La nozione di pregiudizio per la PA nel delitto di

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La nozione di pregiudizio per la PA nel delitto di
La nozione di pregiudizio per la P.A.
nel delitto di rivelazione di segreti di ufficio
Quesito n. 6
Tizio è un agente di Polizia che presta servizio nell’ambito dell’attività di prevenzione della contraffazione di capi di abbigliamento.
Un giorno, parlando con un suo collega, il poliziotto viene a sapere casualmente
di un’irruzione organizzata per il giorno successivo nel magazzino di Caio, un
suo carissimo amico, dove si sospetta siano custoditi diverse migliaia di giubbini
falsificati.
Tizio, dopo molti tentennamenti, si reca da Caio e, vista la profonda amicizia che
lo lega a quest’ultimo, lo avvisa dell’operazione che sta per essere compiuta a suo
carico.
Caio ringrazia l’amico, facendogli presente che effettivamente egli aveva in magazzino dei capi di abbigliamento falsificati e rivelandogli che avrebbe subito
provveduto a spostarli in un altro luogo.
L’indomani il servizio di polizia non viene però posto in essere e, così, le informazioni date da Tizio e le precauzioni prese da Caio si rivelano del tutto inutili.
All’esito delle indagini in corso su Caio, tuttavia, gli inquirenti accertano anche la
condotta di Tizio, il quale viene a sua volta denunciato all’A.G.
L’uomo, preoccupato delle conseguenze del suo agire, si reca da un avvocato.
Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizio, rediga parere motivato sulla fattispecie in esame.
Svolgimento
La vicenda contenuta nella traccia prospettata richiede la disamina della disposizione di cui all’art. 326 del nostro codice penale.
In particolare, tale norma prevede tre distinte figure di reato.
Commette il primo reato il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comun-
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que abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza (art. 326, 1° comma).
Si rende colpevole del secondo, invece, il pubblico ufficiale o l’incaricato di
un pubblico servizio che per colpa agevola la conoscenza dei segreti suddetti
(art. 326, 2° comma).
Il terzo reato, infine, si concretizza nella condotta del pubblico ufficiale o
dell’incaricato di un pubblico servizio che, per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie di ufficio, le
quali debbano rimanere segrete.
In tale ultima ipotesi (introdotta dall’art. 15 della L. 26-4-1990, n. 86), se il
profitto non è di natura patrimoniale, ovvero lo scopo è di cagionare ad altri un
danno ingiusto, la pena è minore.
Oggetto specifico della tutela penale è l’interesse della P.A. (intesa in senso
lato con riferimento anche alle funzioni legislative e giurisdizionali dello Stato)
al normale svolgimento delle proprie attività (MANZINI), e, quindi, proprio la
P.A. potrà essere l’unica persona offesa dal reato (in tal senso Cass. 9-10-2008,
n. 2675).
In questa ottica, quindi, è stato ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione proposto dal privato danneggiato avverso l’ordinanza di archiviazione del
G.I.P. in ordine al reato (Cass. 14-5-2008, ord. 19307).
Segreto è la notizia destinata, per legge, per ordine dell’Autorità o per sua
natura, a non essere divulgata, mentre è d’ufficio il segreto che riguarda un atto
o un fatto della P.A.
L’elemento materiale del delitto, nella prima ipotesi, consiste nel rivelare, e
cioè portare a conoscenza di persona non autorizzata a riceverla, la notizia
d’ufficio destinata a restare segreta ovvero nel tenere un comportamento, positivo o negativo, che comunque faciliti al non autorizzato la cognizione della
notizia (MANZINI, ANTOLISEI e la giurisprudenza; vedi da ultimo Cass. 5-9-2008,
n. 34717).
Il delitto di rivelazione di segreti di ufficio, peraltro, è integrato anche quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio diffondano una notizia
non appresa per ragioni dell’ufficio o del servizio, bastando che tale notizia
dovesse rimanere segreta e che l’interessato, per le funzioni esercitate, avesse
l’obbligo di impedirne l’ulteriore diffusione.
Così, ad esempio, risponderebbe del reato il funzionario di Polizia che divulgasse notizie concernenti un’indagine della quale non sia partecipe, dopo aver
ricevuto in proposito confidenze dei colleghi operanti (in tal senso Cass. 21-12005, n. 1898).
Il delitto di rivelazione di segreti d’ufficio, inoltre, è configurabile anche
quando il fatto coperto da segreto è già conosciuto in un ambito ristretto di
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persone e la condotta dell’agente ha consentito di diffonderne la conoscenza in
un ambito più ampio e, cioè, tra un numero indeterminato di persone (Cass. VI,
23-1-1998, n. 929).
Nella seconda ipotesi prevista dall’art. 326, la condotta consiste nell’agevolare la conoscenza dei segreti suindicati, mentre nella terza essa si concretizza
nell’avvalersi illegittimamente di notizie d’ufficio destinate a rimanere segrete
per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto patrimoniale.
Avvalersi significa utilizzare, sfruttare la notizia in sé o in riferimento all’utilità che consente di ricavare (così MUCCIARELLI).
La fonte principale del dovere di segretezza per i pubblici impiegati è l’art.
15 del D.P.R. 15 gennaio 1957, n. 3 (Statuto degli impiegati civili dello Stato), che
nel testo modificato dall’art. 28 della L. 7 agosto 1990, n. 241, così detta: «L’impiegato deve mantenere il segreto d’ufficio. Non può trasmettere a chi non ne
abbia diritto informazioni riguardanti provvedimenti od operazioni amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a
causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle
norme sul diritto di accesso. Nell’ambito delle proprie attribuzioni, l’impiegato
preposto ad un ufficio rilascia copie ed estratti di atti e documenti di ufficio nei
casi non vietati dall’ordinamento».
Per quanto attiene, poi, più in particolare, ai documenti della P.A. da considerare «segreti», si veda l’art. 24 della già citata L. 7 agosto 1990, n. 241.
Tra gli atti coperti dal segreto d’ufficio rientra, si ricordi, la deliberazione del
giudice collegiale in camera di consiglio.
Si tratta di un reato di pericolo effettivo, non presunto: è, quindi, punibile solo in
quanto sia idoneo a produrre un danno all’interesse tutelato dalla notizia segreta.
Addirittura, la sostanziale infondatezza delle notizie non esclude la configurabilità del reato di rivelazione di segreti di ufficio, poiché (specie in materia di
notizie coperte dal segreto istruttorio) la rivelazione è penalmente irrilevante
solo se si tratti di informazioni già di pubblico dominio, o platealmente false, o
prive di significato, e non già di fatti che si rivelino inconferenti o privi di fondamento solo dopo la valutazione che ne faccia il magistrato e alla luce di altre
acquisizioni da lui promosse (Cass. 20-1-1992, n. 3986).
In applicazione dello stesso principio, ad esempio, è stato ritenuto che la
diffusione alla stampa ad opera di un ufficiale di P.G. del contenuto di un provvedimento di sequestro relativo a beni dell’indagato non integra il reato di rivelazione di segreto d’ufficio, perché il sequestro, una volta eseguito, non è più
coperto dal segreto, fatta salva l’ipotesi di segregazione prevista dall’art. 329,
comma terzo, c.p.p. (Cass. VI, 19-6-2008, n. 25167).
Sul punto è il caso di segnalare un’altra pronuncia molto esaustiva della Suprema Corte, in cui è stato affermato espressamente che il reato de quo impor-
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ta (per la sua configurabilità sotto il profilo materiale) che sia portata a conoscenza di una persona non autorizzata una notizia destinata a rimanere segreta,
e si configura come un reato di pericolo, nel senso che sussiste sempre che
dalla rivelazione del segreto possa derivare una danno alla pubblica amministrazione o a un terzo.
Ribadendo tale assunto, è stato ravvisato il delitto di cui all’art. 326 nell’anticipata comunicazione ai candidati della traccia del tema oggetto della prova di
esame in un pubblico concorso, anche se la coincidenza tra il numero dei posti
messi a concorso e quello dei candidati abbia comportato per ciascuno di essi
la preventiva cognizione dell’argomento da trattare, proprio perché, in questa
ipotesi, a prescindere dal danno effettivo, si verifica, in ogni caso, una lesione
del bene giuridico protetto dalla norma (Cass. 11-6-2008, n. 39153).
Va sottolineato, poi, come la Cassazione abbia esplicitamente affermato che
il contenuto dell’obbligo, la cui violazione è sanzionata dall’art. 326 c.p., non è
limitato soltanto alle informazioni sottratte alla divulgazione in ogni tempo e
nei confronti di chiunque, ma si estende anche alle informazioni per le quali la
diffusione, pur prevista in un momento successivo, sia vietata dalle norme sul
diritto di accesso, perché effettuata nei confronti di soggetti non titolari del
diritto o senza il rispetto delle modalità previste (Cass. 24-7-2007, n. 30148).
Il reato, invece, non sussiste, non solo nella generale ipotesi della notizia
divenuta di dominio pubblico, ma anche nel caso in cui, trattandosi di notizie
di ufficio ancora segrete, le stesse siano rivelate a persone autorizzate a riceverle e cioè che debbono necessariamente esserne informate per la realizzazione
dei fini istituzionali connessi al segreto di cui si tratta, ovvero a persone che,
ancorché estranee ai meccanismi istituzionali pubblici, le abbiano già conosciute, fermo restando per tali ultime persone il limite della non conoscibilità dell’evoluzione della notizia oltre i termini dell’apporto da esse fornito (Cass., SS.UU.
7-2-2012, n. 4694).
Nella ipotesi relativa all’agevolazione colposa, invece, la conoscenza del segreto da parte del non autorizzato avviene a seguito di negligenza del p.u., come
nel caso in cui lo stesso lasci incustodito un importante documento riservato
(così ANTOLISEI).
Si noti, infine, che la dizione usata dalla nuova ipotesi prevista dall’art. 326,
3° comma, e cioè avvalersi illegittimamente di notizie di ufficio che debbano
restare segrete, è estremamente ampia, in quanto l’avvalersi implica l’utilizzare
in qualsiasi modo le notizie segrete.
Esaminiamo adesso la problematica relativa al rapporto tra le fattispecie previste nel primo e nel terzo comma della disposizione in esame.
La giurisprudenza di legittimità, affrontando il rapporto tra le due figure, ha
chiarito che la rivelazione da parte del pubblico ufficiale di un segreto di ufficio
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integra il reato previsto dal primo comma dell’art. 326 anche laddove sia fatta per
finalità patrimoniali, mentre ricorre la diversa fattispecie prevista dal terzo comma
dello stesso articolo quando il pubblico ufficiale sfrutti (per profitto patrimoniale
o non) il contenuto economico e morale, in sé, delle informazioni segrete.
Ne consegue che tale ultima fattispecie, non comportando necessariamente
la rivelazione ad estranei del segreto, può eventualmente concorrere con quella prevista dal primo comma (Cass. 11-10-2007, n. 37559).
Ancora chiamata a pronunciarsi sul punto, la Suprema Corte ha asserito che,
per la configurabilità del reato di cui al comma terzo, occorre che l’utilizzazione
illegittima della notizia si concreti in un’azione diversa dalla mera trasmissione
di essa ad estranei all’ufficio ovvero in una condotta di suo autonomo e diretto
sfruttamento o impiego da parte dell’«intraneus», pubblico ufficiale o incaricato
di pubblico servizio (Cass. 25-10-2007, n. 39514).
Il delitto si consuma nel momento in cui chi non è autorizzato viene a conoscenza del segreto.
Il tentativo è ammissibile.
Nell’ipotesi prevista dal primo comma della disposizione in esame, il dolo è
generico e consiste nella coscienza e volontà del fatto materiale con la consapevolezza che la notizia deve restare segreta.
Per l’ipotesi colposa, contemplata nel comma 2, valgono i concetti generali
di colpa.
Nell’ipotesi (dolosa) prevista dal terzo comma, infine, il dolo è specifico, in
quanto il soggetto deve agire con la precisa intenzione di procurare a sé o ad
altri un ingiusto profitto non patrimoniale.
Il delitto in esame, nell’ipotesi della rivelazione, è, come osserva la giurisprudenza, un reato plurisoggettivo a forma anomala: esso, infatti, presuppone che
il fatto sia commesso almeno da due persone (il p.u. o l’incaricato del pubblico
servizio che rivela la notizia e colui al quale è rivelata) ma ne punisce una sola,
non prevedendo l’incriminazione di colui il quale riceve la notizia.
Peraltro, se il ricevente abbia istigato o determinato il funzionario a fare la
rivelazione, egli risponde del reato medesimo come compartecipe, in applicazione dei principi generali sul concorso di persone nel reato (ANTOLISEI, PAGLIARO e MINGHELLI per la dottrina nonché la giurisprudenza assolutamente
prevalente: vedi ad esempio, Cass., sent.15489 del 1-4-2004).
Nel senso, invece, che l’estraneo non è mai punibile si è espresso PANNAIN,
mentre per la sua punibilità in ogni caso è MANZINI.
Alla luce degli insegnamenti di cui sopra, si può adesso procedere ad una
corretta definizione giuridica della condotta posta in essere da Tizio.
Nessun dubbio, in verità, può sussistere in ordine al dovere di segretezza che
incombeva sull’uomo, che era venuto a conoscenza dell’organizzazione dell’ope-
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razione riguardante Caio in ragione del proprio ufficio (seppur casualmente),
durante un colloquio con un suo collega.
La reale problematica sottesa al caso in esame, però, va individuata nella
lesività della condotta di Tizio rispetto al bene giuridico tutelato dall’art. 326.
Sul punto va subito ribadito che, per configurare il delitto di cui all’art. 326 c.p.,
non è necessario che si verifichi un danno effettivo per la P.A., ma è sufficiente che
la divulgazione sia anche solo potenzialmente idonea a produrre il nocumento.
Ed allora, per fornire una risposta esatta al quesito posto, è evidente che si
dovrà procedere ad una indagine di merito volta a valutare proprio questo profilo, tramite una disamina degli elementi concreti del fatto.
Ebbene, in tale ottica, non si potrà fare a meno di prendere atto della circostanza che Tizio, avvisando Caio dell’incombenza di un’irruzione nel suo magazzino volta a ricercare prodotti contraffatti, abbia sicuramente posto in essere
una condotta che, almeno potenzialmente, era dotata di una notevole attitudine
lesiva nei confronti della P.A.
Inoltre, la circostanza che l’operazione non sia stata in seguito posta in essere non ha alcuna rilevanza, visto che, come affermato più volte dalla Suprema
Corte, la configurabilità del reato può essere esclusa soltanto quando la rivelazione abbia ad oggetto informazioni che siano assolutamente prive di significato oppure di pubblico dominio (Cass. 14-10-2008, n. 42689; Cass. 15-9-2010, n.
33609 e da ultimo Cass. SS.UU. 7-2-2012, n. 4694).
In altri termini, la condotta di Tizio, pur non causando un danno effettivo
(visto che l’irruzione non ha avuto luogo e le indagini non sono state sviate),
ha certamente causato un pericolo alla P.A. e, pertanto, ha integrato il reato di
cui all’art. 326 del codice penale.
Il medesimo discorso, peraltro, può essere fatto in merito alla configurabilità,
a carico dell’uomo, anche del reato di favoreggiamento.
Ed infatti, anche la norma di cui all’art. 378, che sanziona chiunque aiuti qualcuno ad eludere le investigazioni dell’Autorità o a sottrarsi alle ricerche di questa,
prevede un reato di pericolo (vedi ex multis, Cass., sent. 1314 del 14-1-2003), e,
quindi, anche nel valutare l’applicabilità di questa disposizione a nulla rileverà
la mancanza di un danno o di un pregiudizio effettivo, ma si dovrà valutare
l’attitudine potenziale della condotta a mettere in pericolo il bene giuridico tutelato: ed anche in questo caso si dovrà prendere atto della sussistenza del delitto.
Nessun dubbio, infine, si potrà nutrire in merito alla possibilità di concorso
delle due norme, visto che le stesse, oltre ad essere caratterizzate dalla diversità
del bene giuridico sottoposto a tutela (e cioè, rispettivamente, la P.A. e l’amministrazione della giustizia), differiscono anche per le condotte, in quanto quella
prevista dall’art. 378 è a forma libera, comprendendo qualsivoglia comportamento finalizzato a consentire all’autore di un reato di eludere le investigazioni
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dell’autorità o di sottrarsi alle ricerche di questa, mentre quella prevista dall’art.
326 si caratterizza per la rivelazione, da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, di notizie di ufficio che devono rimanere segrete, e
dall’effettività della conoscenza da parte dell’extraneus dell’atto protetto.
Ne consegue che, pur potendo la condotta del reato di favoreggiamento
comprendere anche quella di rivelazione di segreto di ufficio, quest’ultima figura criminosa conserva, agli effetti del concorso formale di reati, la propria autonomia, sicché deve escludersi l’assorbimento per specialità di tale reato in
quello di favoreggiamento (vedi da ultimo Cass., sent. 37797 del 25-10-2010).
Concludendo, quindi, si dovrà ritenere Tizio colpevole dei reati di favoreggiamento e rivelazione di segreti d’ufficio.
Riferimenti normativi e giurisprudenziali
(V. amplius Simone, Codice Penale Commentato - C3, ed. 2013)
• art. 326 c.p.: Soggetti e natura del reato; Elemento oggettivo; Elemento soggettivo; Scriminanti; Concorso di reati; Fattispecie applicative
• art. 378 c.p.: Natura; Elemento oggettivo; Elemento soggettivo; Tentativo e
consumazione; Concorso di reati; Rapporti con altri reati