L`autobiografia come purificazione - Biblioteca Provinciale di Foggia

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L`autobiografia come purificazione - Biblioteca Provinciale di Foggia
Raffele Giglio
L’autobiografia come purificazione
di Raffaele Giglio
L’Epistola a Cangrande della Scala, al di là dei problemi inerenti alla sua autenticità totale o parziale, è un supporto di non lieve entità per intraprendere la
lettura della Commedia.
La trattazione sull’allegoria, che nel Convivio aveva già trovato una sua spiegazione generale, offre, ristretta qui all’interpretazione della Commedia, una chiave necessaria per cercare di comprendere il significato ed il valore escatologico che
l’autore ha affidato all’opera.
Et ideo videndum est de subiecto huius operis, prout ad litteram accipitur;
deinde de subiecto, prout allegorice sententiatur. Est ergo subiectum totius
operis, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem simpliciter
sumptus; nam de illo et circa illum totius operis versatur processus. Si vero
accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo
per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est.1
Se la Commedia è l’opera profetica del Trecento, e se il suo autore, come egli
stesso si definisce, è lo “scriba Dei”, “lo scrivano di Dio”; e se nel suo contenuto
l’autore, il poeta, ha voluto rappresentare lo stato delle anime dopo la morte, perché‚ quanti credessero nel suo viaggio potessero “vedere”, ma direi anche “sentire”,
il castigo o il premio, in rapporto al loro comportamento terreno, il personaggioautore, che è poi anche un uomo di quel tempo, al quale è stato proposto il viaggio,
deve, prima degli altri, iniziare quella catarsi interiore, che le scene dell’aldilà, come
in una grande rappresentazione teatrale, propongono al suo spirito.
Dante, però, è in vantaggio rispetto ai suoi lettori; una sua predisposizione
interiore e la sua formazione culturale, ovvero quel suo quotidiano interrogarsi
sulle vicende e sul comportamento dell’uomo in rapporto alla Fede cristiana, all’amore del/per il Creatore, il suo personale rapporto con la Chiesa ed i suoi mini1
“Visto ciò, è chiaro che occorre che duplice sia il soggetto, intorno al quale s’alternino i due sensi. E perciò
si deve vedere riguardo al soggetto di quest’opera, secondo che si prende alla lettera; quindi, secondo che
s’interpreta allegoricamente. Il soggetto di tutta l’opera dunque, presa solo letteralmente, è lo stato delle
anime dopo la morte inteso genericamente; infatti su esso e intorno a esso si svolge il procedimento di tutta
l’opera. Se poi l’opera si prende allegoricamente, il soggetto è l’uomo secondo che meritando o demeritando
per la libertà d’arbitrio è soggetto alla giustizia del premio e del castigo”.
Testo e traduzione sono tratti da Dante ALIGHIERI, Opere minori, a cura di Alberto Del Monte, Milano,
Rizzoli, 1960, pp. 799-800.
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stri, già gli hanno consentito quel viaggio purificatore nel mondo dell’aldilà, che
egli ora, nel raccontarlo, mette a disposizione di quanti vogliono credere alle sue
parole. Nella parte centrale del Paradiso, Dante affida al trisavolo Cacciaguida di
esplicitare il valore della sua opera, che, accanto alle rare e vere profezie di ispirazione biblica, annovera di continuo scene e discorsi che mirano ad ammonire il
lettore, perché riesca a “digerire” il contenuto, perché possa anch’egli correggersi,
rendere il suo comportamento idoneo a compiere il viaggio verso il divino:
“Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua vision fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna.
Che‚ se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.
Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,
che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,
né per altro argomento che non paia”.
(Par, XVII, vv. 127-142)
In queste terzine Dante racchiude il significato del suo viaggio, il valore che
egli affida alla sua opera; al tempo stesso questi versi giustificano certe costruzioni
dantesche, le scelte delle figure, nel bene e nel male, da proporre come exempla al
lettore. Il ricorso, quindi, alle “anime che son di fama note”, rientra in questa strategia strutturale di proporre come rappresentanti delle varie forme di peccato e di
premio delle anime che avevano già lasciato di sé‚ un ricordo nella vita terrena. La
diversa appartenenza di esse al mondo greco-latino, al mondo biblico, o al periodo
medievale, ma ancor di più al periodo contemporaneo, conferma la validità di una
giustizia divina che esula dai parametri cronologici per porsi come eterna.
La scelta, dunque, dei personaggi, che affollano le scene dell’aldilà, non è
dettata solo dal personale rapporto che essi hanno avuto col poeta; in tal caso sarebbe stata una scelta nel suo complesso piuttosto riduttiva. Accanto agli amici, ai
maestri, ai parenti agiscono personaggi storici noti e sconosciuti alle nostre odierne
indagini storiche. C’è, tuttavia, da parte dell’autore il ricorso, talora, ad un preciso
codice, che lo guida nella scelta delle anime da sottoporre all’attenzione del lettore.
Dal momento che l’opera è la trascrizione, quasi come il libello giovanile della Vita
nuova, dalla rubrica della memoria di un viaggio, ovvero di un percorso che l’anima
del poeta aveva già effettuato, è necessario che il personaggio Dante mostri al letto36
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re le linee di quel personale e vincente viaggio, che gli ha concesso di superare tutti
gli ostacoli e giungere alla visione dell’Assoluto. Di conseguenza la narrazione è
anche la storia dell’anima di Dante, che si purga dei propri peccati nel momento in
cui narra la vicenda umana dello spirito che incontra e che dà vita ad ogni singola
scena, dall’Inferno al Paradiso.
Prima di Flaubert, ma in analogia allo scrittore francese, Dante avrebbe potuto affermare, come tra i versi pur ci dice, che molti dei suoi personaggi sono la sua
stessa coscienza, ovvero che molte delle colpe che essi confessano sono le medesime dell’uomo Dante, che da quel peccato in parte era stato “toccato”, riuscendo
poi a sfuggirlo nella sua attuazione. La confessione, dunque, non è solo dello spirito che incontra, ma anche del personaggio Dante. Di qui nasce, a mio giudizio,
anche quella umana partecipazione del poeta alla sofferenza di alcuni personaggi,
direi l’accettazione del loro atto, la comprensione, ma non la giustificazione di un
gesto, che anch’egli avrebbe potuto compiere, perdendo, in tal modo, la speranza di
riuscire a vedere l’Assoluto.
Con questo parametro interpretativo si possono leggere alcune figure della
Commedia e cogliere una parte del loro “peccato”, che ora confessano all’umanità,
parte della coscienza dell’autore, che diviene per questa via anche personaggio dell’opera. Se da un lato l’autore deve proporre exempla validi perché l’umanità possa
attraverso di essi purificarsi, dall’altro lato offre parte di se stesso perché il racconto
acquisti in veridicità e non abbia solo quel carattere di “predicazione ammonitrice”
(Ricci Battaglia), come potrebbe sembrare a qualche lettore. Dante vuole offrire
all’umanità non il racconto, l’invenzione poetica, che pure sorregge la narrazione,
ma un’esperienza vissuta personalmente ed accettata ab initio con tutte le più umane perplessità, cadute di fronte a quel dono trascendentale, che l’uomo, in virtù del
suo libero arbitrio, può chiedere ed accettare.
A questa esposizione, al racconto dello stato delle anime dopo la morte Dante affida tutto il proprio sapere, la propria dottrina spirituale, la cognizione poetica
e retorica, rivestendola di una lingua che abbia il privilegio di comunicare il messaggio anche alle “muliercule”, alle donnette, connotandola di una musicalità che possa egualmente conquistare l’animo di tutti. L’universalità del messaggio ha, dunque, una veste, una voce, che tutti possono comprendere, anche nel futuro, come il
vero atto profetico impone. In tal modo viene rafforzata ancora una volta l’utilità
dell’opera e del suo messaggio, che nasce, come la lingua che lo diffonde, dalla secreta
coscienza dell’autore, che ora si “squaderna” per il bene di tutta l’umanità.
La biografia dantesca presenta due ben marcate attività, che costituirono l’essenza del suo essere uomo, che diedero vita alla sua presenza attiva tra la società del
tempo, e che furono causa dell’esilio, della perdita dei beni e della privazione delle
gioie familiari: l’impegno intellettuale e politico.
Dante è, come già è stato ampiamente affermato in passato, l’intellettuale
politico del Trecento, ovvero l’uomo che sposa la propria cultura con un impegno
politico, la cui idea nasce dalla medesima cultura che lo sorregge e lo rivitalizza
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giorno dopo giorno; pertanto, di questo impegno politico Dante modifica l’idea e
l’attuazione man mano che l’accrescimento culturale lo conduce a nuove acquisizioni
e gli indica nuove possibilità di applicazione di un credo politico, ricavato dalla
scienza del passato e validamente sostenuto dalla teologia e dalla filosofia. La coerenza, che nasce dalla “fede” nella propria cultura e che è sorretta dall’altra Fede,
quella in Dio, guida l’uomo Dante nel suo impegno civile. In rapporto alle consuetudini del tempo Dante è “magister” nel significato più ampio del termine. La cultura che possiede è offerta alla comunità intera nella quale vive, ma già è proiettata,
per la strategia strutturale e linguistica che sceglie, verso le generazioni future. Il
suo magistero ha la stessa fluidità ed eternità delle opere dalle quali ha ricavato il
frutto migliore, sintetizzato ed irrobustito attraverso nuove acquisizioni filosofiche e teologiche, confortato dalla convinzione di essere uno strumento nelle mani
di Dio, che parla all’umanità attraverso la sua opera. La scelta più immediata per
dare voce ed attuazione a questa idea non era solo ristretta alla “scrittura” di essa,
ma veniva relegata soprattutto all’impegno politico, nel quale l’uomo Dante poteva
riversare tutta la forza del proprio pensiero. L’attività veniva, dunque, a coniugare
l’esigenza prettamente culturale con quella politica, producendo una figura di intellettuale sulla quale si sono confrontate non poche generazioni. In essa, come poi
attesta la Commedia, l’opera che ne rappresenta la summa del pensiero, vi è endiadi
di cultura e politica, di dottrina e poesia, è attuazione dell’uomo, è quotidiana testimonianza della missione alla quale si ritiene essere chiamato.
La Commedia, pertanto, pur tra i suoi molteplici codici interpretativi, come
il contenuto suggerisce ad ogni lettore, è non solo l’autobiografia del Dante teologo
e filosofo, poeta e politico, ma è anche l’autobiografia dell’autore, che nell’opera ha
espresso parte della vicenda umana che ha caratterizzato il suo percorso di uomo di
fede, di intellettuale, di politico.2 La tensione alla “nuova” lingua, il processo spirituale del pellegrino di fede, la testimonianza di un’idea politica, il contrasto con
esponenti della religiosità cristiana del Trecento costituiscono gli elementi di un’autobiografia, che nella poesia della Commedia ha una sua peculiare espressione, relegata com’è tra le pieghe di discorsi o tra quel connubio, che pur esiste, tra il protagonista e gli altri personaggi dell’opera, distribuita dalla mente dell’autore con una
diversa e graduata musicalità poetica, che accompagna la creazione del grande palcoscenico dell’aldilà sul quale è rappresentato il divenire dell’anima umana. Nel
confronto di anime, nella costruzione della loro vicenda terrena si dipana anche la
coscienza dell’autore, con tutte le sue implicazioni culturali e politiche.
Questa presenza dell’autobiografia, indagata qui come forma di espiazione
del proprio sentire, direi del proprio peccato, attraversa tutta l’opera, testimoniando, in tal modo, anche la sua origine, che nasce dall’esperienza e dalla maturazione
dello spirito di Dante: dal peccato infernale all’espiazione purgatoriale, alla gioia
radiosa del paradiso, culminante nella visione dell’Assoluto.
2
Gianfranco CONTINI, Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino, Einaudi, 1976.
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L’esemplificazione è qui ristretta ad un breve, ma direi significativo campionario, che consente anche di verificare come l’autore avesse sperimentato in proprio quanto ora propone ai suoi lettori, a quanti vogliono ripetere il percorso ch’egli
ha già compiuto.
I personaggi che propongo all’attenzione sono quelli “noti” e quelli che il
poeta scelse perché meglio potessero esemplificare, ammonire i vivi sullo stato successivo della loro anima in rapporto alla vita terrena. Ancora una volta il poeta
opera una scelta in funzione della sua missione profetica, alla quale conferisce un
crisma di realtà attraverso l’utilizzazione di figure, che assolvano al duplice compito di rappresentare una categoria di anime note nel mondo dei vivi e di consentire
all’autore di compiere un’ulteriore “confessione” del proprio peccato, quasi come
purificazione interiore, come ho già chiarito in precedenza. Ovviamente il riscontro è più facilmente captabile in quelle figure che per la loro attività terrena hanno
avuto rapporto con Dante o che hanno svolto un’attività (politica, letteraria), che
ha avuto non poche consonanze con la vicenda biografica dell’autore. L’anima che
incontra è talora lo specchio del poeta; in essa riflette parte della propria coscienza,
alla ricerca di peccati o di residui di essi, che ora la poesia, con la sua grande capacità
escatologica, aiuta a “cancellare”, a purgare interamente.
Le tre fiere, che Dante ha incontrato nella selva, rappresentano essenzialmente le tre disposizioni dell’uomo, e quindi dell’umanità intera, al peccato, ovvero le manifestazioni più gravi che impediscono di potere svolgere il viaggio verso
l’Assoluto. La lussuria, la superbia e la cupidigia (con la correlata avarizia) sono
anche le tre forme di peccato che l’uomo Dante ha dovuto evitare o di cui ha dovuto purgarsi per poter giungere al Paradiso. Le tre disposizioni in parte sono esposte
ed indagate in rapporto alla duplice caratterizzazione dell’attività dantesca: politica
ed intellettuale. La scelta dell’una o dell’altra non risulta mai un’imposizione esterna alla creazione del personaggio, ma è essa stessa che lo “informa” in quell’apparente distacco narrativo, che la struttura dell’opera richiede, mentre la poesia suggella la tensione affettiva, che ha guidato la mente e la mano del poeta nella creazione del personaggio, nella partitura del discorso, nella scelta dell’aggettivazione.
L’autobiografia, intesa come purificazione, va pertanto estrapolata dalla caratterizzazione di alcuni personaggi, rilevata dai colloqui che il personaggio Dante
ha con essi; in tal modo si ha la possibilità di inseguire anche i riposti pensieri, le
interne sofferenze, le tensioni al peccato che costellarono la vita e l’esilio del poeta.
Il canto X dell’Inferno presenta, appena entrati nella città di Dite, un gruppo
di eretici; tra questi vi sono i seguaci di Epicuro, ovvero quanti ritenevano che l’anima morisse col corpo. I due personaggi, che danno vita al canto, Farinata degli
Uberti e Cavalcante dei Cavalcanti, sono emblematici per ricostruire il rapporto
del personaggio Dante con la superbia, sia quella politica che quella intellettuale.
L’attacco, ormai famoso e noto anche alle moderne “donnicciuole”, con cui
Dante presenta l’esponente politico, che maggiormente funestò la vita fiorentina
con la sua accesa faziosità, c’inserisce subito nella vita toscana del tempo, caratte39
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rizzata, come avverte la poesia, dall’onestà di una lingua:
“O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco:
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio.
a la qual forse fui troppo molesto”.
(Inf., X, vv. 22-27)
I parametri geografici e culturali anticipano la scena terrena, che fra poco il
poeta costruirà per dare vita ad uno spaccato che scopre al lettore sia le due caratteristiche dell’ingegno dantesco, dimidiato tra impegno civile, politico ed attività culturale, sia le due componenti di un mondo terreno nel quale il poeta si riconosce
come potenziale peccatore. La scena, costruita attorno alle due figure di Farinata e
di Cavalcante dei Cavalcanti, che testimoniano nel loro discorso rispettivamente la
vita politica ed intellettuale di Firenze, offre al lettore la catarsi interiore del personaggio Dante. Il superbo politico, Farinata, ed il superbo intellettuale, Cavalcante
dei Cavalcanti, sono gli «strumenti» idonei a far comprendere a Dante, politico ed
intellettuale, come alcune forme di attività politiche ed intellettuali siano espressioni di peccato quando esse non hanno il privilegio di essere inverate dalla Fede. L’acrimonia politica, la lotta intestina, che distrugge l’armonia cittadina, nonché‚ l’eccessiva fiducia nell’intelligenza umana sono elementi di grave impedimento al cammino che l’uomo deve compiere dall’umano al divino. Farinata e Cavalcante sono
parte di Dante; il poeta ora qui, nel riproporre al lettore il loro stato infernale e
soprattutto il racconto delle loro vicende terrene, si purifica; nel racconto poetico
c’è la confessione dell’autore, c’è l’abbandono, la catarsi di forme politiche ed intellettuali nelle quali Dante si riconosce e che ora considera erronee.
Sul panorama della “città del foco” Dante ricostruisce una parte di Firenze,
dei momenti di vita cittadina terrena. Il primo personaggio ad animare la scena è
Farinata, che nella sua connotazione fisica, che tanto cara fu al de Sanctis, per tracciarne il ritratto del politico risorgimentale, attesta come la superbia abbia contraddistinto la vita dell’uomo politico. Il suo aspetto, descritto da Dante con particolare
cura e con un crescendo che ne aumenta la sua caratterizzazione, testimonia anche
la descrizione orale che Dante aveva sentito del personaggio storico: è “dritto” nell’arca infuocata ed è visibile dalla “cintola in sù”, mentre l’aspetto del petto e della
fronte attestano il suo disprezzo per il mondo infernale che lo circonda; ma è anche
“sdegnoso” nel porre le domande al viandante, e manifesta la sua altezzosità nei
confronti di chi appartiene alla parte avversa levando “le ciglia un poco in suso”.
Per Dante incontrare un tale uomo politico è gioia somma. Il poeta non aveva conosciuto di persona Farinata, che era morto un anno prima della sua nascita. Le
cronache del tempo favellavano del suo fiero impegno politico, della partecipazione alla crudele battaglia di Montaperti del 1260 (quella che “fece l’Arbia colorata in
rosso”), del suo coraggio a difendere Firenze dalla distruzione votata dagli altri
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capi ghibellini. Ma Dante aveva diciotto anni quando l’uomo politico fu condannato postumo per eresia e le sue ossa riesumate dalla chiesa di Santa Reparata dove
erano state sepolte. Di qui il verso “Io avea già il mio viso nel suo fitto”, che traduce
il grande desiderio del poeta di conoscere finalmente l’uomo politico così famoso e
di «figgere» i suoi occhi nel suo volto, con quel desiderio di entrare dentro di lui, di
captarne tutte le fattezze, di vederlo sempre meglio. La fictio poetica tradisce l’interessamento del politico Dante per una figura storica ancora nota ai suoi tempi. La
presentazione del personaggio rispecchia anche la volontà del poeta di conferire al
politico quel dovuto rispetto che meritava la sua figura, perché più efficacia catartica avrebbe potuto acquistare il prosieguo della rappresentazione. Nella costruzione di Farinata il poeta rispecchia tutta la realtà storica; ne esce un personaggio vivo
e palpitante ancora delle tensioni terrene delle quali rappresenta tutti i momenti,
quelli gloriosi e quelli tristi. La tecnica del rinfaccio, che si svolge all’insegna delle
fazioni politiche, riporta il lettore all’interno di una lotta fratricida che distrusse
l’ordine sociale e civile di Firenze. Il rinfaccio dantesco resiste a quello di Farinata,
restituendo colpo su colpo. Due diversi ed opposti politici si confrontano, ma sono
anche due diverse tensioni familiari che si ritrovano accomunate nella pena dell’esilio.
La costruzione del canto, con l’inserimento improvviso di una diversa figura, ma soggetta alla medesima pena per analogo peccato, accentua il valore che il
poeta ha voluto conferire a questi due personaggi nel disegno escatologico dell’opera.
Anche Cavalcante dei Cavalcanti appartiene alla categoria dei “magnanimi”,
come suggerisce l’espressione “quell’altro magnanimo” del verso 73; siamo dunque
di fronte ad un altro superbo, che ha una dimensione poetica più umana come
rispecchia la sua stessa presentazione sulla scena. Rispetto all’altezzosità del politico, l’intellettuale Cavalcante dei Cavalcanti appare sulla scena già con quelle
connotazioni fisiche che contribuiscono a differenziarlo da Farinata. La figura mostra
una carica di affetto, una maggiore partecipazione alla vita terrena dei propri cari.
Già nella prima descrizione della sua figura Dante registra la distanza che separa i
due dannati; Cavalcante assume nel corso del colloquio tre diverse posizioni; e tutte in rapporto a tre diversi momenti corrispondenti a tre stati d’animo che tradiscono l’affetto paterno, ma anche la sapiente volontà del poeta di parlare indirettamente del suo amico più caro, di Guido Cavalcanti, senza tuttavia condannarlo o premiarlo, ponendolo al di fuori della triplice ripartizione delle anime. Già questa presentazione improvvisa sulla scena, “in ginocchie”, traduce un immediato affetto
paterno, desideroso di vedere in quel “cieco carcere” il proprio figliolo in compagnia dell’amico del quale deve aver riconosciuto la voce. Ed ora è il Dante intellettuale che si confessa attraverso il magnanimo Cavalcante dei Cavalcanti, che ritiene
l’altezza d’ingegno l’elemento che può consentire il viaggio nell’aldilà. Il valore
dell’intelletto viene ad assumere per Cavalcante un ruolo di ineguagliabile potere,
se in virtù di esso attende di vedere il proprio figliolo, che per intellettualità ed
espressione poetica e filosofica non fu di meno a Dante. Il “parlare onesto” del
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poeta, evidenziato da Farinata, ha richiamato alla mente ed al cuore di Cavalcante,
specie dopo aver intuito chi fosse l’inusitato visitatore, momenti terreni, aggregati
attorno ad una nuova poesia di cui il figlio fu l’iniziatore in Firenze e colui che la
condusse alle più elevate glorie letterarie. È pertanto naturale e gravido di intensissimo affetto paterno quel rapido alzarsi in ginocchio per vedere il proprio figliolo
attraversare il “cieco carcere” in virtù della propria “altezza d’ingegno”. Al rapido
“sospecciar”, che spegne in lui l’ardente desiderio, segue l’altrettanto affannosa ricerca di conoscere le motivazioni di quell’assenza, espresse in due calzanti e brevi
interrogative rotte dal pianto.
La risposta di Dante è immediata ed è resa prima che il poeta presentasse la
nuova “ombra”; ma nelle domande e nella pena Dante, come dirà poi, ha ritrovato
gli elementi per poter definire l’interlocutore. Alla risposta il poeta affida le ragioni
della sua solitaria presenza in quei luoghi, ma conferma anche la sua credenza nella
teologia cristiana, offrendo un ritratto di Guido aperto a qualsiasi soluzione
escatologica. L’affetto e la teologia contribuiscono a creare un’atmosfera di intenso
pathos ed insieme caricano la scena ed i versi di un inusitato valore escatologico. La
terzina
“Da me stesso non vegno;
colui ch’attende l… per qui mi mena,
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”
(vv. 61-63)
esprime non pochi concetti ed affettività nella sua stringata concisione, che il parametro storico rende ancora più suggestivi. Dante scrisse questo canto intorno al
1306, mentre l’azione del viaggio e la visita a questi dannati è collocata nella primavera del 1300, quando Guido, “il primo de li suoi amici”, è ancora vivo. Morirà di lì
a poco, nell’agosto del 1300, a causa dell’infezione contratta a Sarzana, dove era
stato confinato con l’assenso anche del poeta, che era uno dei priori dai quali fu
presa tale decisione. La finzione poetica, quindi, già riveste l’episodio di una luce
carica di affetto e di umanità. L’espediente, poi, di ricordare qui l’amico attraverso
le parole del padre, cui fu legato probabilmente anche dalla stessa fede eretica, è un
ulteriore strumento per suggerire un aspetto dell’amico, che molto dispiaceva a
Dante per la divergenza spirituale ch’esso provocò. Al tempo stesso, collocato in
questo canto, dove il discorso escatologico e moralizzante del poeta è espresso con
note di stilnovistica discrezione, il ricordo di Guido, a fronte di quanto significherà
il prosieguo dell’episodio di Farinata, si pone come una sorta di riparazione per
quella sentenza al confino, che pesa sulla coscienza del poeta e che riemerge ora con
i pensieri, che la visione della superbia politica punita suscita nel viator espiante. Ed
in un’ipotesi extra-poetica il riferimento, nell’episodio, a Guido Cavalcanti può
anche essergli servito come anticipazione del prossimo vaticinio dell’esilio ed il conseguente problema del rapporto esilio-figli.
La terzina esprime un significato di elevatissimo senso cristiano, che è utilizzato per punire l’eccessiva fiducia di Cavalcante nell’intelletto umano e per proiet42
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tare la figura di Guido in una visione spirituale futura, che la fede del poeta e la
propria esperienza spirituale rendevano probabile. Le capacità intellettuali non sono
sufficienti a percorrere il cammino dall’umano al divino, a compiere l’itinerarium
mentis ad Deum, ad attraversare il “cieco carcere”, ad entrare nella “città del foco”.
Virgilio, simbolo della ragione, attraverso quei luoghi (“per qui”), lo conduce a
Beatrice, simbolo della Teologia, della Grazia illuminante, che probabilmente Guido ebbe a disdegno. Nel dubitativo “forse” e nel passato remoto “ebbe” Dante ha
voluto racchiudere il suo giudizio sulla fede di Guido: ieri, ovvero nel periodo in
cui l’ho frequentato, in cui ho dialogato con lui; oggi, non so, forse ha avuto a
disdegno, consentendo all’amico una sorte migliore nel mondo oltremondano,
ipotizzando l’abbandono dell’orientamento filosofico-averroistico ed abbracciando, in extremis, la dottrina cristiana. Il dubbio o meglio la possibilità, che egli lasciava al primo amico ed espressa in quel “forse” ad inizio di verso, che va a collegarsi ritmicamente coll’“ebbe”, gli veniva dal de Gratia di Sant’Agostino e dalla
personale esperienza di uomo credente nella Fede e nella Speranza cristiana, che gli
assicuravano che pur nell’attimo estremo del passaggio all’altra forma di vita la Grazia
può toccare l’uomo. Ma Cavalcante, nella cieca superbia intellettuale prodotta dalla
sua eresia, è sordo a recepire il discorso della Speranza cristiana del pellegrino; e se
prima, nel desiderio di vedere in fretta se Guido era lì in viaggio, s’era alzato in
ginocchio, ora si drizza con quella stessa rapidità con cui il superbo manifesta i
propri atti. La forma del passato remoto lo fa scattare in piedi quasi a voler scuotere
l’interlocutore e chiedergli se ha ben capito, se veramente il senso delle parole pronunciate che gli è giunto nell’animo è quello vero:
“Di subito drizzato gridò: «Come?
dicesti ‘elle ebbe’? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?”
(vv. 67-69)
Le quattro interrogative hanno una diversa lunghezza, che rispecchia l’affanno ed il dubbio del dannato; dall’immediato dolore tutto racchiuso in un bisillabo
(“Come?”), l’animo scioglie poco alla volta il pensiero (“dicesti ‘elle ebbe’?”) e lo
formula in modo sempre più esplicito (“non viv’elli ancora?”) sino a rappresentarlo
in un verso intero ed a racchiuderlo in due termini emblematici della sua condizione eretica: “gli occhi” ed il “dolce lume” sono per Cavalcante gli elementi necessari
ed esclusivi della vita. Al pianto provocato dal dolore di non vedere il figlio insieme
con il pellegrino ora si aggiunge un dubbio ben più grave, in quanto in quella forma
verbale, che ha attirato tutta la sua attenzione, avverte la fine di quella esistenza
terrena in cui egli aveva posto ogni fiducia. Il “dolce lume”, che è stato per lui il
valore di ogni azione e di ogni pensiero, sembra, attraverso le parole del pellegrino,
avere abbandonato anche il proprio figliolo, nel cui ricordo si sentiva legato ancora
alla vita terrena. L’indugio del poeta nel confermare o meno quelle domande poste
con ansioso affanno, in un ritmo incalzante e senza respiro, lo precipita nel sepolcro perenne. Allo schianto dell’animo s’accompagna quello fisico plasticamente
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raffigurato: “supin ricadde e più non parve fora”. Cavalcante muore per la seconda
volta, ed in eterno. In questa caduta è la fine dell’episodio. La superbia intellettuale
di Cavalcante si è dissolta di fronte alle osservazioni teologiche del viandante; ma
nella trattazione dell’episodio il poeta ha dissolto anche quella fiducia nell’intelletto che aveva accompagnato non pochi momenti della sua vita. Nella vicenda di
Guido è rappresentata la parte laico-filosofica di Dante, quella degli anni vissuti
con il predominio della Filosofia, dopo la morte di Beatrice, prima che questa riprendesse di nuovo potere su tutta la sua mente.
Il ritorno di Farinata sulla scena avviene come se nulla fosse accaduto, come
se il dialogo con Cavalcante non lo avesse per nulla distolto dal suo pensiero politico; questa insensibilità per il dolore di Cavalcante per il proprio Guido, che pure
aveva sposato Beatrice, figlia di Farinata, rende ancora più austera e superba la figura dell’uomo politico, che non si ritrova nel discorso intellettuale, ma è sempre
fermo al rinfaccio ultimo di Dante, sulla sorte dei suoi seguaci politici.
Questa sorta di meditazione interiore, alla quale il poeta ha costretto il politico, variando la scena ed interlocutore, rende Farinata più umano, smorza il tono
sprezzante del suo linguaggio, rende l’animo meno esacerbato e lo placa. La profezia dell’esilio è priva di acredine; riporta il discorso a quell’“arte” del ritorno in
città, alla vita politica fiorentina, alla gioia degli affetti e della famiglia. Per quanto il
tono sia pregno di una volontà ammonitrice, le parole di Farinata, con delicata sobrietà, annunciano l’esperienza di un esilio che gli farà sperimentare lo stesso dolore che ora rode il suo animo. Farinata ha consumato tutta la sua ostilità; abbandona
l’intransigenza politica ed assume un atteggiamento più umano, malinconico:
“E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché‚ quel popolo è sì empio
incontr’ai miei in ciascuna sua legge?”
(vv. 82-84)
Dall’iniziale tono sprezzante della prima domanda “chi fuor li maggior tui?”
Farinata ora augura al viandante di ritornare nel “dolce mondo”, chiedendogli al
tempo stesso le ragioni per cui ogni legge a favore degli esuli escluda i discendenti
della famiglia degli Uberti. Tutta la terzina sottende la vita politica di Firenze, espressa
in quel “dolce mondo”, che richiama alla mente l’analogo stilema del goloso Ciacco.
La città toscana ritorna nella risposta di Dante simboleggiata in quel “tempio”, nel
bel San Giovanni, in cui i cittadini, al ricordo della strage presso il fiume Arbia
dopo la battaglia di Montaperti, prendono la decisione di tenere in esilio gli Uberti.
L’ineffabile atteggiamento di Farinata è scolpito dalla sapiente maestria del poeta in
un verso lapidario, pregno di intensità spirituale:
“Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso”
in cui il “forse fui troppo molesto” della autopresentazione diventa certezza da
un lato e dall’altro offre a Farinata la possibilità di bilanciare, ma invano, il ricor44
Raffele Giglio
do del lutto provocato. Egli “sospira e scuote il capo, non perché‚ il dubbio d’essere stato troppo molesto alla patria diventi certezza, ma perché‚ avverte l’ingratitudine della patria”.3 Alla partecipazione collettiva ad una strage richiesta dalla
legge delle fazioni oppone il coraggioso, solitario, personale intervento nel convegno di Empoli, che bastò a salvare Firenze dalla distruzione totale. Nella descrizione di quell’episodio Dante rivela ancora una volta la riverenza verso l’uomo politico e anche qui pone in evidente rilievo la personale preminenza del personaggio, in opposizione alla maggioranza dei fuoriusciti; l’inizio dei tre versi,
infatti, pone l’accento sull’“io solo”, sul “ciascun”, sul “colui che”, cioè sui tre
elementi dialettici dell’azione:
“Ma fu’ io solo, l… dove sofferto,
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto”.
(vv. 91-93)
Alla cortesia del dannato il poeta risponde, superando ogni barriera politica,
con altrettanta cortesia; il pensiero dell’esilio già produce nell’uomo Dante un mutamento nell’atteggiamento; l’identità ormai tra Dante e Farinata è completa, per
cui il poeta gli rivolge quell’augurio che vale anche per i suoi:
“Deh, se riposi mai vostra semenza ”
in cui si sente l’enorme peso di responsabilità che gravava la coscienza del poeta al
pensiero della propria “semenza”, anch’essa bandita da Firenze. Il riposo, che altrove Dante si aspettava (Convivio I, III, 4), è qui augurato almeno per i propri
figli. L’affetto paterno, già posto in luce nella figura di Cavalcante, ritorna ora alla
ribalta ed è inserito nel più ampio discorso partitico che si conclude proprio con
l’augurio affidato a questo verso. Ogni distanza dal dannato è superata; la catarsi
spirituale, che l’incontro doveva stimolare nel pellegrino, è già avvenuta; essa si è
snodata sulla linea famiglia-parte-patria, che costituiscono i tre elementi di questo
canto, “tutto orchestrato su note e motivi di concentrata interiorità”4 e che “si sviluppa come lenta estrinsecazione prima e improvvisa esplosione drammatica poi di
una forza segreta saliente da remote profondità spirituali”.5
Negli ultimi versi del canto si riaffaccia di nuovo il motivo che fin qui ha
animato il discorso tra Farinata ed il viandante. Dante, poeta e personaggio, riprende a scandire il proprio dolore.
Se l’arte “male appresa” aveva macerato l’animo del dannato disponendolo
ad un dialogo improntato su note più umane, ora “quel parlar che [...] parea nemi-
3
Dante ALIGHIERI, La divina Commedia, a cura di Daniele Mattalia, Milano, Rizzoli, 1960, p. 220.
Fortunato MATARRESE, Interpretazioni dantesche (Saggi, note e discussioni), Bari, Tip. Due Stelle, 1957, p. 18.
5
Ibid.
4
45
L’autobiografia come purificazione
co” riporta il poeta ad uno smarrimento tanto più poetico quanto più lentamente
esso è confessato, tanto più pregno di umanità sofferente quanto più è adombrato
nell’economia dei versi:
“Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico”.
(vv. 121-123)
È un riallacciarsi, forse, anche al dolore di Farinata, cui la sofferenza per l’esilio dei propri figli lo lega al di là di ogni faziosità politica. Ma in Dante questo
mesto e raccolto dolore è temperato dalla saggezza, che lo esorta a conservare il
vaticinio dell’esilio nella propria mente fino a quando non arriverà al “dolce raggio” di Beatrice, dalla quale apprenderà “il viaggio” della sua vita.
Occorre ora riannodare le fila di questo discorso indugiando su alcune “spigolature poetiche”, che meglio possono rendere il rapporto che lega il poeta ai personaggi in un contesto poetico carico di suggestioni e di affetti.
Nella struttura escatologica della Commedia “[...] il viaggio di Dante attraverso l’lnferno e il Purgatorio costituisce anche un processo di rigenerazione,
basato sul rifiuto dei propri errori, che mena il pellegrino dalla selva selvaggia del
peccato alla divina foresta del paradiso terrestre”.6 Nella prospettiva critica, inoltre, che in tutta la Commedia, specie nei canti più impegnativi, come avverte il
Padoan, “il dramma dei personaggi si imbeve suggestivamente del dramma autobiografico dell’autore”,7 le figure poetiche di questo canto rispecchiano due aspetti
della personalità del poeta-personaggio espressi in tutte le loro connessioni affettive e sotto il peso della realtà politica in cui viveva il poeta negli anni 1305-1306.
Egli nell’esilio di quegli anni aveva già sperimentato i tristi affanni dello “scender
e ‘l salir per l’altrui scale” e “la crudeltà che fuor lo serra / del bello ovile”. Al
dolore dell’esilio personale, reso ancora più amaro dalla consapevolezza di aver
agito nel bene della città, s’aggiunge quello per la sorte dei figli, che l’ingiusta
legge vuole accomunati alla pena del genitore. Tutto il dolore di Dante è racchiuso in questi due versi, che, nell’economia del canto, rappresentano l’apice di due
diversi momenti affettivi:
“Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso”
(v. 88)
“Deh, se riposi mai vostra semenza”
(v. 94)
6
7
John A. SCOTT, Dante magnanimo. Studi sulla Commedia, Firenze, Olschki, 1977, p. 57.
Giorgio PADOAN, Il canto X dell’Inferno, in Letture classensi, Ravenna, Longo, 1976, vol. V, p. 99.
46
Raffele Giglio
cioè l’amarezza per la sentenza che lo vuole in esilio e l’augurio che almeno i propri
figli possano riposare dagli affanni provocati dall’esilio e ritornare in Firenze. La
scelta della figura di Farinata per rappresentare tali sentimenti dovette nascere nel
poeta da più considerazioni, ma soprattutto, come vuole il Petrocchi,8 da analogie esistenti tra la famiglia degli Uberti e quella degli Alighieri, specie dopo l’incontro di Dante con Lapo degli Uberti, figlio di Farinata, al convegno di S. Godenzo. Nell’esilio del figlio di Farinata egli rivisse quello dei propri figli, e proiettò
poeticamente nella figura del ghibellino tutto se stesso, creando un nucleo poetico
intensissimo di eventi e di considerazioni. Il personaggio, sotto il peso degli affetti,
si lascia plasmare docilmente per la rappresentazione di parte del dramma autobiografico del poeta, in cui convergono l’ingratitudine della patria ingiusta ed il dolore
per la sorte dei figli. Nel personaggio storico, su cui ora commisura se stesso, Dante
vede analogie “di comportamento e d’amore”9 rappresentate dall’atteggiamento di
Farinata al convegno di Empoli e dal rifiuto del poeta di unirsi ad “Arrigo quando
questi s’accampa a San Salvi e si prepara ad invadere Firenze”.10 Infine la figura
storica del capo ghibellino nella sua magnanimità politica, qui commista al peccato
d’eresia, si prestava ad attuare nel pellegrino il processo di rigenerazione dello spirito che il poeta-personaggio deve raggiungere. L’ammaestramento che Dante ne
deriva è molteplice e non ha confine né di tempo né di spazio; è attuale ora come lo
era allora. Dall’incontro con Farinata apprende i parametri “per raggiungere la felicità terrena nell’ambito dell’agire umano”11 e ci spinge a “meditare con lui sull’ingratitudine di coloro a pro’ dei quali si è operato; sui limiti che devono essere imposti al nostro stesso dovere politico, perché non degeneri e l’amore di patria che lo
ispira non finisca col tradire se stesso; o perché‚ la lotta, coinvolgendo innocenti,
non violi le leggi fondamentali della giustizia”.12 Cavalcante, invece, nella sua cieca
superbia intellettuale, è lì a dimostrare che la sola intelligenza umana non è sufficiente per giungere a Dio, e l’assenza di Guido ne rappresenta, pur nell’“altezza
d’ingegno”, una prova irrefutabile.
Ma in questi episodi si registrano tre stilemi, che, se al Petrocchi hanno suggerito l’esistenza di una “dulcedo espressiva”13 testimoniante un’evoluzione stilistica, a me sembrano emblematici per caratterizzare i tre personaggi del canto in una
linea catartica che li unisce. Farinata fa appello al “dolce mondo”, Cavalcante al “dolce lume” ed il poeta al “dolce raggio” di Beatrice. La dulcedo è, dunque, espressa in
tre diverse caratterizzazioni racchiuse nelle suggestioni che i tre sostantivi lasciano
nell’animo del lettore. Il “mondo” di Farinata è carico di una connotazione politica
che ben si adatta a rappresentare il ricordo che il dannato ha della vita terrena nelle
8
Giorgio PETROCCHI, Itinerari danteschi, Bari, Adriatica, 1969, pp. 278-279.
Ibid., p. 279.
10
Ibid.
11
Dante ALIGHIERI, La divina Commedia, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, con pagine critiche, Firenze, Le Monnier, 1980, p. 147; G. PETROCCHI, Itinerari danteschi..., cit., p. 292.
12
Ibid.
13
PETROCCHI, op. cit., p. 292.
9
47
L’autobiografia come purificazione
sue implicazioni partitiche, mentre il “lume” di Cavalcante è pregno di quell’intellettualismo in cui ha riposto tutto se stesso. Al di sopra di essi, in una linea di
continua ascesa, è il “raggio” dantesco, è la “luce” spirituale che emana da Beatrice, che si pone come punto di arrivo nel viaggio con Virgilio. Ed anche, forse, la
volontà di manifestare come i due aspetti, il politico e l’intellettuale, caratterizzanti la personalità dantesca, devono essere purificati, nobilitati, inverati da quello spirituale.
Un’altra delle figure dell’Inferno che maggiormente attesta una partecipazione del poeta, per ovvie connotazioni, è senza dubbio Pier della Vigna, incontrato nella la selva dei suicidi (If XIII). Nella costruzione della figura del logoteta di
Federico II di Svevia, Dante ancora una volta adopera parametri autobiografici e
nel riscontro delle vicende dell’uomo politico e dell’intellettuale meridionale si possono leggere non pochi momenti della vicenda umana dantesca. Anche Pier della
Vigna è un personaggio che consente al poeta di “confessarsi”, di manifestare i propri pensieri, che spesso travalicavano i canoni della religione cristiana; nel racconto
di Pier della Vigna è il personaggio Dante che si squaderna alla vista del lettore, ed
è un altro momento che consente al viator di spogliarsi di quanto può essere d’impedimento al viaggio verso il divino.
L’elemento più caratteristico della scena è ripreso dall’opera virgiliana; al poeta
latino, infatti, si deve la prima descrizione di uno spirito trasformato in pianta, come
qui, nella selva dei suicidi, la giustizia divina ha trasformato in “sterpi”, in piante, gli
spiriti di coloro che volontariamente si tolsero la vita. Ma Dante ha inserito nella
scena uno stravolgimento naturale, che, prendendo le mosse dagli elementi della natura, coinvolgerà poi anche lo spirito umano. La negatività di un ambiente, rafforzata
da una negatività lessicale, come avverte la frequenza anaforica del non ad inizio di
ogni terzina, coinvolge anche tutte le figure che rendono questo stravolgimento della
natura, che si manifesta nell’unione tra animalesco ed umano e tra vegetale ed umano.
Quest’ibridismo naturale si presenta al poeta in tutta la sua drammaticità
non appena, su invito di Virgilio, spezza “un ramicel da un gran pruno” (v. 32). Un
grido improvviso “Perché‚ mi schiante?” richiama, con l’irruenza dei toni aspri e
forti, l’ignaro viandante ad una visione che gli chiarisce l’elemento di punizione:
l’albero ha emesso accenti umani, ha gridato contro la violenza subita. Un grido
lacerante raggela gli atti del pellegrino, ancora più stupefatto alla vista del sangue
che fuoriesce dal ramo spezzato. La voce riprende il primo rimprovero; ancora una
volta chiede il perché di una violenza ed invoca pietà per il nuovo stato in cui si
ritrovano: “Uomini fummo, e or siam fatti sterpi” (v. 37); questo è lo stato extra
naturale di queste anime rivestite di forma vegetale, ma capaci di pensare, di sentire,
di parlare, di avvertire il dolore; esse conservano le più alte caratteristiche dell’essenza umana pur in una forma inferiore di vita, qual è quella vegetale. I legami con
il modello virgiliano (ed ovidiano) non intaccano la bellezza dell’episodio, costruito su una diversa tensione drammatica e soprattutto utilizzato per una diversa interpretazione dell’innaturale umanità.
48
Raffele Giglio
Il nucleo focale dell’episodio è costituito dallo spirito, che, su invito di Virgilio, a mo’ di perdono per il dolore arrecatogli, è invitato a presentarsi perché l’incredulo viandante possa poi “rinfrescare” la sua memoria nel mondo dei vivi, dove
ha lasciato la sua memoria macchiata dal suicidio.
La presentazione è conforme al proprio stile di vita, riproponendo in una
terzina tutta la sua attività terrena, che il poeta ha reso creando un’atmosfera cortese ed un linguaggio che rispecchia lo stile abituale del cancelliere di Federico II.
Dopo l’iniziale “apologia”, come ha sostenuto il Bigi14 senza indugio, egli si presenta con la classica forma con la quale Dante introduce i personaggi famosi, quelli
che maggiormente gli stanno a cuore, quelli che, forse, più degli altri hanno richiesto una maggiore partecipazione creativa e per i quali il poeta chiede al lettore
una più attenta lettura:
“Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e’ polsi.
La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti;
e li ‘nfiammati infiammar sì Augusto,
che ‘ lieti onor tornaro in tristi lutti.
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ‘nvidia le diede”.
(vv. 58-78)
È il racconto di una vita trascorsa tra l’impegno politico e letterario, tra le alte
cariche raggiunte; ma è anche l’estrema confessione pubblica dell’abnegazione riservata al suo incarico, sì da perdere “li sonni e’ polsi”, dell’invidia di cui fu vittima,
della scelta del suicidio “per disdegnoso gusto”, pensando di dimostrare la propria
innocenza, della nuova attestazione della fedeltà sempre conservata al suo “segnor”
14
Emilio BIGI, Pietro della Vigna, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1973,
6 voll.: vol. IV, p. 515.
49
L’autobiografia come purificazione
e del desiderio che la sua memoria nel mondo sia “confortata”. Non vi è un riferimento esplicito che possa chiarire l’indubbio modo con cui mise fine alla propria
vita, né‚ alcun riferimento al luogo, ma solo i fatti concatenati nella logica successione; non gli aneddoti, ma solo poesia pregna di sofferta partecipazione, di pietà,
come spesso accade al poeta davanti alle grandi figure nelle quali Dante-personaggio ritrova parte di se stesso, dei suoi pensieri, dei suoi tormenti, delle sue sofferenze. Ed è questo parametro autobiografico che ci consente di comprendere appieno
la posizione dantesca di fronte a Pier della Vigna e di giustificare, nel caso ce ne
fosse stato bisogno, l’uso del linguaggio retorico che, soprattutto in questa parte,
modula la poesia.
Senza alcun dubbio Piero “era uno degli uomini del suo cuore, una delle
figure storiche che più lo attraevano per conformità di idee o di personali tendenze”.15 Nel dittatore siciliano egli vedeva proiettato parte di se stesso, della sua
dolorosa esistenza terrena, connessa all’impegno politico e pubblico. Li accomunava la lotta accanita contro il potere ecclesiastico a difesa della libertà laica, la
fedeltà ad un ideale che si concretizzava quotidianamente nel servare fede l’uno al
proprio signore, l’altro al proprio comune. Diverso, però, l’ultimo momento terreno: Piero preferì attestare la propria innocenza con un suicidio che lo condusse
dalla rettitudine terrena all’ingiustizia nei confronti di Dio; il personaggio-Dante
accettò la via dolorosa dell’esilio, che pur lo privava degli affetti familiari e lo
costringeva a sperimentare l’ospitalità altrui. Senza far riferimento all’aneddotica
del proprio tempo, Dante crede nell’innocenza di Piero. Il frutto della “meretrice” delle corti è ben noto al poeta ed egli si assume l’incarico di rendere giustizia
in terra al protonotaro di Federico II. Ma nello stesso tempo egli riscatta il comportamento dell’imperatore svevo attraverso il discorso della sua stessa vittima.
Né Dante poteva esperire mezzo migliore per perdonare Federico II. Il poeta,
infatti, si è fatto “storico, ma non giustiziere e del monarca e del suo cancelliere,
per motivi differenti, ma non opposti, entrambi colpevoli dinanzi a Dio, ma nessuno dei due colpevole verso l’altro”.16 La partecipazione al dramma di Piero,
l’ammirazione per la sua figura storica sono tali che il poeta adopera “opportuni
accorgimenti stilistici”17 e retorici per caratterizzare storicamente il personaggio
e rendere omaggio all’arte professata in vita dal dittatore. D’altra parte, come ha
notato l’Auerbach, il poeta tende sempre a rendere riconoscibili le anime che incontra attraverso la conservazione dei loro caratteri distintivi terreni; pertanto
l’uso frequente dei termini retorici rispecchia la volontà di Dante di fornire di
Piero anche un ritratto linguistico, cioè un’immagine del cancelliere attraverso le
formule linguistiche da lui adoperate negli atti amministrativi e poetici. Le allitterazioni e le iterazioni più frequenti (serrando e diserrando; ingiusto-giusto; di-
15
Francesco D’OVIDIO, Nuovi studi danteschi, Napoli, Guida, 1932, p. 232.
Giorgio PETROCCHI, La selva del protonotario, Napoli, Morano, 1988, p. 93.
17
Gianvito RESTA, Canto XIII dell’Inferno, “Lectura Dantis Romana”, Roma, Bonacci, 1977, II, p. 327.
16
50
Raffele Giglio
sdegnoso-disdegno) “attestano una frequentazione non episodica, anzi approfondita e consapevole, dello stile della cancelleria federiciana nelle coordinate fissate proprio dal ‘maestro’ Pier delle Vigne”.18 Tali costrutti, in uno col dettato
poetico, ricostruiscono integralmente la figura di Piero e ne risaltano anche nella
nuova condizione di uomo-pianta le caratteristiche umane del logoteta, colto parzialmente nel pieno della società federiciana, che lo vide arbitro, col suo “segnor”,
di avvenimenti politici e legali. Ed il poeta accentua la visione di questa considerazione: “Io son colui che tenne ambo le chiavi”. Il primo riferimento di se stesso
è calato in quell’ “io” iniziale al quale affida la rappresentazione del vasto potere
che godette e l’enjambement che ne segue pone in rilievo quel sì soavi successivo,
che esprime tutta la capacità del cancelliere di operare sempre con delicatezza,
direi con dolcezza e rispetto, nei confronti di Federico, pur consigliandolo nella
sua duplice (“ambo le chiavi”) tendenza interiore: politica e letteraria. Dante lo
propone come il silenzioso consigliere politico e culturale del re svevo, che per
primo intuì la validità politico-sociale dei due elementi. La fedeltà, serbata ininterrottamente, è ripresa e ribadita anche nella nuova condizione ibrida:
“Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno”.
(vv. 73-75)
Nella formula di giuramento è testimoniato anche il dramma dello spirito,
che sottolinea la sua nuova composizione: un legno, il pruno, che ha per radici
l’anima dell’uomo; di qui la singolarità della pianta. Ma è in nome di quelle radici,
cioè della sua anima, ch’egli riconferma la fede al suo imperatore. Ed il Benvenuto
chiosa opportunamente: “quasi dicat, iuro vobis per animam meam”.
L’episodio di Pier della Vigna ha spinto i critici a richiamare gli altri due del
poema strettamente legati al concetto dell’invidia dei cortigiani, che diviene quasi
un topos dantesco, come avverte il Resta. Ed è singolare notare come questi tre
episodi siano distribuiti equamente per cantica: Pier della Vigna nell’Inferno, Piero della Broccia nel VI del Purgatorio e Romeo da Villanova nel VI del Paradiso.
Sono tre episodi che hanno anche una diversa soluzione finale: dal suicidio di Pier
della Vigna all’impiccagione di Piero della Broccia, all’esilio di Romeo che partì
dalla corte “povero e vetusto”. Ma sono anche tre diversi aspetti della posizione
dell’uomo di fronte al proprio imperatore, al quale ciascuno era legato da vincoli
di fedeltà. Pier della Vigna “disdegnato” dal comportamento regale si uccide per
porre fine al disonore in cui era precipitato; Piero della Broccia non ha possibilità
di difesa perché è la regina ad accusarlo; Romeo da Villanova è cacciato a mendicar “sua vita a frusto a frusto”. Tanta insistenza non può essere giustificata se non
18
Ibid., p. 325.
51
L’autobiografia come purificazione
dalle affinità al loro dramma che il poeta andava sperimentando quotidianamente, colpito dalla “città ch’è piena d’invidia” (Inf., VI, vv. 49-50).
In questi drammi l’esule Dante aveva probabilmente visto un’eco del proprio; in quegli stessi protagonisti calava le proprie vicende; con essi si confrontava per ottenere conforto e sostegno nelle quotidiane necessità; nella loro vita ritrovava quel medesimo dolore, quella privazione degli affetti familiari e dei beni
necessari per svolgere una vita serena. Ma soprattutto in Pier della Vigna trovò il
modello più prossimo nel quale specchiare la propria vicenda, anche se la differenza dei ruoli è notevole. L’impegno politico, accompagnato da quello letterario, fu causa di quella “invidia”, alla quale forse lo stesso Dante incolpa le proprie
condanne. L’ingiustizia sia per Piero che per il poeta nasce sempre da quella “meretrice”, l’invidia, che distrugge non solo le corti, ma ogni consesso civile. Non
solo in Firenze, dunque, ma anche nella corte papale, dalla quale prese avvio la
lotta contro colui che chiedeva la separazione dei due poteri, spirituale e temporale. Quante volte il peso dell’ingiustizia subita deve essere stata posta dal poeta a
confronto di quella di Piero! Quante volte la rabbia interiore deve averlo condotto ai pensieri estremi, specie quando ogni più piccola possibilità di ritorno in
patria si vanificava! Rispetto a Pier della Vigna Dante scelse la strada che gli suggeriva la sua fede, come il Cristo aveva predicato nel discorso della Montagna: al
perseguitato per causa della giustizia si aprono le porte del Cielo. Ma Dante sa
bene che non tutti possono accogliere tale invito. Se da un lato Dante-autore condanna “senza appello” il protonotaro, dall’altro lato Dante-personaggio si commuove di fronte alla scelta dolorosa fatta dall’uomo, soprattutto a fronte del vago
racconto popolare sulla sua fine.
Ma in quale teologia Dante trovava sostegno per questa sua posizione? Oltre
che a S. Tommaso e ad Aristotele, dal cui “iniustum quidem facit igitur, iniustus
autem non est” deriva il verso “ingiusto fece me contra me giusto”,19 Dante ricorre
a sant’Agostino che nell’opera De civitate Dei affronta la posizione teologica del
suicidio dell’uomo giusto che ha preferito la morte per sfuggire al disonore che gli
veniva dal mondo sociale. La condanna agostiniana del suicida è formulata in una
forma retorica che senz’altro deve aver agito sulla memoria del poeta: “[...] certamente anche il suicida è omicida e tanto più colpevole quanto è più incolpevole nei
confronti della motivazione per cui ha pensato di uccidersi”.20 Dunque Piero si
19
ARISTOTELE, L’Etica Nicomachea, a cura di Giacomo Dal Sasso, Padova, [s.d.], p. 142: V, 10. Ma si legga la
forma breve riportata da Tommaso nella Summa theol., 11-11, 59, 2, 3: “Sed contra est quod Philosophus
dicit, in 5. Ethic. quod aliquis «facit iniustum et iniustus non est»”.Ma si veda anche l’interpretazione “linguistica” di Georges GÜNTERT, Pier della Vigna e l’unità del canto, in «Lettere italiane», XIII (1971), 4, p. 551. Per
un esame esauriente del problema “suicidio” per la religione cattolica si rinvia alla relativa voce nel Dictionnaire
de théologie catholique, Paris, Librairie Letouzey, 1941.
20
De civitate Dei, 1, 17: “[...] profecto etiam qui se ipsum occidit homicida est, et tanto fit nocentior, cum se
occiderit, quanto innocentior in ea causa fuit, qua se occidendum putavit”. La traduzione riportata nel testo
ed il brano latino sono tratti da S. AGOSTINO, La città di Dio, introduzione di Agostino Trapè et al., traduzione di Domenico Gentili, Roma, Città Nuova, 1978.
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Raffele Giglio
diede la morte “ob metum... dedecoris”.21 Ma nell’amaro racconto ch’egli fa del suo
gesto Piero manifesta tutto il travolgimento interiore, l’esasperazione, l’irrazionalità nata soprattutto dall’“incapacità di umiliarsi a confutare ingiuste accuse”22 e dalla volontà di mostrare, invece, ai suoi calunniatori un disprezzo che, privandolo
della vita, lo ha reso “ingiusto” in quanto ha distrutto irreparabilmente la perfetta
unione di spirito e corpo, istituito dalla legge naturale divina.23 Ma solo ora, nel
regno infernale, provvisto di un corpo innaturale per la sua essenza, egli può pensare alla negatività del suo “disdegno”.
Il triste destino di Piero fa nascere in Dante la stessa pietà che egli sente dinanzi a Francesca; anche qui essa deriva non solo dal profondo rispetto ed ammirazione ch’egli nutrì nei confronti dell’uomo, ma anche dal contrasto ch’egli riscontra tra i pregi e l’impegno morale profuso nel mondo e la depravante innaturalità
nella quale è punito nell’aldilà. Il teologo lo ha punito perché‚ il suicidio è condannato dalle leggi cristiane come peccato; ma la condanna non gli vieta di restaurare la
sua figura terrena, di riabilitare la memoria dalle ingiuste accuse e “lo copre d’una
pietà più profonda che se lo avesse collocato in luogo di salvazione.”24 Che è poi
testimonianza dell’ammirazione del poeta per il protonotaro, ma anche, e soprattutto, consonanza di pensieri e di turbamenti, che nel poeta hanno avuto un percorso diverso, non quello per l’inferno, ma quello che lo ha condotto, anche grazie a
questa esperienza, alla visione dell’Assoluto.
21
Come ha notato Anna Maria CHIAVACCI LEONARDI, La guerra de la pietate. Saggio per una interpretazione dell’Inferno di Dante, Napoli, Liguori, 1979, p. 184, è proprio il titolo del De Civitate Dei, 1, 17 a precisare
il suicidio di Piero: “De morte voluntaria ob metum poenae sive dedecoris”, che richiama il dantesco “credendo col morir fuggir disdegno”. Ma anche S. Tommaso scrive in proposito: “Et ideo non licet homini
seipsum interficere ut ad feliciorem transeat vitam. Similiter etiam nec ut miserias quaslibet praesentis vitae
evadat” (Summa theol., Il-II, 64, 5, 3). Tale posizione era assunta per rigettare quella che giustificava il suicidio: “Sed quandoque aliquis per occisionem sui ipsius vitat maius malum, vel miseram vitam vel turpitudinem
alicuius peccati. Ergo licet alicui occidere seipsum” (Ibid.).
22
Umberto BOSCO, Dante vicino, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1966, p. 268.
23
S. Tommaso ritorna più volte in proposito: “Et sic qui occidit seipsum iniuriam quidem facit non sibi, sed
civitati et Deo” (Summa theol., II-II, 59, 3, 2) e più oltre riprende il pensiero: “Et ex hac parte occisio sui
ipsius et peccatum per comparitionem ad seipsum. Per comparationem autem ad communitatem et ad Deum,
habet rationem peccati etiam per oppositionem ad iustitiam” (Summa theol., II-II, 64, 5, 1). Quest’ultimo
pensiero trovava conforto, come dice Tommaso, nel Filosofo, cioè in Aristotele: “Unde in hoc quod seipsum
interficit, iniuriam communitari facit: ut patet per Philosophum, in 5 Ethic.” (Ibid.). Per una conoscenza della
problematica teologica in merito si veda S. Alfonso Maria de’ Liguori, Theologia moralis, IV, 1, 1: “De occisione
sui ipsius”.
24
Cesare ANGELINI, Canto XIII dell’Inferno, “Lectura Dantis Scaligera”, Firenze, Le Monnier, 1960, p.
441.
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