Note sul movimento pentecostale in Africa
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Note sul movimento pentecostale in Africa
Cr St 34 (2013) 823-878 Note sul movimento pentecostale in Africa De fait, les indépendances n’ont guère apporté de réponse crédible à la question que se posent les indigènes: «pourquoi avons-nous été dominés?» (Achille Mbembe, Afriques indociles. Christianisme, pouvoir et État en société postcoloniale, 1985) 1. Note di campo: guerra spirituale al cinema Hollywood 3 agosto 2012, Mbour (Senegal). «Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero» (Giovanni 8:36), così recita in francese il testo del volantino abbandonato su una delle lunghe e basse panche del cinema Hollywood che dà le spalle al quartiere dei pescatori di Mbour, uno dei centri ittici più importanti del Senegal. La grande sala di proiezione comincia a mostrare i segni del tempo ma non ha perso, con il suo pavimento leggermente digradante, l’effetto scenico. La sala non ha però film in programmazione; oggi vi avrà luogo la deliverance1 spirituale della Centre d’Accueil Universel du Royaume 1 Uso qui la grafia inglese e non quella francese usata in Senegal (déliverance), per uniformità con il testo successivo. Nella letteratura anglofona, con il termine deliverance (déliverance in quella francofona) sono identificate le sessioni di preghiera preposte alla liberazione dal male e dai demoni che, asserviti a Satana, costringono l’individuo in una condizione di sofferenza o insoddisfazione. Scelgo di mantenere anche in italiano la parola deliverance, preferendo non tradurla con «esorcismo»; termine che peraltro trova altri corrispettivi sia nel vocabolario inglese (exorcism) sia in quello francese (exorcisme). Il significante deliverance difatti non solo rimanda alla lotta per scacciare i demoni dal corpo di chi ne è posseduto, ma pone anche e soprattutto l’accento sulla liberazione e sulla salvezza come esito vittorioso di tale lotta. 824 S. Cristofori de Dieu, che ha rilevato l’edificio dopo il fallimento del cinema per trasformarlo in un centro di preghiera dove ogni giorno, con sessioni mattutine e pomeridiane, si prega per la risoluzione dei problemi di cui si è vittime. Nessuno è escluso: di qualsiasi confessione o religione, qui si viene a pregare e a trovare soluzione. Problemi finanziari, guarigione delle malattie, deliverance spirituale: queste le tre macroaree, a ciascuna delle quali nel corso della settimana sono dedicate specifiche giornate di preghiera. In base a queste tre tematiche è possibile rintracciare i criteri con cui è stata stilata la lista di problemi nel volantino, superando così l’effetto cumulativo e caotico iniziale: «Malattie incurabili, Farou rap o guélou rap,2 stregoneria, marabutaggio, diabete, ipertensione, sterilità, ulcera, emorroidi, cisti, incubi, fibromi, maleficio,3 insuccesso, disoccupazione, crisi epilettiche ecc.». Accanto all’elenco un’immagine raffigura un giovane ed elegante uomo bianco. Cravatta e giacca rinforzata dalle spalline, l’uomo è seduto in atteggiamento pensieroso. Come preoccupato da qualcosa, sorregge la testa inclinata con una mano. Sotto, è asserito in lettere maiuscole che: «C’è una soluzione». Il verso giovanneo, una riga sotto, fonda nella verità del Vangelo la legittimità della promessa. Nel corso della deliverance, il predicatore insisterà su altri passi del Vangelo, scegliendo quei versi dove il messaggio salvifico annuncia non solo la redenzione dal peccato, come nel capitolo ottavo di Giovanni, ma soprattutto la liberazione dal male e dalle sue incarnazioni demoniache. Così, preparando l’assemblea, che sta per ricevere lo spirito divino, con enfasi reciterà a memoria: prendete forza dal Signore, dalla sua grande potenza. Prendete le armi che Dio vi dà, per poter resistere contro le manovre del diavolo. Infatti noi non dobbiamo combattere contro creature umane, ma contro spiriti maligni del mondo invisibile, contro autorità e potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso [Lettera agli Efesini 6:10-12]. Sempre nel Vangelo, il predicatore trova conferma della lotta vittoriosa contro le forze oscure che sta per essere condotta: – Signore, anche i demoni ci ubbidiscono quando noi invochiamo 2 3 Con le espressioni Farou rap o guélou rap (anche detti farou rabb o thiôro rabb) si intende l’unione di tipo sessuale, stretta spesso all’insaputa dell’interessato/a, con un demone (rabb o djin). Il demone amante è la causa dei disturbi mentali del/lla malcapitato/a, oppure è il motivo del prolungarsi del celibato(/nubilato). Nel testo francese: envoûtement. Note sul movimento pentecostale in Africa 825 il tuo nome. [Gesù disse loro:]4 – Ho visto Satana precipitare dal cielo come un fulmine. Io vi ho dato il potere di calpestare serpenti e scorpioni e di annientare ogni resistenza del nemico. Niente vi potrà fare del male [Luca 10:17-19]. Quando nel corso della preghiera collettiva, arriva il momento dell’effusione, lo Spirito Santo si rivela nel fremito dei corpi che percorre l’assemblea. Una quarantina di persone, ciascuna raccolta in preghiera, sussurra e geme in un’unica tensione. Ma la discesa dello Spirito svela anche la presenza dei demoni; alcuni presenti cominciano ad agitarsi in modo eccessivo e scomposto. È il segno che in quei corpi sta avvenendo la lotta fra Dio e gli agenti di Satana. Entrando rapidi fra le fila dei presenti, salendo sulle panche, sorreggendo laddove necessario i corpi semi-coscienti, il predicatore e le sue due assistenti impongono le mani sulla testa e le spalle dei posseduti. Intimano, in un grido imperioso o in un minaccioso sussurro: «Che il fuoco ti bruci laddove ti nascondi!», sinché quello che era il posseduto non torna calmo ad unirsi alla preghiera dell’assemblea pervasa dallo Spirito. 2. Tensioni Nel 2001, David B. Barrett e Todd M. Johnson pubblicarono su «International Bulletin of Missionary Research» un sorprendente quadro statistico del cristianesimo mondiale.5 In base alle ricerche quantitative da loro coordinate, Barrett e Johnson affermarono che 4 5 Nella drammatica recitazione del pastore, è riportato solo lo scambio di battute del dialogo di Luca. D.B. Barrett, T. Johnson, Annual Statistical Table on Global Mission: 2001, in «International Bulletin of Missionary Research», 25 (2001)/1. In precedenza Barrett aveva curato altre pubblicazioni statistiche annuali per la medesima rivista. Tuttavia, nel dibattito scientifico i dati del 2001 conobbero un’enorme fortuna, non mancando, come si vedrà, di suscitare critiche. Nel 1996, le stime di Barrett testimoniavano già la crescita esponenziale dell’universo pentecostale: mentre nel 1970 erano pentecostali e carismatici 74 milioni di persone (Id., Annual Statistical Table on Global Mission: 1996, in «International Bulletin of Missionary Research», 20 [1996]/1, nel 1997, cioè solo 27 anni più tardi, essi erano arrivati al numero di 497 milioni. Cioè: il 27% della popolazione cristiana mondiale con un ritmo di crescita che, se invariato, li porterà ad essere nel 2025 il 44% (Id., Annual Statistical Table on Global Mission: 1996, in «International Bulletin of Missionary Research», 21 [1997]/1). Se tali previsioni sono giuste significa che, in un prossimo futuro, i pentecostali e i carismatici costituiranno la maggioranza relativa dei cristiani. 826 S. Cristofori pentecostali e carismatici6 dovessero essere stimati nel numero di 523 milioni, attestandosi dunque come la seconda confessione cristiana dopo il cattolicesimo romano. L’effervescenza pentecostale, che alcuni studiosi avevano indagato nel corso degli anni Novanta, assumeva ora un significato diverso: i dati del 2001 dicevano che l’universo pentecostale e la multiforme costellazione carismatica avevano ridefinito, in solo cento anni di storia, il volto del cristianesimo, costituendone il segmento in maggiore espansione. Il quadro statistico di Barrett e Johnson poneva di fronte a un fenomeno che storicamente non conosce eguali per consistenza numerica, rapidità d’espansione e dimensione transnazionale. Queste stime contribuivano, inoltre, a precisare meglio i contorni di quella nuova geografia religiosa che aveva visto nel corso del Novecento un decentramento progressivo del cristianesimo. Le forme della religiosità pentecostale conquistavano un ruolo da protagonista sulla nuova scena globale del cristianesimo, pervadendo con la loro vitalità spirituale «il sud del mondo» (Africa, America latina, Asia) e intensificando la propria crescita nel corso degli ultimi decenni.7 Tuttavia, i dati del 2001 di Barrett e Johnson furono oggetto di controversia, nonostante abbiano conosciuto enorme fortuna all’interno del dibattito scientifico. Le riserve riguardavano soprattutto la categoria euristica di partenza. La nozione di «pentecostali e carismatici», secondo i loro detrattori, avrebbe falsato l’esito delle stime, 6 7 Il termine «carismatico/i», convenzionalmente, indica i movimenti di rinnovamento pentecostale che interessano le chiese storiche di derivazione missionaria. Tuttavia, in alcuni contesti africani, le nuove denominazioni, dagli anni Settanta in poi, hanno scelto di definirsi carismatiche per distinguersi dalle chiese pentecostali già presenti. Tale termine deriva dall’espressione di Paolo Charismata pneumatika nella Prima lettera ai Corinzi 12-14, con la quale indica i doni o le grazie elargiti dallo Spirito ad alcuni cristiani per la crescita della comunità. La manifestazione di questi doni (nei passi di Paolo a cui qui ci riferiamo: guarigione, glossolalia, profetisimo, miracoli in genere) è prova dell’attiva presenza dello Spirito nella comunità. Come ricostruisce Philip Jenkins, il tema dello spostamento del centro di gravità del cristianesimo verso il sud del mondo è un fenomeno di lunga durata che precede gli anni Duemila (Ph. Jenkins, The Next Christendom. The Coming of Global Christianity, Oxford 2002, 316-317). In effetti, alcune pubblicazioni ne davano conto già a partire dagli anni Settanta: W. Bulhmann, The Coming of the Third Church, St. Paul 1976; E.R. Norman, Christianity and the World Order, Oxford 1979; Id., Christianity in the Southern Hemisphere, Oxford 1981; Ch. Fyfe, A.F. Walls, Christianity in Africa in the 1990’s, Edimburgh 1996; A. Walls, The Missionary Movement in Christian History. Studies in the Transmission of Faith, Maryknoll 1996; D.L. Robert, Shifting Southward: Global Christianity since 1945, in «International Bulletin of Missionary Research», 24 (2000)/2, 50-58. Note sul movimento pentecostale in Africa 827 non rispecchiando una realtà molto più frammentata e composita. Nello stesso anno, Patrick Johnstone e Jason Mandryk fornirono, ad esempio, cifre più prudenti che contavano 345 milioni carismatici (e pentecostali) per l’anno 2000.8 A differenza di queste stime più contenute, quelle di Barrett e Johnson erano, in effetti, ricavate in base a criteri estremamente inclusivi che inglobavano all’interno della categoria dei «carismatici e pentecostali», anche quella dei cristiani «indipendenti». Pertanto, vi venivano conteggiati, ad esempio, i fedeli delle chiese indipendenti africane che si erano formate soprattutto nella prima metà del secolo scorso, proclamando un’autonomia in rottura polemica con quelle missionarie (circa 55 milioni, sempre secondo i dati del 2001). La controversa scelta di Barrett e Johnson aveva alle spalle un retroterra di decenni di dibattito, polarizzato fra quanti assumevano un’accezione ristretta e dottrinale del pentecostalismo e quanti ne proponevano, invece, una visione larga ed esperienziale. Il teologo Battista Harvey Cox è, ad esempio, un esponente di quest’ultima posizione. Con il significativo sottotitolo The Rise of Pentecostal Spirituality and the Re-shaping of Religion in the 21st Century, Cox aveva denunciato nel suo Fire of Heaven del 1995 la ristrettezza eurocentrica della nozione di «città secolare».9 Nonostante i pronostici, infatti, l’uscita definitiva dell’umanità dal religioso sembrava, secondo il teologo statunitense, non essersi compiuta: l’effervescenza pentecostale adombrava, piuttosto, una nuova età dello Spirito, anticipata dal risveglio di quelle che un tempo erano le terre di missione.10 Evidentemente, la «spiritualità pentecostale» di Cox intendeva descrivere un fenomeno diffuso e diversificato. Il vantaggio di una simile concezione era quello di saper cogliere il carattere dinamico e aperto del movimento. P. Johnstone, J. Mandryk, Operation World, Colorado Springs 2001. The Secular City è un testo del 1965 dove Cox, ispirandosi al teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, proponeva un nuovo ruolo delle chiese nella società secolarizzata (H. Cox, The Secular City. Secularization and Urbanization in Theological Perspective, New York 1965). 10 H. Cox, Why God Didn’t Die: A Religious Renaissance Flourishing around the World. Pentecostal Christian Leading the Way, in «Nieman Reports», 47 (1993)/2, 3-8; Id., Some Personal Reflections on Pentecostalism, in «Pneuma» 15 (1993), 3944; Id., Fire for Heaven, cit. In realtà, la posizione di Cox è ancora più complessa: il teologo statunitense ritiene che la secolarizzazione delle società europee sia una percezione affermatasi soprattutto in ambito teologico che non rispecchierebbe le complesse dinamiche religiose in atto nel vecchio continente (ibidem). 8 9 828 S. Cristofori Già negli anni Settanta, nella sua controversa visione anti-intellettualistica, Robert Mapes Anderson riteneva che il pentecostalismo fosse da concepirsi come un movimento che esperiva l’agire dello Spirito Santo e i suoi doni: glossolalia, guarigione, profetismo, esorcismo.11 Questo tipo di esperienza religiosa si contrapponeva alla definizione dottrinale che il pentecostalismo classico americano dava di se stesso.12 Per quest’ultimo, difatti, il discrimine risiedeva nell’adesione alla dottrina dell’evidenza iniziale. Vale a dire: nella glossolalia come segno imprescindibile del battesimo nello Spirito. In effetti, prima del libro del 1979 di Robert M. Anderson, l’ex pastore svizzero Walter J. Hollenweger nel 196913 aveva già adottato una concezione inclusiva che nel corso dei decenni successivi non smise di suscitare reazioni critiche all’interno del mondo intellettuale pentecostale, prevalentemente anglofono.14 Teatro di queste schermaglie furono soprattutto le riviste pentecostali di studi teologici e storici come: «The Journal of Pentecostal Theology» (Sheffield Academic Press), «Pneuma» (Society for Pentecostal Studies), «Epta Bulletin» (European Pentecostal Theological Association), «Asian Journal of Pentecostal Studies» (Asia Pacific Theological Seminary).15 Dalle colonne di «Pneuma», ad esempio, Gary McGee nel 1994 polemizzava contro coloro la cui definizione ampia «cumula insieme un’incredibile varietà di chiese indigene, che contemplano diversi gradi di sincretismo, assieme agli esponenti pentecostali e carismatici classici».16 Fu soprattutto nel corso degli anni Novanta, in effetti, che molti studiosi scelsero la definizione inclusiva contro cui polemizza McGee e che trova in Hollenweger un antesignano.17 Quest’orientaR.M. Anderson, Vision of the Disinherited: The Making of American Pentecostalism, New York 1979, 4. 12 Si veda anche: A.H. Anderson, Introduction: World Pentecostalism at a Crossroads, in Pentecostals after a Century. Global Perspectives on A Movement in Transition, ed. by A.H. Anderson, W.J. Hollenweger, Sheffield 1999, 19-31. 13 W.J. Hollenweger, Enthusiastisches Christentum. Die Pfingstbewegung in Geschichte und Gegenwart, Wuppertal-Zürich 1969; prima traduzione inglese: The Pentecostals, London 1972. 14 A.H. Anderson, Introduction, cit.. 15 W.J. Hollenweger, The Black Roots of Pentecostalism, cit., 33. 16 G. McGee, Pentecostal Missiology: Moving Beyond Triumphalism to Face the Issues, in «Pneuma», 16 (1994) 276-277, citato in A.H. Anderson, Introduction, cit., 20. 17 Oltre ai testi già citati di R.M. Anderson, Cox, Hollenweger, menziono a titolo di esempio: A.H. Anderson Bazalwane: African Pentecostal in South Africa, Pretoria 1992; Id., African Reformation. African Initiated Christianity in the 20th Century, Trenton-Asmara 2001; Id., An Introduction to Pentecostalism, Cambridge-New 11 Note sul movimento pentecostale in Africa 829 mento del dibattito trova probabilmente motivazione nel carattere transnazionale della vertiginosa espansione pentecostale, di cui in quel decennio gli studi religiosi cominciavano a prendere atto. L’opzione inclusiva ha avuto, tuttavia, anche degli effetti di riverbero sul passato. Essa motiva, infatti, una rilettura tanto delle origini storiche del pentecostalismo quanto della storiografia sul cristianesimo africano. Per certi versi, tale reinterpretazione non è priva di implicazioni politiche che, a ben guardare, erano già insite nelle posizioni di Hollenweger negli anni Settanta. L’intento dichiarato del York 2004; Id., African Independent Churches and Global Pentecostalism: Historical Connections and Common Identities, in African Identities and World Christianities in The Twentieth Century, ed. by K. Koschorke, Wiesbaden 2005, 63-76; Id., The Pentecostal and Charismatic Movements, in Cambridge History of Christianity v. 9: World Christianities, c. 1914-2000, ed. by H. Mc Leod, Cambridge 2006, 89-106; 2007; J.K. Asamoah-Gyadu, African Charismatics. Current Developments Within Independent Indigenous Pentecostalism in Ghana, Leiden 2005; Imaginaires politiques et pentecôtismes (Afrique/Amérique Latine), éd. par A. Corten, A. Mary, Paris 2000; Between Babel and Pentecostal. Transnational Pentecostalism in Africa and Latina America, ed. by A. Corten, R. Marshall-Fratani, Bloomington 2001; O.U. Kalu, The Third Response. Pentecostalism and the Reconstruction of African Christian Experience in Africa, 1970-1995, in «Journal of African Christian Thought», 1 (1998)/2, 25-32; Id., «Globalitazion» and Religion. The Pentecostal Model in Contemporary Africa, in Uniquely African? African Christian Identity from Cultural and Historical Perspectives, ed. by J. Cox, G. Ter Haar, Trenton, 215-240; Ogbu Kalu (ed. by), African Christianity: An African Story, Pretoria 2005; Id., A Trail of Ferment in African Christianity: Ethiopanism, Prophetism, Pentecostalism, in African Identities and World Christianities in the Twentieth Century, ed. by K. Koschorke, Wiesbaden 2005, 19-47; Id., African Pentecostalism. An Introduction, New York 2008; Id., A Discursive Interpretation of African Pentecostalism, in «Fides et Historia», 41 (2009)/1, 71-99; Interpreting Contemporary Christianity. Global Processes and Local Identities, ed. by O.U. Kalu, A. Low, Grand Rapids 2008; L. Lado, Catholic Pentecostalism and the Paradox of Africanization: Processes of Localization in a Catholic Charismatic Movement in Cameroon, Leiden-Boston 2009; Called & Empowered. Global Mission in Pentecostal Perspective, ed. by M.W. Dempster, B.D. Klaus, D. Petersen, Peabody 1991; S.J. Land, Pentecostal Spirituality. A Passion for the Kingdom, Sheffield 1993; D. Martin, Tongues of Fire. The Explosion of Protestantism in Latin America, Oxford, Cambridge 1990; Id., Pentecostalism: The World Their Parish, Oxford 2002; D. Maxwell, African Gifts of the Spirit. Pentecostalism and the Rise of A Zimbabwean Transnational Religious Movement, Oxford 2006; Charismatic Christianity as a Global Culture, ed. by K.O. Poewe, Columbia 1994; The Century of the Holy Spirit. 100 Years of Pentecostal and Charismatic Renewal, 1901-2001, ed. by V. Synan, Nashville 2001; D. Stoll, Is Latina America Turning Protestant? The Politics of Evangelical Growth, Berkeley 1990; A. Yong, The Spirit Poured Out on All Flesh. Pentecostalism and the Possibility of Global Theology, Grand Rapids 2005. 830 S. Cristofori ex pastore svizzero era quello di rintracciare le radici storiche che il pentecostalismo sembrava aver dimenticato o voler rimuovere.18 In tale senso egli, nel ricostruire le diverse matrici del movimento, evidenziò quella afro-americana, restituendo un ruolo fondativo all’esperienza religiosa di Azusa street.19 All’interno del fermento religioso statunitense di inizio Novecento, Hollenweger privilegiò, dunque, la predicazione e l’intensa esperienza spirituale della comunità religiosa che si era creata intorno alla figura carismatica dell’afro-americano William Jospeph Seymour nell’Azusa street Revival di Los Angeles (in particolare fra il 1906 e il 1913). In tale prospettiva, Hollenweger scardinava il primato del dogma della glossolalia, ridimensionandone il valore storico fondativo.20 In effetti, la sua ricostruzione metteva in secondo piano il ruolo del predicatore indipendente Charles Fox Parham, fondatore nel 1901 della comunità religiosa della Bethel Bible School (Topeka – Kansas) che avrebbe vissuto l’esperienza glossolalica21 come testimonianza primaria e imprescindibile del vero battesimo nello Spirito Santo.22 Il pentecostalismo è, tramite questa operazione storica, restituita all’odierna pluralità delle testimonianze carismatiche, che vede protagoniste tanto le grandi denominazioni transnazionali, quanto quelle a carattere locale che tuttavia non mancano di riferirsi, anche solo su un piano simbolico, a un più vasto orizzonte globale. Ma non solo: la definizione ampia e prevalentemente esperienziale, che esclude il primato glossolalico, consente di percepire l’origine policentrica del movimento pentecostale. Sin dai suoi esordi, tale movimento si è contraddistinto per la propria capacità di valicare le frontiere e adattarsi a contesti socio-culturali assai diversi tra loro. In Africa, ad esempio, esso sembra aver trovato un terreno fertile nei W.J. Hollenweger, Enthusiastisches Christentum, cit.; Id., Pentecostalism. Origins and Developments Worldwide, Peabody 1997; Id., The Black Roots of Pentecostalism, in Pentecostals after a Century, cit. 19 Accanto alla «radice near», Hollenweger individua altre matrici del pentecostalismo: quella evangelica, quella cattolica e quella ecumenica. 20 Nell’ambito del pentecostalismo americano è invece prevalente una ricostruzione storica che tende a demitizzare l’esperienza dell’Azusa street Revival, sebbene sia unanimemente riconosciuta la decisiva spinta propulsiva che il movimento ricevette da questa comunità. Questa forma di cristianesimo viene, così, ricondotto agli holiness movement da cui sarebbe emerso come sottocultura glossolalica. 21 La glossolalia, in realtà, per questa prima comunità coincideva con la xenolalia e non con il parlare in lingue ignote di origine celeste. 22 W.J. Hollenweger, The Black Roots of Pentecostalism, in Pentecostals after a Century, cit., 40-44. 18 Note sul movimento pentecostale in Africa 831 culti di trance e possessione pre-cristiani. O forse, nella prospettiva indicata da Hollenweger, sarebbe più corretto parlare di un ritorno in terra africana; egli, difatti, individua una profonda struttura orale nel pentecostalismo, che avrebbe ereditato dalla sua matrice nera. Le ragioni dell’attuale successo di questo movimento cristiano non deriverebbero, quindi, da un contenuto dottrinale peculiare.23 L’origine nera, secondo Hollenweger, motiva la capacità di adattamento del messaggio pentecostale in quanto esso è affidato a una liturgia orale e a una teologia narrativa. Allo stesso modo, la sua oralità spiegherebbe sia l’inclusione liturgica di sogni e visioni dalla forte espressività iconica, sia la centralità del carisma della guarigione miracolosa tramite la preghiera. Tale operazione storica è, senza dubbio, in grado di estendere la nozione pentecostale sino a renderla capace di includere la pluralità delle esperienze cristiane che vivono e testimoniano (sia nel presente sia nel passato) l’efficacia dello spirito divino nella vicenda umana. Essa sembra, però, cedere alla tentazione di ricondurre a un’origine astorica, un processo storico, dinamico e aperto sull’avvenire. Il prevalente carattere orale della liturgia e della teologia pentecostale finiscono, cioè, per configurare una definizione essenzialista della cultura nera, immutata nel tempo e senza relazione alcuna con le culture egemoniche dei contesti diasporici e coloniali. Svincolato da una presunta essenza culturale nera, l’approccio definitorio ampio ha tuttavia indubbi meriti nell’ambito più specifico della storiografia africanista. Esso, infatti, riconnette le comunità pentecostali africane (passate o presenti) all’orizzonte più generale della storia del cristianesimo, riuscendo ad evitare alcune insidie insite nella nozione di sincretismo. Quest’ultima, nella sua più vaga accezione, rimanda infatti all’idea di un cristianesimo originariamente monolitico venuto a contatto, tramite l’operato missionario, con la pluralità culturale delle società africane. I cristianesimi, che ne deriverebbero, sembrano essere così confinati a un’espressione culturale, quasi un sottoprodotto locale di una storia universale. Laddove l’opposizione fra particolare e universale si configura all’interno dei rapporti di forza interculturali propri della situazione coloniale e delle nuove forme di dipendenza e sfruttamento. Con l’applicazione storiografica della nozione pentecostale ampia non si tratta di negare la concretezza storica di questi rapporti di 23 Ibidem, 36-39. 832 S. Cristofori forza, né tanto meno di dissolvere il profondo legame che l’evangelizzazione africana ha avuto con la fase e il potere (coercitivo e/o egemonico) coloniale. Piuttosto essa consente di riconoscere il contributo che le forme di cristianesimo, sorte all’interno di questa violenta globalizzazione, hanno dato alla storia del cristianesimo. In effetti, attraverso la nozione esperienziale e non dottrinale, emerge una pluralità di linee di sviluppo storico che contribuisce a definire la forma della religiosità pentecostale, in una relazione dialettica fra locale e globale. Accanto alla sottocultura glossolalica degli holiness movement statunitensi e alla radice afroamericana, affiorano, così, altri percorsi storiografici che gettano nuova luce sui profetismi, i Risvegli e i «movimenti di libertà e salvezza»24 africani. Una pentecostalizzazione che precederebbe, in alcune circostanze, l’Azusa Street Revival, come nel caso delle chiese etiopiche sudafricane, sorte fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. In altre circostanze, invece, il movimento nacque indipendentemente dal contributo missionario pentecostale, come nel caso nigeriano dove, a partire dalla metà degli anni Dieci, successivi risvegli profetici percorsero la regione sud-occidentale, delineando un paesaggio religioso assai vitale e complesso.25 Anche queste ipotesi storiografiche non sono prive di rischi. In primo luogo, quello di includere nella medesima categoria interpretativa eventi che, pur connessi, sono spesso fortemente discontinui fra loro. A tale riguardo, l’antropologo Paul Gifford ha osservato che «il pentecostalismo è stato presente in Africa per gran parte del secolo – molte delle chiese indipendenti possono essere a buon diritto definite pentecostali».26 Tuttavia – egli osserva – a partire dagli anni Settanta si sono propagate nuove forme di pentecostalismo che si sono autorappresentate in discontinuità da quelle precedenti, tanto che in alcuni contesti esse hanno preferito adottare la definizione di chiese carismatiche. Così, agli inizi degli anni Novanta il pentecostalismo in Africa si presentava in forme differenti, avendo seguito uno sviluppo V. Lanternari, Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Milano 1960. 25 S. A. Fatokun, Historical Sketch of Pentecostal Movements in Nigeria (with on the Southwest), in «Cristianesimo nella storia», 28 (2007) 609-633; Id., The Great Move of God in an African Community. A Retrospect of the 1930s Indigenous Pentecostal Revival in Nigeria and Its Impact on Nigerian Pentecostalism, in «Exchange», 38(2009)/1, 34-57. 26 P. Gifford, African Christianity. Its Public Role, London 1998, 33. 24 Note sul movimento pentecostale in Africa 833 storico incomprensibile se interpretato secondo il modello paradigmatico delle chiese indipendenti classiche, quali ad esempio: La chiesa del Signore Gesù Cristo sulla Terra sorta dal movimento profetico guidato da Simon Kimbangu in Congo (anni Venti), la chiesa Apostolica di John Maranke e la chiesa cristiana di Zion di Samuel Mutendi in Zimbabwe (anni Trenta), la chiesa Lumpa di Alice Lenshina (anni Cinquanta). Gifford non nega, dunque, la validità dell’applicazione della nozione estesa di pentecostalismo. Ma, in polemica con Cox27 e Poewe,28 egli sostiene piuttosto che gli elementi distintivi delle chiese indipendenti (liturgie «africanizzate», integrazione del culto degli antenati, resistenza o opposizione all’egemonia europea) non siano applicabili al movimento pentecostale attuale.29 A ben guardare, i limiti individuati da Gifford si presentano anche rovesciando la prospettiva: le dinamiche religiose attuali possono essere proiettate sulla storia religiosa passata, correndo il rischio di non seguire le linee di trasformazione e i percorsi divergenti, e a tutto vantaggio di una repertorializzazione di casi in cui sembrerebbe riaffacciarsi l’invariata fissità della struttura pentecostale. Sebbene rischiosi, tali contraddizioni e paradossi tracciano una linea di tensione su cui è necessario mantenersi. Le pagine seguenti cercheranno di raggiungere questo posizionamento. L’analisi che vi è proposta muove dal tentativo di individuare alcune questioni chiave intorno a cui, negli ultimi vent’anni, si è articolato un dibattito storico-antropologico tanto vivace quanto complesso. Il protagonismo del movimento pentecostale ha motivato la fioritura di una letteratura vastissima, difficile da padroneggiare interamente. Allo stesso tempo, esso ha favorito un ripensamento critico di nozioni che venivano date per acquisite nei decenni precedenti. Tale ripensamento investe anche, e forse principalmente, le categorie con cui leggere il passato. L’ipotesi di fondo, su cui qui si intende lavorare, è che la necessità per gli studiosi di tornare a guardare criticamente indietro trovi come prima motivazione la peculiare concezione pentecostale del tempo: una visione, come si vedrà, fortemente discontinua della relazione fra passato e presente, che tuttavia chiama continuamente in gioco nell’esperienza salvifica attuale la storia passata. Come hanno mo- H. Cox, Fire for Heaven, cit. Charismatic Christianity as a Global Culture, ed. by K. Poewe, cit. 29 P. Gifford, African Christianity, cit. 27 28 834 S. Cristofori strato soprattutto gli studi di Birgit Meyer,30 il discorso pentecostale annuncia che bisogna rinascere, distaccandosi dal passato e dai suoi condizionamenti presenti. In questa lotta spirituale per la salvezza, l’avversario è l’eredità demoniaca del passato, vale a dire: la tradizione come maledizione trasmessa fra generazioni. Il passato, a cui bisogna voltare le spalle, non è mai stato così decisivo. 3. I pentecostali irritano gli intellettuali? Nella metà degli anni Novanta vedono la luce cinque affreschi della storia del cristianesimo in Africa. Nel 1994 escono 2000 Years of Christianity in Africa. An African History di John Baur31 e Drums of Redemption. An Introduction to African Christianity di Harvey J. Sindima.32 Nell’anno seguente Elizabeth Isichei pubblica A History of Christianity in Africa. From Antiquity to The Present,33 mentre nello stesso anno Adrian Hastings, con The Church in Africa 1450-1950,34 riprende a ritroso il percorso intrapreso nel 1979 con A History of African Christianity 1950-1975,35 un’opera che aveva fatto scuola e che, ancora oggi, costituisce un punto di riferimento essenziale sia per gli africanisti sia per gli storici del cristianesimo. Mark R. Shaw, direttore dell’«African Journal of Evangelical Theology», invece propone nel 1996, con The Kingdom of God in Africa,36 una ricostruzione più sintetica e interamente orientata dalla nozione agostiniana di città di Dio e da quella di regno di Dio nella storia del teologo Helmut Richard Niebuhr. Nelle pagine seguenti farò ampio riferimento agli studi di questa autrice, ma per ora mi limito a far riferimento alla sua prima opera monografica dedicata a questo tema: B. Meyer, Translating the Devil. Religion and Modernity Among the Ewe in Ghana, Trenton 1999. 31 J. Baur, 2000 Years of Christianity in Africa. An African History 62-1992, Nairobi 1994, trad. it. Storia del cristianesimo in Africa, Bologna 2008. 32 H.J. Sindima, Drums of Redemption. An Introduction to African Christianity, Westport 1994. 33 E. Isichei, A History of Christianity in Africa. From antiquity to the present, London 1995. 34 A. Hastings, The Church in Africa 1450-1975, Oxford 1994. 35 A. Hastings, A History of African Christianity 1950-1975, Cambridge, New York 1979. Precedentemente Hastings aveva pubblicato Church and Mission in Modern Africa, London 1967. 36 M. Shaw, The Kingdom of God in Africa. A Short History of African Christianity, Grand Rapids 1996. 30 Note sul movimento pentecostale in Africa 835 Ai volumi di Baur e Sindima va riconosciuto il merito di aver scelto un approccio panafricano. Baur apre il suo libro ricostruendo, in maniera più accurata di Sindima, il ruolo centrale che la chiesa nordafricana ed egiziana svolsero nei primi secoli del cristianesimo per poi passare alla storia della chiesa nubiana ed etiope dopo l’islamizzazione. Allo stesso modo, nella seconda parte del libro, Baur percorre i tre secoli di storia dei regni cattolici del Kongo, Angola, Warri e Mwene Mutapa, formatisi sotto il protettorato portoghese fra il XVI e il XIX secolo. Lo scenario millenario panafricano ha soprattutto il merito di mostrare le profonde radici storiche del cristianesimo nel continente, superando un’identificazione riduttiva fra evangelizzazione e fase coloniale. Per altri versi, però, sia Baur che Sindima sembrano ancora muoversi sui vecchi binari di quella storiografia missionaria che aveva mostrato i suoi limiti già negli anni Sessanta, nella temperie delle indipendenze. L’epoca moderna sembra, così, avere come protagonisti incontrastati i missionari occidentali. Si tratta, in tal senso, di una storiografia che continua a mettere in ombra il ruolo attivo degli africani nella diffusione del Vangelo. Ricezione passiva africana contro opera missionaria bianca: un vecchio schema che una corposa bibliografia negli ultimi cinquant’anni ha decostruito, mostrandone la matrice ideologica coloniale. In modo magistrale Hastings (The Church in Africa, cit.) e Isichei (A History of Christianity in Africa, cit.) capitalizzano, invece, l’eredità di questa storiografia. Isichei, la cui opera ha la stessa profondità cronologica di quella di Baur, osserva come l’espansione del cristianesimo nelle aree sub-sahariane sia avvenuta soprattutto nel corso del Novecento. Vale a dire, in un’epoca che vede tramontare la figura dell’evangelizzatore europeo, immortalata in modo romantico e apologetico dalla vecchia storia missionaria. Il radicamento cristiano, in tal senso, viene restituito da Isichei all’operato, spesso anonimo, degli evangelizzatori e dei catechisti africani. La sua ricostruzione è, inoltre, l’unica a saper vedere, nel percorso millenario del cristianesimo africano, anche una storia di genere. In modo forse ancora più efficace di Isichei, il voluminoso testo di Hastings scardina l’impianto della storiografia missionaria proponendo una struttura argomentativa che in primo luogo esamina il contributo africano per poi ricostruire gli apporti europei a questa storia. L’epoca contemporanea del cristianesimo africano si apre ad esempio per Hastings con le spinte, interne alla diaspora africana londinese, verso una rinnovata relazione con il continente sub-sahariano e che trovò concreta realizzazione so- 836 S. Cristofori prattutto attraverso gli insediamenti degli schiavi liberati nell’Africa occidentale (in particolare in Sierra Leone).37 Per i limiti cronologici scelti (1450-1950), Hastings non ripercorre il passato più immediato del cristianesimo africano, mentre Baur nei suoi ultimi capitoli guarda al trentennio successivo alle indipendenze, mettendo a fuoco alcune delle tematiche del concilio Vaticano II: inculturazione, ecumenismo, dialogo interreligioso, per quindi concludere con un capitolo sul sinodo africano del 1994.38 Isichei e Shaw dedicano, invece, un pur breve paragrafo alla «proliferazione delle nuove chiese»:39 la prima autrice si concentra sulla diffusione a partire dagli anni Ottanta del vangelo della prosperità e sulla sua derivazione nordamericana, rifacendosi alle analisi di Paul Gifford;40 il secondo propone, invece, una breve esposizione dell’evoluzione della teologia evangelica africana a partire dagli anni Settanta, individuando nella conferenza internazionale di Losanna del 1974, un punto di svolta decisivo per il rinnovamento teologico africano.41 Manca dunque, allo stato attuale, una ricostruzione complessiva della crescita esponenziale delle nuove denominazioni pentecostali africane, che ricollochi questo fenomeno epocale all’interno di una storia di lunga durata. Questo stesso limite è osservabile nella monumentale opera A History of the Church in Africa di Bengt G.M. Sundkler e Christopher Steed.42 Pubblicata nel 2000 a cinque anni della morte di Sundkler, pioniere della storiografia sulle chiese indipendenti suadafricane. Negli anni in cui venivano pubblicate le opere a cui si è fatto accenno, la nuova effervescenza pentecostale aveva già ridefinito profondamente le forme della religiosità cristiana, attraverso un movimento che sembrava superare i confini confessionali. Non integrate in un’organizzazione unitaria, le nuove denominazioni pentecostali si diffusero in un processo espansivo che subì un’accelerazione nel corso degli anni Ottanta, formando fra loro una rete di relazioni flessibili e dinamiche. A. Hastings, The Church in Africa 1450-1975, cit., 173-188. J. Baur, A History of African Christianity 1950-1975, cit., trad. it.: 683-786. 39 E. Isichei, A History of Christianity in Africa, cit., 334. 40 Ibidem, 334-337. Di Gifford, in particolare, l’autrice riprende le tesi contenute in: P. Gifford, The Religious Right in Southern Africa, Harare 1988; Id., Christianity and Politics in Doe’s Liberia, Cambridge 1993; 41 M. Shaw, The Kingdom of God in Africa, cit., 278-282. 42 B. G. M. Sundkler, Ch. Steed, A History of the Church in Africa, Cambridge 2000. 37 38 Note sul movimento pentecostale in Africa 837 Il confronto degli studiosi con questo rapido processo di riconfigurazione era ormai inevitabile: una nuova generazione di africanisti, presente sul campo negli anni Novanta, fu pronta, come si vedrà, a cogliere la sfida, iniziando a studiare un fenomeno complesso, diversificato e con sfuggenti ramificazioni transnazionali. Ne nacque una letteratura rigogliosa che ha saputo iniettare nuova linfa nella storia degli studi religiosi, dettando un’innovativa agenda tematica al più generale dibattito storico-antropologico. Per ampiezza e complessità, questa bibliografia richiama la stagione degli studi che negli anni Sessanta e Settanta aveva indagato i movimenti cristiani che erano stati protagonisti di quella che all’epoca veniva definita come «africanizzazione». Nonostante questa vivacità, il dibattito scientifico ha accumulato almeno un decennio di ritardo rispetto alla «pentecostalizzazione». Anche se non sono mancati, in precedenza, importanti figure di studiosi che hanno dedicato ricerche all’argomento, come ad esempio Jean Comaroff43 e Johannes Fabian.44 Questo ritardo per certi versi può essere associato alla crisi che gli studi sul cristianesimo africano, secondo Hastings,45 avrebbero attraversato nel corso degli anni Ottanta. Per Hastings, dopo l’«epoca d’oro» degli anni Sessanta e Settanta, gli studi avrebbero, infatti, registrato un declino. Da un lato le chiese indipendenti, nonostante la loro continua crescita, persero d’interesse per i ricercatori.46 Dall’altro, questa flessione della produzione scientifica corrisponde al rapido declino delle università africane che nei decenni precedenti erano state invece protagoniste di una fervente attività culturale, attraendo studiosi e ricercatori da ogni parte del mondo.47 La decadenza che investì molti di questi atenei48 si inserisce in una più generale crisi delle istituzioni e degli stati sub-sahariani con l’aprirsi del regime mondiale neo-liberista.49 Nonostante l’indubbio declino dei centri di ricerca africani, è tuttavia vero che proprio nel corso degli anni Ottanta gli studi percorsero nuove strade di ricerca, rendendo il quadro teorico e metodoloJ. Comaroff, Body of Power, Spirit of Resistance: The Culture and History of a South African People, Chicago 1985. 44 J. Fabian, Jamaa. A Charismatic Movement in Katanga, Evanston 1971. 45 A. Hastings, African Christianity Studies, 1967-1999. Reflections of an Editor, in «Journal of Religion in Africa», 30 (2000)/1, 30-44. 46 Ibidem, 37. 47 Ibidem. 48 L’Africa australe costituisce sicuramente un’eccezione di questo generale declino. 49 A.M. Gentili, Il leone e il cacciatore: storia dell’Africa sub-sahariana, Roma 2008, 425-435. 43 838 S. Cristofori gico di riferimento molto più complesso. Gli studi di quel decennio riguardarono infatti temi chiave per una maggiore conoscenza e una più attenta ricostruzione storica del cristianesimo. Ad esempio, grazie all’acquisizione della svolta linguistica in quegli anni, la letteratura si è arricchita di studi dedicati ai testi religiosi e sacri:50 i cui più importanti esiti sono forse oggi le analisi di Elizabeth Gunner sugli inni zulu e sulle meditazioni di Isaiah Shembe e degli aderenti alla sua Nazaretha Church in Sudafrica.51 Oppure gli studi di Isabel Hofmeyr sulla integrazione della Bibbia nei racconti popolari nella regione del Transvaal.52 Patrick Harries, invece, lavorando sulla produzione letteraria dei religiosi europei nell’archivio di Losanna della Società missionaria svizzera, ha studiato le «scienze missionarie» come immenso deposito da cui successivamente l’africanistica, divenuta disciplina accademica, attinse a piene mani.53 Come ricostruito da David Maxwell,54 gli anni Ottanta furono anche segnati dal crescente interesse degli antropologi nei confronti del tema della conversione e, in questo ambito, videro la luce due influenti pubblicazioni: il volume collettaneo Vernacular Christianity curato da Wendy James e Douglas Johnson nel 198755 e il numero speciale dell’«American Ethnologist» dello stesso anno, che si chiude con il commento di Terence O. Ranger.56 Gli studi storici, in particolare sullo Zimbabwe,57 di quest’ultimo In questa breve ricostruzione degli studi nel corso degli anni Ottanta, mi rifaccio prevalentemente al testo di David Maxwell che, come redattore del «Journal of Religion in Africa», scrisse nel 2006 (Writing the History of African Christianity: Reflections of an Editor, in «Journal of Religion in Africa», 36 [2006]/3-4, 379-399), riprendendo il filo del discorso fatto nel 1999 dal suo predecessore Adrian Hastings (African Christianity Studies, 1967-1999, cit.). 51 E. Gunner, The Man of Heaven and Beautiful Ones of God. Writings from Ibandla Lamanazaretha, a South African Church, Leiden-Boston 2002. 52 I. Hofmeyr, We Spend our Years as a Tale that is Told: Oral Historical Narrative in a South African Chiefdom, Portsmouth-Johannesburg-London 1994. 53 P. Harries, Exclusion, Classification and Internal Colonialism. The Emergence of Ethnicity among the Tsonga-speakers of South Africa, in The Creation of Tribalism in Southern Africa, ed. by L. Vail, London-Los Angeles 1989; Butterflies & Barbarians. Swiss Missionaries & Systems of Knowledge in South-Est Africa, Athens, Ohio, 2007. 54 D. Maxwell, Writing the History of African Christianity, cit. 55 W. James, D. H. Johnson, Vernacular Christianity. Essays in the Social Anthropology of Religion presented to Godfrey Lienhardt , New York 1988. 56 T.O. Ranger, An Africanist Comment, in «American Anthropologist», 14 (1987)/1, 182-185. 57 T.O. Ranger, Tradition and Travesty in Makoni District, Zimbabwe, in «Africa», 52 50 Note sul movimento pentecostale in Africa 839 hanno contribuito inoltre in modo insostituibile a chiarire la pluralità di modelli della cristianizzazione africana, individuando, allo stesso tempo, i processi identitari che hanno «inventato» la tradizione e la religiosità tradizionale all’interno del rapporto di forza fra scrittura e oralità nella fase coloniale. Così Ranger ha proposto un modello – divenuto paradigmatico – di appropriazione popolare del cristianesimo, dimostrando come la missione cristiana sia divenuta africana attraverso processi di risacralizzazione del paesaggio, di evangelizzazione attraverso agenti locali (predicatori e profeti) e di appropriazione di simboli del potere cristiano come in particolare la scrittura.58 Alla luce della rilevanza tematica e metodologica delle ricerche compiute nel corso degli anni Ottanta, le ragioni dell’iniziale disattenzione dell’africanistica verso il fenomeno pentecostale non sembra riflettere un presunto declino degli studi sul cristianesimo. Piuttosto, tali motivazioni risiedono in quanto gli studiosi associarono inizialmente al pentecostalismo e alla sua espansione. A tale proposito le riviste non specialistiche hanno fornito, in alcuni casi, il destro a intellettuali e studiosi per azzardare letture complessive e prendere apertamente posizione rispetto a un fenomeno di dimensioni planetarie come quello del vertiginoso proliferare, nel mondo un tempo definito «terzo», delle chiese pentecostali e carismatiche. Per loro natura, questi testi non contribuiscono a definire nuove prospettive o nuovi argomenti per il dibattito scientifico specialistico. Né, del resto, ambiscono farlo. La loro lettura aiuta, però, a comprende le ragioni del ritardo che la storia degli studi ha accumulato rispetto a un fenomeno così rilevante. Nel 2004, ad esempio, su «New Left Review», Mike Davis affermava che in Africa sub-sahariana Marx aveva ceduto il palco della storia allo Spirito Santo: se Dio è morto nelle città della rivoluzione industriale, ora è risorto negli slum post-industriali del mondo in via di sviluppo.59 Scegliendo come pulpito la più prestigiosa rivista della (1982)/3, 20-41; Id., The Invention of Tradition in Colonial Africa, in The Invention of Tradition, ed. by E. Hobsbawm, T. O.Ranger, Cambridge-New York 1983; Id., Missionaries, Migrants and the Manyika. The Invention of Ethnicity in Zimbabwe, Johannesburg 1984; Id., The Invention of Tribalism in Zimbabwe, Gweru 1985; Id., Religious Movements and Politics in Sub-Saharan Africa, in «African Studies Review», 29 (1986)/2, 1-69; Id., Taking Hold of the Land. Holy Places and Pilgrimages in Twentieth Century Zimbabwe, in «Past and Present», 117 (1987) 158-194. 58 D. Maxwell, Writing the History of African Christianity, cit. 59 M. Davis, Planet of Slums. Urban Involution and the Informal Proletariat, in «New Left Review», 26 (2004) 30. 840 S. Cristofori sinistra intellettuale britannica, Davis scagliava questa provocatoria sentenza per indicare la necessità di un cambio di rotta per gli studi storico-sociali, laddove alcuni schemi interpretativi consolidati sembravano, a suo avviso, non essere più in grado di fornire un’analisi efficace delle profonde trasformazioni in atto su scala globale. In particolare, secondo Davis, mentre i teorici ortodossi del marxismo e gli esperti della modernizzazione faticano ancora a prendere atto dei mutamenti dovuti a una crescita senza precedenti dell’urbanizzazione mondiale,60 il movimento pentecostale costituisce «la più importante risposta culturale all’urbanizzazione esplosiva e traumatica».61 Con i suoi 533 milioni di fedeli,62 quello pentecostale si profila, cioè, come il più ampio movimento auto-organizzato delle masse povere urbanizzate. La scena quotidiana della vita sociale di questa fetta di popolazione impoverita non è, in effetti, la fabbrica e la catena di montaggio ma la strada e il mercato dello slum,63 luoghi dove circola il messaggio pentecostale. Dal canto suo André Corten, uno dei più brillanti studiosi del fenomeno pentecostale, ha scelto le colonne de «Le Monde diplomatique», per compiere nel 2001 un’operazione in parte analoga a quella di Davis.64 Senza mezzi termini, Corten vi asserisce che i pentecostali irritano gli intellettuali e questo per diverse ragioni. Le élite intellettuali tendono a guardare con diffidenza i predicatori pentecostali perché ai loro occhi sembrano dei cialtroni truffatori. Specularmente, i loro seguaci non sarebbero altro che dei creduloni se non dei subnormali: le convulsioni della deliverance appaiono gesticolazioSecondo i dati riportati da Davis (ibidem, 5) nel 1997 la popolazione mondiale urbana contava circa 3,2 bilioni, uguagliando la popolazione rurale e superando quella totale del 1960. Secondo le proiezioni mentre l’ammontare degli abitanti delle campagne è destinato a decrescere significativamente dopo il 2020, le città continueranno a crescere sino a contare, nel 2050, 10 bilioni di abitanti. Davis si basa sui dati riportati in W. Lutz, W. Sandeson, S. Scherbov, Doubling of World Population Unlikely, in «Nature», (1997)/387, 803-805. 61 M. Davis, Planet of Slums, cit., 32. 62 Davis si rifà alla stima di D. Barrett e T. Johnson (Annual Statistical Table on Global Mission: 2001, in «International Bulletin of Missionary Research», 25 [2001]/1), segnalando il fatto che probabilmente si tratta di una cifra iperbolica. 63 M. Davis, Planet of Slums, cit., 29. 64 Con il titolo Strumento dell’Imperialismo o cultura popolare? Il Boom dei pentecostali nel Sud del mondo, l’articolo di Corten è oggi disponibile nella versione italiana online del giornale: www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Dicembre2001/pagina.php?cosa=0112lm18.01.html&titolo=Il%20boom%20dei%20 pentecostali%20nel%20Sud%20del%20mondo. 60 Note sul movimento pentecostale in Africa 841 ni grottesche, la loro glossolalia, invece, un balbettamento insensato per deboli di mente. «Se non si prendono misure drastiche, tra dieci anni la nazione congolese sarà costituita da una generazione di folli o psicotici», così ammoniva il professor Mweze, decano delle facoltà cattoliche di Kinshasa, in un discorso riportato da Corten.65 I pentecostali, dunque, sono di cattivo gusto: perché la loro teologia della prosperità dice che Dio ama la ricchezza e detesta la povertà. Anche i predicatori male in arnese nelle contrade più dimenticate esibiscono connessioni con un mondo globale, reinterpretando le cifre stilistiche dei loro più fortunati colleghi che predicano in televisione, scrivono bestseller, sono presenti sulla rete. Il loro stile per certi versi ricorda un «supermercato della fede» (ibidem), ed essi si autorappresentano come attori della modernità globale. In qualsiasi angolo del mondo il pentecostalismo sembra adottare «gli stessi stili rituali, lo stesso uso dei media, le stesse macchine narrative» (ibidem). Ad uno sguardo di superficie, il movimento pentecostale pare incarnare l’incubo dell’omologazione, e rappresentare il segno più evidente del declino della diversità culturale. Come accennato, sin dai suoi esordi il movimento pentecostale sembra, infatti, non conoscere né confini, né distanze, connotandosi per la sua capacità di espandersi e radicarsi in contesti socio-culturali diversi. Nell’ultima e più vertiginosa fase di crescita, il suo carattere transnazionale ha invertito, inoltre, il meccanismo di propagazione nord-sud. Missioni pentecostali brasiliane o sudcoreane sono presenti oggi nelle città africane di Abidjan, Accra, Lagos, Liberville. Allo stesso modo, Amsterdam, Parigi e Londra sono diventate terra di missione per i Pastori congolesi, ghanesi e nigeriani66 che mettono a frutto le potenzialità delle reti migratorie transnazionali. Il dinamismo pentecostale non si lascia afferrare nell’ottica di un’irradiazione culturale che dal centro si riverbera verso la periferia. Questo processo di propagazione indica un meccanismo più complesso che mostra i limiti dello spauracchio dell’omologazione. L’effervescenza che rivivifica dagli anni Ottanta il composito panorama pentecostale aveva, tuttavia, tratto inizialmente in inganno 65 66 Ibidem. A. Corten, Immanance/trascendance, in Dictionnaire des faits religieux, éd. par D. Hervieu-Léger, R. Azria, Paris 2007; A. Mary, Un pentecôtisme brésilien en terre africain. L’universel abstrait du Royaume de Dieu, in «Cahiers d’Etudes africaines», 42 (2002)/3, 463-478; R. van Dijk, From Camp to Encompassment. Discourses of Transsubjectivity in the Ghanaian Pentecostal Diaspora, in «Journal of religion in Africa», 27 (1997)/2, 135-159. 842 S. Cristofori gli osservatori. Prima della pubblicazione dei saggi di David Stoll e di David Martin nel 1990,67 era piuttosto diffusa l’opinione secondo cui le nuove denominazioni sarebbero un prodotto del «braccio spirituale» dell’imperialismo statunitense nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Di fatto, le conversioni al pentecostalismo compiono un vertiginoso balzo in avanti quando il mondo cominciava ad attraversare la temperie liberista dell’epoca reaganiana. Va ricordato che il Documento di Santa Fe del 1980, vera e propria piattaforma ideologica del presidente statunitense, menzionava il rischio di infiltrazioni marxiste nella chiesa cattolica latinoamericana. Per contrastare la teologia della liberazione, da cui sarebbero provenuti tali «pericoli», il documento suggeriva la necessità di un appoggio strategico alle nuove denominazioni in forte crescita in tutto il mondo.68 Come argomentato da Martin,69 il testo del 1980 sembra cogliere le potenzialità di un fenomeno già in espansione, mentre restano da dimostrare i finanziamenti statunitensi alle nuove chiese. Tuttavia non è così semplice liquidare il legame fra il pentecostalismo e le politiche neoliberiste dettate dai programmi di aggiustamento del Fondo monetario internazionale. Ad inizio Novecento, il discorso pentecostale raggiungeva prevalentemente le classi sociali impoverite, proponendo la formazione di piccole comunità in ritiro dal mondo.70 Il nuovo slancio pentecostale, invece, indica una direzione contraria: in molti paesi africani come Camerun, Ghana, Uganda e Zambia, alcune chiese vivono un inedito protagonismo politico, sviluppando un legame forte con il potere secolare.71 I pentecostali oggi, intendono essere nel mondo, utilizzando anche le innovazioni tecnologiche che lo trasformano: attraverso l’uso dei nuovi media, il messaggio pentecostale partecipa al flusso globale di significati,72 potenziando il tratto transnazionale che lo caratterizza come movimento religioso. Il pentecostalismo è oggi trasversale alle classi sociali, pur conD. Martin, Tongues of Fire, cit.; D. Stoll, Is Latina America Turning Protestant? The Politics of Evangelical Growth, Berkeley 1990. 68 A. Corten, Strumento dell’imperialismo o cultura popolare?, cit. 69 D. Martin, Tongues of Fire, cit. 70 A. Corten, Un religieux immanent et transnational, in «Archives des Sciences Sociales des Religions», 133 (2006) 135-151. 71 A tale proposito si vedano in particolare le opere di Paul Gifford, rimando soprattutto a African Christianity. Its Public Role, cit. 72 Su questo argomento si veda R.I.J. Hackett, Charismatic/Pentecostal Appropriation of Media Technologies in Nigeria and Ghana, in «Journal of Religion in Africa», 28 (1998)/3, 258-277. 67 Note sul movimento pentecostale in Africa 843 tinuando in prevalenza a parlare a coloro che vivono in condizioni socio-economiche di svantaggio. I dati del 2001 della World Christian Encyclopedia73 indicano che il 71% dei pentecostali vive in città, è povero e non è bianco. A costoro il messaggio pentecostale dice che la ricchezza è conforme alla volontà di Dio e che il suo Spirito combatte la povertà. Esso propone agli individui, come via di liberazione dal male, di recidere i legami sociali che lo tengono ancorato al passato. Nei suoi tratti fondamentali il pentecostalismo sembra profilarsi oggi come una forma di religiosità in grado di adattare gli individui in quanto tali alla società del rischio. Esso configura una soggettività parcellizzata che, indipendentemente da ogni condizionamento sociale, affronta le sfide dell’economia di mercato. La sua plasticità, però, indica non solo la sua capacità di adattare ma, anche, di essere adattato. Il dispositivo salvifico pentecostale incoraggia l’individuo a mettere alla prova la verità del suo messaggio, sperimentando un rapporto diretto con Dio in una sfida continua contro le forze oscure del male.74 Il discorso pentecostale è così aperto a configurazioni diverse e creative in una connessione dinamica con contesti socio-culturali in trasformazione. Nelle sue espressioni più riuscite, la letteratura sul pentecostalismo indirettamente disvela come nelle prime resistenze disciplinari verso questa forma di religiosità si nascondesse una nuova declinazione dell’antica fascinazione per l’esotico. Fascinazione interessata a ricercare nell’altrui primitivismo una rigenerazione ad uso e consumo della propria debolezza postmoderna. I tamburi delle chiese indipendenti non risuonano negli edifici delle nuove denominazioni da dove provengono, invece, le chiassose sonorità elettroniche di costosi strumenti. Il buon selvaggio non ne vuole più sapere delle tradizioni ancestrali: vuole essere moderno e accedere prodigiosamente ai beni simbolici e materiali della modernità. Per lui tagliare le radici è come spezzare le catene. World Christian Encyclopedia: a Comparative Survey of Churches and Religions in the Modern World, vol. 1, The World by Countries. Religionists, Churches, Ministries, e vol. 2, The World by Segments. Religions, Peoples, Languages, Cities, Topics, ed. by D.B. Barrett, G.T. Kurian, T.M. Johnson, Oxford 2001. 74 S. Cristofori, Il movimento pentecostale nel post-gencidio rwandese. I Salvati (Balokole), Torino 2011, 257-328. 73 844 S. Cristofori 4. Tempo I pentecostali affermano e vivono la pentecoste come un’esperienza contemporanea. Lo spirito divino è vissuto in modo diretto e individuale nell’intimità della possessione che (ri-)genera e fa venire nuovamente al mondo il singolo. Per questo i pentecostali sono reborn o anche born again: perché sperimentano e testimoniano Dio come potenza di trasformazione. I doni (o carismi: guarigione, profetismo, glossolalia, esorcismo) manifestano l’effusione dello Spirito, come intervento efficace di Dio che agisce nella vicenda umana. La pentecoste non è, dunque, solo narrazione neotestamentaria; il racconto evangelico degli Atti degli apostoli (II) e di Paolo nelle lettere ai Corinzi75 descrivono un’esperienza attuale, divenendo processo rituale, laddove nelle assemblee riunite in preghiera si verifica la guarigione, si profetizza, si enunciano lingue ignote e i demoni sono scacciati. Questo dispositivo salvifico motiva, su piani diversi, strategie discorsive che fanno perno sulla nozione di tempo. Non solo perché la narrazione evangelica è attuale ma soprattutto perché la contemporaneità dei carismi si verifica nella salvezza, come esperienza rigenerativa. Chi rinasce, infatti, viene nuovamente al mondo in quanto è liberato dal passato e dalle forze del male che lo incarnano e che lo fanno agire nel presente. Questa concezione della salvezza, come liberazione dal passato grazie allo spirito rigenerativo di Dio, motiva una precisa interpretazione non solo della relazione fra passato e presente ma della storia stessa. In tal senso, quanto Jean Comaroff aveva osservato riguardo al rapporto metonimico fra la sofferenza (o la guarigione) individuale e collettiva,76 può essere esteso al piano temporale: per certi versi, la salvezza del singolo adombra la redenzione dell’intera vicenda umana. Tuttavia, per altri versi, sembra essere un aspetto peculiare dell’odierno pentecostalismo quello di rivolgere il proprio messaggio salvifico all’individuo più che alle classi o al gruppo sociale. Mentre, al contrario, attraverso il passato del singolo, è l’intera storia collettiva a L’esperienza della pentecoste vissuta dagli apostoli trova fondamento nelle stesse parole di Gesù riportate in Giovanni 3:5-8. In questo passo del Vangelo Cristo, nel dialogo con il fariseo Nicodemo, afferma: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito». 76 J. Comaroff, Body of Power, cit. 75 Note sul movimento pentecostale in Africa 845 essere demonizzata. Difatti, il passato che perseguita l’individuo non è esclusivamente personale ma connesso, invece, a quello familiare e, attraverso di questo, alla storia del gruppo sociale. Lo Spirito Santo, come manifestazione di Dio nella vicenda umana, è in effetti in lotta con le forze del male che presentificano il passato. In tal senso, nella rinascita, la salvezza agisce come «dispositivo di temporalizzazione»� in grado di collocare il male nel passato, sebbene questo sia incarnato da forze in atto nel presente, nella vita quotidiana. La salvezza motiva dunque un’interpretazione che demonizza il passato collettivo, ripercorrendo una storia che più che tracciare uno svolgimento fattuale, configura piuttosto una tradizione dal carattere satanico: nella consegna fra generazioni, la tradizione trasmette, cioè, il male dal passato al presente.77 Questa condanna senza appello del passato e delle forme di religiosità, che il pentecostalismo vi associa, cominciò ad essere osservata nei primi anni Novanta dagli studiosi che iniziarono a occuparsi con intense ricerche di terreno alla diffusione, vertiginosa quanto rapida, delle nuove denominazione born again. Da questa letteratura emergono figure di predicatori che, con accesa violenza verbale, si scagliano contro l’uso di manufatti come amuleti o feticci,78 incarnando così un atteggiamento apertamente antagonistico verso la tradizione.79 B. Meyer, «If you are Devil, you are Witch and, if you are a Witch, you are a Devil»: The Integration of «pagan». Ideas into the Conceptual Universe of Ewe Christians in Southeastern Ghana, in «Journal of Religion in Africa», 22 (1992)/2, 98-131; Id., «Make a Complete Break of the Past»: Memory and Post-Colonial Modernity in Ghanaian Pentecostal Discourse, in «Journal of Religion in Africa», 28 (1998) 316349; Id., Translating the Devil, cit. Su questo stesso tema si veda anche P. Schirripa, Le chiese cristiane africane e lo spirito del tardo capitalismo. L’interdisciplinarità e il rapporto con la cultura italiana, in Antropologia e dinamica culturale. Studi in onore di Vittorio Lanternari, a cura di A. Lombardozzi, L. Mariotti, Napoli 2009, 113-127. 78 Termini come «amuleti» e «feticci» designano manufatti molto differenti fra loro, per significato e uso rituale. La genericità con cui mi riferisco ad essi è dovuta al fatto che nel discorso pentecostale la molteplicità degli oggetti connessi alla religiosità tradizionale sono accomunati dalla medesima condanna: essi sarebbero infatti pregni di forza satanica e attraverso il loro contatto e uso verrebbero subite influenze demoniache. La medesima osservazione vale per altre nozioni, come quella di «magia», «stregoneria» o «stregone», con cui sono identificati la «tradizione», le sue forme di religiosità e i suoi attori. Per tanto, la letteratura sul pentecostalismo adotta frequentemente simili macro-categorie generiche, pur tenendo presente che esse sono il prodotto dell’azione di demonizzazione del passato propria del discorso pentecostale. 79 P. Gifford, Ghana’s charismatic churches, in «Journal of religion in Africa», 24 77 846 S. Cristofori All’interno di questa letteratura, sono stati soprattutto gli studi di Birgit Meyer ad aver individuato con nitidezza il valore epistemologico del tempo e le sue complesse declinazioni nella discorsività pentecostale.80 Sulla base delle sue ricerche di terreno sul cristianesimo nell’area ewe del Ghana, iniziate nel 1989, Meyer ha mostrato come attraverso la categoria del tempo siano articolate una serie di opposizioni dicotomiche, quali ad esempio: moderno/tradizionale, noi/loro e, in ultima istanza, Dio/Satana.81 Si tratta, in effetti, di una visione discontinua del tempo che articola gli opposti attorno alla frattura della conversione come nuova venuta al mondo. Così, nei suoi saggi Meyer ricostruisce come divenire cristiani significhi rompere con il passato, sebbene quest’ultimo sia configurato proprio attraverso il tentativo salvifico di distaccarsene in modo definitivo. La valenza (o ambivalenza) di questo distacco salvifico è stata oggetto di interpretazioni diverse e talvolta di segno opposto nel dibattito scientifico. In primo luogo: esso implica un superamento risolutivo con cui ci si sbarazza del passato e dei suoi condizionamenti nel presente? La tradizione è, così, definitivamente congedata? Sembrano propendere per una risposta positiva gli studi compiuti da Richard A. van Dijk. A differenza delle ricerche coeve di Meyer, quelle di van Dijk hanno un’ambientazione esclusivamente urbana, come nel caso dei saggi dedicati ai giovani predicatori della città di Blantyre (Malawi).82 In testi più recenti invece l’autore sceglie un (1994)/3, 241-265; R. Marshall-Fratani, Pentecostalism in Southern Nigeria: An Overview, in New Dimensions in Africa Christianity, ed. by P. Gifford, Ibadan 1992, 8-39; B. Meyer, If you are Devil, cit.; J.M. Schoffeleers, Pentecostalism and Neo-traditionalism in Malawi, Amsterdam 1985; R.A. van Dijk, Young Puritan Preachers in Post-Independence Malawi, in «Africa», 62(1992)/2, 159-181; per una panoramica più recente si veda anche D. Maxwell, Christianity without Frontiers. Shona Missionaries and Transnational Pentecostalism in Africa, in Christianity and the African Imagination. Essays in Honor of Adrian Hastings, ed. by D. Maxwell, Leiden 2002, 295-332. Nello stesso volume curato da Maxwell, va nella medesima direzione il saggio di John Lonsdale (Kikuyu Christianities. A History of Intimate Diversity, in Christianity and the African Imagination, cit., 157-197). 80 B. Meyer, If you are Devil, cit.; Id., Translating the Devil, cit.; Id., Christianity and the Ewe Nation. German Pietist Missionaries, Ewe Converts and the Politics of Culture, in «Journal of Religion in Africa», 32 (2002)/2, 167-199; Id., Christianity in Africa. From African Independent to Pentecostal-Charismatic Churches, in «Annual Review of Anthropology», 33 (2004), 447-474. 81 B. Meyer, If you are Devil, cit., 214. 82 R.A. van Dijk, Young Puritan Preachers in Post-Indipendence Malawi, in «Africa», 62 (1992)/2, 159-181; Id., Young Born-Again Preachers in Post-Indipendence Malawi: The Significance of an Extraneous Identity, in New Dimension in African Christian- Note sul movimento pentecostale in Africa 847 approccio multisituato, muovendosi sul terreno della diaspora fra Ghana e Olanda.83 Più che uno sfondo, il contesto urbano e quello diasporico costituiscono un elemento centrale della riflessione di van Dijk, che così si inserisce nella letteratura tesa a rintracciare nella modernità urbana un legame profondo fra la forma odierna della religiosità pentecostale e la mobilità sociale, identitaria, geografica.84 Inoltre, soprattutto nei testi dedicati alla diaspora Ghanese, egli riconnette gli studi sul pentecostalismo a quelli post-coloniali con un forte riferimento teorico ad autori quali Arjun Appadurai,85 James Clifford86 e Paul Gilroy.87 ity, ed. by P. Gifford, Nairobi 1993; Id., Pentecostalism, Cultural Memory and the State: Contested Representations of Time in Postcolonial Malawi, in Memory and the Postcolony: African Anthropology and the Critique of Power, ed. by Richard Werbner, London 1998, 155-181; Id., Pentecostalism, Gerontocratic Rule and Democratization in Malawi: the Changing Position of the Young in Political Culture, in Religion, Globalization and Political Culture in the Third World, ed. by J. Haynes, London, New York 1999, 164-188. 83 R.A. van Dijk, From Camp to Encompassment. Discourses of Transsubjectivity in the Ghanaian Pentecostal Diaspora, in «Journal of Religion in Africa», 27 (1997)/2, 135-159; Id., Time and Transcultural Technologies of the Self in the Ghanaian Pentecostal Diaspora, in Between Babel and Pentecostal, cit.; Id., Negotiating Marriage: Questions of Morality and Legitimacy in the Ghanaian Pentecostal Diaspora, ibidem, 34 (2004)/4, 438-467; Id., The Safe and Suffering Body in Transnational Ghanaian Pentecostalism. Towards an anthropology of Vulnerable Agency, in Strength Beyond Structure: Social and Historical Trajectories of Agency in Africa, ed. by M. de Bruijn, J.-B. Gewald, R. van Dijk, Leiden 2007, 312-333. 84 Fra cui, si vedano Called & Empowered, ed. by M.W. Dempster, B.D. Klaus, D. Petersen, cit.; H. Englund, The quest for Missionay. Transnazionalism and Township Pentecostalism in Malawi, in Between Babel and Pentecost, ed. by A. Corten, R. Marshall-Fratani, Bloomington 2001; Cosmopolitanism and the Devil in Malawi, in «Ethnos», 69 (2004)/3, 293-316; Modernity on a Shoestring. Dimensions of Globalization, Consumption and Development in Africa and Beyond, ed. by R. Fardon, W.M.J. van Binsbergen, R. van Dijk, London-Leiden 1999; S. Fath, Billy Graham, pape protestant?, Paris 2002; Y. Ferr, Pentecôtisme et modernité urbaine. Entre déterritorialisation des identités et réinvestissement symbolique de l’espace urbain, in «Social Compass», 54 (2007)/2, 201-210; D. Martin, Pentecostalism: The World Their Parish, Oxford 2002; W. M. J. van Binsbergen, R. van Dijk, J.-B. Gewald, Situating Globality. African Agency in the Appropriation of Global Culture, Leiden-Boston 2004. 85 Gender, Genre, and Power in South Asian Expressive Traditions, ed. by A. Appadurai, F.J. Karom, M.A. Mills, Philadelphia 1991; A. Appadurai, Modernity at Large. Cultural Dimensions of Globalization, Minneapolis 1996. 86 J. Clifford, Diasporas, in «Cultural Anthropology», 9 (1994)/3, 302-338. 87 P. Gilroy, The Black Atlantic. Modernity and Double Consciousness, Cambridge 1993. Esiste una voluminosa letteratura che affronta la relazione fra diaspora e 848 S. Cristofori L’aspetto urbano è, secondo van Dijk, un elemento costitutivo di quella che egli definisce l’ideologia born again.88 Nel saggio del 1992, egli ritrae i giovani predicatori di Blantyre mentre si muovono in spazi pubblici come mercati, scuole e industrie.89 In questi luoghi chiave del paesaggio urbano, i born again (sia uomini sia donne) si scagliano con violenza contro il proprio uditorio, provocando i presenti con accuse che riguardano presunti comportamenti dissoluti associati alla vita in città come l’abuso di alcol, ad esempio. Ma soprattutto essi puntano severamente il dito contro il ricorso alle tecniche magiche. Con furia iconoclasta, il loro messaggio mette in guardia dagli amuleti (zitumwa) e da tutti quei manufatti carichi di magia che gli anziani fabbricano nei villaggi per ottenere salute, successo, potere. Nell’intento di purificare la società dal male, l’ideologia born again, secondo van Dijk, definisce un nuovo spazio morale autonomo, che da un lato rifiuta i pericoli mondani della metropoli e dell’altro, con deciso vigore, rinnega qualsiasi compromissione con la stregoneria (kukhwima) e con gli oggetti e le pratiche rituali tradizionali. Impegnati in una guerra spirituale spietata contro le forze maligne, i predicatori born again sembrano compiere un rifiuto che non pentecostalismo, anche attraverso riferimenti teorici diversi rispetto a quello di van Dijk. Mi limito ad alcuni esempi: A. Adogame, A Home Away from home. The Proliferation of the Celestial Church of Christ (CCC) in Diaspora-Europe, in «Journal of Missiological and Ecumenical Research», 27 (1998) 141-160; Id., Mission from Africa – The Case of the celestial Church of Christ in Europe, in «Zeitschrift für Missionswissenschaft und Religionswissenschaft», 84 (2000)/1, 29-44; Id., Betwixt Identity and Security: African New Religious Movements and the Politics of Religious Networking in Europe, in «Nova Religio», 7 (2004)/2, 24-41; Id., Engaging the Rhetoric of Spiritual Warfare: The Public Face of Aladura in Diaspora, in «Journal of Religion in Africa», 34 (2004)/4, 493-522; Id., African Christian Communities in Diaspora, in African Christianity: An African Story, ed. by O.U. Kalu, Pretoria 2005; A. Adogame, R. Gerloff, K. Hock, Christianity in Africa and the African Diaspora. The Appropriation of a Scattered Heritage, London 2008; S. Fancello, Les pentecôtismes indigènes: la double scène africaine et européenne, in «Archives de Sciences Sociales des Religions», (2008)/143, 69-89; Id., Migration et plurilinguisme: «parler en langues» dans les Églises africaines en Europe, in «Social Compass», 56 (2009)/3, 387-404; Christianisme du Sud à l’épreuve de l’Europe, ed. by A. Mary, in «Archives de sciences sociales des religions», (2008)/143; Id., Africanité et christianité: une interaction première, ibidem, 9-30; G. Ter Haar, Halfway to Paradise. African Christians in Europe, Cardiff 1998; Id., Les Théories de l’ecclésiogenèse et les diasporas chrétiennes d’outre-mer en Europe, in Chrétiens d’outre-mer en Europe. Un outre visage de l’immigrations, éd. par M. Spindler, A. Lenoble-Bart, Paris 2000, 49-66. 88 R. van Dijk, Young Puritan Preachers in Post-Indipendence Malawi, cit., 159. 89 Ibidem. Note sul movimento pentecostale in Africa 849 ammette ambiguità. Come, del resto, non lascia zone grigie la vittoria dello spirito di Dio sugli spiriti della tradizione mossi da Satana: una volta sperimentata la rinascita, le forze oscure abbandonano per sempre il born again, su cui da quel momento in poi gli spiriti diabolici non possono più esercitare alcun influsso. Venendo nuovamente al mondo dunque si compirebbe il gesto irrevocabile della rottura di chi volta le spalle definitivamente al passato. Verrebbe, cioè, compiuta quella che van Dijk in un testo del 1998 definisce un’operazione di «amnesia culturale».90 Questa visione manichea del messaggio salvifico pentecostale, a mio avviso, riflette la scelta di van Dijk di prediligere la dimensione dello spazio, sebbene la sua riflessione tenga anche conto della prospettiva temporalizzante della rinascita nello Spirito: infatti, per i predicatori di Blantyre il male e le forze sataniche, che lo incarnano, coincidono con la tradizione e le sue forme di religiosità. Tuttavia, è soprattutto il villaggio – o meglio la sua rappresentazione convenzionale – a dare un volto concreto alle forze sataniche. Nell’immaginario dei predicatori urbani «il villaggio tradizionale» è pervaso da potenze magiche che, come un influsso nefasto, contaminano la città. L’opposizione fra rurale e urbano (che in ultima istanza, è da ricondurre alla guerra fra Satana e Dio), rispecchierebbe, dunque, lo scardinamento dell’ordine gerontocratico da parte di giovani che hanno mantenuto solo un fievole legame con «il villaggio». I predicatori di Blantyre, del resto, condividono una storia familiare simile: sono figli di una coppia parentale che ha compiuto in passato il percorso migratorio dalla campagna alla città; un inurbamento che, oltre a segnare un miglioramento socio-economico, ha determinato la costituzione della coppia in autonomia rispetto al gruppo parentale esteso. A loro volta, i predicatori promuovono e scelgono di formare una famiglia mononucleare, secondo quella che van Dijk definisce «l’ideologia borghese born again».91 Per questi attori del pentecostalismo, cresciuti mantenendo un contatto sporadico con il villaggio, il «retroterra tribale»,92 dunque, non avrebbe alcuna rilevanza. In tal senso, l’autore sviluppa un conR. van Dijk, Pentecostalism, Cultural Memory and the State: Contested Representations of Time in Postcolonial Malawi, in Memory and the Postcolony: African Anthropology and the Critique of Power, ed. by R. Werbner, London-New York 1998, 169. 91 R. van Dijk, Young Puritan Preachers in Post-Indipendence Malawi, cit., 163. 92 Con l’aggettivo «tribale» l’autore identifica l’organizzazione e la cultura lignatica della società tradizionale. 90 850 S. Cristofori fronto con la letteratura classica sul profetismo africano con particolare riferimento alle tesi sostenute nel 1948 da Bengt G.M. Sundkler in Bantu Prophets in South Africa.93 A differenza delle chiese sioniste della prima metà del Novecento studiate da Sundkler, il movimento born again non si rivolge alla massa degli urbanizzati, offrendo loro una nuova forma di comunità come riparo spirituale e sociale alla disorientante dimensione metropolitana. La salvezza della rinascita è invece rivolta all’individuo in quanto tale, che viene incoraggiato a liberarsi da qualsiasi tipo di affiliazione e a costruirsi un’identità proprio recidendo i legami familiari e/o comunitari del «villaggio». L’ideologia born again ha poco da offrire, dunque, a quanti, vivendo lo sradicamento della migrazione interna, non riescono a far fronte alle sfide della vita urbana. L’enfasi è posto piuttosto sul successo e sull’autoaffermazione. Come i profeti di Sundkler anche i predicatori di van Dijk sono in lotta contro il male e conducono una battaglia dai toni veementi tanto contro i comportamenti che giudicano immorali quanto contro la stregoneria. Tuttavia, il movimento born abain cerca i vincenti senza, pertanto, prestare conforto (spirituale o materiale) a chi vive la condizione dello smarrimento o della deprivazione economica. Ma qual è, allora, la ragione di tanta violenza simbolica contro la tradizione? Quale terribile minaccia incarna «il villaggio» per i predicatori urbani del Malawi, se è vero che questi ultimi hanno mantenuto solo un labile contatto con il contesto rurale? Seguendo la tesi di van Dijk, quella born again sembra configurare una forma di religiosità radicalmente innovativa, il cui messaggio di salvezza non può essere assimilato a quello del profetismo studiato nell’epoca delle indipendenze. I predicatori urbani, in ultima analisi, non riadatterebbero al nuovo contesto storico-sociale i repertori simbolici e le fonti di ispirazione dei divinatori tradizionali, come al contrario sembravano fare i profeti di Sundkler.94 Il banco di prova di tale portata innovativa si misura, a mio avviso, soprattutto nelle tecniche rituali di liberazione dal male, agite dai pentecostali nelle sessioni di preghiera della deliverance, piuttosto che nelle strategie retoriche della predicazione. Nelle preghiere collettive preposte alla guarigione e alla liberazione dal maligno, Dio e Satana misurano le proprie forze, lottando per la salvezza o la dannazione del singolo. Ed è dunque nel contesto 93 94 B.G.M. Sundkler, Bantu Prophets in South Africa, London 1948. Ibidem, II ed., 1961, 238-239. Note sul movimento pentecostale in Africa 851 rituale della deliverance che si compie l’esperienza diretta dei poteri malefici dei demoni del passato, mentre stanno fronteggiando la potenza superiore e rigenerativa dello spirito divino. In tal senso Paul Gifford ha osservato come i campi (o centri) di preghiera siano la forma più diffusa e comune di incontro con Satana.95 Per questo motivo, sono soprattutto le pagine dedicate dagli studiosi alla descrizione etnografica della deliverance a consentire di discernere in modo chiaro le differenti posizioni interne al dibattito sulla relazione specifica che il pentecostalismo intrattiene con il passato e con la tradizione. Il carisma dei predicatori born again, per van Dijk ad esempio, si differenzia nettamente da quello dei divinatori tradizionali, in quanto non è assimilabile a una tecnica diagnostica: essi non cercano e non individuano le cause esatte del male ma, nel momento dell’effusione dello Spirito che si manifesta nello stato di trance, «semplicemente impongono le mani [sull’afflitto] e nulla di più».96 La deliverance fornisce un «contesto protettivo»� che libera dalle insidie degli spiriti che fino a un momento prima tormentavano il posseduto. Le forze malefiche del villaggio sono ridotte all’impotenza, non possono più nulla su chi rinasce. Nell’argomentazione di van Dijk sembra esserci una corrispondenza fra la salvezza dell’afflitto e il ripudio della tradizione da parte dei predicatori born again: il rifiuto di qualsiasi influenza del passato è intransigente nella stessa misura in cui la sconfitta delle influenze sataniche è definitiva. Come nella lotta per la salvezza non c’è possibilità di compromesso con il nemico, così non c’è possibilità di reintegro di qualsiasi elemento (oggetto, pratica, riferimento) delle vecchie forme di diagnosi e guarigione dal male. O salvati o dannati, o born again o tradizionali: l’opposizione manichea fra Dio e Satana non conosce spazi di mediazione, stati intermedi, percorsi reversibili. Gifford97 e Meyer98 hanno, invece, proposto letture differenti del dispositivo della delivrance, evidenziandone in primo luogo il carattere diagnostico, negato da van Dijk. Più che un istante spartiacque, segnato dall’effusione dello Spirito, per questi autori la liberazione dal male avviene in un lungo processo di riconsiderazione della propria P. Gifford, Ghana’s New Christianity. Pentecostalism in a Globalizing African Economy, London 2004, 85. 96 R. van Dijk, Young Puritan Preachers in Post-Indipendence Malawi, cit., 177. 97 P. Gifford, African Christianity, cit., 97-109; Id., Ghana’s New Christianity, cit., 85-90. 98 B. Meyer, Make a Complete Break of the Past, 337-339; Id., Translating the Devil, cit., 141-174. 95 852 S. Cristofori condizione alla luce del passato, al fine di individuarvi le cause della sofferenza o dell’insuccesso attuale. Un determinismo lineare anima la ricerca della causa, inizialmente oscura, del male. La deliverance assomiglia alla costruzione di un caso d’indagine: i problemi presenti sono interpretati come sintomi di cui si deve rintracciare l’origine storica.99 L’effusione dello Spirito non è che la fase più drammatica di questo processo. In quel momento, i demoni manifestano la loro presenza tormentando il corpo del posseduto su cui, tramite l’imposizione delle mani, lo spirito divino è sceso. Tuttavia, non è sufficiente che le forze sataniche vengano smascherate per essere definitivamente al riparo del loro nefaste influenze. La questione è invece quella di chiarire le circostanze in cui le forze sataniche sono entrate nel corpo dell’afflitto. In questa chiave Gifford e Meyer dilatano il campo della deliverance, includendovi gli strumenti diagnostici di cui i campi di preghiera si sono dotati.100 Allo stesso tempo, questi autori ampliano il campo d’indagine, proponendo un’interpretazione di prodotti culturali come bestseller di devozione, testi narrativi, autobiografici e teologici sull’argomento. Si tratta di un’abbondante letteratura confessionale di carattere popolare che conosce un’ampia circolazione transnazionale, come dimostra il contesto cristiano dell’Africa occidentale preso in considerazione sia da Meyer sia da Gifford, con uno scambio particolarmente intenso fra Nigeria e Ghana.101 La deliverance emerge così come una vera e propria cultura popolare che informa anche altri generi come le storie raccontante nei tabloid o nei film a basso costo, venduti ai bordi delle strade o tra- B. Meyer, Make a Complete Break of the Past, cit., 332. Nell’argomentazione dei due autori hanno, in tal senso, un ruolo particolarmente esemplare i questionari utilizzati dalle chiese pentecostali in Ghana finalizzati a rintracciare nel passato sia individuale che familiare la compromissione con le forze demoniache della tradizione (P. Gifford, African Christianity, cit., 98-99; B. Meyer, Make a Complete Break of the Past, cit., 329-332). 101 La riflessione di Paul Gifford è nutrita dal confronto costante con una mole notevole di letteratura sulla deliverance. A titolo di esempio cito i best-seller: The Package: Salvation, Healing and Deliverance (Accra 1993) di Aaron Vuha della Chiesa Evangelica Presbiteriana del Ghana; Delivered from The Powers of Darkeness, (Ibadaan 1987) di Emmanuel Eni dell’Assemblea di Dio (Nigeria); Deliverance from Demons, di Zacharias Tanee Forum, pubblicato in Camerun (Yaounde testo non datato). A testimoniare la circolazione transnazionale che supera anche i confini regionali, Gifford fa riferimento a testi pubblicati in Kenya reperibili anche ad Accra, di cui Exposition on Water Spirits di Victoria Eto questo testo ha conosciuto un’enorme diffusione (P. Gifford, African Christianity, cit., 97). 99 100 Note sul movimento pentecostale in Africa 853 smessi in televisione e al cinema.102 Lo stesso immaginario della letteratura devozionale ispira trame e racconti popolati da pervasive forze nefaste, visioni e sogni profetici, uccisioni rituali, uomini e donne con poteri soprannaturali derivati dalla stregoneria.103 La minaccia di un mondo occulto governato da Satana non si è, tuttavia, profilata in primo luogo attraverso la sensibilità pentecostale verso gli influssi demoniaci. La sua configurazione come origine del male ha una lunga storia alle spalle. Nella sua acuta ricostruzione storica del cristianesimo in Ghana,104 Birgit Meyer ne ritrova le radici nella demonizzazione missionaria delle forme di religiosità precristiana. Mostrandone gli aspetti esemplari, Meyer dedica particolare attenzione all’operato della Norddeutsche Missionsgesellschaft, presente nella regione del Volta a partire dal 1847, da cui nascerà nel 1922 la chiesa evangelica presbiteriana ghanese.105 Come dimostra la stampa missionaria ottocentesca, questi religiosi tedeschi, d’ispirazione pietista, possedevano un’acuta percezione dualistica dell’opposizione fra Dio e Satana. Quest’ultimo era considerato l’ispiratore del paganesimo e nei loro resoconti, i missionari riformati lo vedevano in azione in terra di missione. Essi crearono, in tal senso, un primo vocabolario vernacolare cristiano,106 in cui scelsero di tradurre Dio con Mawu, la più alta e distante divinità ewe. Mentre chiamarono Satana Abosam. Tali scelte evidentemente non potevano che essere il frutto di un incontro culturale che vedeva già coinvolti attori locali. I motivi dell’identificazione di Satana nel nome Abosam sono però oscuri, in quanto non esistono documenti al riguardo. Per abosõm (pl. abosõm) si intendeva una molteplicità di divinità o cosiddetti «feticci». Ma Abosam potrebbe anche derivare da (a)bonsam: lo stregone.107 Nel vocabolario Westermann tedesco-ewe del 1905 la voce Abosam è così spiegata: (inizialmente P. Gifford, Ghana’s New Christianity, cit., 87. Ibidem; B. Meyer, Modernity and Enchantment: The Image of the Devil in Popular African Christianity, in Conversion to Modernities: The Globalization of Christianity, ed. by P. Van der Veer, New York-London 1996, 199-230; Id., Praise the Lord. Popular Cinema and Pentecostalite Style in Ghana’s New Public Sphere, in «American ethnologist», 31 (2004)/1, 92-110; Id., J.-P. Warnier, Prières, fusils et meurtre rituel. Le cinéma populaire et ses nouvelles figures du pouvoir et du succès au Ghana: Figures de la réussite et imaginaires politiques, in «Politique africaine», 82 (2001) 45-62. 104 B. Meyer, If you are Devil, cit.; Id., Translating the Devil, cit. 105 Ibidem, 28-53. 106 B. Meyer, If you are Devil, cit., 104-105; Id., Translating the Devil, cit., 82-111. 107 In inglese per Meyer: male witch, wizard, sorcerer. 102 103 854 S. Cristofori stregone, sinonimo di adze)108 diavolo, Satana. Non è escluso neanche che il termine si riferisse ai mostri che popolavano la brousse, i Sasabosam che per gli ewe, soprattutto per quelli in maggiore contatto con gli asante, avevano una stretta relazione con la bayifo (la strega) e con il bonsam (lo stregone). Quale che sia l’origine della scelta, traducendo il diavolo cristiano, i missionari e i loro interpreti lo misero in connessione con gli spiriti e con la stregoneria. Nella predicazione, di cui Meyer riporta alcuni illuminanti resoconti missionari, il diavolo aveva un ruolo da protagonista: attraverso di esso veniva personificato il male, che era allo stesso tempo malvagità del mondo e paganesimo. Satana era lo strumento per dire, personificare ed associare il male in generale e la religione ewe in particolare. Infatti, attraverso l’ambivalente etimologia del termine Abosam era configurata l’intera religiosità precristiana, mentre Dio, benché tradotto con Mawu, portava un ordine spirituale in totale rottura con il paganesimo. Negli equilibri socio-politici della situazione coloniale, la conversione implicava per i primi cristiani l’accesso a vantaggi materiali non indifferenti, come l’istruzione necessaria per ambire a nuovi ruoli e professioni. Tuttavia il cristianesimo forniva anche strumenti di tipo diverso perché, soprattutto, personificava nella figura di Satana un universo spirituale oscuro a cui ricondurre conflitti, sofferenze, malattie, insuccessi. I missionari erano ben consapevoli di quanto la loro concezione del diavolo risuonasse in modo significativo nella spiritualità dei loro fedeli. Sapevano anche, per usare una formula in cui non si sarebbero riconosciuti, che il successo dell’annuncio evangelico era dovuto principalmente a Satana. Tuttavia, osservavano con preoccupazione e disprezzo come il loro insegnamento venisse travisato: «è difficile chiarire loro che non solo il diavolo potrebbe rovinarli ma che ciascuno potrebbe smarrirsi a causa del suo personale peccato» così raccontava padre Däuble nel 1890 sulla rivista missionaria mensile «Monatsblatt».109 A differenza dell’intendimento dei missionari, la liberazione dal male non implicava, dunque, la tensione spirituale della santificazione, il costante tentativo di uscire dallo stato di peccato. Il cristianesimo, piuttosto, sembrava offrire protezione contro le ostilità della condizione umana. Mentre inoltre i missionari predicavano l’abbandono definitivo del Adz e: stregoneria. B. Meyer, If You are Devil, cit., 107. 108 109 Note sul movimento pentecostale in Africa 855 paganesimo perché satanico, per i cristiani ewe la religiosità precristiana trovava con Satana un posto fondamentale nel cristianesimo. Il diavolo fu – questa la tesi di fondo di Meyer – la connessione fra la religione cristiana e quella precristiana, agendo come forza malefica e, soprattutto, effettiva nella vita del fedele. Così ciò che i missionari identificavano con il paganesimo, proponendosi di abolirlo, divenne il grimaldello della fede: non c’è potenza divina senza le minacce Abosam, così come non c’è cristianesimo senza la stregoneria dei pagani. Secondo Meyer, questa interdipendenza si mantenne costante, segnando le fratture interne alla storia cristiana successiva. Quando negli anni Sessanta, in tutta l’Africa, intellettuali cristiani e teologici ponevano la questione di come poter essere a un tempo cristiani e africani, essi intendevano anche denunciare i torti che i missionari di qualsiasi confessione avevano compiuto nei confronti delle culture africane. La loro principale colpa era quella di aver identificato la religiosità precristiana con il paganesimo e con il demonio. Per studiosi dal respiro internazionale come Christian G. Baëta110 e John S. Mbiti111 si trattava ora di dire che l’universalità del cristianesimo produceva espressioni differenti. L’«africanizzazione» e l’«indigenizzazione» indicavano programmaticamente, in quegli anni, la necessità di arrivare nelle chiese di derivazione missionaria ad un’espressione autenticamente africana del cristianesimo. In essa gli africani avrebbero potuto riconoscersi come cristiani pur non rinnegando la loro identità. Ciò nonostante, all’interno della chiesa evangelica presbiteriana del Ghana, per esempio, vi fu una strenua opposizione contro l’africanizzazione.112 I passi compiuti in questo senso dal Moderatore Noah K. Dzobo, eletto nel 1981, trovarono resistenza nella base dei fedeli, soprattutto fra coloro che partecipavano ai gruppi di preghiera. A ben vedere, nel decennio precedente alla nomina di Dzobo, il sinodo aveva già introdotto una riforma liturgica che integrava forme musicali e danze della tradizione. Questa integrazione non fu, però, percepita come un tentativo di indigenizzazione; ma al contrario, i fedeli la accolsero come il pieno compimento della sacra scrittura in cui il Signore è glorificato nei Salmi. Nelle nuove forme liturgiche Fra le cui opere si veda: C.G. Baëta, Christianity in Tropical Africa. Studies Presented and Discussed at the Seventh International African Seminar, April 1965, London 1968. 111 Di cui cito a titolo di esempio: J.S. Mbiti, Intoduction to African Religion, London 1975. 112 B. Meyer, Translating the Devil, cit., 122-125. 110 856 S. Cristofori sembrava esprimersi lo Spirito Santo: danze e canti al suono dei tamburi mostravano l’effusione della pentecoste nelle celebrazioni. Nella teologia del Moderatore Dzobo chiamata mele agbe («Io sono vivo»), invece, la tradizione svolgeva un ruolo esplicito e centrale, si trattava di recuperarne gli elementi positivi per integrarli nel cristianesimo. Sintesi ovviamente inaccettabile per il cristianesimo popolare che si nutriva di una visione dualistica della relazione fra se stesso e il paganesimo. Ancora più sconvolgente era l’idea della mele agbe secondo cui Satana non sarebbe stata un’entità realmente esistente: evidentemente Dzobo doveva essere un pericoloso agente del demonio. Mentre il Moderatore contava sull’appoggio di pochissimi membri della chiesa, la maggioranza dei fedeli condivideva le idee dei suoi più feroci oppositori della Bible Study and Prayer Fellowship. Quest’ultimo era un gruppo di preghiera di orientamento pentecostale in rapida espansione all’interno della chiesa evangelica presbiteriana. I suoi membri, prevalentemente donne, si riunivano per approfondire con letture minuziose la Bibbia, per pregare ad alta voce, cantare le lodi e testimoniare le azioni del Signore. Nelle loro sessioni i malati venivano guariti attraverso l’imposizione della mani e l’invocazione dello Spirito Santo, la cui presenza esorcizzava i sofferenti. La linea del conflitto, a ben vedere, non opponeva difensori e detrattori della tradizione: questa trovava già una configurazione (demonizzata) nel cristianesimo, prima ancora che Dzobo decidesse che fosse giunta l’ora d’integrarla. Era di nuovo Satana a motivare le dinamiche interne alla chiesa nelle sue espressioni conflittuali che ancora oggi dividono vertice e base dei fedeli. Questa articolazione fra paganesimo e cristianesimo riconducibile al conflitto fra Satana-Abosam e Dio-Mawu non delinea soltanto una vicenda del tutto particolare sviluppatasi all’interno della chiesa evangelica presbiteriana in Ghana, né tanto meno descrive la specificità del cristianesimo ewe. Secondo Meyer l’opposizione fra Abosam e Mawu è invece paradigmatica per altre forme di radicamento cristiano nel continente sub-sahariano.113 L’autrice osserva, in effetti, come nella letteratura sull’argomento tale dialettica venga spesso registrata, seppur non pienamente tematizzata e adeguatamente analizzata, anche nei testi classici come, ad esempio, quelli di Edward Fasholé-Luke,114 B. Meyer, If you are Devil, cit., 119-123; Id., Translating the Devil, cit., xvii-xxvi, 213-216. 114 Christianity in Independent Africa, ed. by E. Fasholé-Luke, London 1978. 113 Note sul movimento pentecostale in Africa 857 Aylward Shorter,115 Sundkler.116 La stregoneria è uno dei cavalli di battaglia dell’antropologia, basti ricordare il ruolo svolto, anche nei suoi esiti critici, dalle monografie di Edward E. Evans-Pritchard.117 Allo stesso modo gli studi storico-antropologici sul cristianesimo africano hanno prodotto una letteratura sconfinata, ridefinendo in modo profondo le categorie e le metodologie disciplinari, ben al di là del loro più specifico ambito di dibattito. Tuttavia questi settori dell’africanistica sembrano appartenere a due biblioteche non comunicanti. Come se gli africanisti avessero fatto in parte proprio l’insegnamento dei missionari: una frattura incolmabile esisteste fra le divinità della religiosità africana e il Dio delle chiese di derivazione missionaria. Le chiese indipendenti nella storia degli studi hanno ricoperto un ruolo intermedio, uno spazio di sintesi creativa fra una tradizione immobile e un cristianesimo come portato esogeno. Come sintetizza l’efficace formula di Sundkler si trattava di riconoscere «il vino vecchio nelle botti nuove».118 Le forme pentecostali, che si sono diffuse rapidamente a partire dagli anni Ottanta, costringono a rivedere per più versi questa tripartizione e a guardare con occhi diversi tanto l’incontro missionario, quanto il cristianesimo delle chiese storiche che rimangono istituzionalmente nel tracciato di quell’incontro conflittuale. La personificazione della tradizione in Satana trova, in effetti, oggi una visibilità prima inespressa, per via dell’espansione carismatica che interessa le regioni subsahariane; i dispositivi rituali e narrativi della deliverance non solo accolgono e legittimano questa acuta percezione della radice satanica del male, ma offrono anche strumenti per intraprendere una lotta spirituale contro le insidie demoniache della tradizione. Interpreti originali e diversi di questa forma di religiosità sono i predicatori che conquistano la scena pubblica e la visibilità mediatica, imponendosi come nuove figure carismatiche. Le ricerche decennali condotte da Paul Gifford mostrano la pervasività e la plasticità del loro messaggio di salvezza in contesti socio-politici di- A. Shorter, African Culture and the Christian Church. An Introduction to Social and Pastoral Anthropology, London 1973. 116 B.G.M. Sundkler, Bantu Prophets in South Africa, cit. 117 E.E. Evans-Pritchard, Witchcraft, Oracles and Magic Among the Azande, Oxford 1937; Id., Nuer religion, Oxford 1956. 118 Old Wine in new Wineskins è il titolo del capitolo centrale della monografia del 1948, Bantu Prophets in South Africa, cit. 115 858 S. Cristofori versi come in Liberia,119 Ghana,120 Camerun,121 Uganda,122 Nigeria,123 (1993a), Kenya, 124 Zambia,125 Sudafrica.126 Come i missionari di un tempo, i rinati (reborn) nella deliverance testimoniano l’ispirazione satanica della tradizione, con la liberazione del loro stesso corpo. Il tormento della lotta contro i demoni del passato manifesta però, al contrario dell’annuncio missionario, che questi demoni sono ancora pericolosi e che non è mai possibile ritenersi del tutto al riparo dalla loro influenza. Infatti, un legame compromettente può essere stato allacciato all’insaputa dell’interessato: le generazioni precedenti potrebbero ad esempio, aver stretto un patto con i demoni della tradizione per ottenere dei vantaggi; come una maledizione, allora, la tradizione ricade sull’attuale generazione. Così, continuamente, il reborn è chiamato ad interrogarsi sul suo passato, su quello della sua famiglia e del suo gruppo sociale. Un esercizio che richiama l’autoanalisi protestante ma attraverso cui rivive il passato dal quale, tuttavia, ci si intende liberare. Tale passato assume, in questa rievocazione, una nuova configurazione nell’assetto demoniaco della tradizione. Le sessioni di preghiera sono uno spazio rituale di drammatizzazione fra passato e presente: esse offrono, anche a chi non vive nella sofferenza della propria carne questo conflitto, un modo per riflettere continuamente sui legami e i condizionamenti satanici del passato nel presente.127 La forma della religiosità pentecostale, dunque, non chiude mai in modo definitivo i conti con il passato. In questo suo aspetto il pentecostalismo paradossalmente rievoca le pagine etnografiche che l’antropologia ha dedicato ai divinatori, ai guaritori-indovini, ai riti di possessione della tradizione africana. Questi ultimi sembrano ricercare la causa del male presente nel passato, tentando, tuttavia, di ristabilire un equilibrio fra morti e vivi, fra generazioni, fra forze spirituali P. Gifford, Christianity and Politics in Doe’s Liberia, cit. P. Gifford, Ghana’s New Christianity, cit. 121 P. Gifford, African Christianity, cit., 246-305. 122 Ibidem, 112-180; Id., African Christianity. Its Public Role in Uganda and in Other African Countries, Kampala 1999. 123 New Dimension in African Christianity, ed. by P. Gifford, Ibadan 1992. 124 P. Gifford, Christianity, Politics and Public Life in Kenya, London 2009. 125 P. Gifford, African Christianity, cit., 181-231. 126 P. Gifford, The New Crusaders. Christianity and the New Right in Southern Africa, London 1991. 127 B. Meyer, Make a Complete Break of the Past, cit. 119 120 Note sul movimento pentecostale in Africa 859 in conflitto. Per i pentecostali invece l’unica via di salvezza è nella frattura: bisogna rompere con la tradizione, con le generazioni precedenti, con il passato e le sue forze sataniche, in un conflitto che non ha fine.128 Questa processo di liberazione, mai compiuto, configura una dilatazione della deliverance e l’emergere di figure carismatiche dalle assemblee di preghiera. Infatti, la preghiera collettiva indica una diffusione dei carismi, una «democratizzazione» del prodigioso. Ciascuno, potenzialmente, può ricevere lo spirito divino e i suoi doni. Ma la continua necessità della deliverance adombra l’identificazione e il riconoscimento di nuove figure profetiche. 5. Elia dei tempi moderni Di fatto si mette a cantare e a ballare e a pregare come è solito fare nel corso delle riunioni delle cerimonie di battesimo. Le donne si mettono a percuotere le loro calebasse... Il profeta entra in trance: una crisi catalettica lo getta a terra. Quando si riprende, riprendo la conversazione: «ma lei non deve battezzare». Subito mi replica «il Cristo me lo chiede. Devo dare a queste folle una protezione contro l’influenza del feticcio che essi lasciano». Questo breve scambio di battute è tratto dal Diario (o Giornale)129 del padre superiore Jos Hartz della Società delle missioni africane di Lione. Qui, Hartz ricostruisce un momento particolare dell’incontro avuto nel 1914 con il profeta liberiano William Wadé Harris presso la missione di Grand Bassam nella regione lagunare della Costa d’Avorio. Harris si era presentato al Padre superiore, secondo le parole di quest’ultimo, Ibidem. Con il temine «Diario» (o anche «Giornale») sono indicati i resoconti quotidiani o mensili redatti, in genere, dai Padri superiori di ogni singola stazione missionaria. Benché il termine «Diario» faccia pensare a un testo personale di carattere privato, questo tipo di fonte costituisce, invece, un documento ufficiale che informava i vertici degli ordini religiosi circa gli eventi locali che interessavano le singole missioni. Le note del Padre superiore Jos Hartz su William Wadé Harris sono state trascritte nel 1930 da padre Théo Monnens che, nella missione in Costa d’Avorio, aveva potuto consultare alcuni estratti del Diario. La trascrizione di Monnens è poi stata edita integralmente da padre G. van Bulck: Le Prophete Harris vu par lui-même, (Côte d’Ivoire, 1914), in Devant les sectes non-chrétiennes. Rapports et compte rendu de la XXXIe semaine de missiologie Louvain 1961, Louvain 1961, 120-124. Il passo citato si trova a pagina 122. 128 129 860 S. Cristofori in pompa magna […], circondato dalle sue donne preferite e seguito da una cinquantina di curiosi e di qualche cristiano desideroso di assistere alla […] conversazione.130 Le note di Jos Hartz sembrano voler presentare Harris sotto una luce straniante. Benché il bizzarro personaggio di Hartz sia munito della «tradizionale Bibbia wesleyana»� e si esprima «in questo inglese puro e corretto di cui la Gran Bretagna si onora»,131 egli pare essere il portatore di una pericolosa commistione di elementi pagani e cristiani, attraverso cui traviserebbe il vero significato del sacramento battesimale che pretende di impartire. Le calebasse, le denze, la trance di Harris... forse, per lo studioso di oggi, non sono questi gli aspetti spaesanti del frammento appena riportato. Degna di attenzione appare, infatti, anche la reazione stessa di Hartz, fermo nella sua preoccupazione riguardo al sacramento battesimale. Il profeta a cui egli chiede di non battezzare è in realtà l’attore principale della più folgorante conversione di massa dell’Africa: fra il 1913 e il 1914, durante la sua campagna di evangelizzazione lungo la costa della colonia francese, oltre 100 mila persone abbandonarono «l’influsso del feticcio» per unirsi alle chiese missionarie (cattoliche o protestanti) o per costituirne di nuove laddove non fossero già presenti. Ignorando le dinamiche e le ragioni profonde di quanto accadeva sotto i suoi occhi, Hartz manifesta riserve e preoccupazioni nei riguardi di un fenomeno che palesemente sfuggiva a ogni previsione e controllo missionario. Tuttavia le sue note non contengono un giudizio unilaterale, né, a ben guardare, riservano ad Harris l’accento di disprezzo dovuto ai ciarlatani e agli impostori. È difficile vedere nell’Harris descritto da Hartz un falso profeta. In effetti, il Padre superiore scorge nella sua opera un potenziale positivo per la missione cattolica. Così, egli conclude: Quali saranno i risultati di questo soggiorno del profeta qui sul posto? Il profeta è venerato come un santo ovunque egli passi. Nei centri popolati e civilizzati, si verifica un’attrazione irresistibile di persone verso la chiesa cattolica, che – per esempio a Bassam – è diventata troppo piccola per contenere i catecumeni. Altrove la popolazione feticista brucia i suoi feticci, abbandona le sue pratiche superstiziose […] La sua opera si continua, e già i conflitti fra cattolici e protestanti divengono più vivi […] In G. van Bulck, Le Prophete Harris vu par lui-même, cit., 122. Ibidem, 123. 130 131 Note sul movimento pentecostale in Africa 861 ciascuno lo crede dalla sua parte. La Missione, che si è tenuta in disparte durante il passaggio del profeta, cerca di mettere a frutto l’attrazione che egli esercita verso la chiesa cattolica. Si scartano tuttavia le persone ingenue, che non sono capaci di distinguere fra la religione cattolica e la setta protestante o che si scandalizzano delle nostre divergenze. Approfittiamo dell’occasione unica nel suo genere per illuminare la popolazione. È una lotta molto attiva, che fortificherà la fede dei nostri cattolici e ci attirerà dei proseliti.132 Per parte sua il profeta liberiano mostra una lucida consapevolezza della posta in gioco nell’incontro con il missionario, in tal senso egli rimarca la sua sequela a Cristo, iscrivendo con fermezza la sua crociata contro il feticcio nell’opera di evangelizzazione cristiana. Così, L’Harris di Hartz è un personaggio insistente che persevera nel voler cercare, più volte, un dialogo con il padre superiore, il quale annota: Lo rivedo ancora a più riprese. Ogni domenica, egli assiste alla messa, in piedi senza protestare durante le cerimonie. Un giorno io gli richiedo di non battezzare... egli mi conduce allora centinaia di persone perché le battezzi io stesso. Alla mia domanda di aspettare che l’istruzione abbia fatto di questa gente anime capaci di afferrare la virtù del Battesimo, egli mi risponde «Dio farà questo». Siccome io non posso là, in piena coscienza, fare ciò che egli desidera, egli mi risponde che, attraverso una comunicazione fatta dal Cristo, egli deve battezzare, durante il suo passaggio, tutti quelli che non sono ancora stati battezzati da noi, vale a dire, l’immensa maggioranza della popolazione della Colonia.133 I resoconti missionari – sia cattolici sia protestanti134 – testimoniano diversi aspetti del messaggio profetico di Harris. Se il Diario del Superiore della missione nel Grand Bassan insiste sul sacramento battesimale, nelle conversazioni riportate dai protestanti, Harris precisa la natura della sua ispirazione divina, appoggiandosi alla Bibbia e dimostrando non solo una solida conoscenza di essa, ma anche la conformità della propria esperienza dello Spirito con quanto narrato nei testamenti. Nonostante la natura dialogica e indiretta delle fonti, ne emerge un messaggio profetico coerente che gli studi di David A. Shank hanno contribuito a ricostruire nelle sue connessioni e divergenze Ibidem, 123-124. Ibidem, 123. 134 Mi riferisco alle fonti rese disponibili dal lavoro di D.A. Shank, Prophet Harris. The «Black Elijah» of West Africa, Leiden 1994. 132 133 862 S. Cristofori con l’insegnamento missionario.135 Ad essere centrali nelle argomentazioni di Shank sono in particolare i termini in cui Harris descrive la propria pentecoste, rintracciandone la peculiare cifra espressiva che si nutre della lettura del vecchio quanto del nuovo testamento. In tal senso, questa operazione storiografica prosegue e approfondisce l’intuizione di Hollenweger laddove, nel testo del 1969,136 egli aveva ipotizzato l’emergere all’inizio del Novecento di un pentecostalismo africano, storicamente non riconducibile al movimento statunitense, che costituirebbe la radice storico-spirituale della più recente effervescenza carismatica. Ricostruendo un piano evenemenziale che situa l’incontro con i missionari pentecostali solo in una fase tarda della predicazione di Harris,137 Shank analizza gli aspetti che definiscono in modo originale l’esperienza dello spirito divino compiuta dal profeta. Questi in effetti descrive e interpreta l’effusione, che segnò l’inizio della sua missione profetica, nei termini dell’unzione dello Spirito, piuttosto che in quelli del battesimo dello Spirito, come invece predilige il cosiddetto «pentecostalismo classico» di matrice statunitense. L’unzione profetica richiama così direttamente il Vangelo, facendo proprio il linguaggio degli apostoli che vissero la prima pentecoste e rievocando la stessa unzione messianica di Cristo. Una continuità e un’identificazione fra la propria esperienza e quella narrata negli Atti e nelle Lettere, che egli, parlando nel 1926 con il missionario protestante francese Pierre Benôit, salda in questo modo: «Lo spirito che è in me è lo spirito che è disceso nella Pentecoste. È lo spirito che fa parlare in lingue come è detto in I Cor 14/2».138 Ed ancora, motivando la propria autorità di profeta, dice: Ecco la mia «commissione»; Matt. 28/19. Gesù Cristo mi ha detto: Vada e insegni a tutte le nazioni, battezzandole in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e insegni loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Quindi io vado e battezzo. Io sarò come Elia che ha fatto bruciare tutti i sacerdoti di Baal – io convertirò tutti i popoli della terra.139 Ibidem; D.A. Shank, Itinéraire religiex d’un chrétien africain, in «Perspectives Missionaires», 31 (1996) 30-52; Id., Le pentecôtisme du prophète William Wadé Harris, in «Archives de sciences sociales des religions», (1999)/105, 51-70. 136 Mi riferisco all’edizione inglese: W.J. Hollenweger, The Pentecostals, London 1976, 149-175, (I trad. inglese 1972). 137 È possibile far risalire tale incontro agli anni Venti, una volta conclusa la campagna evangelizzatrice di Harris lungo la costa ivoriana e Ghanese, quando dei predicatori statunitensi bianchi si installano nella regione liberiana di Harper e di Cape Palmes. 138 D.A. Shank, Le pentecôtisme du prophète William Wadé Harris, cit., 55. 139 Ibidem, 54. 135 Note sul movimento pentecostale in Africa 863 L’iconoclastia come nucleo essenziale del messaggio salvifico di Harris trova motivazione e autorità nelle figure profetiche d’Israele, come mostrano le continue identificazioni con Mosè, Elia, Daniele, Sadrach, Mesach, Abednego, ecc. Allo stesso tempo, tale identificazione si compie attraverso un’interpretazione della Bibbia ispirata dallo Spirito Santo. A questo proposito Shank osserva come nel messaggio di Harris una serie eterogenea di motivi argomentativi ed esperienziali acquisiscano coerenza attraverso la Bibbia soprattutto laddove nei suoi racconti egli ritrova una gamma complessa di fenomeni spirituali. Così, Harris precisa la propria unzione nei termini della trance e della visita dell’angelo, quando Benôit gli chiede se avesse visto con i propri occhi Gabriele: «Non con i miei occhi. Io lo vedo dentro me stesso... spiritualmente [sottolineatura di Pierre Benôit]» e, incalzato, specifica: «Non con i miei occhi, ma spiritualmente – Io ero “in trance” [virgolettato di Pierre Benôit]».140 La trance connessa alla visita di angeli è presente in Harris soprattutto attraverso i profeti dell’antico testamento, mentre il linguaggio per descriverla è attinto dai racconti successivi alla pentecoste, tramite l’esperienza degli apostoli Pietro e Paolo. Attraverso le analisi di Shank è possibile vedere come nel profeta liberiano le identificazioni bibliche si compiono sul piano delle potenze spirituali e della loro azione intenzionale. È così che la trance, quale esperienza della religiosità «tradizionale», diviene la chiave di accesso all’universo della spiritualità biblica, dando vita al pentecostalismo di Harris. In questo profeta è così possibile ritrovare una serie di motivi fondamentali che, secondo Shank, adombrano l’effervescenza carismatica che attraversa la religiosità africana attuale. Soprattutto nell’azione immanente e immediata dello spirito divino su/contro gli spiriti dell’universo precristiano, al fine di una prosperità imminente.141 Ibidem. La prosperità, quale elemento costitutivo del pentecostalismo attuale in Africa, è stato interpretato anche da altri autori come incontro fra spiritualità e bisogni concreti che non si esaurisce nella mera promessa di successo e di realizzazione di interessi materiali. In tal senso, in polemica con Paul Gifford (Prosperity: A New and Foreign Element in African Christianity, in «Religion. Journal of Religion and Religions», 20(1990) 25-44; Id., African Christianity, cit; Id., Ghana’s New Christianity, cit.), si vedano ad esempio O.U. Kalu, «Globalitazion» and Religion. The Pentecostal Model in Contemporary Africa, in Uniquely African? African Christian Identity from Cultural and Historical Perspectives, ed. by J. Cox, G. Ter Haar, Trenton 2003, 215240; Id., African Pentecostalism. An Introduction, New York 2008; Id., A Discursive 140 141 864 S. Cristofori Come visto, per certi aspetti Shank scorge in Harris una figura del pentecostalismo originale, in quanto soluzione creativa che non trae origine dalla spinte missionarie delle comunità pentecostali, sorte dopo l’esperienza carismatica di Azusa Street. D’altro canto, invece, la specificità della sua epopea profetica, rispetto ai profetismi ivoriani successivi, risiede nella sua formazione religiosa compiuta a stretto contatto con i missionari e i predicatori metodisti della Liberia. In tal senso l’opera di Shank è, anche, il romanzo di formazione di un cristiano d’estrazione glebo. Nella fase successiva all’unzione sono infatti presenti in Harris caratteristiche fondamentali riconducibili alla sua trentennale adesione ai principi wesleyani: l’accento del profeta sul tema della conversione come esperienza di trasformazione e rinascita, la centralità della Bibbia come fonte primaria della fede, il fervore della preghiera collettiva. Così la vicenda profetica di Harris, sebbene analizzata come pentecostalismo originale, è riconnessa alla storia del cristianesimo in una prospettiva di lunga durata. Ciò avviene non solo attraverso l’analisi dell’auto-identificazione con profeti e apostoli dei testamenti, ma anche grazie alla ricostruzione, su un piano più propriamente storiografico, della matrice formativa metodista. Così che nella figura di Harris non si incontra «solo» un profeta africano ma un pentecostale all’interno di una storia cristiana secolare attraversata da risvegli carismatici. Il messaggio di Harris appare in questa luce non come il portato di una religiosità esogena o il tentativo programmatico di una indigenizzazione di questa, ma come una forma di cristianesimo che trova nelle dinamiche interne all’universo spirituale tradizionale i motivi di una connessione profonda con la più generale storia cristiana. Quella del profeta liberiano è dunque per Shank una figura emblematica che, nel suo contributo alla costruzione di un «cristianesimo universale», riesce a mostrare attraverso lo scavo storiografico una molteplicità di connessioni con il passato, in grado di gettare luce sulle dinamiche contemporanee. Probabilmente, lo storico nigeriano Ogbu U. Kalu è l’autore che maggiormente ha perseverato su questa strada interpretativa, lungo un percorso decennale di studi e all’interno di un progetto di ricerca complessivo sul cristianesimo africano. In tal senso nella vasta produzione di Kalu possono scorgersi con più nitidezza gli esiti critici di una prospettiva che ambisce a una riformulazione radicale delle cateInterpretation of African Pentecostalism, in «Fides et Historia», 41(2009)/1, 71-99 e L. Lado Catholic Pentecostalism and the Paradox of Africanization, Leiden 2009. Note sul movimento pentecostale in Africa 865 gorie e dei percorsi storiografici, cercando, nella profondità storica, le radici dell’effervescenza carismatico-pentecostale. Come le ricerche di Shank su Harris, anche quelle di Kalu, in particolare sulla Nigeria e il contesto igbo,142 mostrano come il protagonismo di questa forma di religiosità abbia apportato nuovi stimoli e un arricchimento delle conoscenze sulla storia cristiana africana. La ricerca di Kalu è animata, inoltre, da una tensione verso la restituzione della continuità fra momenti che appartengono ad un medesimo divenire, sebbene siano stati artificiosamente distinti e isolati in sede storiografica. A tale scopo egli forgia la nozione di trail of ferment,143 assegnando così una traiettoria unificante alla molteplicità dei risvegli carismatici che attraversano il cristianesimo africano.144 Il pentecostalismo, dunque, non è una nuova forma di religiosità ma la configurazione del cristianesimo stesso come risposta africana al Vangelo. La recente effervescenza carismatica è, in quest’ottica, solo l’ultimo riaccendersi del fermento che pervade la spiritualità cristiana in Africa e che trova una prima compiuta espressione nei profeti degli inizi del Novecento:145 Infatti le forme dell’iniziativa cristiana africana divengono l’aspetto O.U. Kalu, Gender Ideology in Igbo Religion. The Changing Religious Role of Women in Igboland, in «Africa. Rivista di studi e documentazione», 46 (1991)/2, 184202; Id., The dilemma of Grassroot Inculturation of the Gospel. A case Study of a Modern Controversy in Igboland 1983-1989, in «Journal of Religion in Africa», 18 (1995)/2, 163-182; Id., The Embattled Gods. The Christianization of Igboland, 1841-1991, Lagos 1996; Id., The practice of victorious life: Pentecostal political theology and practice in Nigeria, 1970-1996, in «Mission. Journal of Mission Studies», 5 (1998)/2, 229-255. 143 O.U. Kalu, A Trail of Ferment in African Christianity: Ethiopanism, Prophetism, Pentecostalism, in African Identities and World Christianities in the Twentieth Century, ed. by K. Koschorke, Wiesbaden 2005, 19-47. 144 Ibidem; O.U. Kalu, The Third Response. Pentecostalism and the Reconstruction of African Christian Experience in Africa, 1970-1995, in «Journal of African Christian Thought», 1(1998)/2, 25-32; Id., Clio in Sacred Garb. Telling the Story of Gospel-People Encounters in our Time, in «Fides et Historia», 35 (2003)/1, 27-39; Id., «Globalitazion» and Religion. The Pentecostal Model in Contemporary Africa, cit., 24-42; African Christianity: An African Story, ed. by Id., Pretoria 2005; Id., A Trail of Ferment in African Christianity, cit; Id., African Pentecostalism. An Introduction, New York 2008; Id., Clio in a Sacred Garb: Essays on Christian Presence and African Responses, 1900-2000, Trenton 2008; Id., A Discursive Interpretation of African Pentecostalism, in «Fides et Historia», 41 (2009)/1, 71-99. 145 Si veda a questo riguardo anche J. Hanciles, African Christianity, Globalization and Mission. Marginalizing the Center, in Interpreting Contemporary Christianity. Global Processes and Local Identities, ed. by O.U. Kalu, A. Low, Grand Rapids 2008, 71-90. 142 866 S. Cristofori prevalente […]. In un contesto dopo l’altro, figure profetiche indigene ispirarono una risposta carismatica al Vangelo e fu attraverso i loro sforzi che il cristianesimo crebbe.146 Questo fermento, sorto con l’incontro delle Scritture, muove l’intero cristianesimo africano che in tal senso si definisce come «una storia africana»: African Christianity: An African Story, così recita il titolo del volume scritto a più mani che Kalu cura nel 2005.147 L’unità di fondo che Kalu afferma ha il merito, per certi aspetti, di incoraggiare studi comparativi lungo l’asse diacronico. Tuttavia, a ben vedere, il legame fra momenti carismatici diversi sembra in ultima analisi svincolato da dinamiche concrete e storicamente circoscrivibili. «Quando i missionari sparsero il seme del Vangelo, gli africani se ne appropriarono a partire da una prospettiva primordiale e carismatica e lessero le Scritture tradotte attraverso questa ermeneutica».148 Sebbene, Kalu riconosca la specificità dei momenti che si succedono nella continuità del fermento, questi sembrano essere connessi da una comune radice che affonda nelle religiosità precristiana a cui, nel passo appena citano, si riferisce menzionando una prospettiva ermeneutica carismatica primordiale. La religiosità tradizionale sembra non solo possedere una natura monolitica, ma costituire anche una sorta di tratto distintivo che connoterebbe un’esperienza spirituale come autenticamente africana. La tradizione è così pensata come una fonte inesauribile che, incorrotta da qualsiasi dinamismo, segnerebbe l’africanità della storia. La relazione che Kalu stabilisce fra «religione tradizionale» e cristianesimo è un’argomentazione che, con accenti e sfumature diverse, si riscontra anche in altri autori.149 Tale produzione sembra non aver African Christianity, ed. by O.U. Kalu, cit., 36; si veda anche Id., African Christianity. From the World Wars to Decolonization, in Cambridge History of Christianity v. 9: World Christianities, c. 1914-2000, ed. by H. McLeod, Cambridge 2006, 197-218. 147 African Christianity, ed. by O.U. Kalu, cit. Questo volume è stato rieditato nel 2007 (Trenton). 148 Ibidem, 38. 149 Si vedano ad esempio: L. Magesa, Anatomy of Inculturation. Transforming the Church in Africa, New York 2004; M.A. Oduyoye, Christian Engagement with African Culture. Religious Chalenges, in Uniquely African? African Christian Identity from Cultural and Historical Perspectives, ed. by J. Cox, G. Ter Haar, Trenton 2003, 89-108; A.K. arap Chepkwony, African Religion, the Root Paradigm for Inculturation Theology. Prospects for the 21st Century, in Challenges and Prospects of the Church in Africa. Theological Reflections of the 21st Century, ed. by N.W. Ndung’u, Ph. Mwara, Nairobi 2005, 30-53; F.A. Oborji, Towards a Christian Theology of 146 Note sul movimento pentecostale in Africa 867 recepito sino in fondo la pluralità dei modelli di cristianizzazione che, come accennato, la letteratura ha saputo ricostruire, indagando dagli anni Ottanta in poi le differenti forme storiche dell’incontro fra cristianesimo e società africane. Kalu ha come intento programmatico la decostruzione delle categorie e delle distinzioni con cui la storiografia ha imbrigliato l’effervescenza carismatica, frammentando l’unità della sua storia in opposizioni inesistenti. Così il pentecostalismo diviene una nuova categoria ricomprensiva in grado di superare, ad esempio, la relazione escludente forgiata da Sundkler fra chiese etiopiche e sioniste nel contesto sudafricano. Mentre le prime designavano forme di cristianesimo ancora legate alle chiese missionarie e storiche, le seconde indicavano un movimento religioso che ne aveva invece maturato un pieno distacco e che per tanto assurgevano ad emblema di una sintesi creativa autenticamente africana.150 Riconsiderate nella prospettiva proposta da Kalu, anche le chiese etiopiche rientrano nella storia dell’appropriazione africana del Vangelo. Eppure, il pentecostalismo, concepito come autentico volto del cristianesimo africano, continua ad implicare forme di esclusione: le chiese storiche (e guardando al passato quelle missionarie) sembrano in questa luce non appartenere al cristianesimo africano. Queste forme di religiosità non sono forse degne di essere considerate «autentiche» o di essere incluse come tali nella storia cristiana? Proprio quando è usato come grimaldello per scardinare le vecchie categorie, il pentecostalismo porta al parossismo contraddizioni latenti che, a ben vedere, attraversano la riflessività dell’africanistica da lungo tempo; soprattutto laddove, come nel caso di Kalu, si compie il tentativo di una ricapitolazione storica complessiva. Si tratta di difficoltà e contraddizioni, che Adrian Hastings aveva African Religion. Issues of Interpretetion and Mission, Eldoret, Kenya, 2005; M.A. Ojo, The End-Time Army. Charismatic Movement in Nigeria, Trenton 2006; F.J.S. Wijsen, Seeking a Good Life. Religion and Society in Usukuma, Tanzania, 19451995, Nairobi 2000. In prospettiva costruttivista, lo studioso tedesco Klaus Hock ha indagato il ruolo che la «tradizione» ha avuto nel configurare la teologia africana (Id., Appropriated Vibrance. «Immediacy» as a Formative Element in African Theologies, in African Identities and World Christianities in the Twentieth Century, ed. by K. Koschorke, Wiesbaden 2005, 113-126). 150 U.O. Kalu, A Trail of Ferment in African Christianity, cit.; Id., Ethiopianism in African Christianity, in The Dark Webs. Perspectives on Colonialism in Africa, ed. by T. Faloa, Durham 2005, 137-160; Id., Ethiopianism and the Roots of Modern African Christianity, in Cambridge History of Christianity v. 8: World Christianities, 18151914, ed. by S. Gilley, B. Stanley, Cambridge 2006, 576-592. 868 S. Cristofori già ben chiare quando scriveva il testo del 1979 A History of African Christianity 1950-1975.151 A vent’anni dalla fase delle indipendenze, questo volume proponeva lungo un’asse argomentativo diacronico, una storia che teneva insieme chiese storiche e indipendenti.152 Erano, così, illustrate interazioni, continuità, differenze e dinamiche che le attraversavano all’interno di una medesima cornice configurata dalla relazione chiesa/stato, in situazioni storico-politiche ricostruite in modo attento. Il suo volume rispondeva al tentativo di uscire da un approccio fenomenologico allo studio delle chiese indipendenti per ricollocarle in una storia complessiva del cristianesimo africano.153 Per far questo era necessario riconnetterle al contesto politico, sociale, culturale da cui il loro dinamismo traeva senso e in tale direzione andava soprattutto il suo quinto capitolo conclusivo Between politcs and prayer.154 Come ebbe modo di osservare lo stesso Hastings un ventennio più tardi, nel suo trentennale bilancio degli studi sul cristianesimo africano, quel tentativo sembrava essere stato solo parzialmente raggiunto.155 Il progetto di una storia del cristianesimo africano come continuità di fermento appare implicato nei limiti della produzione successiva alle indipendenze, sebbene paradossalmente esso si proponga di superarli. L’impareggiabile ricchezza della stagione di studi degli anni Sessanta e Settanta era il prodotto delle spinta creative che il fermento delle indipendenze politiche aveva liberato. Come è noto, l’africanistica era all’epoca attraversata da forti tensioni che smascheravano l’impianto coloniale delle sue discipline. La storia – la storicità dell’umanità africana – era la posta in gioco che decideva del riscatto morale e politico del continente. Per scagionarlo dalla sentenza di hegeliana memoria che l’aveva condannato a essere un continente senza storia, era necessario portare al centro dell’interesse storiografico l’iniziativa africana. Il monumentale progetto enciclopedico dell’Unesco consacrato alla storia generale dell’Africa trae ispirazione proprio dagli orientamenti storiografici di quel clima culturale; in tal senso il corpo centrale del VII volume, dedicato agli anni fra 1880 e il 1935, si compone A. Hastings, A History of African Christianity 1950-1975, cit. I capitoli del libro seguono la seguente periodizzazione: 1950, 1951-1958, 19591966, 1967-1975. Ciascuno di segue tre assi tematici: chiesa e stato, le chiese storiche, indipendenza. 153 A. Hastings, African Christianity Studies, 1967-1999, cit. 154 Ibidem, 258-274. 155 Ibidem, 36. 151 152 Note sul movimento pentecostale in Africa 869 di saggi che riportano nel titolo l’espressione «African initiatives», ad evidenziare il protagonismo attivo degli africani nella propria storia, anche nella fase di più violenta dominazione coloniale. Tale svolta storiografica aveva, inoltre, trovato una solida argomentazione scientifica nei lavori di Jan Vansina, pubblicati all’inizio degli anni Sessanta.156 Grazie ai suoi studi sul vastissimo corpus di tradizioni orali dei regni interlacustri ed equatoriali, si apriva ora la possibilità di lavori storiografici anche sul passato precoloniale, che possedevano gli strumenti metodologici per essere riconosciuti come attendibili in sede accademica. Tale validità si basava sul fatto che quelle società erano storiche nel senso più proprio del termine: esse facevano storia, tramandando secondo specifiche tecniche mnemoniche il proprio passato attraverso istituzioni preposte a questo scopo. Come prodotto di una trasmissione controllata del passato, la fonte orale poteva essere impiegata dalla storiografia, perché era possibile ricostruire il processo di deformazione e la cultura politica delle istituzioni che l’avevano manipolata nel consegnarla alle generazioni contemporanee. La storia del cristianesimo non fu solo investita da questa profonda ridefinizione disciplinare ma offrì anche un terreno privilegiato di riflessione e di battaglia culturale, di cui, forse, la più vivida testimonianza rimane lo spietato e lucido J’accuse di Jacob F. Ade Ajayi ed Emmanuel A. Ayandele Writing African Church History del 1969,157 dove i due storici nigeriani lanciavano il loro atto d’accusa contro la storiografia missionaria colpevole di aver messo in ombra l’apporto degli africani all’evangelizzazione per scrivere invece una letteratura agiografica dei religiosi occidentali in terra d’Africa. Protagonisti di quella stagione di studi storici,158 Ade Ajayi e Ayandele configuravano l’identità africana del cristianesimo, anche attraverso opere dedicate alla ricostruzione del suo esordio in Nigeria.159 J. Vansina, Recording the Oral History of the Bakuba, I: Methods, in «Journal of African History», 1 (1960) 43-51; Id., De la tradition orale. Essai de méthode historique, Tervuren 1961; Id., L’evolution du Royame Rwanda des origines à 1900, Bruxelles 1962; Id., A Comparison of African Kingdoms, in «Africa», 32 (1962) 324-335. 157 J.F. Ade Ajayi , E.A. Ayandele, Writing African Church History, in The Church Crossing Frontiers. Essays on the Nature of Mission: In Honour of Bengt Sundkler, ed. by P. Beyerhaus, C.F. Hallencreutz, Uppsala 1969, 90-108. 158 Della loro produzione ricordo a titolo di esempio: J. Ade Ajay, Milestones in Nigeria History, Ibadan 1962; E. A. Ayandele, Nigeria Historical Studies London 1979 e Id., African Historical Studies, London 1979. 159 J. Ade Ajayi, Christian Missions in Nigeria 1841-1891: The Making of a New Elite, 156 870 S. Cristofori Questo tipo di ricerche, da un lato, trovavano nell’ambito degli studi religiosi mentori straordinari come Richard Gray della School of Oriental and African Studies di Londra. Mentre, dall’altro, traevano ispirazione dalla riflessione degli intellettuali della diaspora nera, tesa a (ri)costruire i contributi africani alla storia universale dell’umanità, occultati dalla matrice imperialista delle scienze occidentali. In maniera simile, infatti, queste ricerche intendevano ristabilire l’apporto dei cristiani africani al cristianesimo intero. E in tal senso esse segnarono uno spartiacque storiografico irreversibile: la cristianizzazione dell’Africa da allora non può essere più compresa nelle sue reali dinamiche senza considerare il protagonismo dei catecumeni e degli evangelizzatori africani, spesso anonimi, dalle cui schiere emersero grandi personaggi profetici come Harris per la Costa d’Avorio e la Costa d’Oro, o Kimbangu per il Congo.160 D’altro canto, in questi studi era anche sotteso il rischio di confinare il cristianesimo africano in una nuova marginalità proprio perché si cercava di trovarne il volto peculiare, il suo carattere specifico. Esso rischiava di acquisire, così, un carattere locale proprio quando veniva riconnesso alla storia «universale» del cristianesimo. Gli studi sulle effervescenze religiose e i movimenti cristiani avevano un ruolo centrale nella svolta storiografica che l’africanista stava compiendo nel suo complesso. Questi fenomeni dimostravano il dinamismo storico delle società africane, la loro capacità di appropriarsi creativamente dell’apporto esogeno per trovare su un piano simbolico soluzioni innovative alla crisi attraversata nella fase coloniale. Le nuove forme di cristianesimo erano, così, il terreno di studio del cambiamento sociale, come indicavano gli studi di Georges Balandier,161 che ispirarono una nuova generazione di africanisti francesi, o il volume del 1960 di Vittorio Lanternari162 che seppe guadagnare il palco del dibattito internazionale. Inoltre, gli studi religiosi davano la posEvanston 1965; E. A. Ayandele, The Missionary Impact on Modern Nigeria 18421914: A Political and Social Analysis, London 1966. 160 Per una ricostruzione complessiva dell’apporto fondamentale degli evangelizzatori al radicamento del cristianesimo in Africa si veda A. Hastings, The Church in Africa, cit., 397-492. 161 G. Balandier, Messianismes et nationalismes en Afrique noire, in «Cahiers internationaux de Sociologie», 14 (1953) 41-65; Id., Sociologie actuelle de l’Afrique noire. Dynamique sociale en Afrique Centrale, Paris 1955; Id., Afrique ambiguë, Paris, 1957; Id., Messianisme et développement économique et social, in «Cahiers internationaux de Sociologie», 31 (1961) 3-14. 162 V. Lanternari, Movimenti religiosi di libertà e salvezza, Milano 1960. Note sul movimento pentecostale in Africa 871 sibilità di guardare, in situazioni concrete, le reazioni delle tradizioni africane alla missione civilizzatrice dei dominatori europei. A tale riguardo, John D.Y. Peel, autore nel 1968 di una monografia oggi considerata un classico sul movimento Aladura della Nigeria,163 ha avuto più di recente modo di osservare come la «religione yoruba» non abbia negli anni smesso di affascinare gli studiosi, continuando a motivare nuove ricerche.164 Secondo Peel, quest’ultima costituisce una nozione analitica che è per larga parte debitrice degli studi religiosi sviluppati nelle università nigeriane durante il periodo nazionalista;165 in tal senso, la religione yoruba è una versione purificata della categoria missionaria di «paganesimo», costruita come alterità religiosa del cristianesimo che venne traghettata nell’accademia dal reverendo professor E. Bolaji Iowu con il testo del 1962 Olódùmarè: God in Yoruba Belief.166 Muovendo dalla contrapposizione di partenza paganesimo/cristianesimo, gli intellettuali nazionalisti nigeriani maturarono una posizione critica verso quest’ultimo. Nel campo degli studi religiosi, si trattava di rendere giustizia dei torti che la tradizione yoruba aveva subito da parte dei missionari. Che fossero cristiani o meno, gli intellettuali nigeriani cercarono di arrivare a una soluzione di questo conflitto, ritrovando nella religione tradizionale elementi che annunciavano il cristianesimo.167 Oppure, attraverso un’operazione di segno opposto, ricompresero la «tradizione yoruba» non come religione ma come sistema culturale. Questa tendenza – osserva Peel – è stato un processo di potente secolarizzazione dei rituali yoruba, attraverso cui le esperienze spirituali dette «tradizionali» furono rese «inoffensive»: la culturalizzazione le trasforma, infatti, in un tratto essenziale dell’identità che, in quanto tale, è inevitabilmente particolarista. Le forme del pentecostalismo odierno sembrano per più versi paJ.D.Y. Peel, Aladura. A Religous Movement among the Yoruba, Oxford 1968. J.D.Y. Peel, Religious Encounter and the Making of the Yoruba, Bloomington 2000. 165 Al riguardo si veda anche la monografia del 2000 dello stesso Peel (Religious Encounter and the Making of the Yoruba, cit.), R.I.J. Hackett, New Religious Movements in Nigeria, Lewiston 1987; A. Mary L’invention chrétienne de l’identité Yoruba. Les racines missionnaires d’une nation africaine, in «Archives de Sciences Sociales des Religions», 124 (2003) 49-61; M. R. Shaw, The Invention of «African Traditional Religion», in «Religion. Journal of Religion and Religions», 20 (1990)/4, 339-353. 166 E B. Iowu, Olódùmarè: God in Yoruba Belief, London 1962. 167 Per una critica di queste tendenze si veda R. Horton, Patterns of the Thought in Africa and the West. Essays on Magic, Religion, and Science, Cambridge 1993. 163 164 872 S. Cristofori lesare gli aspetti problematici delle operazioni che, sinora, nelle discipline africaniste e nella teologia africana hanno cercato di descrivere le relazioni storiche fra il cristianesimo e le religiosità tradizionale,168 come nel «caso yoruba». Benché Kalu abbia proposto di vedere nel pentecostalismo la reazione propriamente africana al Vangelo, a fatica si potrebbe mettere a fuoco il campo della deliverance attraverso queste lenti. Difatti nella deliverance, spirito divino e forze sataniche della tradizione lottano per la salvezza o la perdizione del sofferente. Per certi versi è evidente come, nonostante il distacco salvifico che il messaggio pentecostale annuncia, gli spiriti della tradizione siano integrati nel cristianesimo come influssi satanici: non vi è salvezza senza dannazione. Tuttavia, è solo a rischio di forzature riduttive che possiamo costringere il dispositivo salvifico pentecostale nella categoria della «risposta autenticamente africana» al Vangelo. Lo Spirito infatti è manifestazione della forza rigenerativa di Dio che salva l’individuo, disconnettendolo dalla tradizione quale vincolo satanico. D’altro lato, pur relegati nel passato, gli spiriti non sono affatto inoffensivi come sembrerebbe invece suggerire la proposta culturalizzante; al contrario, infatti, essi presentificano il passato come maledizione consegnata fra generazioni. Questa ambivalente relazione fra tradizione e cristianesimo ha, in molti contesti, una lunga storia alle sue spalle. Meyer, ad esempio, ha dimostrato nelle sue ricerche fra archivio e terreno,169 come l’attuale effervescenza pentecostale si innesti nella storia stessa del cristianesimo in Ghana, trovando una radice negli esordi della chiesa missionaria. Battesimo e iconoclastia, come si è visto, sono gli aspetti con cui Harris denota la propria missione profetica: il sacramento battesimale è protezione «contro l’influenza del feticcio che essi [i convertiti] lasciano».170 Anche se questa funzione protettiva non esaurisce il significato del sacramento impartito da Harris, la sua sequela a Cristo lo induce ad identificarsi ai profeti d’Israele come Elia in guerra contro i sacerdoti di Baal. In una magistrale monografia del 1995 Jean-Pierre Dozon ha in- Al riguardo si veda B. Meyer, Christianity in Africa, cit. B. Meyer, If you are Devil, cit.; Id., Make a Complete Break of the Past, cit.; Id., Translating the Devil, cit. 170 In G. van Bulck: Le Prophete Harris vu par lui-même, (Côte d’Ivoire, 1914), cit., 122. 168 169 Note sul movimento pentecostale in Africa 873 dagato la lunga storia del profetismo ivoriano.171 A partire dall’epopea di Harris nei diciotto mesi fra il 1913 e il 1914 sino a quella di Koudou Jeannot a metà degli anni Ottanta, lo studioso francese ha ricostruito l’avvicendarsi di figure profetiche da quelle più oscure a quelle di maggiore luminosità carismatica, tessendo le relazioni che queste periodiche effervescenze hanno intrattenuto con la storia politica e con la costruzione della nazione ivoriana. Al cuore della ricerca vi è il tentativo di afferrare, attraverso un’accurata ricostruzione dei mutamenti storico-sociali, la ragione di una continuità profetica lunga un settantennio. Per Dozon il protestantesimo di Harris e il revivalismo tradizionalista di Koudou tracciano la traiettoria di un medesimo «cerchio profetico» lungo il quale le altre figure religiose si muovono. A indirizzare questa continuità circolare è quella che egli chiama «la causa» comune dei profeti: la loro attività si orienta, infatti, verso la ragione dei mali, individuandola nel «feticismo e nella stregoneria». Il gesto profetico inaugurale è dunque sempre antagonistico, in quanto mira a colpire coloro i quali (indovini, guaritori, sacerdoti dei culti) detengono i poteri della tradizione. Nella sfida lanciata loro, risiede la prova d’esordio dei profeti ivoriani che così legittimano la loro causa e allo stesso tempo la loro capacità ad assumerla pienamente.172 Per aprire l’ordine radicalmente nuovo che annunciava, Harris, ad esempio, esercitava il carisma della guarigione e dell’esorcismo, sviluppando così una relazione di aperta concorrenza con i detentori J.-P. Dozon, La cause des prophètes: politique et religion en Afrique contemporaine, Paris 1995; Id., Gbahié Koudou Jeannot. Le prophète annonciateur de la crise, in «Cahiers africains», 35 (1995)/2-3, 305-332; Id., Post-prophetism and Post-Houphouëtism in Ivory Coast, in «Social Compass», 48 (2001)/3, 369-385; Oltre agli studi di Dozon e a quelli di Shank su Harris, sul profetismo ivoriano si veda anche: R. Bureau, Le prophète de la lagune. Les harristes de Côte d’Ivoire, Paris 1996; J.-P. Lehmann, Prophètes-guérisseurs dans le Sud de la Côte d’Ivoire, Paris 2012; A. Mary, La tradition prophétique ivoirienne au regard de l’histoire, in «Cahiers d’études africaines», 37 (1997) 213-223; Id., Prophètes pasteurs. La politique de la délivrance en Côte d’Ivoire. Les sujets de Dieu, in «Politique africaine», 87 (2002) 69-93; C.-H. Perrot, Prophétisme et modernité en Côte d’Ivoire. Un village éotilé et le culte de Gbahié, in Religion et modernité politique en Afrique noire. Dieu pour tous et chacun pour soi, ed. by J.-F. Bayart, Paris 1993, 215-275. Il testo di Dozon si inserisce all’interno di una lunga stagione di studi francesi sulle forme della religiosità in Africa occidentale; in particolare la sua opera risente della collaborazione e dello scambio con l’antropologo Marc Augé (Id., La construction du monde. Religion, représentations, idéologie, Paris 1974; Prophétisme et Thérapeutique. Albert Atcho et la communauté de Bregbo, éd. par Id. et al., Paris 1975; Id., Génie du paganisme, Paris 1982; Id., Le dieu objet, Paris 1988). 172 J.-P. Dozon, La cause des prophètes, cit., 210. 171 874 S. Cristofori della tradizione. Scalzare questi significava rendere la causa profetica vittoriosa e pertanto credibile, perché essa si diceva ispirata da un Dio onnipotente e superiore. Così, secondo Dozon, l’operato evangelico di Harris muoveva un profondo rimprovero ai missionari: questi sembravano infatti aver rinunciato ad assumere il rischio di tale sfida, nonostante quanto fosse scritto nel Vangelo che essi avevano portato. Allo stesso modo la denuncia dei poteri tradizionali, come causa del male, richiedeva un lavoro di obiettivazione a cui l’operato missionario dei bianchi si era sottratto: perché la redenzione avvenisse, gli oggetti della stregoneria devono essere distrutti pubblicamente. La rinuncia ad essi implicava la dimostrazione della loro esistenza e, inevitabilmente, del loro malefico influsso. Le pratiche anti-feticiste di Atcho, profeta guaritore apparso negli anni Trenta e morto agli inizi degli anni Novanta, mostrano in modo forse più chiaro questo funzionamento, perché sembrano intrattenere una relazione di forte similarità con i processi ordalici. Come in un tribunale, le persone venute a cercare guarigione presso la comunità terapeutica di Atcho riconoscevano pubblicamente di aver attaccato il prossimo, in una dimensione spirituale indipendente dalla loro «normalità» e dalla loro quotidiana esistenza. Il carisma terapeutico di Atcho rendeva così indiscutibile e pubblica l’esistenza della stregoneria. In tal senso, per Dozon, l’impresa profetica non si limita a costatare la sua «causa» ma ha, invece, bisogno di costruirla e di obiettivarla. Infatti, nel momento in cui diviene collettivamente condivisa, la causa acquisisce realtà: i feticci e la stregoneria sono riconosciuti come effettiva origine del male, possedendo un’indubbia potenza nociva. La condizione della verità profetica risiede nell’esistenza stessa della fonte del male che si propone di sradicare. Così, nella relazione ambivalente con la tradizione e il suo potere nefasto, si precisano i contorni del movimento circolare del profetismo che nella sua feroce lotta contro il feticcio, non può che assumerlo, talvolta ponendosi decisamente dalla parte del cristianesimo come nel caso di Harris e talvolta appropriandosi dei tratti del proprio rivale, come dimostra la vicenda di Koudou. Infatti, anche il profeta che ha inaugurato il cerchio ivoriano, partecipa a questo movimento contro e verso i feticci della tradizione. Invece di negare la loro efficacia, il profeta liberiano ha attraverso di loro sviluppato la propria personale interpretazione del segreto della potenza. Il feticcio infatti spiega, nella predicazione di Harris, la debolezza degli africani, come, per altro verso, il dio onnipotente motiva il successo dei bianchi nella loro impresa di assoggettamento Note sul movimento pentecostale in Africa 875 e conquista dei neri. Così il cerchio ingloba bianchi e neri, Africa e occidente, ed assume valenze politiche non perché portatore per se stesso di un progetto eversivo o rivoluzionario, ma perché accoglie al suo interno il male per interrogare i legami sociali che, come nel caso del profeta liberiano, possono includere il vasto mondo della relazione coloniale oppure, come per alcuni suoi successori, le dinamiche più specifiche del contesto ivoriano. Indubbiamente il cerchio evoca un’immagine di chiusa immobilità che sembrerebbe suggerire il perpetuarsi immutabile della tradizione, malgrado i tentativi dei profeti di aprire una nuova era, abbandonando il feticcio. Le conclusioni che però Dozon trae dal caso ivoriano vanno in una direzione opposta. Per l’autore infatti il profetismo, per certi versi, incarna in modo esemplare la modernità stessa. I profeti sorti nel periodo coloniale proponevano, infatti, se stessi come gli artefici della modernità. In tal senso essi entravano, spesso loro malgrado, in conflitto con i colonizzatori non perché ne contestassero la missione civilizzatrice ma perché se ne appropiavano. La modernità annunciata dal profetismo africano contraddice tuttavia la vulgata weberiana che vuole la figura del profeta giudaico-cristiano come l’iniziatore di un lungo processo di disincanto del mondo. I profeti africani non sono, infatti, moderni perché protagonisti di un processo di secolarizzazione. Ma perché della modernità incarnano il peculiare movimento circolare fra novità e tradizione, essendo interpreti di una compresenza dinamica e conflittuale del tempo, segnato dalla discontinuità fra nuovo e vecchio. «I tempi nuovi» emergono infatti rompendo il legame con la tradizione del feticcio. Annunciando una nuova era, il messaggio profetico configura la tradizione come suo nemico. Le argomentate analisi di Shank sul discorso profetico di Harris ci hanno mostrato come il dispositivo della trance fosse la chiave d’accesso all’universo biblico. Qui egli si identificava con i profeti di Israele in lotta contro gli idoli, e allo stesso tempo vi ritrovava un universo di forze spirituali che agivano nella vicenda umana. Così riconoscendo la causa del male, egli la sfidava apertamente, lanciando la sua campagna iconoclasta di evangelizzazione. Harris annunciava, in tal senso, l’avvento di un mondo nuovo di prosperità che richiedeva l’abbandono del feticcio, quale fonte dei mali e origine della dominazione dei neri. Questo necessario distacco configurava la tradizione e la rendeva, paradossalmente, necessaria per l’annuncio profetico. Harris assumeva così una posizione fra passato e presente che possiamo definire moderna. 876 S. Cristofori Hastings, anche in riferimento alla figura di Harris, ha mostrato ulteriori significati del ruolo che la Bibbia ebbe in relazione alla modernità nelle conversioni di massa di inizio Novecento.173 Nel decimo capitolo del suo Church in Africa (145-1950),174 l’autore passa in rassegna una molteplicità di movimenti di conversione che, attraversando in quel periodo il continente sub-sahariano, segnalavano come il cristianesimo africano fosse entrato in una nuova fase. Movimenti come quelli in Costa d’Avorio, Nigeria, Rodesia, Buganda testimoniavano nella loro profonda diversità una rivoluzione spirituale innescata da evangelizzatori e catecumeni africani nelle condizioni create dallo sconvolgimento nella prima fase di dominio coloniale effettivo. Il potere di questi evangelizzatori per Hasting era legato principalmente al libro che li accompagnava ovunque. La Bibbia era un simbolo che però non rimaneva solo tale. Questi evangelizzatori, al pari di Harris, ne avevano una conoscenza approfondita. Ed essi ne traevano, agli occhi di chi decideva di convertirsi, il coraggio, la convinzione e la profonda ispirazione necessari a sfidare gli spiriti, gli anziani e i detentori dei poteri «tradizionali». Grazie alla forza che traevano dal libro gli evangelizzatori bruciavano i feticci. Il libro aveva anche un’altra autorità, differente ma misteriosamente connessa alla prima. Chi sapeva leggere era chi poteva parlare con i bianchi, anche se come subalterno. La lettura sembrava consentire loro di farsi portatori di regole e stili di vita nuovi, rappresentando così la modernizzazione. Il libro era così la prova di un potere duplice. La sua potenza non solo era «soprannaturale» perché consentiva di sfidare le forze spirituali, ma anche mondana, perché dava accesso alla ricchezza e al potere. La nuova espansione del cristianesimo, che avrebbe segnato il suo radicamento nel continente, era connessa a una relazione del tutto particolare che secondo Hastings costituisce un enigma: «l’enigma di questo processo era la sua combinazione […] di estremi, di secolare modernità e sovrannaturalismo tradizionale».175 Le questioni di fondo, che hanno attraversato le ricerche degli ultimi trent’anni, sono in buona parte riconducibili a tentativi diversi di risolvere questo enigma. La storia degli studi, nei suoi esiti più maturi, è infatti tornata ad interrogare la combinazione osservata da Hastings. Nel tentativo di ricomprenderla, l’africanistica si è trovata a dover forgiare nuove parole e prospettive, dato che l’attualità religiosa mostrava i limiti e le inadeguatezze dei vecchi schemi disciplinari. A. Hastings, The Church in Africa, cit., 453-461. Ibidem, 397-492. 175 Ibidem, 458. 173 174 Note sul movimento pentecostale in Africa 877 Il movimento pentecostale odierno ha motivato studi che, muovendosi fra terreno e archivio, hanno provato a riannodare i legami storici fra l’effervescenza contemporanea e quelle passate. Di questo percorso di ricerca ne sono esempi splendidi quelli intrapresi da Birgit Mayer in Ghana,176 ma anche quelli di Samson Adetunij Fatokun sulle tracce della lunga storia del pentecostalismo nigeriano.177 Nel caso ad esempio di Kevin Ward e Emma Wild-Wood, invece, l’attualità religiosa è stato lo stimolo per riannodare la trama storica di un movimento come quello del risveglio dell’Est Africa negli anni Trenta, poco indagato in confronto ad altri fenomeni coevi:178 una trama che, a partire dai balokole (i salvati) del Rwanda e dell’Uganda, si è estesa in Burundi, Kenya, Tanzania e Congo, costituendo un terreno fertile per le nuove denominazioni oggi radicate nell’area.179 David Maxwell su questa linea di ricerca ha studiato il pentecostalismo in Zimbabwe e la sua estensione transnazionale, per tornare a ripensare con nuovi elementi storici la storia del cristianesimo nell’Africa australe.180 Ma oltre a questi fruttuosi percorsi d’indagine, il confronto con il terreno ha motivato un ripensamento complessivo degli studi sul cristianesimo africano. Per tornare all’enigma di Hastings, infatti, l’articolato movimento dell’odierno pentecostalismo verso la tradizione e la sua forte connessione (simbolica o meno) con la globalizzazione mostrano che «l’iniziativa africana» non può più essere pensate nei termini dell’«africanizzazione» di un messaggio esogeno. Infatti tale iniziativa si è svolta attraverso una connessione dinamica fra un «esterno» e un «interno», le cui frontiere, definite nella violenta fase di globalizzazione coloniale, conoscono oggi nuove configurazioni entro forme di dipendenza in divenire. Silvia Cristofori Fondazione per le scienze religiose – Bologna B. Meyer, If you are Devil, cit.; Id., Make a Complete Break of the Past, cit.; Id., Translating the Devil, cit. 177 S.A. Fatokun, Historical Sketch of Pentecostal Movements in Nigeria (with on the Southwest), cit.; Id., The Great Move of God in an African Community, cit. 178 K. Ward, E. Wild-Wood, The East African Revival: Histories and Legacies, FarnhamBurlington 2011. 179 Si veda al riguardo anche: A. Corten, Rwanda: du réveil est-africain au pentecôtisme, in «Canadian Journal of African Studies/Revue Canadienne des Études Africaines», 37 (2003)/1, 28-47; S. Cristofori, Il movimento pentecostale nel postgenocidio rwandese. I salvati (balokole), Torino 2011. 180 D. Maxwell, African Gifts of the Spirit, cit. 176 878 S. Cristofori Riassunto: Questo studio ha per oggetto il profondo ripensamento che attualmente investe alcune categorie storiografiche fondamentali dell’africanistica: la più recente effervescenza pentecostale porta alla luce limiti e contraddizioni delle nozioni con cui, dagli anni Sessanta, sono stati descritti i processi storico-culturali e le forme di cristianesimo nate all’interno dei rapporti di forza della situazione coloniale. È qui, dunque, proposta una lettura critica delle questioni e delle tensioni che, attraversando il complesso dibattito sul movimento carismatico-pentecostale, suggeriscono nuovi percorsi di ricerca sia sull’incontro missionario nella fase coloniale, sia sul dinamismo contemporaneo delle società africane.