercita un potere di annullamento e disgregamento anche dei rapporti familiari. In un simile contesto i soggetti sono singolarmente isolati e il tessuto sociale completamente disgregato. Ovviamente, uno dei fardelli più onerosi, del genocidio, che grava sulle spalle delle donne, è rappresentato dalle conseguenze delle violenze sessuali subite. È difficile individuare con esattezza il numero di donne stuprate durante il genocidio sia perché moltissime vengono uccise in seguito alle violenze, sia perché moltissime altre non le denunciano, temendo lo stigma sociale che deriva nella società patriarcale rwandese. Tuttavia secondo le stime di Human Rights Watch le vittime di stupro in Rwanda sono tra le 250.000 e le 500.000 e tra le 2.000 e le 5.000 donne www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 12 mettono al mondo dei figli in seguito agli stupri. Le milizie ed i soldati infliggono un trattamento particolarmente brutale alle donne tutsi, perché, come abbiamo visto, la violenza sessuale viene usata come arma per umiliare i Tutsi in quanto gruppo, attraverso la distruzione delle loro donne. Le sopravvissute a queste torture sessuali vengono descritte come “living dead” (morti viventi). Nei racconti delle sopravvissute emergono i particolari di una violenza che si riproduce sempre allo stesso modo e su vasta scala. Alcune donne, esposte al rischio di essere infettate con l’AIDS e altre malattie sessualmente trasmissibili, in seguito alle violenze subite, vengono mutilate, altre soffrono di dolore cronico ed altre danno alla luce i figli dei loro stupratori. I pesi psicologici che derivano sono molto onerosi. Spesso gli stupri da parte degli interahamwe avvengono in pubblico o davanti ai familiari delle vittime, in particolare padri o mariti. Non è raro costringere donne tutsi a servire, come schiave sessuali, uomini hutu. Spesso le milizie sono prese anche dalla rabbia di classe contro le donne privilegiate, che, indipendentemente dalla loro etnia, finiscono per subire abusi. Reyntjens 18 afferma che le donne hutu vengono prese di mira prima nelle zone settentrionali del Rwanda, controllate dal FPR, e poi durante e dopo il genocidio le donne hutu pagano per quello che gli uomini hutu hanno fatto. In Rwanda, lo stupro comporta un enorme stigma sociale, per questo chi ne è vittima, spesso, preferisce esitare a parlarne. Ne consegue, in maniera inevitabile, che il trauma psicologico sia aggravato ulteriormente dall’isolamento sociale. Infatti molte donne stuprate sono additate dalla comunità che le rimprovera di aver venduto i loro corpi per salvarsi la vita, mentre uomini e bambini periscono indiscriminatamente sotto i colpi dei 18 F. Reyntjens, La Guerre des Grands Lacs: Alliances mouvantes et conflits extraterritoriaux en Afrique centrale, l’Harmattan, Paris, 1999. www.istituto-geopolitica.eu machete dei genocidari. Nei casi più estremi le donne stuprate trovano forti ostilità tra i loro stessi familiari. Le donne stuprate, dunque, non solo sono vittime della guerra e della lotta politica ma vengono anche pesantemente denigrate dalle società di appartenenza. In questo modo si vedono negata anche ogni possibilità di matrimonio. Ciò è particolarmente vero soprattutto per quelle donne che partoriscono bambini che, molto spesso, esse stesse poi rinnegano. Molte donne scelgono di non tenere i bambini nati dallo stupro, molte altre, che invece decidono di mantenerli, incontrano resistenza e riprovazione da parte delle loro famiglie e della comunità di appartenenza. Una delle più evidenti conseguenze, che si manifesta nell’immediato postgenocidio, è l’espansione delle responsabilità familiari per le donne. Svariate decine di migliaia di bambini rwandesi restano orfani a causa del genocidio, perdendo uno o entrambi i genitori. Per far fronte a questa emergenza molte donne sopravvissute adottano alcuni di questi orfani, spesso figli di vicini o amici ma anche di sconosciuti. Ma molte donne si ritrovano a doversi prendere cura non solo di questi bambini, presi in affidamento, ma anche di anziani e dei disabili, prodotti dal genocidio. È chiaro ed evidente che le donne si vedono costrette ad assumersi enormi pesi e nuove responsabilità generate dalle esigenze e dalle emergenze che la guerra e il genocidio producono. Infatti, oltre alla cura per la sopravvivenza dei membri delle loro famiglie nucleari, molte donne forniscono cibo e vestiti e pagano le tasse scolastiche per la miriade di bambini orfani. Le vedove del genocidio, le donne i cui mariti sono in prigione e le ragazze capofamiglia costituiscono i gruppi maggiormente vulnerabili nel postgenocidio, trovandosi spesso isolate e senza alcuna protezione legale a salvaguardia dei propri interessi. In tali www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 13 condizioni, sulle donne sono cadute le responsabilità di attività, la cui competenza, precedentemente, era esclusivamente maschile. Tutto ciò ha un peso maggiore nelle aree rurali, dove le donne hanno sempre partecipato attivamente alla produzione e coltivazione di cibo sia per la sfera domestica che per il mercato. Nelle campagne del Rwanda post-conflitto le donne si trovano costrette a coprire l’assenza degli uomini, svolgendo, in aggiunta al lavoro agricolo e a quello di cura dei parenti sopravvissuti, tutte le altre funzioni, un tempo di competenza maschile: elaborazione di nuove strategie di reddito, costruzione o riparazione di case, manutenzione dei bananeti, cura del bestiame, etc. Nelle aree urbane, invece, la maggiore difficoltà, riscontrata dalle donne, è quella di vedersi garantito il diritto alla casa o trovare le risorse economiche per pagarsi l’affitto, soprattutto a causa della mancanza di lavoro salariato o di altre fonti di guadagno. In ultima istanza vanno analizzati anche gli spazi inediti che il genocidio apre per le donne e mi riferisco soprattutto all’incremento della partecipazione femminile nella sfera pubblica. Per lungo tempo, gli atteggiamenti e le pratiche patriarcali permeano la vita politica e la società in Rwanda. La guerra e il genocidio contribuiscono a rafforzare la subordinazione della donna, enfatizzando il militarismo e i valori militari e ponendo le donne giovani in forte competizione tra loro per il limitato numero di uomini da sposare. Tuttavia, si manifestano alcune importanti controtendenze: sia a livello nazionale che locale, donne singole o organizzate in associazioni o gruppi informali svolgono un importantissimo ruolo negli sforzi di ricostruzione comunitaria. Va però precisato che le donne che acquisiscono posizioni di leadership non sono un fenomeno nuovo e la nascita dei primi movimenti di donne www.istituto-geopolitica.eu in Rwanda può essere fatta risalire alla metà degli anni Ottanta. Il fatto inedito rispetto al periodo precedente consiste nelle azioni poste in essere dal governo, che coglie le prime spinte dal basso, legittimandole e riconoscendo la necessità di avere un maggiore spazio politico di espressione e manifestazione dei propri interessi e bisogni. Nascono così le istituzioni votate alla promozione della donna, prima fra tutte il Ministero della donna e della promozione familiare. Soprattutto con la fine del governo di transizione, nel 2003, il numero di donne, che occupano alte posizioni nelle istituzioni centrali, è aumentato considerevolmente. Conseguentemente, anche ai livelli più bassi dello Stato, le donne hanno cominciato a ricoprire posti di responsabilità in maniera crescente. In realtà, lo spazio in cui la leadership delle donne trova maggiore espressione nel post-conflitto è rappresentato dal settore non governativo, che costituisce, in molti casi, un vero e proprio campo di formazione, poiché fornisce professionalità e competenze, tanto che molte di queste donne vengono poi cooptate nelle strutture di governo. Quello che finora ho tentato di dimostrare è che nella narrazione ufficiale del genocidio si assiste ad un fenomeno di femminilizzazione della violenza. Questo tipo di fenomeno tende ad oscurare un’altra verità: la partecipazione delle donne alle violenze di massa. Una fonte preziosissima a questo riguardo è rappresentata dal rapporto di “African Rights”19, ma molto utile è anche un libro di Yolande Mukagasana20, che raccoglie nel carcere internazionale di Arusha testimonianze di vittime e carnefici, sia uomini che donne, del genocidio. Il rapporto di “African Rights” analizza la partecipazione attiva femminile al 19 African Rights, Not so innocent: when women become killers, cit. 20 Mukagasana Y., Le ferite del silenzio. Testimonianze sul genocidio del Rwanda, La Meridiana, Molfetta, 2008. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 14 genocidio e dimostra come donne, appartenenti a diverse classi sociali, abbiano commesso atti di violenza. Ma secondo gli autori, l’onere delle maggiori responsabilità ricade sulle donne istruite, che usano la loro formazione, esperienza e posizione nella comunità per sollecitare le altre donne ad abbracciare la causa hutu e a perpetrare violenze. Il coinvolgimento delle donne non è casuale, perché gli architetti del genocidio cercano di coinvolgere il maggior numero di persone hutu, compresi donne e bambini, per creare una nazione di estremisti legata dal sangue del genocidio. Il rapporto riporta casi di donne che hanno non solo partecipato attivamente nella perpetrazione della violenza, ma che hanno organizzato e pianificato il genocidio. Un esempio è rappresentato dalla già citata Ministra delle pari opportunità del 1994, Pauline Nyiramasuhuko, molto attiva nel coordinamento delle azioni genocidarie nella zona di Butare, a Sud del paese. Questa donna è stata condannata per genocidio e stupro dal Tribunale Penale internazionale per il Rwanda. In questo caso l’accusa di stupro è legata alla diretta responsabilità di Pauline Nyiramasuhuko nell’incitazione pubblica degli interahamwe a perpetrare violenza sessuale sulle donne tutsi. L’elemento interessante riportato nel rapporto di “African Rights” sta negli episodi di impunità che derivano dal ritenere le donne esclusivamente vittime. La femminilizzazione della sofferenza ha portato alla creazione di un’etichetta di innocenza che si imprime sulle donne e che tende a nascondere e a dimenticare il loro coinvolgimento alle violenze. A questo fenomeno della femminilizzazione della sofferenza, ovviamente, fa da contrappunto la “mascolinizzazione” della violenza, che trova la massima espressione nello stupro come arma di guerra. Dimenticare i ruoli svolti dalle donne nel genocidio può portare a episodi di impunità, che indeboliscono www.istituto-geopolitica.eu qualsiasi sforzo di ricostruzione sociale e di riconciliazione nazionale. Inoltre, riconoscere il coinvolgimento delle donne nella violenza, è utile e necessario per restituire loro quell’agency di cui la narrazione ufficiale e dominante del genocidio le ha private. 3. L’equità di genere nella costruzione dello Stato post-genocidio Il fenomeno della femminilizzazione della sofferenza determina un appiattimento delle esperienze vissute dalle donne durante il genocidio, ignorando che le esperienze erano diversificate non solo in base all’etnia ma anche della classe di appartenenza. Le politiche di genere nel periodo precedente al genocidio vengono costruite nel sangue, attraverso l’uso della violenza di massa. Nella seconda metà degli anni Novanta, invece, la politica di genere si iscrive nel tentativo di ribaltare i significati attribuiti al maschile e al femminile, ridisegnando le loro sfere simboliche. La narrazione ufficiale propagandata dal regime enfatizza l’immagine della donna come estranea a una violenza, espressione esclusiva della mascolinità dominante, dipingendole esclusivamente come vittime del genocidio. Le donne, infatti, vengono disegnate e costruite come soggetti di una forma di pace, che si esprime attraverso la cura materna e l’affettività. Nella fase di ricostruzione immediatamente successiva al genocidio, si costruisce e si diffonde questa narrazione dominante che identifica le donne come vittime della violenza, ma, in virtù delle nuove qualità riconosciute come tipiche della femminilità, le donne diventano titolari di una nuova capacità di azione, che si esprime nella loro attiva partecipazione ai processi di riconciliazione e di ricostruzione del paese. La principale giustificazione addotta per spiegare le politiche di genere del post-genocidio è collegata alla situazione demografica, che, anche www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 15 senza la presenza di statistiche ufficiali, è caratterizzata da una popolazione costituita dal 70% di donne, come riportato dalla maggior parte della letteratura. Anche Elizabeth Powley 21 utilizza questo dato demografico per spiegare il motivo della crescente partecipazione politica delle donne nelle istituzioni del paese. La maggiore presenza demografica delle donne rispetto agli uomini avrebbe costretto le istituzioni a dover promuovere le donne, che rappresentavano appunto la maggioranza della popolazione, e ad integrarle nei processi di ricostruzione nazionale. A dire il vero questo legame con il dato demografico traspare in molte testimonianze raccolte, da cui emerge che è molto diffusa l’idea che, data la mancanza degli uomini, l’inclusione delle donne costituisce l’unica possibilità concreta per avviare la ripresa economica del paese. La promozione della donna, almeno inizialmente, non appare dunque legata al principio di equità di genere, ma più alla necessità di superare la fase di emergenza umanitaria e di ricostruzione, per entrare nello sviluppo a lungo termine, raggiungibile solo attraverso il coinvolgimento dell’intera popolazione, sia maschile che femminile. Dalla ricerca, condotta sul campo, emerge un’altra importante osservazione, che riguarda il parallelismo tra il riconoscimento di uno spazio politico per le donne e la democrazia. Il Rwanda dal 2003 raggiunge il primato mondiale per la presenza femminile in Parlamento. Questo primato è spesso identificato in maniera molto semplicistica come processo di democratizzazione da parte delle istituzioni. L’incremento della presenza femminile nella sfera pubblica è spesso utilizzato dal governo per mascherare il deficit democratico, la 21 Powley E., Strengthening governance: the role of women in Rwand’s transition, Sanam Naraghi Anderlini, Washington DC, 2003. www.istituto-geopolitica.eu mancanza di rappresentanza partitica e l’assenza di rappresentanza etnica22. Subito dopo la guerra e il genocidio, le donne si organizzano in maniera del tutto spontanea per tentare di realizzare azioni volte alla ricostruzione del paese, soprattutto a livello comunitario. Inizialmente, come riportano Newbury e Baldwin 23 , questi gruppi femminili riuniscono donne della medesima etnia, Hutu o Tutsi, ma successivamente diventano gruppi abbastanza trasversali e misti, uniti dalla comunanza dei problemi quotidiani da affrontare e fronteggiare. Vengono ricostruite le associazioni che esistevano prima del genocidio e ne vengono create di nuove. La nascita di associazioni, in realtà, non costituisce un fenomeno nuovo in Rwanda, dove le prime associazioni locali nascono già nella seconda metà degli anni Ottanta. Ma in seguito al genocidio, il numero delle associazioni cresce esponenzialmente, anche grazie ai consistenti aiuti internazionali. Nel contesto post-conflitto, caratterizzato da precarietà economica e politica e da lacerazione sociale, le donne si trovano costrette alla solidarietà, ricostruendo in primis le reti sociali, per superare il “divisionismo etnico” e per far fronte alle sfide poste in essere dal genocidio. Nel periodo immediatamente successivo alla fine della guerra, infatti, il governo si trova sprovvisto dei mezzi necessari a rispondere ai bisogni più immediati, per questo le donne devono sforzarsi di trovare modalità di cooperazione per affrontare i problemi comuni. La situazione del post-conflitto non solo crea le condizioni, che favoriscono la rinascita del tessuto 22 Hogg C.L., Women’s Political Representation in Post-Conflict Rwanda: a politics of inclusion or exclusion?, “Journal of International Women’s Studies”, 11(3), Bridgewater, sep. 2009, pp. 3455. 23 Newbury C., Baldwin H., Aftermath: women’s organizations in post-conflict Rwanda, Working Paper No 304, Center for Development Information and Evaluation, Washington, 2000. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 16 associativo, ma offre anche la possibilità di un ribaltamento dei significati dei ruoli di genere, spingendo le donne a svolgere mansioni, precedentemente di esclusiva competenza maschile, come testimoniato soprattutto dalla fitta presenza di donne capofamiglia. In questo senso il genocidio ha determinato un cambiamento nei ruoli di genere, non solo per l’assunzione di nuove responsabilità da parte delle donne, ma anche ridisegnando la stessa mascolinità. Infatti, la cospicua presenza di nuclei familiari diretti da donne rende obsoleta e sorpassata la visione del maschio come capofamiglia, che non rappresenta più l’unico soggetto a produrre reddito monetario extradomestico. Il genocidio, attraverso la ridefinizione dei ruoli di genere, nati dall’apertura di spazi inediti per le donne, innesca un processo di ridefinizione della femminilità e della mascolinità, sulla base dei cambiamenti vissuti nella vita quotidiana. Per diversi autori, le capacità e le energie femminili, dispiegatesi negli sforzi di ricostruzione postbellica, hanno determinato il superamento delle divisioni etniche lungo una linea di genere. Il ruolo delle istituzioni statali è stato solo quello di ufficializzare processi spontanei di empowerment, nati dal dispiegamento delle forze di ricostruzione da parte delle donne in un contesto di costrizione e necessità. Attraverso riforme istituzionali e legislative, lo Stato, in collaborazione con le ONG, favorisce il dispiegarsi e il rafforzamento di queste energie spontanee, realizzate dalle donne in tutto il territorio nazionale. È grazie a queste azioni spontanee che le donne riescono a superare l’isolamento e a ricostruire reti di solidarietà e relazioni di fiducia. Secondo Elizabeth Powley, poiché le conseguenze della guerra e del genocidio si ripercuotono maggiormente sulle donne, queste avrebbero un maggiore interesse nel prevenire qualsiasi forma di tensione e conflitto e nella sua analisi i Rwandesi, anche per questo motivo, percepiscono la popolazione femminile come biologicamente o culturalmente predisposta al perdono e alla 24 riconciliazione . Emerge, dunque, una visione della donna come un soggetto maggiormente orientato, rispetto agli uomini, al bene comune. Tale convinzione è intimamente connessa con il ruolo di cura, culturalmente associato alle donne. Infatti, in Rwanda è convinzione comune che le donne pensino agli altri, alla famiglia e ai figli prima di pensare a loro stesse, mentre gli uomini sono dediti a consumare risorse per soddisfare bisogni personali e soprattutto per il consumo di alcool. Associare le donne al bene comune comporta l’inevitabile idea che le donne siano meno inclini alla corruzione. Quello che emerge fino a questo punto è il tentativo di costruzione di una femminilità, caratterizzata da connotazioni contrapposte alla mascolinità violenta e sanguinaria tipica degli estremisti hutu, che organizzano e realizzano il genocidio. La donna incarna i valori della pace e della non violenza e il suo coinvolgimento nel mondo politico concretizza le opportunità di ricostruzione e riconciliazione del paese. È attraverso l’implementazione delle nuove politiche di genere che il nuovo Stato rwandese giunge al superamento del “divisionismo etnico”. Il genere trova la sua centralità nella politica dello Stato post-genocidio e ne permea il discorso pubblico, sostituendo l’etnia come base su cui costruire e definire i contenuti politici del governo. I significati di genere contenuti nella retorica pubblica sono intrisi, dunque, di un forte essenzialismo di genere. La femminilizzazione della politica e, quindi, della sfera pubblica, viene utilizzata dai vertici delle istituzioni governative per disegnare le finalità, da esse perseguite, di pace e riconciliazione, in contrapposizione con quelle precedenti volte alla frammentazione sociale e all’esclusione etnica. La centralità delle donne, come attori politici, nel nuovo 24 www.istituto-geopolitica.eu Powley E., cit., 2003, pp. 15-16. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 17 Stato rwandese, portatrici dei valori culturalmente e socialmente a loro associati, consente di estendere queste loro caratteristiche alla sfera pubblica e allo Stato. 4. Conclusioni L’intento di questo saggio era analizzare il processo di ricostruzione dello Stato post-genocidio in Rwanda, usando il genere come lente interpretativa, attraverso lo studio del discorso pubblico sull’equità di genere e l’empowerment della donna. La costruzione di questo discorso pubblico, connaturato dalla retorica di genere, è strettamente legata alla considerazione sociale della donna, che era diffusa in Rwanda prima del genocidio, con un necessario processo di ribaltamento dei significati attribuiti alla mascolinità e alla femminilità. Lo stesso progetto di costruzione di una Nazione Hutu, che prende corpo alla fine del regime di Habyarimana nelle frange più estreme dell’hutu power, si fonda su un uso strumentale dei ruoli sociali di genere. Il corpo delle donne, infatti, diventa il terreno sul quale si scrivono e ridisegnano i confini nazionali, lungo una linea di demarcazione etnica. Non è un caso che nella propaganda anti-Tutsi dell’inizio degli anni Novanta, gli estremisti hutu si concentrano sulla denigrazione della donna tutsi, che diventa l’incarnazione del ventre che riproduce e ricrea il nemico, simboleggiando l’intera comunità tutsi. Quindi, la donna va colpita e distrutta utilizzando proprio le parti biologiche che la caratterizzano per la sua capacità riproduttiva. Lo stupro diventa l’arma di guerra che consente di conquistare il territorio nemico. Analizzare il genocidio rwandese da una prospettiva di genere consente di poter rintracciare quelle sfumature trasversali delle identità maschili e femminili, i cui significati dipendono dall’appartenenza etnica. La costruzione della mascolinità hutu e della www.istituto-geopolitica.eu supremazia dell’uomo passano attraverso il rituale della violenza sessuale sulle donne tutsi. I fenomeni di femminilizzazione della sofferenza e di mascolinizzazione della violenza sono utilizzati dalla nuova classe dirigente rwandese per delineare una femminilità che è l’incarnazione dell’affettività, della maternità, del pacifismo e del rifiuto della violenza, dimenticando le responsabilità che le donne hanno avuto nel genocidio e che, volutamente, la narrazione ufficiale, propagandata dal governo, vuole omettere. A ciò corrisponde, dunque, un fenomeno di femminilizzazione della politica, che sostiene la necessità che la classe politica sia dotata di tutte quelle caratteristiche, che, in base alle affermazioni del discorso pubblico, sono possedute dalle donne. Quindi, la classe dirigente rwandese afferma che il genocidio sia il prodotto di una politica maschile, che trova la sua espressione nella violenza, come strumento di coercizione e di annientamento del nemico. Da ciò emerge la necessità di cambiare, attribuendo alla politica quelle caratteristiche tipiche dell’essere donna. In altre parole, il processo di costruzione nazionale, nella ricostruzione postconflitto, si basa sulla retorica di genere che sostituisce quella etnica, utilizzata, invece, dal regime precedente al genocidio. Infatti, le donne rappresentano i nuovi attori della politica rwandese, che vanno a sostituire le etnie, incarnando una simbologia di pace e riconciliazione. Le attribuzioni di queste qualità, che la retorica di Stato identifica come tipicità naturalmente femminili, vengono concepite come comportamenti esemplari che pongono in essere azioni politiche virtuose. Grazie a queste qualità, le donne sono chiamate a svolgere ruoli tradizionalmente attribuiti alla sfera maschile, mantenendo le qualità femminili e materne che le contraddistinguono, trasportandole nella sfera pubblica e nelle istituzioni. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 18 Bibliografia African Rights, Rwanda Not So Innocent: When Women Become Killers, “African Rights”, London, 1995. Baines E.K., Body politics and the Rwandan Crisis, “Third World Quarterly”, Vol. 24, No. 3, 2003, pp. 479-493. Bayisenge F., The quota system in Rwandan local government: women’s representation and political empowerment, ISS, The Hague, The Netherland, 2008. 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