STRUMENTI ALTERNATIVI DI RISOLUZIONE

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STRUMENTI ALTERNATIVI DI RISOLUZIONE
STRUMENTI ALTERNATIVI DI RISOLUZIONE DELLE
CONTROVERSIE
1. - Diritto di azione alla luce del principio di inviolabilità dell’agere licere
individuale: 1.1. - Il diritto di azione nel quadro costituzionale, eurounitario e
sovranazionale. 1.2. - Il diritto di azione come declinato dalla giurisprudenza
costituzionale.
1.2.1.
Analisi
della
compatibilità
costituzionale
degli
adempimenti fiscali dovuti in caso di esercizio del diritto di azione. - 2. - Limiti
al regime processuale dell’azione e strumenti alternativi di risoluzione delle
controversie. 2.1. - Tesi di esclusività del monopolio statale del diritto e della
giurisdizione: suo superamento ed attuale piena praticabilità degli strumenti
alternativi al contenzioso. 2.2. - I mezzi alternativi eteronomi nell’ordinamento
giuridico italiano. 2.3. - I mezzi alternativi eteronomi nell’ordinamento
giuridico italiano: la mediazione. 2.4. - I mezzi alternativi eteronomi
nell’ordinamento giuridico italiano: l’arbitrato.
1. - Diritto di azione alla luce del principio di inviolabilità dell’agere licere
individuale: 1.1. - Il diritto di azione nel quadro costituzionale, eurounitario e
sovranazionale. - L’art. 24, primo comma, Cost. stabilisce che “tutti possono
agire in giudizio in difesa dei propri diritti e interessi legittimi”.
La norma tratteggia il c.d. “diritto di azione”, per il quale, in coerenza con il
principio di legalità e di uguaglianza, il Costituente ha previsto un espresso
riconoscimento “costituzionale”.
L’espressa costituzionalizzazione del diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti
trova l’ovvio fondamento nella reazione al passato autoritario e nell’esigenza di
evitare
il
ripetersi
di
aberranti
discriminazioni
(Mortati,
Relazione
all’Assemblea costituente, pg. 93, 95-96, 120). Infatti, dal punto di vista del
singolo, il diritto di azione, siccome costituzionalizzato, segna il confine oltre il
1
quale ogni ulteriore intervento limitativo dello Stato è illegittimo perché
violativo dell’inviolabilità di un agere licere individuale; sotto diverso angolo
prospettico, e, segnatamente, avuto riguardo allo Stato apparato, la richiamata
norma impone il dovere di assicurare il diritto alla giurisdizione ed al giudice,
nel senso che ogni controversia riguardante diritti soggettivi o interessi legittimi
va rimessa innanzi ad Organi appartenenti al potere giudiziario, di cui va
assicurata l’indipendenza e l’autonomia1.
Il che testimonia l’evidente soluzione di continuità con l’ordinamento
previgente nel quale le guarentigie processuali contenute nello Statuto albertino
non avevano impedito una perniciosa esclusione della tutela giurisdizionale per
una serie di diritti e interessi (interessanti da leggere sono gli interventi di
Codacci e Pisanelli nella seduta del 28 marzo 1947, nell’ambito del dibattito
relativo al progetto di Costituzione redatto dalla Commissione dei
Settantacinque, circa gli abusi perpetrati dal regime fascista con la
qualificazione di taluni atti amministrativi come politici al fine di sottrarli alla
tutela giurisdizionale).
Con l’art. 24, primo comma, Cost. è stato, dunque, riaffermato l’accesso
incondizionato alla giustizia, quale necessario presupposto di tutela
dell’individuo: inoltre, tale principio è stato elevato a livello costituzionale, allo
scopo di impedire ogni arbitraria privazione anche da parte del legislatore
ordinario della giustiziabilità di alcune posizioni giuridiche soggettive.
In coerenza con siffatta impostazione il diritto di azione è stato ricompreso dalla
giurisprudenza
costituzionale
inizialmente
nella
categoria
dei
“diritti
inviolabili” (Corte cost. n. 27 dicembre 1965, n. 98) e, in un secondo momento,
altresì, nel novero dei “principi supremi” del nostro ordinamento costituzionale,
giacché esso “è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia
l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un
giudizio” (Corte cost. 2 febbraio 1982, n. 18).
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Proprio la qualificazione dell’art. 24, primo comma, Cost. quale principio
supremo comporta che esso non possa essere sovvertito o modificato nel suo
contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi
costituzionali.
Infatti, con la nota sentenza 15 dicembre 1988 n. 1146, la Corte costituzionale
ha avuto modo di affermare che rientrano tra i principi supremi “tanto i principi
che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere
di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto
i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non
assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono
all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” (Punto
2.1. del Considerato in diritto).
Venendo ora al contenuto dell’art. 24 Cost., la locuzione “tutti” sta a significare
che la disposizione si riferisce non solo ai cittadini, ma anche agli stranieri, a
prescindere dalle condizioni personali o
sociali degli stessi. Si tratta, dunque, di una riaffermazione del principio di
uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., con specifico riguardo alla tutela
giurisdizionale. E, dunque, chiunque sia portatore di un “diritto” ovvero di un
“interesse” può agire nei confronti delle persone fisiche, di quelle giuridiche,
dello Stato ovvero degli altri enti territoriali.
Sotto tale ultimo profilo, l’art. 24, primo comma, Cost. è in stretta connessione
con l’art. 113 Cost., il quale assicura la massima estensione soggettiva ed
oggettiva all’accesso alle Corti nella competente sede giurisdizionale, con
possibile sovrapposizione di ambito di efficacia fra le due garanzie. Del pari,
l’art. 111, settimo comma, Cost., nel riconoscere il diritto di ricorrere per
Cassazione avverso qualsiasi sentenza costituisce, anche se non solo, chiara
esplicazione dell’art. 24 Cost..
Allargando la ricognizione del contesto normativo al costituzionalismo
multilivello, il diritto di azione trova riconoscimento, come è noto, nell’art. 6 n.
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1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ed anche nell’art 13,
relativamente al caso in cui i diritti e le libertà riconosciuti dalla richiamata
Convenzione siano stati violati). Ora, quanto al rango delle norme
convenzionali introdotte nell’ordinamento italiano mediante l’ordine di
esecuzione, è noto che fino all’entrata in vigore della L. Cost. 18 ottobre 2001,
n. 3, che ha modificato il titolo V della parte II della Costituzione, doveva
ritenersi che il rapporto fra le norme convenzionali di origine pattizia e quelle
immesse da leggi ordinarie fosse di pari rango, regolato, quindi, dal principio
per cui la legge posteriore abroga l’anteriore e la legge speciale prevale su
quella comune (cfr. inter alia Corte cost. 16 dicembre 1980, n. 188, secondo
cui, appunto, in mancanza di specifica previsione costituzionale, le norme
pattizie, rese esecutive nell’ordinamento interno della Repubblica, avevano il
valore di legge ordinaria). Epperò, l’art 3, n. 1, secondo comma, della legge
citata ha radicalmente innovato la materia, appunto stabilendo, nel novellare
l’art. 117 I co. Cost., che la legislazione statale deve esercitarsi nel rispetto dei
vincoli […] internazionali. E’ stata così sancita una preminenza degli obblighi
internazionali e, quindi, anche degli obblighi derivanti dai trattati sulla
legislazione ordinaria.
La Corte costituzionale, in due sentenze (Corte cost. 22 ottobre 2007 , n. 348 e
349), ha affermato tale prevalenza, superando così i dubbi emersi in dottrina
(tesi cd. continuista), nonostante il chiaro disposto dell’art. 117 I co. Cost..
Alcuni autori hanno evidenziato come il trattato internazionale debba anche
orientare l’attività interpretativa del giudice, lasciando così sullo sfondo, come
ipotesi residuale, l’intervento della Corte costituzionale. In particolare, secondo
tale lettura, la prevalenza del trattato internazionale sulle leggi interne andrebbe
attuata il più possibile dai giudici comuni sul piano interpretativo, di modo che,
solo quando tale sforzo interpretativo non risulti possibile, può ipotizzarsi che il
trattato internazionale, attraverso il rinvio mobile contenuto nel nuovo dato
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costituzionale, può divenire il parametro mediato ed indiretto della legittimità
costituzionale delle fonti primarie, ossia norma interposta (tra legge ordinaria e
Costituzione, essendo, da un lato parametro di costituzionalità delle leggi ed
avendo dall’altro rango inferiore alla Costituzione).
In tal senso giova richiamare Corte cost. 16 luglio 2009, n. 239, laddove, al § 3,
la Corte afferma che il giudice comune deve interpretare una disposizione
interna in conformità con una norma della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo (da ricondursi, si evidenzia, nell’alveo dei comuni trattati
internazionali), quando la formulazione letterale di tale disposizione lo
consenta.
Concludendo sul punto, il diritto internazionale pattizio, in linea generale,
costituisce un limite all’attività normativa dello Stato (e delle Regioni), purché
non confligga con altri superiori valori costituzionali.
Al riguardo, preme richiamare Corte cost. 4 dicembre 2009, n. 317 e Corte cost.
28 novembre 2012, n. 264, che si pone nel solco di questa, secondo cui la
norma convenzionale, una volta che è divenuta grazie all’art. 117 Cost.,
parametro interposto di costituzionalità, è sottoposta all’ordinario giudizio di
bilanciamento fra interessi costituzionali concorrenti cui presiede la Corte
costituzionale. Va da sé che qualora la Consulta giudichi recessiva la norma
convenzionale in vista di una qualsiasi diversa norma costituzionale, anche se
non integrante un principio fondamentale, resta salva la via del ricorso
individuale alla Corte europea, che, eventualmente, potrà anche pronunciarsi in
modo difforme rispetto a quanto statuito dal giudice costituzionale nazionale.
Per completare il quadro normativo europeo, va segnalato che, allo stesso
modo, l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, come adattata a Strasburgo il 12
dicembre 2007, intitolato “diritto a un ricorso effettivo e a un giudice
imparziale”, così dispone: <<ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti
dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi
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a un giudice nel rispetto delle condizioni previste dal presente articolo. Ogni
individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente,
pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e
imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo ha la facoltà di farsi
consigliare, difendere e rappresentare. A coloro che non dispongono di mezzi
sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato qualora ciò sia
necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia>>.
E’ pleonastico rammentare che, con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, la
Carta di Nizza ha il medesimo valore giuridico dei trattati, ai sensi dell’art. 6
del Trattato sull’Unione europea, e si pone dunque come pienamente vincolante
per le istituzioni europee e gli Stati membri e, allo stesso livello di trattati e
protocolli ad essi allegati, come vertice dell’ordinamento dell’Unione europea.
Le sue disposizioni contengono principi che, come previsto dall’art. 52,
possono essere invocati dinanzi ad un giudice (Corte di giustizia e Corte
costituzionale
nell’ambito
delle
rispettive
competenze)
ai
fini
dell’interpretazione e del controllo di legalità degli atti legislativi ed esecutivi
adottati da istituzioni, organi ed organismi dell’Unione europea e da atti di Stati
membri allorchè essi danno attuazione al diritto dell’Unione.
Peraltro, se i giudici nazionali non motivano il mancato rinvio pregiudiziale alla
Corte di giustizia dell’Unione europea è certa la violazione dell’articolo 6 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura il diritto all’equo
processo. Si tratta di un principio stabilito dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo in una nuova sentenza di condanna all’Italia depositata l’8 aprile
2014 (Dhahbi contro Italia, ricorso n. 17120/09).
1.2. Il diritto di azione come declinato dalla giurisprudenza costituzionale. Delineata la cornice normativa, anche sovranazionale, giova evidenziare che la
Corte costituzionale ha avuto occasione di occuparsi delle limitazioni
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riguardanti l’accesso al giudice eminentemente con riferimento a tre argomenti:
l’arbitrato; gli oneri fiscali e patrimoniali; la giurisdizione condizionata.
Circa l’arbitrato, la Consulta ha chiarito che non vi è menomazione del dato
costituzionale a meno che l’arbitrato non si palesi come obbligatorio. Infatti, per
giurisprudenza costante del giudice delle leggi sono da considerarsi illegittime
quelle norme che, prevedendo ex lege il ricorso all’arbitrato, non sono in grado
di garantire l’osservanza del “principio generale, costituzionalmente tutelato,
(...) dell’art. 806 c.p.c., secondo cui le parti sono libere di far decidere le
controversie tra loro insorte da arbitri liberamente scelti”, per cui “la fonte
dell’arbitrato non può (…) ricercarsi in una legge ordinaria o in una volontà
autoritativa”. In particolare, secondo Corte Costituzionale 14 luglio 1977, n.
127, espressiva di un principio poi ribadito da Corte Cost. 488/91; 49, 206,
232/1994; 54/1996, 152/1996, 381/1997, 325/1998, 115/2000, 221/2005, il
contrasto con la Carta costituzionale dell’istituto in oggetto si sarebbe potuto
pienamente apprezzare solo se individuato in relazione al combinato disposto
degli artt. 24 e 102 Cost.. Tali norme, lungi dall’essere autonome l’una
dall’altra, vanno considerate come un tutt’uno, contribuendo entrambe a gettar
luce sull’essenza del principio di cui inscindibilmente – ancor oggi - sono
portatrici: “chi vuol far valere un diritto in giudizio o, se si vuole, esercita
l’azione – ha affermato Virgilio Andrioli- non può rivolgersi se non ai giudici
ordinari, di cui all’art. 102, specializzati e no, ai giudici speciali, previsti
dall’art. 103, e ai giudici speciali di antica data, revisionati ai sensi della
disposizione transitoria VI, e a questo complesso di mezzi di tutela altra
alternativa non si dà all’infuori dell’arbitrato rituale, del quale, così come
descritto nell’ultimo titolo del codice di procedura civile, fonti possono essere
solo il compromesso e la clausola compromissoria, intesi quale espressione di
autonomia privata”. Da tali premesse è stato dunque possibile evincere che solo
l’autonomia privata, che l’ordinamento consenta di esplicarsi nel libero accordo
delle parti volto a deferire la risoluzione di una controversia ad uno o più arbitri,
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è in grado di trasformare le ipotesi di arbitrato obbligatorio-necessario (dunque
illegittime) presenti nel sistema attuale in arbitrati facoltativi-volontari e dunque
conformi a Costituzione. Altrimenti detto, con tali pronunce la Corte ha
espresso il principio in forza del quale ogni procedimento arbitrale può ritenersi
aderente ai precetti costituzionali degli artt. 24 e 102 Cost. solo qualora non sia
eteronoma rispetto alle parti la fonte del potere di decidere la controversia di cui
sono investiti i giudici privati, al punto che, in detti casi, le parti coinvolte nel
giudizio arbitrale non potrebbero – paradossalmente - nemmeno più dirsi tali, e
cioè compromettenti proprio perché, infatti, verrebbe del tutto a mancare la
ragione di tale appellativo, una volta che il deferimento della controversia ad
arbitri non avvenga in forza di una volontà liberamente manifestatasi in tal
senso (appunto mediante accordo compromissorio).
Ne segue che, in una prospettiva de iure condendo, non ponga dubbi di
conformità al dato costituzionale, un’eventuale previsione volta a consentire la
translatio iudicii del giudizio di primo grado, già instaurato, ad arbitri, purchè
previo consenso di tutte le parti, anche rimaste contumaci, e mantenendo ferme
le eventuali preclusioni già maturate e l’attività deduttiva ed istruttoria
compiuta. Del pari può avere cittadinanza costituzionale una previsione che
delinei la negoziazione assistita da un avvocato, ossia un accordo mediante il
quale le parti, che non abbiano adito un giudice o non si siano rivolte a un
arbitro, convengono di cooperare per risolvere la controversia tramite
l’assistenza dei propri avvocati in via amichevole in consapevole e consensuale
alternativa a forme di mediazione obbligatoria. Ciò sempre che tale previsione
sia accompagnata da caveat volti a responsabilizzare fortemente i professionisti
coinvolti e ad impedire l’utilizzo strumentale, anche in frode alla legge, di tale
strumento alternativo di composizione della lite.
In questa prospettiva si è recentemente mosso il Governo che, con il decreto
legge n. 132 del 12 settembre 2014, in attesa di conversione, ha predisposto
diverse misure normative finalizzate allo smaltimento dell’arretrato civile e allo
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snellimento
dei
procedimenti
contenziosi;
misure
connotate
proprio
dall’implementazione del fenomeno della c.d. degiurisdizionalizzazione
mediante l’introduzione di strumenti il più possibile rispettosi del dettato
costituzionale.
Sotto diverso angolo prospettico, la Corte costituzionale ha ritenuto
costituzionalmente illegittimo l’art. 98 c.p.c. nella parte in cui prevedeva che il
giudice su istanza del convenuto disponesse il versamento di una cauzione per il
rimborso delle spese (la c.d. cautio pro expensis) da parte dell’attore non
ammesso al gratuito patrocinio nel timore che la condanna al rimborso delle
spese rimanesse ineseguita. Con sentenza 23 novembre 1960 n. 67 la Corte ha
dichiarato incostituzionale tale istituto in quanto andava a menomare proprio il
diritto di agire in giudizio, così fondando la sua decisione principalmente sulla
considerazione che l’imposizione della cauzione e la conseguente estinzione del
processo nel caso che la cauzione non fosse prestata, avrebbe potuto provocare
conseguenze di eccezionale gravità rispetto all’esercizio dei diritti che l’art. 24
della Costituzione dichiara inviolabili.
Analoghe considerazioni hanno indotto la Corte alla dichiarazione di
incostituzionalità dell’istituto del solve et repete vigente nel processo tributario
di cui al secondo comma dell’art. 6 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E,
in ragione del quale l’azione del contribuente, volta a far valere l’illegittimità
della pretesa dell’amministrazione, era subordinata al preventivo pagamento del
tributo: secondo la Corte costituzionale (sent. n. 31 marzo 1961, n. 21) lo
strumento in esame si risolveva in un privilegio per una delle parti (in genere,
una P.A.), comportando, nel contempo, uno svantaggio per i meno abbienti.
Sulla scorta di tale pronuncia, oltre ad essere dichiarata l’illegittimità
costituzionale, con sentenza del 22 dicembre 1961, n. 79, dell’art. 149 del R.D.
30 dicembre 1923, n. 3269; del secondo periodo del secondo comma dell’art. 52
della legge 19 giugno 1940, n. 762; del terzo comma dell’art. 24 della legge 25
settembre 1940, n. 1424 (disposizioni in materia di imposta di registro, di
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imposta generale sull’entrata e di imposte doganali), è stato dichiarato
costituzionalmente illegittimo l’art. 60 comma 2 r.d.l. 19 ottobre 1938 n. 1933,
relativo al lotto pubblico, in quanto, stabilendo che il ricorso all’autorità
giudiziaria contro la liquidazione della tassa per i concorsi e le operazioni a
premi è ammissibile solo se sia stata pagata la tassa dovuta, contiene una
applicazione della regola del " solve et repete " considerata illegittima (Corte
cost. 24 febbraio 1995, n. 55). La Corte Costituzionale, sotto altro punto di
vista, sciogliendo ogni residuo dubbio, si è pronunziata dichiarando non fondata
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1462 c.c., in riferimento agli
artt. 3 e 24 Cost. (Corte cost. 12 novembre 1974, n. 265), sottopostale dai
giudici di merito, precisando che mentre il solve et repete fiscale, impedendo al
giudice di decidere la controversia, comportava, sino all’avvenuto pagamento
del tributo, un completo difetto di giurisdizione, con conseguente illegittimità,
le clausole contrattuali del solve et repete non costituiscono ostacolo
all’instaurarsi di un valido rapporto processuale e si sottraggono, quindi, ad
ogni sospetto di illegittimità (incostituzionalità).
Espressiva dei limiti di interdipendenza fra diritto di azione e oneri fiscali è la
sentenza della Corte cost. n. 333 del 5 ottobre 2001, con la quale la Consulta,
affrontando nuovamente il problema della compatibilità tra il principio
costituzionale che garantisce a tutti la tutela giurisdizionale, anche nella fase
esecutiva, dei propri diritti e le norme che impongono determinati oneri a chi
quella tutela richieda, ha riaffermato che occorre distinguere fra oneri imposti
allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua
funzione ed alle sue esigenze ed oneri tendenti, invece, al soddisfacimento di
interessi del tutto estranei alle finalità processuali. Di modo che, mentre i primi
sono consentiti in quanto strumento di quella stessa tutela giurisdizionale che si
tratta di garantire, i secondi si traducono in una preclusione o in un ostacolo
all’esperimento della tutela giurisdizionale e comportano, perciò, la violazione
dell’art. 24 Cost. (sentenza 3 luglio 1963, n. 113, pronunciata con riferimento
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all’art. 1171, secondo comma, c.c., la quale prevede che il giudice ordini le
opportune cautele per il risarcimento del danno prodotto dalla sospensione
dell’opera oggetto della denuncia o, inversamente, per quello che possa
soffrirne il denunciante, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.).
Sulla base di tale criterio discretivo ( di cui anche alle sentenze della Consulta
45, 56, 83 del 1963; 47, 69, 91, 100 del 1964) ha ritenuto che l’onere del
locatore di aver assolto taluni obblighi fiscali (e precisamente: la registrazione
del contratto di locazione dell’immobile, la denuncia dell’immobile locato ai
fini dell’applicazione dell’ICI ed il pagamento della relativa imposta nell’anno
precedente, la dichiarazione del reddito dell’immobile locato ai fini
dell’imposta sui redditi), sia imposto esclusivamente a fini di controllo fiscale e
risulti, pertanto, privo di qualsivoglia connessione con il processo esecutivo e
con gli interessi che lo stesso è diretto a realizzare, donde l’incostituzionalità
dell’art. 7 della L. 431/98.
1.2.1. Analisi della compatibilità costituzionale degli adempimenti fiscali dovuti
in caso di esercizio del diritto di azione. - Interessante è poi l’elaborazione della
giurisprudenza costituzionale quanto al contributo unificato.
Va primariamente escluso che l’art. 53 Cost. si riferisca ai tributi giudiziari.
Infatti, avendo fatto richiamo alla capacità contributiva e alla progressività
rispettivamente come indice di imponibilità e come criterio di imposizione, esso
ha avuto riguardo soltanto a prestazioni di servizi il cui costo non si può
determinare divisibilmente. Non concerne perciò quelle spese giudiziarie la cui
entità è misurabile per ogni singolo atto, e che quindi possono gravare
individualmente su chi vi ha dato occasione; ed è richiamabile solo per la spesa
della organizzazione generale dei servizi giudiziari, che è sostenuta dallo Stato
nell’interesse indistinto di tutta la collettività, e che, di conseguenza,
indistintamente su tutta la collettività deve gravare, in proporzione della
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capacità contribuitiva di ognuno dei suoi membri (Corte cost., 18 marzo 1964,
n. 30).
Ciò posto, la premessa da cui muove la Consulta è l’inesistenza di una garanzia
di gratuità nell’ambito della funzione giurisdizionale (Corte cost., 3 marzo
1972, n. 41, secondo cui gli oneri patrimoniali che condizionano l’azione e la
difesa giudiziaria non sono ostacoli che limitano di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini; quegli ostacoli che l’art. 3 della Costituzione vuole
che si eliminino). Ne segue che l’onere di corrispondere determinati diritti o di
anticipare le spese per gli atti che la parte interessata richiede o compie nel
processo non è che il riflesso della controprestazione dovuta allo stato per la
prestazione del servizio giudiziario (Corte cost. 8 luglio 1967, n. 93; Id. 24
gennaio 1969, n. 3).
Al riguardo, i tentativi di contestare le scelte di politica giudiziaria/fiscale
caratterizzati dall’introduzione per talune tipologie di controversie o
dall’incremento per le restanti del contributo unificato non hanno sortito gli
effetti sperati. Proprio in materia di appalti pubblici, la Corte Costituzionale,
con ordinanza 6 maggio 2010, n. 164 aveva ritenuto la questione
manifestamente inammissibile in quanto “nel caso di specie, la norma
censurata, introducendo una più articolata distinzione tra diverse categorie di
controversie amministrative ed elevando la misura dei contributi per alcune di
esse, deve ritenersi frutto di una scelta discrezionale non manifestamente
irragionevole. Icastica è poi Corte cost. 13 giugno 1983, n. 162, secondo cui
letteralmente “l’ammontare delle spese processuali poste a carico degli utenti
della giustizia, la sua ripartizione in voci corrispondenti ai momenti del
processo e ai vari servizi richiesti costituiscono determinazioni conseguenti a
molteplici fattori di diversa natura, anche tecnica, e di varia incidenza,
determinazioni spettanti al legislatore e che, al di fuori dell’ipotesi di palese
irragionevolezza, non sono assoggettabili a censure di rango costituzionale”.
La Corte costituzionale, con ordinanza n. 143 del 18 aprile 2011, ha rilevato
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l’’irrilevanza della questione prospettata rispetto alla decisione del giudice a
quo, perché, secondo la Corte, la pronuncia di illegittimità costituzionale
avrebbe potuto incidere sui giudizi solo se l’inadempimento dell’obbligazione
tributaria, connessa al pagamento del contributo unificato, avesse comportato la
sanzione processuale dell’improcedibilità della domanda. Il che non era
accaduto, avendo comportato esso soltanto l’attivazione delle procedure di
riscossione coattiva del contributo stesso, nonché l’applicazione di sanzioni.
Per completezza argomentativa, va segnalato che Tar Trento, con ordinanza n.
23 del 29 gennaio 2014, ha rimesso alla Corte di Giustizia Europea la questione
pregiudiziale relativa alla corretta applicazione della normativa interna in
rapporto a quella comunitaria sovraordinata, in particolare se “ i principi fissati
dalla Direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE e successive
modifiche
ed
integrazioni,
che
coordina
le
disposizioni
legislative,
regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di
ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di
lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992,
92/50/CEE, ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli
articoli 13, commi 1-bis, 1-quater e 6-bis, e 14, comma 3-ter, del D.P.R. 30
maggio 2002 n. 115 (come progressivamente novellato dagli interventi
legislativi successivi) che hanno stabilito elevati importi di contributo unificato
per l’accesso alla giustizia amministrativa in materia di contratti pubblici”.
In una visione comparatistica, si segnala quanto accaduto in Francia.
Con l’art. 54 della legge 2011-900, del 29 luglio 2011, modificativa della legge
finanziaria francese approvata per quello stesso anno, è stato modificato l’art.
«1635 bis Q» del code général des impots, stabilendo che, in deroga a quanto
stabilito dagli articolo 1089 A e 1089 B del medesimo codice (i quali
esoneravano da ogni imposta, ivi compresa quella di registro, l’accesso alla
giustizia), fosse prevista una «contribution pour l’aide juridique», poi nella
volgata chiamata timbre fiscal pour la justice. In tal guisa, l’accesso alla
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giustizia civile e amministrativa, che, fino ad allora in Francia era gratuito,
veniva subordinato, per la prima volta, ad una sorta di «contributo unificato»,
con importi assai modesti: 35 euro per il primo grado, 150 per l’appello,
indipendentemente dal tipo della controversia. Tale contribution non finanziava
né il Ministero, né un fondo incentivante per i magistrati, bensì le spese
dell’aide juridique: l’equivalente, più o meno, del nostro «gratuito patrocinio».
A seguito delle critiche sollevate, il 23 luglio 2013, il Ministro della Giustizia
ha annunciato che con la legge finanziaria per il 2014 il timbre fiscal sarebbe
stato abrogato. Cosa avvenuta con l’art. 128 della legge 2011-1278, del 29
dicembre 2013. Significative sono le ragioni dell’abrogazione, dichiarate dal
Ministro della Giustizia francese: “l’instaurazione, ad opera del precedente
Governo, del contributo per l’aiuto giurisdizionale di 35 euro, esigibile per ogni
domanda giudiziaria, al fine di finanziare l’aiuto giurisdizionale, ha avuto, quale
propria conseguenza, quella di penalizzare le posizioni più vulnerabili di chi
chiede giustizia. Rendendo oneroso l’accesso al giudice, questa imposta di 35
euro ha comportato un’incontestabile diminuzione dell’accesso alla giustizia da
parte dei soggetti caduti sotto la soglia della povertà, nonostante i casi
d’esenzione cui era ispirata la contribuzione per l’aiuto giudiziario. Il
contenzioso in materia di lavoro, famiglia, locazione e il contenzioso
amministrativo sono stati particolarmente colpiti. Il Guardasigilli intende
ristabilire il legame tra chi chiede giustizia e l’istituzione giudiziaria, onde
favorire una giustizia «di prossimità» accessibile al più grande numero di
cittadini, nell’insieme complessivo del sistema giurisdizionale».
Redatto dal Cons. dott. Fulvio TRONCONE
2. - Limiti al regime processuale dell’azione e strumenti alternativi di
risoluzione delle controversie. - 2.1. - Tesi di esclusività del monopolio statale
del diritto e della giurisdizione: suo superamento ed attuale piena praticabilità
14
degli strumenti alternativi al contenzioso. - Di taglio del tutto diverso è la
problematica riguardante i limiti che incidono direttamente sul regime
processuale dell’azione, sia che attengano a condizioni di proponibilità
dell’azione sia che concernano la giurisdizione condizionata.
Sul punto può dirsi acquisito nell’elaborazione giurisprudenziale il principio per
cui il diritto di accesso al giudice per la tutela delle proprie posizioni giuridiche
soggettive è, sicuramente, un diritto fondamentale di ciascun individuo, ma al
contempo sussiste l’esigenza di contemperare il diritto di ciascun individuo ad
adire un Tribunale per far valere le proprie posizioni giuridiche soggettive con
la necessità di evitare che l’eccessivo carico del ruolo rispetto alle risorse
spesso esigue messe a disposizione metta a repentaglio la possibilità di
assicurare giustizia in tempi accettabili. In altri termini, è necessario bilanciare
il disposto dell’art. 24 Cost., che riconosce il diritto di ciascuno ad agire e
difendersi in giudizio per la tutela dei propri diritti e quello dell’art. 111 Cost.,
che individua tra i canoni dell’equo processo anche la ragionevole durata dello
stesso. In tale prospettiva è necessario che tutti gli attori del processo cooperino
tra loro affinché lo stesso non divenga la sede per lo svolgimento di attività
meramente defatigatorie, finalizzate ad allontanare il più possibile il momento
della decisione finale.
Sotto questo profilo non può non rilevarsi che la realtà giudiziaria ha da tempo
evidenziato
l’infondatezza
dell’idea
dell’esclusività
giurisdizionale
e
dell’assioma del monopolio statale del diritto e della giurisdizione, assioma per
il quale soltanto il giudice può dichiarare il diritto nei rapporti tra i privati”
E’ ormai evidente, infatti, che esiste una palese sproporzione del numero dei
procedimenti civili in entrata rispetto alle reali capacità di smaltimento del
sistema giudiziario, così come è evidente che le cause di tale squilibrio riposano
essenzialmente nella sopravvenienza di sempre nuove tutele (si pensi alle
materie delle class action e dell’antitrust, ai nuovi istituti del diritto di famiglia,
come l’affido condiviso, l’equiparazione dei figli di persone non sposate ai figli
15
nati
in
costanza
di
matrimonio,
l’amministrazione
di
sostegno,
al
riconoscimento e alla revoca dello status di rifugiato politico, ecc.) e
nell’inesauribile e graduale incremento della domanda di giustizia.
Da qui l’esigenza, ormai improcrastinabile, di una drastica limitazione del
ricorso al giudice, contenendo il numero delle controversie in entrata e
avversando l’idea che rivolgersi all’organo giurisdizionale statale sia il solo
rimedio a disposizione dei cittadini per ottenere il riconoscimento e
l’affermazione dei loro diritti.
Del resto, come recentemente ricordato dal Primo Presidente della Cassazione
Giorgio Santacroce, nella sua recente seconda edizione del “Disegno
sistematico dell’arbitrato” Carmine Punzi ha scritto che “se appare essenziale al
nascere dello Stato il monopolio della forza nell’attuazione coattiva dei diritti e
se può apparire essenziale il monopolio legislativo, non altrettanto essenziale è
l’affermazione del monopolio della composizione delle controversie e in
particolare del potere di risolverle e deciderle mediante lo jus dicere”2.
Naturalmente non esistono modalità alternative di soluzione dei conflitti in
assoluto da preferire, in quanto ognuna può rivelarsi nel contesto appropriata o
meno.
Ciò che realmente rileva, in un’ottica di efficienza del sistema giustizia, è un
radicale mutamento di prospettiva che tenda ad attribuire agli strumenti
alternativi per la soluzione delle controversie (noti con l’acronimo ADR:
Alternative Dispute Resolutions) un ruolo sempre meno accessorio e subalterno.
Com’è noto i sistemi di ADR sono nati storicamente negli Stati Uniti
d’America negli anni settanta, per diffondersi negli anni ottanta in Australia e
nel Regno Unito e quindi negli anni novanta in ambito europeo, come reazione
all’inadeguatezza delle procedure giurisdizionali tipiche.
Si tratta di strumenti extragiurisdizionali per la risoluzione dei conflitti
economici che pur se connotati dal comune carattere stragiudiziale delle
16
soluzioni presentano, al contempo, innumerevoli variabili strutturali che non
consentono di ricondurre ad unità il fenomeno.
Nell’esperienza americana gli istituti più importanti sono: Mediation3, Pre-trial
e mini-trial4, Neutral fact-finding5, Summary jury trial6, Moderated settlement
conference7,Ombudsman. 8
In Europa lo sviluppo degli ADR è stato più lento e la ragione del ritardo riposa
essenzialmente nell’importanza della tradizione dell’unità della giurisdizione.
Anche l’ordinamento giuridico italiano conosce metodi alternativi di
risoluzione delle controversie.
Sul punto giova premettere che i veri e propri metodi alternativi di definizione
dei conflitti sono quelli che operano in via stragiudiziale i quali, a loro volta,
posso essere autonomi o eteronomi
Ricorre la prima ipotesi quando le parti riescono a conciliarsi da sole (o al più
attraverso l’opera dei loro difensori) e la tipica ipotesi è quella della
transazione, che è il contratto con il quale le parti prevengono l’insorgere di una
lite (o pongono fine una lite in atto), facendosi reciproche concessioni (art. 1965
c.c.).
Ricorre la seconda, invece, quando la definizione della lite presuppone
necessariamente l’intervento di un terzo che collabora al raggiungimento dello
scopo conciliativo.
2.2. I mezzi alternativi eteronomi nell’ordinamento giuridico italiano. - Le
figure di mezzi alternativi eteronomi che il nostro diritto conosce sono la
conciliazione, la mediazione e l’arbitrato.
Ma mentre la mediazione, introdotta con il d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, e
l’arbitrato sono rimedi di ordine generale, la conciliazione assume varie forme
in funzione della tipologia delle liti; forme mantenute in vigore dall’art. 23 del
cit. d.lgs. sulla mediazione, eccezion fatta per il procedimento di conciliazione
17
societaria di cui agli artt. 38-40 del d.lgs. n. 5 del 2003, che è stato abolito dal
menzionato art. 23.
Tali strumenti, sia pure con un ritardo di decenni rispetto ai Paesi di common
law, si stanno positivamente affermando nel nostro paese e l’auspicio, in una
prospettiva futura di maggiore efficienza dell’intero sistema giustizia, non può
che essere quello di un implementazione di metodi alternativi al processo civile
che consentano di pensare al conflitto come a un fenomeno fisiologico
nell’ambito dei contatti umani ovvero un’occasione di confronto.
Del resto, come più volte rilevato anche dalla Commissione Europea, già da
tempo la crisi della giustizia in Italia ha evidenziato la necessità di istituire
metodi alternativi di risoluzione delle controversie quale possibile mezzo per
alleggerire il carico di lavoro delle aule giudiziarie.
La stessa necessità è stata messa in evidenza negli altri Stati membri
dell’Unione Europea.
Ricerche e studi di settore, in particolare, hanno dimostrato come il mondo
imprenditoriale (e non solo) abbia bisogno di strumenti efficienti per risolvere
le controversie senza adire le vie legali, con conseguente perdita di tempo, di
denaro e deterioramento delle relazioni commerciali.
Premesso che non è questa la sede per una disamina specifica di tutti i possibili
Alternative Dispute Resolutions, tra le principali forme di conciliazione
stragiudiziale che il nostro ordinamento conosce meritano di essere ricordate: a)
la c.d. conciliazione in sede non contenziosa, prevista dall’art. 322 c.p.c., che si
svolge di fronte al giudice di pace non adito in funzione giurisdizionale (cioè
per la decisione della controversia), ma al solo fine di conciliare le parti; b) il
tentativo di conciliazione in materia di lavoro previsto dagli artt. 410 ss. c.p.c.,
che è stato ampiamente modificato dall’art. 31 della Legge 4 novembre 2010, n.
183; c) il tentativo di conciliazione di cui all’art. 11 D. lgs. 150/2011 per le
controversie in materia di contratti agrari o conseguenti alla conversione dei
contratti associativi in affitto; d) il tentativo di conciliazione di cui all’art. 76818
octies c.c. per le controversie relative ai patti di famiglia; e) il tentativo
obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 11, Legge 31 luglio 1997, n. 249
istitutiva dell’AGCOM per le controversie in materia di telecomunicazioni fra
gli utenti e i destinatari delle licenze per l’erogazione del servizio previste
dall’art. 2 della legge; f) il procedimento di conciliazione stragiudiziale previsto
dall’art. 4, del d.lgs. 8 ottobre 2007, n. 179, per le controversie concernenti i
risparmiatori e gli investitori e quello di cui all’art. 128-bis del T.U. in materia
bancaria e creditizia di cui al d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385; il procedimento
di conciliazione per le controversie sul diritto di autore di cui all’art. 71quinquies, d.lgs. n. 68 del 2003.
2.3. - I mezzi alternativi eteronomi nell’ordinamento giuridico italiano: la
mediazione. - Peraltro, è importante rilevare che l’esigenza evidenziata a livello
comunitario di attuare politiche deflattive del contenzioso civile ha trovato
ulteriore e pieno riscontro nella Legge n. 69/2009 (contenente disposizioni per
lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di
processo civile) con la quale il Parlamento ha delegato il Governo (art. 60) ad
adottare uno o più decreti legislativi proprio in materia di mediazione e di
conciliazione in ambito civile e commerciale.9
All’esercizio della delega il Governo ha provveduto con il decreto
legislativo 4 marzo 2010, n. 28, costituente attuazione dell’articolo 60 della
legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla
conciliazione, definizione e prevenzione delle controversie civili e commerciali.
Il Consiglio Superiore della Magistratura, con delibera datata 11 marzo
2009, ha espresso il proprio parere sulla delega contenuta nell’art. 39 del
disegno di legge n. 1441 bis C, norma sostanzialmente recepita nell’art. 60 della
legge delegata n. 69/2009.
Successivamente, alla seduta del 4 febbraio 2010, ha approvato il parere
in ordine allo schema di decreto legislativo di attuazione.
19
Nel corpo di tali delibere, ricostruita la cornice normativa vigente in
materia e chiariti i principi ispiratori delle forme alternative di risoluzione della
controversia, il Consiglio ha dato favorevolmente atto dell’introduzione del
nostro sistema giudiziario della possibilità di ricorrere in via generale, per la
risoluzione delle controversie civili e commerciali relative a diritti disponibili,
ad uno strumento alternativo rispetto alla giurisdizione, strumento che era stato
fino a quel momento previsto in precedenti interventi normativi, ma sempre
limitatamente a determinati settori ovvero a specifiche materie. L’organo di
governo autonomo aveva espresso una valutazione complessiva assolutamente
positiva di tale innovazione, riconoscendone la sua rispondenza alle esigenze
della società civile e del sistema economico, nonché la perfetta coerenza con le
scelte in tale direzione già compiute dall’Unione europea.10
Il decreto legislativo n. 28 del 4 marzo 2010, nell’interpretare e fare
applicazione dei criteri e principi espressi nella legge di delegazione, aveva
ritenuto di introdurre nel sistema normativo, oltre alle fattispecie di mediazione
facoltativa - su richiesta delle parti - e di quella su sollecitazione del giudice,
anche l’istituto della mediazione obbligatoria; tale procedura era stata prevista
quale condizione di procedibilità - la cui mancanza poteva essere eccepita dal
convenuto o rilevata dal giudice - della domanda giudiziale in una pluralità di
materie elencate all’art. 5.
Sennonché l’impianto normativo delineato dal Governo ha da subito
formato oggetto di forti contestazioni da parte dell’avvocatura, specie in ordine
al profilo dell’obbligatorietà della mediazione e, quindi, del relativo
esperimento quale condizione di procedibilità dell’azione, da molti ritenuto
lesivo del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.
Com’è noto, peraltro, quell’impianto ha ricevuto una battuta d’arresto
con la sentenza della Corte costituzionale n. 272/2012 che a dichiarato
l’illegittimità costituzionale del D. Lgs. 28/2010 nella parte in cui aveva
introdotto l’istituto della cd “mediazione obbligatoria”.
20
Tale dichiarazione di incostituzionalità è stata pronunciata dalla Corte
sulla base di un motivo di carattere formale.
Infatti, sono state ritenute fondate le censure di illegittimità costituzionale
sollevate, in riferimento agli artt.. 76 e 77 Cost., da quasi tutte le ordinanze di
rimessione, nei confronti dell’art. 5, comma 1, d.lgs n. 2872010, con particolare
riguardo al carattere obbligatorio che detta norma, in asserita violazione delle
legge delega, attribuiva al preliminare esperimento della procedura di
mediazione, previsto come condizione di procedibilità della domanda in
relazione a varie classi di controversie. Sono state così espunte dal testo
normativo, oltre al comma 1 dell’art. 5, che disciplinava in via diretta l’istituto,
anche, in via consequenziale, tutte le ulteriori disposizioni - collocate negli artt.
5, 6, 7, 8, 11, 13, 17 e 24 del decreto legislativo - che sarebbero rimaste prive di
significato e giustificazione in assenza di esso
Conseguentemente le questioni più scottanti sollevate dalle censure di
incostituzionalità delineate nelle ordinane di rimessione sono rimaste escluse
dall’attenzione della Consulta, in quanto ritenute assorbite dal primo motivo di
incostituzionalità.
In altri termini, attribuendo prevalenza al motivo formale, avente
carattere assorbente, la Consulta non ha statuito sulla questione inerente
l’asserita violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. da parte di un
sistema che prevedeva, per numerose classi di controversie, il passaggio
obbligatorio in mediazione, da svolgersi innanzi a mediatori potenzialmente
privi di preparazione di carattere giuridico
Dopo un articolato iter legislativo, con la pubblicazione della legge n. 98 del 9
agosto 2013 (in Gazzetta Ufficiale n. 194 del 20 agosto 2013, S.O. n. 63) di
conversione del Dl “fare” (Dl 69/2013) la mediazione civile è giunta ad un
nuovo approdo.
21
Un approdo cui il legislatore è pervenuto riscrivendo alcuni dei punti cardine
dell’originario impianto di cui al Dlgs n. 28/2010 soprattutto con riguardo alla
mediazione quale condizione di procedibilità dell’azione giudiziale.
Il dibattito sviluppatosi dopo la sentenza della Corte costituzionale (n.
272/2012) che ha scalfito il sistema della mediazione obbligatoria per
l’accertato eccesso di delega legislativa ha condotto dapprima a talune
modifiche introdotte con il Dl 69/2013 (mai entrate in vigore in quanto
l’efficacia delle stesse era stata ab origine – opportunamente - ancorata alla
legge di conversione) e poi alla legge 98/2013 che ha ulteriormente innovato
nell’apprezzabile tentativo di rispondere alle diverse indicazioni pervenute in
particolare dall’avvocatura e dalla magistratura.
Il decreto legge in commento, non vincolato dai limiti della delega
legislativa del 2009, sostanzialmente ripristina l’istituto della mediazione
obbligatoria reintroducendo, con le innovazioni di cui si dirà, tutte le
disposizioni normative oggetto di caducazione con la sentenza 272/2012.
Il principale oggetto del nuovo intervento normativo è, quindi, la
riaffermazione, anche se per ora in via sperimentale e temporanea (per quattro
anni), della scelta di introdurre nell’ordinamento la fattispecie obbligatoria della
mediazione, almeno in una serie di materie che rappresentano una rilevante
percentuale dell’intero contenzioso civile.
Infatti, il Decreto Fare introduce il comma 1 bis all’art 5, il quale dispone
che “l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di
procedibilità della domanda giudiziale. La presente disposizione ha efficacia
per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore…”.
Questa disposizione risponde ad una duplice apprezzabile esigenza:
alleggerire medio tempore il numero delle sopravvenienze in materia civile e
rinviare al termine della sperimentazione quadriennale la scelta – da effettuare
in base ai risultati raggiunti- – di conservare la mediazione obbligatoria accanto
alla mediazione volontaria.
22
In realtà l’opzione del carattere obbligatorio della mediazione è stata, fin
dal tempo dell’adozione del D.lgs.vo 28 del 2010, oggetto di intenso dibattito
sotto il profilo, oltre che della regolarità formale rispetto alla delega, della
correttezza culturale e funzionalità effettiva.
Il Consiglio Superiore, da parte sua, nella delibera di parere alla legge di
delega e, in maniera più articolata, in quella concernente lo schema di decreto
legislativo adottata il 4 febbraio 2010 aveva espresso perplessità in ordine alla
scelta osservando che: “il tentativo di conciliazione può avere successo solo se
è sostenuto da una reale volontà conciliativa e non se è svolto per ottemperare
ad un obbligo. In questo caso si trasforma in un mero adempimento formale,
che ingolfa gli uffici preposti, ritardando la definizione della controversia e
sottraendo energie allo svolgimento dei tentativi di conciliazione seriamente
intenzionati. Pertanto, la facoltatività del ricorso alla mediazione sembra poter
meglio garantire il raggiungimento delle finalità cui lo strumento stesso è
preordinato”.
L’organo di governo autonomo della magistratura aveva sottolineato
come il sistema del “doppio binario” per l’accesso alla mediazione – imperniato
sulla distinzione tra controversie civili per le quali il procedimento di
mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda e quelle per le
quali, al contrario, la scelta di ricorrere a tale procedimento è rimessa alla
discrezionalità delle parti – “non trovi giustificazione nel testo della legge
delega e, soprattutto, non appaia razionale avuto presente l’ampio ed
eterogeneo elenco delle materie per le quali è stato configurato l’obbligo di
ricorrere preventivamente alla mediazione.”
Le considerazioni richiamate devono oggi essere riponderate, alla luce
del complessivo nuovo contesto ordinamentale, nonché del consapevole – ed
efficace – coerente indirizzo di politica giudiziario assunto dal legislatore.
23
In primo luogo bisogna prendere atto che, per il limitato periodo in cui ha
avuto corso, la mediazione obbligatoria è apparsa produrre risultati non
irrilevanti.
Dai dati disponili presso Direzione Generale di statistica del Ministero
della Giustizia, risulta infatti che tra il 21 marzo 2011 ed il 20 giugno 2012
nelle materie in cui la mediazione è prevista quale condizione di procedibilità,
ed in cui ha avuto effettivamente corso, vi è stato una non elevata
partecipazione alla procedura delle parti – nel 64,2 per cento dei casi la parte
convenuta non si è infatti presentata davanti al mediatore indicato - ; d’altra
parte, però, quando tale partecipazione si è verificata, nel 46,4% delle ipotesi è
stato raggiunto l’accordo che ha evitato il procedimento contenzioso.
I dati indicati paiono dimostrare che esiste una radicata diffidenza da
parte dei cittadini nei confronti dell’istituto, fondata probabilmente sulle
esperienze precedenti di insuccesso di analoghi meccanismi, nutrita dal timore
che un nuovo investimento di energie in sede stragiudiziale provochi soltanto
un ulteriore spreco di tempo e di risorse in meccanismi avvertiti come inutili e
burocratici,
comunque
prodromici
al
contenzioso
giudiziale
ritenuto
ineluttabile, con il suo gravoso carico morale e materiale. Ciò spiega la scarsa
propensione delle parti ad affidarsi spontaneamente alla mediazione.
Il fatto che però in quasi la metà dei casi l’esito sia stato quello
dell’accordo stragiudiziale, dimostra che le resistenze culturali sono frutto di
una percezione errata, e comunque superabile, che quindi vale la pena di
ulteriormente contrastare.
L’istituto ha dimostrato cioè di avere una capacità di effettività benefica
molto superiore alle attese, smentendo l’assunto che, una volta pervenute alla
determinazione di affrontare il giudizio, le parti non avrebbero manifestato
alcuna disponibilità a rivedere le proprie posizioni e, soprattutto che ciò non
sarebbe potuto accadere attraverso un meccanismo imposto, contro la loro
volontà.
24
Che si tratti di un resistenza culturale pregiudiziale è dimostrata dai dati
relativi all’esperimento, sempre nel periodo marzo 2011 – giugno 2012, della
mediazione facoltativa, su iniziativa volontaria delle parti o su invito del
giudice: essa ha trovato luogo soltanto, rispettivamente, nel 16% e nel 2,8 degli
affari in cui sarebbe stata possibile.11
Così, appare oggi ragionevole e condivisibile la scelta del legislatore di
ulteriormente insistere per la introduzione nel sistema dell’istituto, che ha
dimostrato di avere un notevole potenziale di successo, costringendo le parti,
anche contro la loro volontà, a confrontarsi con una ipotesi alternativa al
giudizio che, se pure in premessa non ricercata, è in grado infine di attrarre per
la sua idoneità a procurare elevatissimi benefici e risparmi a ciascun cittadino,
coinvolto nel contenzioso, ed al sistema nel complesso,
Ciò allo scopo, a regime, di farne una prospettiva di definizione del
contenzioso concreta e generalmente praticata, fornendo un indispensabile
contributo di funzionalità e di effettività del sistema giudiziario civile, che versa
in eccezionali difficoltà operative a causa dell’enorme domanda di giustizia che
è chiamato a fronteggiare.
La conciliazione, d’altra parte, appare utile non solo a realizzare un
effetto deflattivo del contenzioso civile ma perché rappresenta uno strumento di
ampliamento dell’area della tutela, vale a dire “uno dei diversi mezzi di
risoluzione delle controversie disponibile in una società moderna, che può
essere il più idoneo per alcuni tipi di controversie, ma certamente non per
tutte” (cfr. paragrafo 1.1.4 della relazione di accompagnamento alla proposta di
direttiva europea in tema di mediazione in materia civile e commerciale).
La mediazione (come più in generale tutte le forme alternative di
risoluzione della controversia), invero, può divenire uno strumento importante
per una trasformazione della giustizia civile ed una sua evoluzione verso un
sistema più flessibile e più attento alle caratteristiche del caso concreto,
nell’ambito di un sistema integrato di giustizia che tenda sempre più a
25
specializzare la funzione dei vari strumenti di definizione, articolando non solo
gli strumenti alternativi alla decisione ma anche la gamma di quelli decisionali
in senso stretto.
Non sfugge, infatti, che la mediazione ha il pregio di consentire “la
continuazione dei rapporti tra le parti” e, pertanto, evita quel clima di agone
proprio del ricorso alla giurisdizione, che determina inevitabilmente la
conflittualità di tali rapporti e, dunque, ostacola la possibilità stessa di conciliare
la controversia. E quindi necessario concludere che l’affermazione nel
panorama ordinamentale della mediazione passa necessariamente per un
cambiamento di prospettiva culturale prima ancora che tecnico-giuridica.
Tale obiettivo, essenziale prima di tutto per provocare una inversione di
tendenza rispetto al progressivo esponenziale aumento del carico di lavoro degli
uffici giudiziari civili realizzatosi negli ultimi decenni, è oggetto peraltro di
sollecitazioni operate al Paese anche in sede europea, come si legge nella
Raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea n. 362 del 2013 “sul
programma nazionale di riforma 2013 dell’Italia e che formula un parere del
Consiglio sul programma di stabilità dell’Italia 2012-2017” per la quale “a
seguito della sentenza della Corte costituzionale dell’ottobre 2012 sulla
mediazione, è necessario intervenire per promuovere il ricorso a meccanismi
extragiudiziali di risoluzione delle controversie”, e richiede all’Italia di adottare
provvedimenti per “abbreviare la durata dei procedimenti civili e ridurre l’alto
livello di contenzioso civile, anche promuovendo il ricorso a procedure
extragiudiziali di risoluzione delle controversie”. Se si considera che l’atto è
stato adottato dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha demolito
soltanto il modulo obbligatorio di mediazione, senza incidere sugli altri vigenti,
è evidente che ad esso deve intendersi riferita la sollecitazione ad adottare
ulteriori provvedimenti.
26
Sulla base di quanto precede deve essere espresso in termini
incondizionatamente favorevoli il giudizio generale sulla scelta direttiva di
fondo assunta dal legislatore.
La nuova normativa si incardina nella disciplina contenuta nel d.lgs.vo 28
del 2010 antecedentemente alla pronuncia della Consulta, sostanzialmente
reinserendo le disposizioni che ne erano state espunte, con alcune
modificazioni.
In primo luogo l’ambito delle materie è stato ristretto, eliminando la previsione
della mediazione quale condizione di procedibilità nelle cause per risarcimento
del danno da circolazione stradale. Il motivo di tale esclusione risiede non solo
probabilmente nella considerazione che procedure conciliative nel settore sono
già previste dal codice delle assicurazioni private. D’altra parte, la circostanza
che le determinazioni delle parti private in tali vicende contenziose siano
fortemente condizionate dalla presenza delle imprese private di assicurazione,
in ultima analisi arbitre delle soluzioni economiche, fa sì che i meccanismi
individuali di conciliazione risultino meno efficaci.
Occorre però rilevare che la esclusione di un così numericamente
rilevante settore di contenzioso contrasta con la tendenza generale perseguita
alla massima diffusione ed espansione dell’istituto; tenuto anche conto che si
tratta di affari in cui la litigiosità riguarda spesso profili di non particolare
complessità tecnica, quali la liquidazione del danno, suscettibili di utile
componimento stragiudiziale sulla base di un mero bilanciamento di costi e
benefici.
Il Dl del fare, convertito dalla legge n. 98/2013, apprezzabilmente risolve
poi anche un problema presente nel Codice Civile sorto in sede di prima
applicazione della mediazione obbligatoria in materia di diritti reali. Viene
inserita (dall’art. 84 bis del c.d. decreto del fare) una disposizione specifica (al
n. 12-bis dell’articolo 2643, comma 1, del Codice civile) che permette la
27
trascrivibilità dell’accordo di mediazione che attesta l’usucapione con la
sottoscrizione autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.
Inoltre, perfettamente coerente con gli obiettivi perseguiti con la nuova
disciplina della mediazione obbligatoria orientata alla diffusione e penetrazione
nella pratica comune dell’istituto è la modifica dell’articolo 5 comma 2 del
D.lgs.vo 28 del 2010 – nel testo precedente l’intervento della Consulta - per cui
la mediazione facoltativa su invito del giudice durante il procedimento è
sostituita da una nuova ipotesi di procedura conciliativa (cd. mediazione
obbligatoria ex officio) che il giudicante può imporre disponendone
l’esperimento a pena di improcedibilità della domanda giudiziale12. Nella
precedente versione del d.lgs. 28/10 era prevista, invece, la mediazione
giudizialmente sollecitata. Si prevedeva, infatti, che il giudice potesse solo
invitare le parti ad iniziare un procedimento di mediazione (con chiara
differenza con la conciliazione giudiziale, nella quale è lo stesso giudice a
svolgere in ambito endoprocessuale le funzioni conciliative). Effettuata questa
valutazione di opportunità (sulla via conciliativa) da parte del giudice, la scelta
spettava però alle parti, che potevano aderire o meno all’invito giudiziale.
Con la modifica apportata, quindi, il giudice che ravvisi, anche in
appello, uno spazio di praticabilità della definizione transattiva della
controversia non deve più raccogliere il consenso delle parti al tentativo di
mediazione ma può disporre direttamente l’esperimento del procedimento di
mediazione.
Utile è la precisazione, in una questione che aveva dato luogo ad
incertezze interpretative, che la disciplina della mediazione obbligatoria e della
mediazione giudiziale non trova applicazione nei procedimenti di consulenza
tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, di cui all’articolo 696bis del codice di procedura civile, in analogia con quanto previsto dall’art. 5
comma 4 per i procedimenti urgenti e sommari13.
28
Con questa modifica normativa il legislatore ha positivamente recepito
l’orientamento che si era formato sul punto nella giurisprudenza di merito
secondo cui la consulenza tecnica preventiva (art. 696 bis c.p.c.) e la
mediazione (d.lgs. 28/2010) perseguono la medesima finalità, introducendo
entrambi gli istituti un procedimento finalizzato alla composizione bonaria della
lite, così da sembrare tra loro alternativi e, quindi, apparendo le norme di cui al
d.lgs. 28/2010 logicamente incompatibili con il procedimento di cui all’art. 696
bis c.p.c. (cfr. Tribunale di Varese, sez. I, 21 aprile 2011, in Guida al diritto
2011, 44, 8 e in Il civilista 2011, 11).
Del resto, da tempo la prevalente giurisprudenza di merito aderisce ha
aderito alla tesi dottrinaria che annovera l’istituto dell’art. 696 bis c.p.c.
nell’alveo della alternative dispute resolution.
A fronte di una marcata scelta di espansione e rafforzamento dell’area
della praticabilità della mediazione anche in assenza di volontà espressa dalle
parti, il testo normativo contiene una ulteriore serie di disposizioni finalizzate a
bilanciarne il portato, da un lato attenuando l’effetto di appesantimento
procedurale ed economico per le parti e, dall’altro orientando la disciplina
procedimentale alla massima valorizzazione della funzionalità operativa e
dell’effettività.
Così, il limite massimo di durata della mediazione è stato ridotto da quattro a tre
mesi.
In considerazione della natura non processuale del procedimento di mediazione,
il termine in questione non è soggetto alla sospensione feriale dei termini (art.
6) neppure quando il procedimento di mediazione trovi origine da una
rimessione dovuta al giudice.
Tale soluzione appare assolutamente condivisibile perché idonea ad impedire
ulteriori ritardi nell’eventuale accesso al giudice.
29
Nondimeno deve rilevarsi che, in alcuni casi, il termine di tre mesi può risultare
oggettivamente insufficiente, specie nelle controversie con molteplici parti da
convocare, come spesso accade nelle cause relativi ai diritti reali
Sempre per la sua natura non processuale, il detto termine non rileva neppure ai
fini della valutazione della ragionevole durata del processo e della
consequenziale applicazione della legge 89/2001 (c.d. legge Pinto) per la
richiesta di risarcimento danni allo Stato (art. 7).
Tale previsione appare un giusto punto di equilibrio tra l’esigenza di celerità del
processo e la finalità di implementazione dei metodi alternativi di risoluzione
delle controversi.
Nondimeno alcuni commentatori, partendo dalla considerazione che nelle
ipotesi di mediazione obbligatoria con conciliazione fallita il processo subisce
inevitabilmente un oggettivo slittamento e che risulta prolungato il tempo
complessivo per ottenere il provvedimento giudiziale, hanno evidenziato una
possibile non conformità alla Costituzione ed alla CEDU della disposizione
contenuta nell’art. 7, che potrebbe essere, in ipotesi, letta come una limitazione
gli obblighi assunti dall’Italia a livello internazionale.
Altrettanto coerenti con la finalità di incentivazione dell’istituto risultano
le previsione di costi contenuti per la mediazione e di gratuità per i soggetti non
abbienti che nel procedimento giudiziario avrebbero diritto al gratuito
patrocinio, previsioni connotate dall’evidente scopo di eliminare un incentivo
economico a preferire il contenzioso.
Il nuovo articolo 8 del d.lgs.vo 28/2010, specificando la generica
disciplina precedente, impone lo svolgimento di un incontro preliminare tra le
parti ed il mediatore, finalizzato alla individuazione di una strategia di
intervento conciliativo flessibile e modellata sul caso concreto. Tale prima
occasione di contatto, che deve avvenire entro trenta giorni dal deposito della
domanda di conciliazione, appare utile, attraverso il libero ed ampio confronto
tra i protagonisti della vicenda, a consentire una verifica preliminare della
30
praticabilità del percorso conciliativo, permettendo, ove se ne ravvisi
l’impossibilità, l’immediata interruzione che ne eviti l’inutile prolungamento,
oppure una idonea programmazione e strutturazione secondo le peculiarità del
caso concreto.
Il testo di nuova proposizione rimedia inoltre ad una evidente lacuna del
decreto 28/2010, inserendo la necessità della partecipazione al procedimento
conciliativo anche del difensore tecnico delle parti.
Infatti, al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della
procedura, le parti devono partecipare con l'assistenza dell'avvocato.
Il compito dell’avvocato, quindi, è divenuto preminente nel procedimento di
mediazione: 1) le parti devono essere necessariamente assistite da un legale
durante tutta la procedura, fin dal primo incontro; 2) se c’è un accordo
conciliativo tra le parti, l’avvocato può certificare la conformità dell’accordo
stesso alle norme imperative e all’ordine pubblico, attribuendogli così efficacia
esecutiva per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio,
l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare e per l’iscrizione di ipoteca
giudiziale. In questo modo l’accordo può trasformarsi in titolo esecutivo. In
caso
di
mancanza
della
sottoscrizione
degli
avvocati
è
necessaria
l’omologazione del presidente del tribunale.
L’innovazione introdotta appare assolutamente condivisibile in quanto
riconosce l’indispensabilità del coinvolgimento della difesa tecnica, prima di
tutto con riferimento all’aspetto dell’assistenza professionale qualificata del
professionista alle parti della singola vicenda concreta, la cui soluzione
normalmente necessita la definizione di questioni tecniche. D’altra parte, dal
punto di vista generale ed istituzionale di sistema, è impossibile immaginare
che il radicale mutamento di prospettiva culturale per la composizione delle
controversie civili che il legislatore cerca di realizzare possa effettivamente
essere perseguito senza il coinvolgimento immediato e la adesione convinta
dell’avvocatura, che costituisce lo snodo professionale ed il presidio
31
istituzionale deputato alla affermazione dei diritti dei cittadini – da un lato –
nonché un ingranaggio fondamentale del funzionamento del sistema di
giustizia.
Nella stessa direzione milita anche l’ulteriore previsione contenuta nel
decreto secondo cui a tutti gli avvocati iscritti all’albo è diritto riconosciuta la
qualifica di mediatori, in ragione – evidentemente – della specifica competenza
professionale e del ruolo istituzionale di promotore dell’effettività dei diritti dei
cittadini.
Da ultimo e senza soffermarsi sulle singole fasi del procedimento, deve
esprimersi favorevole apprezzamento anche per le disposizioni volte a
disciplinare l’incidenza del procedimento di mediazione sulla decisione della
causa e sulla determinazione del regime delle spese di lite.
Quanto al primo aspetto merita menzione l’ art. 8, comma 4 bis, d.lgs. n. 28/10
(inserito dall'art. 84, co. 1, lett. i), D.L. n. 69/2013 convertito, con
modificazioni, dalla L. n. 98/2013) secondo cui dalla mancata partecipazione
senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può
desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell'articolo 116,
secondo comma, del codice di procedura civile.
In merito poi alle decisioni sulle spese di lite l'art. 13 del menzionato D.lgs.
stabilisce che quando il provvedimento che definisce il giudizio civile
corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa, il giudice,
ferma restando l'applicabilità degli artt. 92 e 96 c.p.c.: a) esclude la ripetizione
delle spese (comprese, eventualmente, quelle per l'indennità corrisposta al
mediatore e per il compenso dovuto all'esperto, se nominato) della parte
vincitrice che ha rifiutato la proposta, relativamente al periodo successivo alla
stessa; b) condanna tale parte al pagamento delle spese processuali di
controparte (comprese, eventualmente, quelle, già indicate, per il mediatore e
l'esperto); c) condanna sempre questa parte al versamento di un’ulteriore
somma, di importo corrispondente al contributo unificato dovuto.
32
Anche tali disposizioni risultano assolutamente coerenti con l’intento
deflattivo del contenzioso giudiziario posto alla base della riforma in quanto
connotate da una duplice finalità: una finalità incentivante, perchè induce le
parti
a
provare
comunque
la
via
della
mediazione
ed
una
sanzionatoria/deflattiva, in quanto consente al giudice di tenere conto del
comportamento immotivatamente ostruzionistico di una parte nella definizione
della lite in sede stragiudiziale.
In conclusione, pur con le doverose cautele imposte dal necessario
bilanciamento tra la finalità deflattiva del contenzioso e il fondamentale diritto
di difesa di cui all’art. 24 Cost., può sostanzialmente esprimersi apprezzamento
per la scelta di fondo del Legislatore di attribuire alla mediazione una
collocazione più rilevante e centrale all’interno del sistema, rispetto a quella,
decisamente secondaria, assunta fino ad oggi, sia nella prospettiva di una
migliore diffusione della cultura della soluzione amichevole dei conflitti sia, e
soprattutto, di un efficace decongestionamento dei ruoli giudiziari in linea con
principi delineati a livello comunitario14
2.4. I mezzi alternativi eteronomi nell’ordinamento giuridico italiano:
l’arbitrato. - Come anticipato in premessa, altra fondamentale strada eteronoma
di risoluzione dei conflitti è quella dell’arbitrato, che rappresenta un istituto
conosciuto dalla quasi totalità degli ordinamenti giuridici in quanto
estrinsecazione dell’autonomia negoziale delle parti.
Per individuare i tratti distintivi dell’arbitrato dagli altri strumenti alternativi, va
innanzitutto evidenziato che nell’arbitrato la manifestazione e l’incontro della
volontà delle parti avviene ex ante e si concretizza in un patto compromissorio
(in una convenzione di arbitrato), che contiene la rinuncia alla giurisdizione
dello Stato e, al contempo, la devoluzione della controversia e il conferimento
del potere di deciderla agli arbitri.
33
L’intervento degli arbitri, quindi, è postumo e si sostanzia nel decidere la
controversia in virtù del potere ad essi conferito dalle parti nel patto
compromissorio e in base al criterio di giudizio – diritto, equità – che le stesse
parti hanno preventivamente stabilito o che risulta fissato in un precetto di legge
cui le stesse non hanno voluto o, in alcuni casi, potuto derogare.
Rispetto alla mediazione, pertanto, dove il mediatore non ha un potere
decisionale e si limita ad coadiuvare le parti nel raggiungimento di un accordo,
con l’arbitrato le parti non attendono che il terzo offra loro una soluzione
intermedia, ma tendono ad una soluzione giusta, secondo diritto o secondo
equità.
In altri termini agli arbitri, che sono dei privati, viene attribuito il potere di
rendere una decisione su uno specifico thema decidendum, all’esito di un
giudizio che si articola secondo forme procedimentali e con la garanzia del
contraddittorio.
Del resto, una volta rotto il collegamento inscindibile tra sovranità e
giurisdizione il fatto che oggettivamente emerge è la positiva coesistenza,
accanto alla giurisdizione statale, di forme di giustizia non statale tra le quali
certamente rientrano le manifestazioni del fenomeno arbitrale.
Il modello di arbitrato attualmente disciplinato dal nostro codice di rito ha
subito, nella storia dell’istituto, variazioni che hanno dato luogo a più “modelli”
arbitrali, sempre e comunque rientranti nel genus unitario dell’istituto.
All’interno di questo genus il legislatore ha opportunamente previsto un
modello generale di arbitrato e ne ha disciplinato oltre che il “rito” e gli
“effetti”, come per il giudizio di cognizione ordinario innanzi ai giudici togati,
anche la nomina, i diritti, gli obblighi, la responsabilità e la ricusazione degli
arbitri, i rapporti tra questi e l’autorità giudiziaria, la forma e il contenuto della
decisione arbitrale (lodo).
Accanto a tale modello di arbitrato cd rituale, disciplinato dagli artt. 806 ss.
c.p.c., la creazione di modelli alternativi è stata, soprattutto il frutto di libere
34
scelte dei privati che, nell’ambito della loro autonomia, hanno dato luogo al c.
d. arbitrato “libero”o “irrituale”, oggi previsto e regolamentato dall’articolo 808
ter c.p.c. .(con un’apposita disciplina che concerne le norme applicabili al
procedimento arbitrale, il regime di efficacia del lodo ed i mezzi di
impugnazione avverso la decisione degli arbitri)
In questa sede si procederà all’analisi generale soprattutto dell’arbitrato rituale e
di quello irrituale senza affrontare la disamina di altri modelli e procedimenti
c.d. speciali di arbitrato di fonte legislativa, costituiti come varianti rispetto al
modello di diritto comune, modelli il cui ambito di applicabilità è diversificato
in ragione della natura delle controversie di volta in volta devolute agli arbitri
ed in relazione ai quali la legge speciale detta particolari disposizioni.
L’arbitrato rituale è quello inderogabilmente assoggettato alle norme contenute
nel titolo VIII del codice di procedura civile ed è idoneo a sfociare in un lodo
che, oltre al proprio effetto naturale di vincolo tra le parti, produce tutti gli
ulteriori effetti previsti dal. Codice di rito. Avverso tale lodo arbitrale è
esperibile presso la competente Corte di appello soltanto l’impugnazione per
nullità, la revocazione c.d. straordinaria (nelle ipotesi previste nei nn. 1,2,3 e 6
dell’art. 395 del c.p.c., e l’opposizione di terzo.
Il c.d. arbitrato irrituale è quello che, sebbene finalizzato anch’esso al giudizio
alla decisione della controversia, è svincolato dalla necessaria osservanza delle
norme che disciplinano l’arbitrato rituale, è insuscettibile di essere assoggettato
alle impugnazioni processuali previste dal codice di rito ed è inidoneo ad
acquistare esecutorietà tramite il procedimento giudiziale di exequatur.
Il. D.lgs. 2 febbraio 2006, n.40 ha introdotto una norma ad hoc dedicata
all’arbitrato irrituale, la cui ragion d’essere era stata sottoposta a discussione
critica dalla dottrina.
Il primo comma dell’art. 808 ter c.p.c. recita che”le parti possono, con
disposizione espressa per iscritto, stabilire che, in deroga a quanto disposto
dall’art. 824 bis, la controversia sia definita dagli arbitri mediante
35
determinazione contrattuale. Altrimenti si applicano le disposizioni del presente
titolo”.
Il predetto articolo è completato, al secondo comma, dalla previsione della
disciplina dell’impugnazione dei lodi irrituali pronunciati all’esito di
procedimenti che traggano origine da patti compromissorio.
Sussistono elementi comuni ed aspetti differenziali dell’arbitrato rituale e di
quello irrituale.
L’elemento comune è offerto essenzialmente, come detto, dalla funzione
unitaria dei due istituti: in quanto entrambe le parti vogliono, con una paritaria
posizione e determinazione, far decidere da arbitri le cause tra loro insorte e che
questa decisione venga assunta con un giudizio compiuto sulla base di un
criterio vincolato all’esito di un vero e proprio processo privato (identità di
funzione tra arbitri rituali e arbitri liberi).
L’elemento differenziale era ed è rappresentato da una scelta compiuta dalle
parti in relazione alle possibilità offerte dall’ordinamento positivo e cioè a
seconda che esse optino per un giudizio arbitrale che si concluda con un lodo
avente “gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria “ovvero
con gli effetti propri di una”determinazione contrattuale”con la conseguente
necessità di osservare determinati requisiti di forma e di contenuto.
La determinazione dell’oggetto del giudizio arbitrale si sviluppa e si articola in
tre momenti o fasi successive e cioè: 1) la stipulazione del patto
compromissorio, che di regola è la fonte del giudizio arbitrale ( le parti
scelgono l’arbitrato quale forma di definizione della controversia) e del duplice
rapporto tra le parti e gli arbitri e contiene l’ambito oggettivo della cognizione
compromessa in arbitri; 2) l’atto di accesso, che può contenere la proposizione
della domanda o delle domande sottoposte alla cognizione degli arbitri; 3) La
formulazione dei quesiti è, nell’ambito di questi, specifica azione e precisazione
delle domande e delle conclusioni, assurte queste ultime requisito necessario del
lodo in base al novellato articolo 823, comma 2°, n. 4,c.p.c.
36
Delicati problemi si sono posti con riguardo: ai limiti oggettivi di arbitrabilità e
cioè di compromettibilità per arbitri delle controversie; in ordine alla
legittimazione e capacità per la stipulazione della convenzione di arbitrato e
capacità di essere parte del patto compromissorio; alla natura dell’ufficio di
arbitro; alla responsabilità degli arbitri.
Sul primo aspetto il nuovo testo dell’art. 806 c.p.c., così come sostituito dal
D.lgs. n. 40/2006, ha positivamente dettato i requisiti generali di arbitrabilità
delle controversie indipendentemente dalla forma del patto compromissorio.
La norma sancisce il principio della generale arbitrabilità di ogni controversia il
cui oggetto ricada nell’area della disponibilità dei diritti, principio cui può
derogarsi solo in presenza di un’espressa disposizione di legge.
Per
condurre
un’indagine
corretta
sul
problema
delle
controversie
compromettibili per arbitri bisogna rifarsi alla previsione degli articoli 806 e
808 c.p.c., antecedente alla riforma del 2006.
Dal contenuto delle predette disposizioni era, infatti, desumibile un triplice
elemento individuatore dell’ambito delle controversie compromettenti per
arbitri: quoad officium, quoad obiectum e quoad effectum.
Il primo determinato con riferimento all’attività del ”decidere”; il secondo
determinato in negativo, per esclusione, con riferimento a tre categorie di
controversie e cioè quelle previste dagli articoli 409 (controversie individuali di
lavoro) e 442 c.p.c. (controversie in materia di previdenza assistenza
obbligatorie) e quelle che concernenti questioni di stato e di separazione
personale tra i coniugi e, infine, il terzo (quoad effectum) con riferimento a tutte
le controversie che non possono formare oggetto di transazione.
Rispetto a siffatto regime previgente, l’intervento legislativo di cui al d.lgs. n.
40/2006, con previsione certamente apprezzabile sul piano sistematico ha, in
via generale, subordinato l’arbitrabilità delle controversie in materia di lavoro di
cui all’articolo 409 c.p.c. alla espressa previsione da parte di leggi speciali o di
contratti collettivi di lavoro (art. 806, comma 2°,c.p.c.), previsione che, per
37
effetto della legge 183/2010, è oggi contenuta nell’articolo 412 quater c.p.c.,
che consente, se previsto nei contratti collettivi, l’inserimento nei contratti
individuali di lavoro di clausole compromissorie.
Relativamente al secondo aspetto concernente le parti, in seguito alle modifiche
legislative introdotte con il d.lgs. n.40/2006 risulta identico, per tutte le
convenzioni di arbitrato, il criterio di capacità, ossia di legittimazione a
compromettere che è ormai riferito unicamente al potere di disporre in relazione
al rapporto controverso.
In sostanza con tale riforma il legislatore ha coerentemente inteso assoggettare
il potere di stipulazione del compromesso e della clausola compromissoria ad
un unico regime, consistente, come detto, nella capacità di disporre del rapporto
controverso.
Per quanto riguarda poi la natura dell’”ufficio” di arbitro la dottrina dominante
ritiene che gli arbitri, per effetto dell’atto di nomina posti in essere dalle parti,
vengono investiti della titolarità di un ufficio che, per la fonte di tale investitura
e per la funzione per i poteri - doveri che gli arbitri sono chiamati ad esercitare,
ha natura privata.
Questa conclusione sembra oggi suffragata dal nuovo articolo 813 c.p.c. che, al
secondo comma sancisce espressamente che agli arbitri”non compete la
qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio”.
Relativamente, infine, alla responsabilità degli arbitri il d.lgs n. 40/ 2006 ha
condivisibilmente recepito buona parte dei risultati cui la dottrina e la
giurisprudenza erano giunti.
Il nuovo articolo 813 ter c.p.c. ha, infatti, introdotto con riguardo agli arbitri il
riferimento alla condotta dolosa o gravemente colposa ed ha altresì previsto
espressamente una forma di responsabilità in caso di errore inescusabile in
relazione agli errores in procedendo e in giudicando degli arbitri.
La stessa disposizione al primo comma prevede che sono fonte di responsabilità
degli arbitri: la dichiarazione di decadenza, determinata dal dolo o colpa grave
38
dell’arbitro, per aver omesso o ritardato il compimento di atti dovuti; l’ipotesi in
cui l’arbitro, con dolo o colpa grave, abbia omesso impedito la pronuncia
dell’otto entro il termine fissato a norma dell’articolo 820 c.p.c.; la rinuncia
all’incarico senza giustificato motivo.
Al di fuori di tali ipotesi gli arbitri, rispondendo esclusivamente per dolo o
colpa grave entro i limiti previsti dall’articolo 2, commi secondo e terzo,.1. 13
aprile 1988, n. 117, riguardante la responsabilità civile dei magistrati, ossia nel
caso di grave violazione di legge determinata da negligenze inescusabile, di
affermazione di un fatto la cui inesistenza incontrastabilmente esclusa dagli atti
del giudizio.
Delineati i fondamentali tratti comuni e distintivi dei principali Alternative
Dispute Resolutions già presenti nel nostro ordinamento, merita da ultimo
evidenziare che con il recente decreto legge n. 132 del 12 settembre 2014 il
Governo
ha
predisposto
ulteriori
misure
normative
finalizzate
all’implementazione del fenomeno della c.d. degiurisdizionalizzazione.
In attesa della legge di conversione, solo all’esito della quale sarà
consentita un’analisi approfondita delle singole misure, è comunque possibile
sin da ora evidenziare che, nell’ottica del rafforzamento degli strumenti
extragiurisdizionali per la risoluzione dei conflitti, i punti principali del
provvedimento si rinvengono nei Capi I-IV del citato decreto e possono così
sintetizzarsi:
- decisioni delle cause pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria mediante
trasferimento alla sede arbitrale (art. 1); - procedura di negoziazione assistita da
un avvocato (artt. 2-5); - negoziazione assistita nelle cause di separazione e
divorzio (art. 6); - ulteriore semplificazione dei procedimenti di separazione o
divorzio mediante accordo ricevuto dall’ufficiale dello stato civile (art. 12).
Evidenziati, sia pure sinteticamente, i più recenti ed apprezzabili interventi
normativi in subiecta materia, può concludersi ribadendo, ancora una volta, un
giudizio assolutamente positivo sulla scelta del legislatore di favorire il ricorso
39
a strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, con l’auspicio che
augurabili futuri interventi legislativi volti ad implementarne ulteriormente il
ruolo non prescindano dal coinvolgimento di tutti gli attori del processo, e
quindi non solo delle parti, cui si richiede una solida fiducia nella possibilità di
trovare una sistemazione del conflitto che prescinda dall’intervento del giudice
statale, ma anche e soprattutto della classe forense, chiamata a stimolare la
propensione alla conciliazione delle parti in conflitto, che il nostro ordinamento
assegna all’avvocato come fisiologico ruolo funzionale alla piena realizzazione
della tutela dei diritti.
Redatto dal Cons. dott. Vittorio CORASANITI
1
Comoglio, Commento all’art. 24 della Costituzione, in Commentario alla Costituzione (a cura di
G. Branca), Zanichelli-Il Foro It., Bologna-Roma, 1981, p. 1 ss.
2
Cf. Relazione del 6 maggio 2013 al convegno “L’arbitrato: un’altra strada”.
3
Un terzo scelto dalle parti le assiste nel tentativo di raggiungere un accordo, ma non rende una
decisione.
4
Con il termine trial, negli ordinamenti di common law, si intende definire la fase processuale che
comprende l’assunzione delle prove, la discussione ovvero il dibattimento e la decisione del
processo. La funzione del pre-trial consiste nel rendere possibile alle parti l’esposizione delle
proprie difese, ovvero argomentazioni (pleadings). Consiste ancora nella tecnica procedurale della
discovery, negli interrogatories e nelle inspection, prima che abbia luogo il trial ovvero la
decisione. Il pre-trial assolve alla funzione di definire la lite prima del trial, mediante una
transazione ovvero mettendo comunque fine al procedimento. Nella fase della discovery, il
materiale probatorio viene messo a disposizione delle parti attraverso lo scambio dell’elenco dei
documenti e l’esibizione degli stessi.Il mini-trial, prendendo spunto dalla fase processuale del pretrial consiste in un processo simulato nel quale un advisor neutrale tenta la conciliazione e, se
questa fallisce, rende un parere non vincolante. Nell’ambito del pre-trial la discovery intende
garantire le parti impedendo alle stesse di produrre prove non conosciute dall’altra parte.
5
Risoluzione di questioni di fatto da parte di un esperto
6
si tratta di un processo simulato con una giuria che emana un advisory verdict.
7
I difensori delle parti presentano le loro posizioni a un collegio di terzi imparziali che rendono un
parere non vincolante.
8
Un terzo imparziale – scelto da un’istituzione (banca, università, Ente pubblico) – indaga su
lamentele e disservizi denunciati da cittadini.
9
Questi i principi e i criteri direttivi cui attenersi nell’esercizio della delega: a) prevedere che la
mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza
precludere l'accesso alla giustizia; b) prevedere che la mediazione sia svolta da organismi
professionali e indipendenti, stabilmente destinati all'erogazione del servizio di conciliazione; c)
disciplinare la mediazione, nel rispetto della normativa comunitaria, anche attraverso l'estensione
delle disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e in ogni caso attraverso
l'istituzione, presso il Ministero della giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza
pubblica, di un Registro degli organismi di conciliazione, di seguito denominato «Registro», vigilati
40
dal medesimo Ministero, fermo restando il diritto delle camere di commercio, industria, artigianato
e agricoltura che hanno costituito organismi di conciliazione ai sensi dell'articolo 2 della legge 29
dicembre 1993, n. 580, ad ottenere l'iscrizione di tali organismi nel medesimo Registro; d)
prevedere che i requisiti per l'iscrizione nel Registro e per la sua conservazione siano stabiliti con
decreto del Ministro della giustizia; e) prevedere la possibilità, per i consigli degli ordini degli
avvocati, di istituire, presso i tribunali, organismi di conciliazione che, per il loro funzionamento, si
avvalgono del personale degli stessi consigli; f) prevedere che gli organismi di conciliazione istituiti
presso i tribunali siano iscritti di diritto nel Registro; g) prevedere, per le controversie in particolari
materie, la facoltà di istituire organismi di conciliazione presso i consigli degli ordini professionali;
h) prevedere che gli organismi di conciliazione di cui alla lettera g) siano iscritti di diritto nel
Registro; i) prevedere che gli organismi di conciliazione iscritti nel Registro possano svolgere il
servizio di mediazione anche attraverso procedure telematiche; l) per le controversie in particolari
materie, prevedere la facoltà del conciliatore di avvalersi di esperti, iscritti nell'albo dei consulenti e
dei periti presso i tribunali, i cui compensi sono previsti dai decreti legislativi attuativi della delega
di cui al comma 1 anche con riferimento a quelli stabiliti per le consulenze e per le perizie
giudiziali; m) prevedere che le indennità spettanti ai conciliatori, da porre a carico delle parti, siano
stabilite, anche con atto regolamentare, in misura maggiore per il caso in cui sia stata raggiunta la
conciliazione tra le parti; n) prevedere il dovere dell'avvocato di informare il cliente, prima
dell'instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell'istituto della conciliazione nonché
di ricorrere agli organismi di conciliazione; o) prevedere, a favore delle parti, forme di agevolazione
di carattere fiscale, assicurando, al contempo, l'invarianza del gettito attraverso gli introiti derivanti
al Ministero della giustizia, a decorrere dall'anno precedente l'introduzione della norma e
successivamente con cadenza annuale, dal Fondo unico giustizia di cui all'articolo 2 del decretolegge 16 settembre 2008, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n.
181; p) prevedere, nei casi in cui il provvedimento che chiude il processo corrisponda interamente
al contenuto dell'accordo proposto in sede di procedimento di conciliazione, che il giudice possa
escludere la ripetizione delle spese sostenute dal vincitore che ha rifiutato l'accordo
successivamente alla proposta dello stesso, condannandolo altresì, e nella stessa misura, al rimborso
delle spese sostenute dal soccombente, salvo quanto previsto dagli articoli 92 e 96 del codice di
procedura civile, e, inoltre, che possa condannare il vincitore al pagamento di un'ulteriore somma a
titolo di contributo unificato ai sensi dell'articolo 9 (L) del testo unico delle disposizioni legislative
e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30
maggio 2002, n. 115; q) prevedere che il procedimento di conciliazione non possa avere una durata
eccedente i quattro mesi; r) prevedere, nel rispetto del codice deontologico, un regime di
incompatibilità tale da garantire la neutralità, l'indipendenza e l'imparzialità del conciliatore nello
svolgimento delle sue funzioni; s) prevedere che il verbale di conciliazione abbia efficacia esecutiva
per l'espropriazione forzata, per l'esecuzione in forma specifica e costituisca titolo per l'iscrizione di
ipoteca giudiziale.
10
Si osservava nelle delibera dell’11 marzo 2009 che “Invero, lo sviluppo di metodi alternativi per
la risoluzione delle controversie (per usare la terminologia dell’art. III-269, n. 2 lett. g) del trattato
costituzionale europeo) è una delle politiche dell’Unione europea nel settore della giustizia civile.
Questa politica si è tradotta in numerosi interventi; tra i principali vanno senza dubbio annoverati:
a) le conclusioni del Consiglio europeo di Tampere del 15 e 16 ottobre 19993; b) il Libro Verde
relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie, presentato il 19 aprile 20024; c) il
Codice europeo di condotta per i mediatori5, presentato a Bruxelles il 2 luglio 2004; d) la proposta
di direttiva sulla mediazione6 del 21 ottobre 2004; e) la scelta di campo a favore degli strumenti
alternativi contenuta in molte direttive (tra tutte, a titolo esemplificativo, l’art. 17 della direttiva
2000/31 sul commercio elettronico7); f) la Direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio del 21 maggio 2008 relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e
commerciale, che ha sostanzialmente recepito la proposta di direttiva di cui alla precedente lett. d),
41
limitandone tuttavia l’applicazione alle controversie transfrontaliere”. Successivamente alle
delibere citate ulteriori atti comunitari hanno consolidato e rafforzato tale generale indirizzo; a titolo
di esempio da ultimo vale la pena citare la Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 12
marzo 2013 sulla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla risoluzione
alternativa delle controversie dei consumatori, recante modifica del regolamento (CE) n.
2006/2004 e della direttiva 2009/22/CE (direttiva sull'ADR per i consumatori)
11
Si tratta sempre di dati offerti dalla Direzione Generale di statistica del Ministero della Giustizia
12
Art. 5, comma, 2, d.lgs. 28/10: “fermo quanto previsto dal comma 1-bis e salvo quanto disposto
dai commi 3 e 4, il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo
stato dell'istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l'esperimento del procedimento di
mediazione; in tal caso, l'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità
della domanda giudiziale anche in sede di appello. Il provvedimento di cui al periodo precedente è
adottato prima dell'udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è
prevista, prima della discussione della causa. Il giudice fissa la successiva udienza dopo la
scadenza del termine di cui all'articolo 6 e, quando la mediazione non è già stata avviata, assegna
contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di
mediazione
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Art. 5, comma 4,D.Lgs. n. 28/2010, aggiornato al D.L. n. 138/2011 e successivamente al D.L. n.
69/2013 (Legge di conversione n. 98/2013) i commi 1-bis e 2 non si applicano: a) nei procedimenti
per ingiunzione, inclusa l'opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e
sospensione della provvisoria esecuzione; b) nei procedimenti per convalida di licenza o sfratto,
fino al mutamento del rito di cui all'articolo 667 del codice di procedura civile; c) nei procedimenti
di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, di cui all'articolo 696-bis del
codice di procedura civile; d) nei procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di
cui all'articolo 703, terzo comma, del codice di procedura civile; e) nei procedimenti di opposizione
o incidentali di cognizione relativi all'esecuzione forzata; f) nei procedimenti in camera di
consiglio; g) nell'azione civile esercitata nel processo penale.
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Cfr. Direttiva 2008/52/CE del 21 maggio 2008 il cui obbiettivo è quello di facilitare l’accesso alla
risoluzione alternativa delle controversie e di promuovere la composizione amichevole delle
medesime incoraggiando il ricorso alla mediazione e garantendo un equilibrata relazione tra
mediazione e procedimento giudiziario.
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