Prova a comunicare quale di queste 4 immagini

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Prova a comunicare quale di queste 4 immagini
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Prova a comunicare quale di queste 4 immagini preferisci perchè ti risveglia sensazioni, emozioni,
pensieri.
Proviamo a fare l’elenco dei momenti di una giornata in cui sei… “costretto a vivere in fiducia” anche se
non ne sei cosciente.
Prova a comunicare quali sono le tue perplessità e difficoltà di fede.
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Le ROTTE del credere
Le nostre immagini di Dio.
Quali sono le raffigurazioni ricorrenti?
Il Dio utensile. E’ un Dio “utile” che prendo quando “mi serve” e mollo quando non mi serve più. Ti
immagineresti un ragazzo che sceglie una ragazza per poter avere una colf in casa? Non ti viene il
sospetto che quando uno ama, sceglie il partner “senza utile” (in-utile)?
Il Dio “Polizza di Assicurazione”. E’ un Dio del “Non si sa mai…in un domani…se mi capita qualcosa!
Una preghierina…una candela…una Messa…E’ meglio stipulare una polizza anche con lui”. Un Dio
Previdenza, anziché Provvidenza.
Il Dio poliziotto e giudice. E’ l’immagine di un super-Dio che vuole condurre a salvezza gli uomini con
la paura e che, come un giudice inesorabile, é irremovibile nel punire ogni mancanza, rigoroso
nell’applicazione della espiazione ad ogni colpa. E’ il Dio-poliziotto del mondo.
Il Dio del sacrificio, nemico della vita. E’ l’immagine di un Dio che vuole la morte e il sacrificio di una
qualsiasi vittima per essere placato o che esige castrazione del lato positivo e piacevole della vita.
Il Dio contabile e legalista. E’ un Dio che registra sbagli e colpe per il rendiconto finale. E’ un
controllore ossessivo, un legalista pedante, un ficcanaso fastidioso, un polipo soffocante.
Il Dio cottimista che esige efficienza. E’ il Dio vincente, forte, produttore di miracoli, cottimista del
bene. E’ il Dio di quelli che…«quanto produci, tanto vali». E’ il Dio della giustificazione attraverso le
opere. Non é certo il Dio che si rivela nella croce perdente e nell’incarnazione silente di Gesù.
E’ sempre più necessario rivisitare la nostra immagine di Dio a confronto con la comunità degli altri
credenti, ma soprattutto a confronto con quell’immagine di Dio resa trasparente dalla vita e dalle parole di
Gesù. Per parlare di Dio, la Bibbia non usa un linguaggio astratto; ricorre ad immagini prese
dall'esperienza dell'uomo: aquila, roccia, pastore, padre, madre. Si arrabbia, si vendica, si pente,
gioisce, è geloso. Qualsiasi immagine di Dio è imperfetta.
La storia dei rapporti di Israele con il suo Dio inizia con il lamento di un popolo schiavo in Egitto e con la
risposta di un Dio liberatore al loro grido:<Ho visto l'afflizione del mio popolo e ho udito il loro grido a
causa dei suoi oppressori e sono sceso a liberarlo>3.
Con i profeti appare l'immagine di Dio che ama una comunità come uno sposo ama la sposa e si
descrivono i tratti positivi e negativi di questo rapporto: fedeltà, adulterio, prostituzione, ripudio,
riconciliazione. Dio tenta spesso di parlare al cuore del popolo e, come un marito affezionato e tradito,
invita la sposa : <Su, riconosci la tua colpa, perché sei stata infedele al Signore tuo Dio>4. Comunque,
l'ultima parola è quella che garantisce una riconciliazione: <Viene forse ripudiata la donna sposata in
gioventù? Per un breve istante ti ho abbandonato, ma ti riprenderò con immenso amore>5.
Pare che Gesù abbia sempre suscitato una certa curiosità; tanto che certi passi del Vangelo portano dentro
anche me con quella domanda simpaticamente curiosa che gli faccio: «Ma tu chi sei?».
Penso a Giovanni che appena ha incontrato Gesù gli chiede «Rabbi, dove abiti?» (Gv. 1, 38).
O a quel capo degli impiegati delle tasse che a Gerico sale su un albero perchè «desiderava vedere chi
fosse Gesù» (Luca 19, 3).
O quei greci che venuti a Gerusalemme per la Pasqua tirano per la manica Filippo:«Vorremmo vedere
Gesù» (Gv. 12, 21).
O a Pilato stesso che nella fase inquirente del processo gli fa una domanda tutt'altro che stupida «Ma tu di
dove sei?» (Gv. 19,9).
O Erode: «Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto, perché da molto tempo desiderava vederlo per averne
sentito parlare e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui» (Lc. 23, 8).
E soprattutto sento quel sondaggio fatto da Gesù a Cesarèa di Filippo «Cosa dice la gente di me? E io chi
sono per voi?» (Mt. 16 15).
Come un cuscino che soffoca il neonato senza che neppure se ne accorga, la fede di molti è andata in
crisi. La nostra superficialità imprigiona Dio nelle esteriorità delle apparenze.
Confiniamo la fede tra le abitudini della vita e allora ci stupiamo di non riuscire più a trovare Dio come al
solito. Ma Dio non è mai come al solito. Dio non si trova riducendosi a fare quello che si è sempre fatto.
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Dio si trova nel nuovo che c’è da fare. Come il cieco Bartimeo che “lascia il mantello”, un certo numero
di vecchie abitudini incollate sulla pelle. Credere significa accettare che Dio abbia da offrire qualcosa di
diverso dalla nostra porzione di cibi quotidiani. Qualcuno ha detto: «Noi ci saremmo accontentati di 3
locali più servizi e lui ci offre prateria eterne”. Significa acconsentire di essere salvati.
Avere FEDE oppure CREDERE (FIDARSI)?
Per ben 95 volte il Vangelo di Giovanni usa CREDERE e mai il sostantivo FEDE. Per Gv ci sono i segni
sufficienti «perché voi crediate». Credere - per Giovanni - è aderire ; non è “io so che” che diventa il
“credere ad una verità”; aderire invece mette in relazione con una presenza.
E nei suoi racconti di quel “giorno dopo il sabato” Giovanni mette in evidenza che la Pasqua crea
“movimento”. La scena è ritmata da frequenti verbi di movimento: si recò… corse… andò… uscì… si
recarono… correvano… corse… giunse… giunse… lo seguiva… entrò… entrò… era giunto per primo…
se ne tornarono. Anche Gesù “venne” (20,19; 26). Chi cerca? Chi è cercato? Sono i discepoli che lo
cercano o Lui cerca loro? La Pasqua crea movimento nella chiesa?
La crisi come esperienza spirituale.
La fede è un porto o una traversata?
Nel processo di evoluzione al quale ogni persona è
costantemente confrontata occupa un ruolo centrale
quell’esperienza comunemente definita come «crisi».
Parlare di crisi è affermare che il tempo non è vissuto in
una logica di continuità (un lungo fiume tranquillo), ma
piuttosto di «spirale». L’immagine vuole indicare che la persona progredisce attraverso un movimento
fatto di momenti di strutturazione dell’esperienza, momenti di destabilizzazione, momenti di rottura che
implicano delle prese di decisione, e infine momenti di ricomposizione. La nuova ricomposizione
conserva il carattere di un «equilibrio provvisorio», cioè di un punto di arrivo che sarà chiamato, prima o
poi, a nuove rimesse in discussione.
Ogni crisi va reinterpretata in un processo più largo, quello della «transizione» o di «traversata». I
concetti di transizione e traversata comprendono sia i passaggi più drammatici che quelli più
tranquilli ed hanno il vantaggio di evocare questo obbligo nel quale la persona si trova a dover
costruire un tragitto fatto di tappe, di andare continuamente da un luogo ad un altro.
Quando un giovane vive una transizione, sperimenta le tre esperienze fondamentali di ogni esistenza:
l’attaccamento, la separazione e la perdita. La transizione implica dunque un lutto da vivere, che la
avvicina all’esperienza del morire: c’è una soglia da oltrepassare, la rinuncia a uno stato anteriore per
accedere a un nuovo stadio.
La crisi occupa un ruolo essenziale nella maturazione della fede. Essendo un fatto relazionale, la fede
come le relazioni si purifica attraverso le prove. La fede vissuta nel buio purifica la relazione dal suo
carattere di strumentalizzazione e di eccessiva possessività. Quando Dio tace, è allora che lo si può
cogliere per quello che è, non per quello che serve.
Tante «icone» bibliche possono costituire un riferimento: Abramo, costretto a camminare senza
sicurezze; Mosè e la sua traversata senza fine; Geremia, che maledice il giorno in cui è nato («Mi hai
sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre!»), Elia e la sua crisi spirituale («Prendimi, perché non
sono migliore dei miei padri!»), Giobbe, che fa un vero processo a Dio. La traversata dell’Esodo da parte
del popolo di Israele è il tipo biblico di ogni traversata.
Ogni crisi (non solo quella esplicita della fede) costituisce pertanto un’esperienza pasquale, un
avvenimento di morte e di vita che la accomuna all’esperienza del Signore Gesù, alla sua passione, morte
e risurrezione. Così, questi periodi di disorientamento possono essere vissuti come i tempi del passaggio
di Dio, della sua azione di purificazione tramite la forza del suo Spirito.
Ci sono tempi in cui l’esperienza religiosa si indebolisce a causa di serie e ragionate controdeduzioni
dell’ateismo teorico e filosofico; a volte mi auguro che tornino quei tempi in cui l’incontro con l’ateismo
teorico diventi un serio e critico laboratorio dove sono costretto a rendere ragione della mia speranza. A
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volte è meglio soccombere di stanchezza che sopravvivere nell’inedia intellettuale1. Ma ci sono tempi in
cui l’esperienza religiosa decade perché diviene noiosa, insipida, insignificante ed è quando la fede
diventa religiosità generica, il culto diventa abitudine e l’amore è ridotto a disciplina. Quando cioè la fede
resta un bene ereditato come un bicchiere anziché essere una sorgente viva. O, se si vuole, quando la fede
è più simile ad una pietra che ad un seme, ad una risposta senza domande.
Nell’Antico e nel Nuovo Testamento i testimoni della fede vengono descritti evidenziando, più che le
grandi imprese, le loro incomprensioni. I personaggi biblici sono spesso presentati nella loro disarmante
imperfezione. Essere perfetti non è certo un attributo che appartiene ai fedeli del Signore, sembra
suggerire la Scrittura.
A dire il vero, vista la storia degli effetti, avremmo preferito che i narratori biblici avessero usato più
cautela nel raccontare le debolezze dei loro eroi. In tutti gli evangeli, infatti, i discepoli (che sono poi i
capi delle diverse comunità) si raccontano a partire dalle loro incomprensioni. La cosa che più mi sembra
credibile del testo evangelico è proprio la testimonianza dell'inadeguatezza davanti al Signore. Non si
tacciono le gaffe, le domande inopportune, i tradimenti... L'autoritratto che i primi credenti fanno di se
stessi è una severa e divertente caricatura di discepoli e questo in continuità con le scritture di Israele.
Leggendo l'evangelo scopriamo che, come noi, anche i discepoli si sono sentiti smarriti nella strada
maestra. Stavano con lui e non lo capivano. Intuivano che c'era in lui qualcosa di più grande, ma non
riuscivano a identificare cosa. Non esitavano a riconoscersi inadeguati davanti a lui.
Il fraintendimento dei discepoli ci affascina. Questa loro capacità di riconoscersi inadeguati davanti a
quello strano maestro che annunciava la presenza di Dio non è ragione di scandalo, ma invito a resistere
nella sequela, anche quando si fraintende, non si capisce tutto; invito a restare, nonostante tutto. La
Bibbia tutta ci testimonia che fede e tradimento vanno a braccetto.
Esso non è solo atteggiamento spirituale, ma condizione che getta nell'ambiguità le nostre parole e i nostri
gesti per riaprirci di continuo alla grazia divina.
Gesù: BASE JUMPING.
Durante tutto l’Evangelo inciampiamo in un susseguirsi di domande e di opinioni su
Gesù: «Come possiamo credergli se i nostri scribi non stanno dalla sua parte? Dove ha
imparato a dire e fare queste cose? Chi è questo che prima sembra Dio e poi frequenta
ubriachi e pubblici peccatori? Chi crede di essere perdonando i peccati? Che ha fatto
di male?». Vi sono domande sospese nel vuoto, senza risposta, affidate ad un silenzio
che chiama una mia risposta. Altre domande suscitano vespai di opinioni tra il
blasfemo e il perplesso: è fuori di sé, un bestemmiatore, un eretico, un demonio, un fantasma. Qualcuno ci azzecca,
compresi gli indemoniati: «Io so chi tu sei: il santo di Dio». Ineccepibili intuizioni, proclamazioni sacrosante che
hanno solo il difetto di tenercelo a debita distanza esentandoci dalla sequela: «Che c'entri con noi, Gesù Nazareno?
Sei venuto a rovinarci!…Che hai tu in comune con me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro non
tormentarmi!» (Marco 1,24; 5,7). Nessuno di noi è stato risparmiato dalla coscienza del rischio e del tormento che
si corre quando ci si avvicina troppo a Lui e ci si lascia sedurre. Molti di noi sono uomini dell’anticamera,
gradevolmente sorpresi dall’incoraggiamento del Signore: «Non sei lontano dal regno di Dio» (Marco 12,34), ma
perennemente uomini della vigilia. Abbiamo intuito che la vita delle nostre carabattole va in fumo: «Nessun uomo
può vedere il mio volto e restare vivo» (Esodo 33,20). Per questo mi sento un po’ afflitto dal morbo di Parkinson,
quella sindrome che ti inchioda le gambe al pavimento nella spasmodica frenesia di muovere passi concepiti nella
testa ma mai generati dal circuito sensoriale: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo
popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Marco 7,6).
A volte la fede diviene anoressica o marginale in me o nei nostri ambienti, ed è quando non ci si pongono più gli
interrogativi ultimi dell’uomo. Mi ha colpito un giovane che mi ha detto: «Voi adulti vi ponete troppi problemi; noi
invece non ci facciamo problemi, perché quando si incomincia a farsi domande si smette di essere giovani». Mi
colpisce anche un’inchiesta riportata dall’Espresso (1/6/2000) sul “mestiere del rischio” condotta da varie
Università tra i giovani dai 14 ai 22 anni nei 5 maggiori paesi europei per iniziativa dell’Osservatorio permanente
sui giovani e sul disagio giovanile. Dai dati risulta che per i giovani inglesi il massimo del limite è «mettere mattoni
sui binari», per gli spagnoli «partecipare a risse», per i tedeschi «toccare i treni in corsa», per i greci «drogarsi», per
i francesi «copiare agli esami». Per gli italiani «litigare con i genitori». Il BASE JUMPING di molti è un ponte da
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Per queste riflessioni utilizzo il saggio di Abraham Heschel Dio alla ricerca dell’uomo, Borla.
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cui lanciarsi, o una gara di velocità a luci spente: insomma la ricerca di emozioni forti per “bussare alle porte del
Paradiso” (“Knocking on heaven’s door” come cantava Bob Dylan). Gli sport estremi in Italia sono una
cinquantina che muovono un business di oltre 1.500 miliardi l’anno solo di abbigliamento. Lo psicologo americano
Frank Farley della Temple University, afferma che il senso del rischio cosciente distingue gli esseri umani dagli
animali. Ma anche all’interno degli esseri umani vi sono personalità di Tipo T (Risk-Takers) che sono propensi al
rischio e personalità di Tipo A (Risk Avers) che sono nemici del rischio. Ma la tipologia del rischio non è solo
fisica, ma anche intellettuale o esistenziale. C’è dunque chi sa investire le proprie energie indirizzando la scarica
adrenalinica in una vita molto piena e verso obiettivi sempre più chiari e significativi. C’è chi ha preso sul serio
Vasco Rossi: “Voglio una vita esagerata”. Gianni Riotta su «Avvenire» del 20/8/2000 ricorda che un amico
monaco, Paolo Giannoni, una volta gli ha spiegato che Gesù non chiede mai: "Da dove vieni?", ma sempre: "Dove
vuoi andare?".
Base Jumping di Bartimeo.
Marco 10
[46]E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di
Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. [47]Costui, al sentire che c'era Gesù
Nazareno, cominciò a gridare e a dire: <<Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!>>. [48]Molti lo
sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: <<Figlio di Davide, abbi pietà di me!>>.
[49]Allora Gesù si fermò e disse: <<Chiamatelo!>>. E chiamarono il cieco dicendogli:
<<Coraggio! Alzati, ti chiama!>>. [50]Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
[51]Allora Gesù gli disse: <<Che vuoi che io ti faccia?>>. E il cieco a lui: <<Rabbunì, che io riabbia la
vista!>>. [52]E Gesù gli disse: <<Va’, la tua fede ti ha salvato>>. E subito riacquistò la vista e prese a
seguirlo per la strada.
Anche l'itinerario del cieco di Gerico si sviluppa in varie tappe:
- è necessario che Cristo passi di là
- presa di coscienza in ciò che accade intorno
- grido-preghiera insistente, tipica del povero: "abbi pietà"
- superamento della barriera delle difficoltà poste dai vicini
- obbedienza resistente alla chiamata
- spogliazione delle cose essenziali (mantello)
- guarigione attraverso la Parola: "Vedi! La tua fede ti salva"
- sequela lungo la strada verso Gerusalemme.
UN LAMPO DI ETERNITA’
Maria Teresa Abignente (Fraternità
di Romena, marzo 2013)
Non scegliamo la nudità. Essa ci
arriva, spesso, col peso e la fatica
delle circostanze. Ma è in questo
stato non voluto di essenzialità che
cadono barriere, che si aprono
squarci. Che ci si può proiettare
nell’infinito.
Mi trafigge l'essenzialità di queste
due parole: fede nuda. Mi richiama
ad una pausa che sento non facile e
ancor meno superficiale.
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Nuda come ancora sono nudi gli alberi in questo periodo sferzati dal vento e dal gelo: qualcuno di essi rimira a
terra un ramo spellato dal vento e mostra la sua ferita senza vergogna.
Nuda come gli amanti o come il bimbo in braccio a sua madre che si lascia strofinare e asciugare.
Nuda come un anziano che non può coprirsi dagli sguardi indiscreti di chi lo assiste.
Nuda come la paura di chi in questi tempi di crisi non sa come tirare avanti e come assicurare ancora il pane alla
sua famiglia.
Nuda come il tremito e lo sgomento di chi attraversa una malattia o di chi sa che non gli resta più tanto da vivere.
Nuda come il dolore di chi ha perso una persona amata e invano la aspetta nella casa.
Quella nudità che viene fuori quando tutte le nostre ragioni e le nostre apparenze evaporano o si sciolgono di fronte
alla verità della vita, alla sua terribile, meravigliosa ed a volte feroce semplicità.
Ma la precede quell'altra parola; quella parola che sa di antico e di abbandono, di moto istintivo, di slancio
dell'anima: fede, come la fiducia di un bambino che, tenuto in braccio, appoggia la testa sulla spalla o sul cuore
della mamma.
Fiducia come il correre tra le gambe del babbo quando qualcosa lo spaventa.
Fiducia come il continuo sussurrarsi ed affidarsi degli innamorati che ridono delle loro parole e del loro sfiorarsi.
Fiducia come l'ancorarsi delle radici nella terra dell' albero che attende la primavera.
Fiducia come quell'ultimo sguardo rivolto alla luce e l'ultimo fiato regalato all'aria.
Se ripenso alla mia vita ho assaggiato la fede nuda solo quando la vita me lo ha imposto: diciamo la verità, è tanto
più comodo ricoprirsi di strati e strati di vestiti che si interpongono tra l'essere ed il credere: è troppo più facile
accontentarsi di superficiali e sentimentali parvenze di fede.
Solo quando la vita mi ha spogliata la mia fede è rimasta nuda in tutta la sua povertà, in tutta la sua miseria e con i
brividi di quando si ha freddo. Ma anche con la scarna certezza di chi sa che può ancora attendere. O con il grido di
chi richiama su di sé lo sguardo, di chi reclama che quella nudità venga coperta. scaldata. Accarezzata. E quando
sei lì a tremare, quando non ti resta che sgranare gli occhi come un passero su un ramo ghiacciato a cercare quel
granello che oggi ti sfamerà, capisci che tutto quel che prima ti ricopriva era una zavorra: un' inutile scorza che si
interponeva tra te e l'infinito. Capisci che quell'infinito aspettava proprio quella crepa, quello squarcio per poter
arrivare dritto al tuo cuore, per inondarti della sua tenerezza. E forse intuisci che se n'è sempre stato lì a tentare di
sollevare le coperte per giungere a bucare il tuo cuore.
Mi piacerebbe starmene lì e lasciare che quella diventi la tenerezza della mia vita, fare in modo che duri, che non
mi abbandoni o che io non abbandoni lei.
Ma mi accorgo che basta poco per rivestirmi un po' alla volta, per interporre ancora una volta coltri pesanti ed
inaccessibili: distrazioni patinose come uno spesso strato di polvere su un gioiello, o preoccupazioni soffocanti
come il duro guscio che racchiude una perla.
E allora quasi paradossalmente non resta che ringraziare quei momenti di estrema debolezza, non resta che
guardare con gratitudine la nostra nudità, e cercare di restarle un po' fedeli, di non evitarla, di non pensarla come
una avversità bensì come un soccorso.
Un lampo di eternità mi ha raggiunta, si è insinuato approfittando della mia fragilità e mi copre, mi accarezza, mi
scalda: mi riporta a me stessa e mi proietta nell'infinito.