ricette umorali il bis

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ricette umorali il bis
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isabella pedicini
ricette
umorali
il bis
Palati in fuga,
apericene e altre catastrofi
lemer aviglie
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i edizione: maggio 2015
© 2015 Fazi Editore
Via Isonzo 42, Roma
Tutti i diritti riservati
Ritratto dell’autrice in copertina
di Lorenzo Palmieri
isbn: 978-88-7625-773-5
www.fazieditore.it
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indice
01 Il prisma p.13
Ricette da prisma. Umore: leggiadro, allegro, andante con brio p.15
Ostriche per 4 italiani a Parigi p.15
Soupe à l’oignon per 2 persone con il naso freddo p.18
Carne alla brace per 10 persone disorientate p.21
02 Il cubo p.25
Ricette da cubo. Umore: sanguigno p.27
Pizza à la Bolognaise per 1 persona controversa p.27
Pizza pepperoni per 1 persona esuberante p.29
Cappuccino per 1 persona nota p.31
03 Il cilindro p.35
Ricette da cilindro. Umore: sensuale, passionale, romantico p.37
Girella Motta per 1 persona nostalgica p.37
Caffè con panna per tante persone appassionate p.39
Cocktail di gamberi per 3 persone che tornano a casa p.42
04 Il parallelepipedo p.45
Ricette da parallelepipedo.
Umore: gioviale, energico,andante con moto p.47
Pancakes per 4 persone audaci p.47
Involtini primavera per 3 persone utopiche p.49
Piña Colada per 1 persona frivola p.52
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05 La sfera p.57
Ricette da sfera.
Umore: flemmatico p.59
Naan al San Daniele per 5 ragazze alla Biennale di Venezia p.59
Muffin di panettone per un po’ di persone antipatiche p.63
Cavoletti di Bruxelles gratinati per 4 persone cosmopolite p.66
06 Il tetraedro p.71
Ricette da tetraedro. Umore: collerico p.73
Kinder Bueno per 1 persona solitaria p.73
Cupcakes alla vaniglia e cioccolato per 2 persone depresse p.76
Groppo in gola per 1 persona dubbiosa p.79
07 Il dodecaedro p.83
Ricette da dodecaedro. Euforico, vivace, andante solenne p.86
Arachidi per 1 persona coi boccoli p.86
Pizzette di sfoglia per 5 persone perplesse p.88
Spritz per 1 persona innamorata p.90
08 L’ottaedro p.95
Ricette da ottaedro. Umore: nero p.97
Tic tac alla menta per 1 persona attenta p.97
Croissant per 20 avventori assonnati p.100
Pastiglia di propoli per 1 persona in ritardo p.102
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09 Il tronco di cono p.105
Ricette da tronco di cono.
Umore: agitato, stressato, burrascoso p.107
Spremuta d’arancia per 1 persona che gira il mondo p.107
Insalata tiepida di polpo e patate per 3 persone dai capelli mossi p.110
Amuchina per 1 persona nervosa p.113
10 La piramide p.117
Ricette da piramide. Umore: rilassato, costante, disteso p.119
Gatorade per 2 persone atletiche p.119
Riso in bianco per 4 persone ascetiche p.121
Magnesio supremo per 1 persona libera p.124
11 L’icosaedro p.129
Ricette da icosaedro.Umore: malinconico p.131
Cioccolata calda per 1 persona inquieta p.131
Royal Canin per il miglior amico dell’uomo p.133
Vol-au-vent alle tre erbe per 1 persona volitiva p.135
12 Geometria solida p.139
Ricette da geometria solida.
Umore: volubile, mutevole, capriccioso p.142
Linguine al nero di seppia per 2 persone grafomani p.142
Gelato cioccolato e pistacchio per 1 persona decisa p.145
Macarons per 7 persone assennate p.147
Liquore Strega – quasi una postfazione per 1 persona trepidante p.150
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ricette umorali
il bis
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Bisogna trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono, il tutto
messo in prospettiva, in modo che ogni parte di un oggetto, di un piano,
sia diretta verso un punto centrale. […]
Per noi esseri umani, la natura è più in profondità che in superficie.
Paul Cézanne
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01
il prisma
P
risma di tutto la madeleine. Il dolce più famoso della letteratura, presenzialista ubiquo del discorrere sul cibo, sbuca imperterrito a ogni
timido accenno alla diatriba gastronomica: inzuppata, smangiucchiata,
sbriciolata, calpestata, appiccicata per sbaglio sotto il gomito distratto, la
madeleine non perde un colpo di mandibola.
Un po’ barchetta e un po’ conchiglia, ha un’anima antica, un vezzo rococò e una proclamata sofficità -che invece i roccocò con due c, i dolci
napoletani duri come il marmo, placidamente disdegnano.
Sublimata in letteratura dalla mano di Marcel Proust (e ho detto tutto),
possiede un’aura a cui nessun dolce potrà mai aspirare: dal territorio della fisica è approdata a quello della metafisica. Senza tempo e senza spazio, è immortale come l’opera d’arte.
La madeleine non è più, dunque, iscrivibile alla categoria di dolce, ma
rappresenta un morbido archetipo dell’inconscio collettivo.
Insieme a lei, nell’olimpo ultramondano, compaiono il cavallo di Troia,
i trenta denari, il cappello di Dante, la ginestra (o il fiore del deserto) e
via Merulana. Cose o luoghi che non appartengono più alla sfera terrestre: sono finiti dall’altra parte.
Il mio grande dolore, arrivata in Francia, è stato constatare che le madeleine non si vendono abitualmente da Cartier. Certo si stagliano superbe, in composizioni ardite, nelle vetrine di magnifiche pâtisserie che
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nulla invidiano alle gioiellerie; tuttavia si annidano, ahimè, anche nei
supermercati, nei ripiani inferiori degli scaffali, in bustoni di plastica
bianca e fucsia, a volte in offerta a un euro e novantanove. Oh, no. Che
ci fanno i Guermantes lì per terra?
Quando immagino Proust avvolto nella scrittura della Recherche, all’interno della celebre camera ricoperta di sughero, accanto agli effluvi contro l’asma, immagino anche sulla sua scrivania un piattino di finissima porcellana con due piccole madeleine, cibo rifugio che accompagna e incoraggia
la scrittura. Inutile aggiungere che, mentre scrivo, accanto a me ci sono invece un pacchetto di crackers raffermi e le urla del mio vicino di casa ottantenne che prende a pugni il suo orologio a cucù. A ciascuno il suo. Ma
che ci fanno Swann, Albertine e Madame Verdurin da Monoprix?
Il grand tour al supermercato è il primo passo da compiere appena sbarcati in terra straniera, non solo per mere esigenze primordiali, ma per avviare una seria indagine sociologica.
I supermercati sono, infatti, lo specchio di una cultura: dritti alla pancia
rivelano, nella disposizione e nella scelta dei prodotti, il ritmo di vita delle città, la fisionomia, le aspettative e le speranze.
Botanica da marciapiede, flânerie tra gli scaffali, come un’esploratrice, osservo e scovo nuovi ingredienti, mi entusiasmo davanti a certi oggetti, mi interrogo su arditi abbinamenti, mi ammalo al reparto frigo e
guarisco al banco dei formaggi. Che meraviglia!
I sapori di casa saranno sempre i piatti a cui rimanere fedele perché parte costitutiva della nostra identità, tuttavia la comprensione e la scoperta
dell’altro attraverso il cibo, l’assaggio di mondi diversi (con il gusto aggiunto dell’ignoto), nutrono la curiosità che è alla base della conoscenza.
E non è mai tempo perduto.
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ricette da prisma
Umore: leggiadro, allegro, andante con brio.
ostriche
per 4 italiani a Parigi
12 ostriche
3 limoni
pioggia, pioggia, pioggia e Francia
P
rendete le ostriche. Guardatele negli occhi. Confessate a voi stessi che per aprirle
necessitate di uno scalpello, di un cric, di un cavadenti del
vecchio West e di una pinza da officina modello Metropolis di Fritz Lang.
Prendete il telefono e chiamate uno scassinatore di
professione. Aspettate che bussi al citofono e, nel frattempo, meditate su quanti arnesi abbia dovuto brevettare l’umanità nella sua storia per riuscire a farsi un aperitivo. Ringraziate lo Zeitgeist che non sia toccato a voi,
discendenti dell’homo in-habilis, essere uno dei primi
ominidi sulla terra, altrimenti col piffero che avremmo
avuto un apriscatole. Risentitevi pure. Stizzitevi anche
davanti al ritardo del ladro di alta classe – non esistono
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più i mariuoli di una volta - e decidete di andare a mangiare ostriche al ristorante.
Ma cosa accade quando, sotto una pioggia testarda e i
morsi della fame, si finisce nel primo ristorante di Montmartre? È palesemente una sòla. Lo spirito gourmet che
entro mi rugge, strilla. Tuttavia è troppo tardi e spinti dai
camerieri – pessimo indizio sull’individuazione di un
buon ristorante – siamo già tutti e quattro intorno a una
tovaglia a scacchi bianca e rossa, abbiamo il basco in testa,
la maglia a righe e la baguette sotto l’ascella.
Un pianista comincia languido a suonare.
«Per noi ostriche!».
Siete sicuri?
«Tu no?».
Non so. Questo posto non mi convince. Ci siamo solo noi, i poster della Torre Eiffel e quel tavolo di americani con la biondona triste che non mangia nulla sotto le avance del signore panzuto. Non posso non guardarli
di nascosto: sono cresciuta vedendo serie tv degli Stati
Uniti e non appena vedo americani vagamente telegenici devo guardarli. È più forte di me.
«Sarà. Ma per noi sempre ostriche! Tu?».
Oddio, non so. Mi perdo in quest’enigma chiamato
menù e, sotto lo sguardo ansiogeno del cameriere, scelgo
cozze con patatine fritte a dimostrare a me stessa, in uno
sperimentalismo smodato, che a volte so anche stupirmi.
«Che cosa?! Cozze e patatine fritte!?».
Ebbene sì… Basta col fondamentalismo gastronomico.
E voi?
Noi ostriche! Escargot! Escargot… escargot… escargot?
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Ricette da prisma 17
Cala il silenzio. Pronunciata la fatidica parola, qualcosa stride, non combacia, lascia perplessi. Al tavolo accanto, la biondona rifatta piange sul suo dolce mentre il panzuto continua a ordinare portate. Per un momento, tutto si
congela finché gli ostricanti, sbalorditi, si guardano in faccia e urlano: «No! Ma le escargot sono le lumache!».
Panico. Eccole impiattate. Arrivano in tavola. Coi gusci.
Ora voi potete chiamarle con nomi zuccherosi e affascinanti, legarle a storie nebbiose sulla Senna e bla bla bla,
ma io in realtà le conosco bene, so da dove vengono, so
che in realtà si chiamano ciammarruche, a tratti ciammarruchielli
(conosco quel loro nome che già dal suono riporta all’attrito tra il corpo della lumaca e la terra su cui l’animale si
trascina).
So che escono dal regno dell’invisibile dopo le piogge
estive quando indossi il maglione di filo sui vestiti di cotone. E so bene che gli anziani ne sono ghiotti: seduti ai
tavoli delle sagre di paese, cavano il corpo lumacoso con
uno stuzzicadenti oppure, con grande dedizione, succhiano i gusci, uno dopo l’altro, facendo quel tipico rumore
che risuona, come una eco, nei secoli dei secoli amen.
La mia infanzia, d’altra parte, è popolata da queste scene estive di rara inquietudine.
«Assaggiale!».
No, non ce la faccio.
Gli americani si alzano. Iniziano a ballare e sorridono
al pianista. La bionda ha cominciato a parlare ad alta voce
mentre il panzuto, rabbuiato in un angolo del tavolo, conta da solo un fascio di banconote.
«Assaggiale!».
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No. Ho già preso cozze e patatine fritte. Ho una dignità gastronomica da difendere. Mica posso fare tutto io. E
poi le lumache mi fanno venire i brividi, ma allo stesso tempo mi inteneriscono con quel grande amore per la lentezza e quella casa, come una grande valigia, sempre sulle spalle. Forse un po’ mi assomigliano…
«Allora assaggiale, non hai scuse!».
E invece ce l’ho: Cosimo Piovasco di Rondò, meglio
noto come il barone rampate, a dodici anni si rifiuta di
mangiare un piatto di lumache e, in contrasto col padre,
decide di salire su un albero da cui non scenderà mai più.
Non sfidatemi. Sul cibo non scherzo.
bevanda consigliata: Champagne-per-brindare-aun-incontro (tutto attaccato).
†
soupe à l’oignon
per 2 persone con il naso freddo
500 gr di cipolle dorate
50 gr di burro
4 cucchiai d’olio
20 gr di farina
1 litro di brodo di manzo
1 cucchiaio di zucchero
pepe nero q.b.
sale q.b.
1 baguette senza involucro da poggiare ignuda sul nastro
della cassa del supermercato
100 gr di Groviera o Emmenthal grattugiato
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Ricette da prisma 19
M
ondate le cipolle e tagliatele ad anelli sottilissimi. Mettetele in un tegame con
50 gr di burro e 3-4 cucchiai d’olio. Fatele cuocere a fuoco basso per 10 minuti, aggiungete un cucchiaino di zucchero e continuate con la cottura a fuoco moderato in modo tale che le cipolle sudino senza perdere colore. E qui vi
voglio. Sudare per credere. Messo da parte il nome altisonante, questa buonissima soupe à l’oignon altro non è che
la nostra zuppa di cipolle. Ed è superba.
Già. Cipolla in persona, nota lacrimogena, colei che
viene tirata in ballo quando chiedete a qualcuno un consiglio sull’abbigliamento: «Fa caldo all’interno… freddo
fuori… vestiti a cipolla!». Immagino un trench fatto con
quella pellicola rossastra della cipolla. Che orrore.
Ebbene, tale zuppa rientra a tutti gli effetti nell’olimpo delle specialità della gastronomia francese: sbandierata in tutti i ristoranti, esibita nei chioschi all’aperto, incisa nella sacra pietra della lavagna dei bistrot, la tradotta
zuppa di cipolla si erge impettita nella top ten della cucina d’oltralpe. Non fate ora quella faccia di chi trasalisce
davanti all’idea di una pietanza tanto semplice considerata nobile e trattenetevi dall’urlare subito al mondo la solita storia della superiorità della nostra tradizione culinaria. Semplicemente rendetevi conto che, sotto nomi
fighissimi, i francesi convocano in nazionale nient’altro
che una frittata, una crespella, un’ostrica cruda e il fegato grasso di un’oca rimpinzata fino a scoppiare. Suvvia,
non c’è partita. Di che vogliamo parlare? È il marketing,
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bellezza. Basta chiamare il pane e pomodoro con un nome immaginifico ed è fatta.
Baguette… ed è subito sera. L’invidia del pane.
Perché non ci avete pensato?
La soupe à l’oignon mi ha profondamente attratto e
così sono andata su Google per scoprire la sua storia mal
celando una certa e visibile ammirazione nei suoi confronti: una zuppa di cipolla eletta a simbolo della cucina
nazionale è, d’altra parte, allegoria del riscatto sociale, immagine del sogno americano del self-made-onion, nonché personificazione (vestita a cipolla perché non si sa mai
che tempo farà) dei princìpi della Rivoluzione. Ommiodio: la soupe à l’oignon è lo spirito liquido del quarto stato! E invece no.
Una prima lettura del suo curriculum basta a far crollare la mia già pronta apologia della cipolla brodosa. Nel
xvi secolo, è infatti Caterina de’ Medici a portarla dalla
Toscana – thò, tutte le strade portano allo sciovinismo –
a Parigi dove, riveduta e corretta, Soupe diventa presto
pietanza di corte, intingolo aristocratico pronto al parruccone bianco, bustino e neo vicino alle labbra. Ma
mentre immagino la zuppa procedere pallida verso la
ghigliottina, scopro un retroscena sconvolgente sulla nostra eroina: tradizione vuole che la zuppa fosse consumata, nei bistrot della zona dei mercati di Les Halles, dopo le notti di baldoria, all’alba. Ma come?!
Un immaginario ultrasecolare di nottambuli parigini
crolla, in un sol colpo, nel piatto vuoto. Anni di fantasie
sugli artisti per le vie di Parigi finiscono, d’improvviso, inzuppati in una brodaglia. Già li vedo, soli e infelici, dopo
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la zuppa, a trasudare cipolla nelle loro soffitte bohémienne.
Viaggio al termine della soupe à l’oignon. Oh, no!
bevanda consigliata: Bordeaux.
†
carne alla brace
per 10 persone disorientate
un barbecue
una bella giornata
un gruppo di amici famelici
carboni ardenti
ricordi di torture medievali
carne no stop
pane a perdita d’occhio
sale q.b.
L
eggete Le braci di Sándor
Márai. Montate il barbecue. Allestite il set e poi toglietevi
di torno. Non scherzate col fuoco e predisponete il casting
per cercare lui, il protagonista della vostra 48 ore senza
sosta di cottura libera della carne-è-debole.
Sì, proprio lui, personaggio mitologico che si intravede, avvolto nei fumi, come Vulcano, tra i lapilli a forgiare salsicce. Figura nebbiosa e impalpabile, forse un
miraggio, appare come Tritone, tra litri di birra, con il
forcone in mano. Archetipo del rapporto ancestrale tra
l’umanità e il fuoco, eroe della classe operaia, Prometeo
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incatenato alla brace poiché egli (poffare! ho scritto ‘egli’)
non può mai allontanarsi dai fuochi primordiali, ma soprattutto non vuole: il barbecue è la sua missione, la sua
speranza e ostinazione, la fiamma esistenziale da tenere accesa con dedizione e caparbietà, il braciere olimpico, il
torcione che dà inizio al decathlon di spanzate.
a.a.a.: cercasi disperatamente bracista. Soventemente
segno di fuoco, no perditempo, avvezzo ai piaceri della
carne, è al novanta percento individuo di sesso maschile.
Sì ore pasti, animo calmo, niente ansia, padre di famiglia
o padre spirituale, sicuramente abile a montare mobili
Ikea, il bracista è un personaggio che appartiene al mito.
È uno di quelli che, come l’auriga e Giuliano l’Apostata,
si incontrano solo nelle versioni di latino. Inscritto perfettamente nei ritmi armoniosi della natura, va in letargo
in inverno e con i primi caldi appare miracolosamente,
già sudato, con la sua busta di carbonella in mano.
Non è facile essere bracisti. Non ci sono corsi, non valgono raccomandazioni: bisogna avere una vera e propria
vocazione, una pazienza che viene dal centro del pianeta
terra, piedi saldi sul terreno, postura dritta, in alto il diaframma, giù le spalle, sveglia kundalini, fiducia negli
eventi (prima o poi questo spiedino cuocerà) e il sorriso
serafico nel distribuire carne sapientemente grigliata al
popolo bue che, intorno a lui, attende la sorte con la fetta
di pane in mano.
I suoi adepti più fedeli, d’altronde, non lasciano mai
solo questo individuo carismatico e, forchetta alla mano,
seguono passo dopo posso il processo di trasformazione
dal crudo al cotto, ascoltando attentamente le disquisizioni
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sulla necessità o meno di bucherellare la salsiccia per far
fuoriuscire il grasso. Che cola. No, non potete fare uno
di quei master tutto fumo e niente arrosto per diventare
bracisti né seguire pedissequamente tutorial su YouTube:
la brace dovete averla dentro.
Animi ardenti, neroniani, piromani redenti, fuochi di
paglia, fuoco cammina con me, fiamme tricolori, battete
il ferro finché è caldo e mandate un curriculum alla Federbracisti riunita. Fatelo subito! Assecondate la vostra indole e coltivate, parallelamente alla vostra principale
occupazione, un sapere pratico che vi renda felici. Torneremo tutti ai mestieri antichi che nessuno vuole più fare.
Prepariamoci. E sarà forse reale progresso. Dai sarti ai
muratori, dai calzolai ai pastori, dai fornai agli arrotini e
agli ombrellai, c’è un lavoro per ogni tipo di inclinazione
e di carattere, adatto anche a quei temperamenti che, provati dalla vita d’ufficio, preferiscono di gran lunga parlare
con una pianta di pomodoro piuttosto che con i propri
sempreverdi colleghi.
bevanda consigliata: birra ghiacciata (una sola?).