Mostre Alla Galleria Nazionale d`Arte Moderna di Roma è stata
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Mostre Alla Galleria Nazionale d`Arte Moderna di Roma è stata
Mostre “DONNA: AVANGUARDIA FEMMINISTA NEGLI ANNI SETTANTA” Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma è stata presentata un’importante esposizione della collezione Sammlung Verbund di Vienna, che ha consentito di ripercorrere alcune delle più significative esperienze artistiche femminili che si sono espresse in un decennio cruciale del secolo scorso, unitamente al loro rapporto col movimento femminista e con la sua storia. Tra le figure più stimolanti sotto il profilo della ricerca critico-estetica vanno rammentati i nomi di Martha Rosler, Francesca Woodman, Cindy Sherman, Ana Mendieta e Ketty La Rocca. ________________________________________________________________________________ di Barbara Goretti Scegliere il tema di una collezione e costruirne gran parte delle fondamenta sulle esperienze artistiche femminili d'Avanguardia è una scelta basata sul coraggio. Lo è ancor di più se la stessa scelta si focalizza su un arco di tempo breve – dieci, quindici anni – e denso – gli anni settanta. Un coraggio che si riverbera e si traduce nello stupore di chi ne attraversa i confini scoprendo l'intelligenza di un'operazione lontana da una miope e banale affermazione di genere. La mostra Donna: Avanguardia femminista negli anni Settanta allestita alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (19 febbraio - 16 maggio 2010), ha presentato la collezione Sammlung Verbund di Vienna. Una raccolta dedicata alle esperienze artistiche femminili e al loro rapporto con il movimento femminista e la sua storia, progettata senza gigantismi, ma con decisione e rigore, attraverso un percorso che pone lo spettatore di fronte alla necessità dell’ascolto, chiedendo pazienza, tempo, concentrazione. Un’esposizione che nello stesso tempo domanda e offre quella speciale e sempre più rara capacità di sentire e di riconoscere l’intensa ricerca di artiste capaci di far cambiare lo sguardo sulla realtà e di raccontare (senza grida, ma con affermazioni nette e solide), la storia della femminilità, delle relazioni tra essa e il mondo, dell’essere donna, delle prigionie, delle gabbie, della liberazione e della bellezza; una storia di ieri in grado di dare ancora voce a quella di oggi. È Martha Rosler – artista, intellettuale, critica e femminista che focalizza la sua ricerca su aspetti sociali e antropologici – ad aprire l’iter espositivo con Semiotics of the Kitchen, 1975, una performance in cui, ripresa da una telecamera fissa, servendosi del riferimento alla semiotica e al linguaggio, declina un surreale dizionario sulla cucina, sui suoi strumenti, sui suoi gesti: ripetitivi, automatici, ossessivi tanto da diventare violenti e aggressivi. Gesti, stereotipati che testimoniano la frustrazione di un ruolo imposto. Allo stesso modo per Renate Bertlmann il matrimonio e la maternità diventano gabbie, prigionie (“mulier tota in utero”) celate da rasserenanti “quadri” familiari; ritratti ideali, rosa pastello, che svelano la paralisi dell’esistenza (Lorenzo Lotto lo aveva intuito qualche secolo fa dipingendo Il giogo) nell’inquietante particolare dei pedali di una sedia a rotelle: Rosemarie Baby’s , 1975, Braut im Rollstuhl, Bräutigam im Rollstuhl, 1975. In un momento in cui le femministe di ieri si interrogano sulla situazione attuale e cercano di delineare le effettive conquiste e i fallimenti del movimento stesso, ci si potrebbe chiedere quali siano oggi le prigioni e le gabbie (anche quelle dorate), quali siano i nuovi modelli e quali sono stati i risultati dell’emancipazione, chi sono i nuovi carcerieri. Azar Nafisi, scrittrice iraniana e autrice del libro Leggere Lolita a Teheran sottolinea (nel suo intervento a Roma, nel 2005), come Humbert Humbert, il protagonista del capolavoro di Nabokov, compia il suo più grande misfatto (che per la scrittrice è ben più grave della pedofilia) privando Lolita di se stessa, del suo futuro, tenendola in trappola e diventando allo stesso tempo il suo unico punto di riferimento, in un processo che lega indissolubilmente vittima e carnefice. In questo modo la Nafisi sviscera un meccanismo, che rispecchia sì la situazione specifica delle donne in Iran, ma che si estende facilmente all’universo femminile attuale, inteso in senso globale: “[...] per spiegare tutto questo, per sfuggire a quell’immagine e a quella bugia obbligatoria [...] avevamo bisogno di ricreare noi stesse”. Così le artiste degli anni settanta non si limitano ad una differenziazione di genere, ma sintonizzano la loro ricerca su una poetica che sceglie – oltre a linguaggi alternativi alla pratica della pittura fino a quel momento tutta “maschile” – un’estetica fondativa, basata su nuovi principi di identità. Si affermano come reale movimento d’Avanguardia in grado di attivare il mutamento del pensiero e di scuotere le coscienze – maschili e femminili – assopite e spesso persino compiaciute dello stato delle cose. La relazione con e la ri-creazione di se stessa è ciò che anima l’indagine di Francesca Woodman – Self Portrait Talking to Vince, 1975-78 – che sceglie di volgere lo sguardo su di sé, diventando allo stesso tempo autore e modella, per una riflessione sul corpo – nudo, oggetto e soggetto – capace di scrivere le pagine di un diario intimo e privato. Francesca Woodman crea così uno spazio autonomo in cui ritrovarsi, raccontarsi, affermarsi: uno spazio del pensiero che, attraverso la fotografia e la pratica performativa, definisce le pareti di quella “stanza tutta per sé” che le permette di essere autonoma e, al tempo stesso, di essere parte delle cose. Il gioco ambiguo del travestimento e della trasformazione, viene modellato su stereotipi maschili e femminili, Bus riders, delle opere di Cindy Sherman. Anche lei sceglie l’azione, la performance, per vestire i panni di icone preconfezionate e determinate da regole sociali – l’uomo dottore, la donna infermiera – o consacrate, dei protagonisti del cinema hollywoodiano e della tv, Untitled film stills, 1978. Il doppio, l’altro e la sua essenza sono fermate dalla macchina fotografica, unico mezzo che imprime ed esprime non più la realtà ma la sua simulazione. Allo spiccato concettualismo della Sherman, alla sua distanza, espressa dall’artista stessa, dalle posizioni femministe, si contrappone il lavoro di Ana Mendieta. L’artista cubana orienta la sua ricerca verso una dimensione fisica in cui confluiscono le violenze femminili, la sua storia personale, la sacralità della terra. In Untitled (Glass on Body Imprints), 1972 / 1997 imprime il suo corpo e il suo volto, deformandoli, un corpo schiacciato dalla pressione che lascia impronte, tracce tangibili del dolore, della sua fisicità e della sua essenza. Il percorso dell’identità femminile è sfaccettato e multiforme, provocatorio come le Aktionen di Valie Export, Genital Panic, concentrato sulla comunicazione, con le esperienze di Body Art e della Poesia visiva di Ketty La Rocca (a cui la mostra dedica una sala intera, quasi fosse una sorta di camera di decompressione e di riflessione), denunciatario delle umiliazioni che la donna subisce nell’ambito delle tradizioni culturali. Nel caso di Nil Yander è la cultura musulmana ad essere veicolo di prevaricazione (alcuni Imam scrivevano sul ventre delle donne giudicate ribelli e cancellavano gli errori con la lingua per assicurarsi l’esito dell’esorcismo) e allo stesso tempo mezzo di denuncia. Nel video La Femme sans Tête ou la Danse du Ventre, 1974, Yander utilizza infatti la stessa tradizione – quella antica della danza del ventre – per testimoniare l’oppressione e le parole, scritte di nuovo sulla pelle, diventano questa volta voce di ribellione. Simone de Beauvoir nel Secondo sesso diceva “Non si nasce donne: si diventa”: la trasformazione, la presa di coscienza e la consapevolezza dell’identità femminile è diversamente percorribile, ancora da costruire e probabilmente da ri-fondare, in fondo c’è la bellezza: quella vera della liberazione.