Annarita Taronna L`origine e l`evoluzione dei

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Annarita Taronna L`origine e l`evoluzione dei
Annarita Taronna
L’origine e
l’evoluzione dei Women’s studies – e le dinamiche
esplosive sottostanti a tale disciplina – vanno rintracciate attraverso un
percorso diacronico del pensiero femminista che nasce dalla necessità di
rileggere e documentare l’origine socio-storico-geografica di quel
capitale culturale accumulato dai movimenti delle donne nel mondo. Il
femminismo nasce, in prima istanza, in area anglo-statunitense in quanto
progetto teoretico e politico, come
movimento delle donne in lotta
contro l’oppressione di una società patriarcale strutturata intorno al
primato economico e sessuale dell’uomo. Il femminismo come pensiero
teorico ha radice, dunque, in questa prassi politica e va analizzato come
indagine trasversale ai vari campi del sapere, inclusa la letteratura.
Quest’ultima, infatti, diventa in maniera unica e inesauribile,
testimonianza e trasposizione di ideologie, trascrizione di stati d’animo,
di bisogni di espressione e rivelazione di soggetti socialmente
claustrofobici, la cui scrittura diventa compulsiva, pulsionale, dà voce alle
riflessioni di quelle donne, scrittrici, filosofe, letterate, artiste che hanno
voluto sottoporre a revisione quei paradigmi, concetti e metodi elaborati
dal pensiero maschile e da questo assunti come universali. Parte da qui,
storicamente e concettualmente, il cammino del pensiero femminista: un
pensiero militante e politico per il coinvolgimento delle singole autrici nei
movimenti di liberazione; un pensiero polemico perché tutto teso a
smascherare l’oppressione maschile nelle sue specifiche forme letterarie,
dagli stereotipi che perpetrano l’immagine falsata della donna, funzionale
all’ideologia patriarcale, fino alle teorie estetiche che privilegiano e
canonizzano come modelli uni(vo)ci i testi prodotti da scrittori a dispetto
di quelli prodotti faticosamente dalle scrittrici. Da qui, lo sviluppo di
forme letterarie
che trova voce principalmente nei generi
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dell’autobiografia, delle confessioni e delle memorie, spazi vitali per
contenere i movimenti infinitesimali dell’identità, dell’esperienza
personale e dello specifico femminile. È in tal senso che i Women’s
studies costituiscono il luogo di rivelazione e visibilizzazione del pensiero
femminista, segnano il percorso e il processo di dis/identificazione
attraverso cui il soggetto femminile si è costituito e dispiegato nella sua
natura indicibile. In tal contesto prendono forma e corpo i ritratti delle
più incisive pensatrici che, da fine Ottocento ai nostri giorni, hanno fuso
vita, politica ed estetica; hanno scritto sulle donne e per le donne
smascherando il carattere stereotipico e parziale proprio delle
rappresentazioni femminili di mano maschile; hanno consolidato il loro
pensiero intorno alla condivisione dell’esperienza di subordinazione
all’ordine e al canone patriarcale sviluppando non un mero senso di
solidarietà o sorellanza, ma un bisogno comune di ripensare ogni sapere
a partire da women-centered perspectives e di riscrivere la storia a
partire dalla (loro) singolare universalità.
All’origine del pensiero femminista c’è l’opera e la figura di Mary
Wollstonecraft, una donna che vive fuori dalle convenzioni della vita e
della storia e quindi scandalosa e trasgressiva per i criteri di valutazione
morale della condotta femminile dominante. La sua opera più famosa,
Vindication of the Rights of Woman (1792) è la prima testimonianza
della lotta delle donne in epoca contemporanea per la conquista, sul
piano teorico, e per la realizzazione, sul piano pratico, di quei diritti che
venivano allora predicati come universali, ma riconosciuti in concreto solo
come diritti dei maschi. La rimappatura del pensiero femminile in ordine
diacronico vede una tappa importante sia per la Gran Bretagna che per
gli Stati Uniti, all’indomani della prima guerra mondiale. In questo
contesto si colloca Virginia Woolf, una delle pensatrici che, con maggiore
impegno ha affrontato questa problematica aprendo la strada per una
rifondazione teorica degli studi di genere. Le riflessioni di Woolf sulla
donna – colta e di classe media – e sugli obiettivi delle sue rivendicazioni
si trovano in due saggi di grande fascino, A Room of One’s Own (1929)
e Three Ghuineas (1937-1938) diventati veri e propri classici della
letteratura femminista perché rivelano l’origine dei tanti impedimenti e
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soffocamenti al movimento di emancipazione femminile e gli aspetti di
rivendicazione sociale e politica contro il potere costitutivo e consolidato
del patriarcato. All’indomani di un’altra e più drammatica guerra, viene
pubblicato in Francia Le deuxième sexe di Simone de Beauvoir (1949).
Tradotto in inglese nel 1953 ha, da allora, esercitato una profonda
influenza incidendo, a partire dalla famosa frase “donna non si nasce, si
diventa”, sui capisaldi teorici dei primi studi di gender documentati e
realizzati in Gran Bretagna, negli Stati Uniti d’America e in Europa.
Difatti, le teoriche femministe anglo-statunitensi cominciarono a
interrogarsi su questioni e dubbi provenienti proprio dall’aforisma di de
Beauvoir portando i Women’s Studies a confrontarsi con la questione del
gender per riscoprire, complementare, estendere e ricreare la più antica
concezione di differenza sessuale biologica. L’opera di de Beauvoir ha
una larga diffusione presso le donne colte e urbanizzate d’Europa e degli
Stati Uniti, la cui condizione sociale subisce un rapido cambiamento
durante gli anni Cinquanta. Nel contempo, cinema, televisione, giornali
femminili, pubblicità, medici, psicologi, sociologi popolarizzano quel
problema senza nome e che per molti anni è rimasto sepolto, inespresso
e che una scrittrice statunitense, Betty Friedan, definirà nel 1963, in un
libro di grande successo, come la mistica della femminilità. Alla fine degli
anni Settanta, un’altra generazione di donne si attiva per rimettere in
moto la lotta per la liberazione femminile. In particolare, nel 1968 alcuni
di questi gruppi di giovani donne con un notevole bagaglio di esperienza
politica, culturale e filosofica, prima negli Stati Uniti, quindi in Inghilterra
e nell’Europa continentale, danno vita al nuovo femminismo, di seconda
ondata. Si domandano principalmente perché la condizione di sostanziale
subordinazione delle donne rimane immutata rispetto agli uomini. La
risposta va rintracciata alle radici del predominio maschile, della
supremazia assoluta nella sfera della sessualità e della riproduzione, nella
quale una differenza biologica, anatomica, fisiologica, sessuale nel senso
letterale del termine viene trasformata dagli uomini in differenza di ruoli
sociali
e
familiari,
in
differenza
di gender. Lentamente, ma
inarrestabilmente, il movimento delle donne, e le motivazioni teoriche
che in questi trent’anni si sono susseguite al suo interno innovandone il
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pensiero, si è consolidato a tal punto che ha ricevuto, nella sua
evoluzione, riconoscimenti sia nell’opinione pubblica che nelle istituzioni
nazionali, locali e accademiche sicuramente grazie al continuo impegno di
quei gruppi di donne impegnate nel lavoro teorico e di ricerca
storiografica, sociologica, scientifica in pressoché tutti i campi del sapere
gettando le fondamenta per la creazione e promozione dei Women’s
Studies e dei Gender Studies. In particolare, la fine degli anni Sessanta
segna una svolta nel pensiero e negli studi di gender, per la rottura con il
passato delle lotte femministe, con le ideologie fortemente socialiste
sostenute e avanzate da pensatori come Karl Marx e Friedrich Engels.
Questo tipo di femminismo dichiaratamente radicale è proprio dell’area
statunitense, dove nel 1969 viene esplicitamente reso noto il primo
manifesto teorico e politico di questo nuovo orientamento sostenuto
principalmente dal gruppo delle Redstockings di New York. I concetti più
diffusi e messi sotto accusa, in questi primi anni del nuovo femminismo,
sono il sessismo e il sistema patriarcale che si ritrovano discussi con
estrema efficacia sul piano teorico, storico e letterario in Sexual Politics,
scritto da Kate Millett nel 1971 e nei contributi teorici di altre studiose,
tra cui Shulamith Firestone, Anne Koedt, Mary Daly, Gayle S. Rubin e
Susan Brownmiller.
Nel quadro di analisi e proposte teoriche dei primi anni del nuovo
femminismo statunitense si caratterizza un nuovo, forte emergente
orientamento di tipo lesbico che assume connotazioni proprie grazie agli
scritti di Adrienne Rich (n. 1929), poetessa, scrittrice e pensatrice
femminista americana (vedi studi gay e lesbici). Del 1976 è Of Woman
Born in cui la scrittrice tematizza la funzione materna, distinta tra quella
intesa come libera scelta della donna e quella come istituzione imposta
alla donna dal potere maschile. Il suo saggio più citato, nell’ultimo
ventennio, è del
Compulsory Eterosexuality and Lesbian Existence
(1980), dove l’autrice individua nell’eterosessualità non la condizione
naturale della sessualità femminile, ma un’istituzione imposta come
costrittiva dal potere maschile. La donna ha, in realtà, potenzialità
sessuali riducibili esclusivamente all’eterosessualità. Fra queste, quelle
lesbiche che contribuiscono alla liberazione e all’arricchimento sessuale
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della donna. Le teoriche lesbiche più radicali, rifiuteranno le
identificazioni al femminile dell’esperienza lesbica e rivendicheranno uno
status di non donna e non uomo per tale esperienza.
Nel
pieno
degli
anni
Settanta
emerge,
e
si
consolida
immediatamente, in Francia un movimento delle donne che influenzerà in
maniera profonda il pensiero femminista americano plasmando i nascenti
Women’s e Gender studies con il segno della differenza sessuale. Tale
movimento appare per la prima volta in pubblico come movimento
organizzato nel 1970 ed è da subito segnato da alcune istanze
conflittuali al suo interno. Da una parte, c’è il gruppo noto come Psy-et-
Po che, orientato verso un uso politico delle teorie psicoanalitiche, si
considera rivoluzionario. Dall’altra, c’è il gruppo che trae ispirazione dagli
insegnamenti di Simone de Beauvoir e che dà voce e espressione alle
proprie ideologie attraverso la rivista delle donne Questions fèministes di
orientamento marxista. Ma, nel panorama femminista francese, spiccano
soprattutto Luce Irigaray, Hèléne Cixous e Julia Kristeva che, pur
distinguendosi ciascuna per un pensiero elaborato e non assimilabile
all’altro, tutte e tre provengono dal Psy-et-Po e tutte prendendo come
riferimento gli scritti di Jacques Derrida che, proprio in quegli anni, si
imponevano con la linfa discorsiva-esplosiva della decostruzione. Dotati
del fascino di un’orchestra intellettuale e retorica ricchissima, i testi delle
femministe francesi, tradotti in inglese sul finire degli anni Settanta,
hanno avuto un forte impatto nei Women’s e Gender studies in area
statunitense ed europea opponendosi alla tradizione più empirica del
femminismo anglosassone fino al punto che, come si discuterà più
avanti, francese e anglosassone designeranno nel dibattito teorico, dei
veri e propri orientamenti e approcci più che mere nazionalità. In
particolare, si dice che l’affermarsi del pensiero femminista di origine
francese abbia portato uno spostamento dell’asse teorico che prende le
distanze dalla mera e pura critica al patriarcato delle tradizioni culturali e
della comunanza di esperienze delle donne, per sottolineare
maggiormente il valore del linguaggio in cui ha sede la rappresentazione
del femminile. Perché è nel linguaggio inteso come parler femme, per
dirla con Irigaray, che il soggetto si forma come tale e si autorivela
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nell’espressività discorsiva, insinuandosi come tentativo di pensare e dirsi
in una lingua che, seppur non è mai appartenuta loro, faccia risuonare la
voce di donna. A questo punto, il discorso di Irigaray si incontra con
quello di Hèléne Cixous che, nei saggi Le rire de la Méduse e Sorties del
1975, propone una écriture féminine in grado di mostrare la differenza
linguistica delle donne rispetto agli uomini; una écriture féminine che si
possa praticare, tentare e improvvisare senza ostentazioni di alcun tipo
e attraverso strutture sintattiche e linguistiche nuove, femminili che
favoriscano l’eterogeneità, la molteplicità e la differenza dettate da
un’originaria voce materna, piena, ricca e ancorata nel corpo femminile.
Intorno al 1980 le posizioni teoriche del femminismo francese
irrompono sia in alcune aree europee – in Italia, per esempio, la tematica
della differenza sessuale e della costruzione di un’alternativa femminista
al linguaggio è sostenuta dalla Libreria delle Donne di Milano e da un
gruppo di pensatrici di Verona denominato Diotima, fra le quali emergono
subito Luisa Muraro e Adriana Cavarero – sia in area statunitense
contribuendo a svolte decisive negli orientamenti dei settori più avanzati,
sul piano dell’elaborazione teorica, del femminismo internazionale. Il
carattere militante degli esordi è andato sfumando in una sempre
maggiore accentuazione degli aspetti teorici e teoretici dei problemi. In
un certo senso, proprio l’influenza del pensiero francese ha contribuito a
spostare il dibattito sul piano della teoria e della metodologia di analisi e
di ricerca in opposizione agli studi sul g e n d e r della tradizione
anglosassone. Il dibattito tra queste due posizioni si è bloccato negli anni
Ottanta in una polemica, che Rosi Braidotti definisce in Nuovi soggetti
nomadi (2002) “tutto sommato sterile tra opposti paradigmi culturali e
teorici cha partono da diversi assunti riguardo alla pratica politica”. Le
rivendicazioni del pensiero francese – e per sua forte influenza, anche
italiano – sono tutte tese a dimostrare che la nozione di gender è legata
alla peculiarità della lingua inglese ed è priva di equivalenza all’interno
delle tradizioni teoriche delle lingue romanze. Gender, quindi, sarebbe un
termine di una specifica cultura e di conseguenza intraducibile.
L’inasprirsi di questo dibattito ha portato negli anni Ottanta a un
estenuante processo di revisione critica del concetto di gender tanto da
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caratterizzare quegli anni di acceso dibattito come crisi del gender. Un
altro momento centrale nella discussione sulla crisi del gender è stato
quello dell’accademizzazione del pensiero femminista. Da subito è
emerso un problema principalmente di definizione: Women’s studies o
Gender studies? Sembra che in ambito accademico la preferenza per
gender sia dovuta a un apparente tono e rigore scientifico per il fatto di
sembrare un termine più rassicurante per una pratica istituzionale
rispetto alla più provocante espressione di studi femministi. Ed è proprio
per la presunta scientificità del primo termine che si spiegherebbe in
parte il successo registrato di recente dai gender studies presso
università e case editrici. Successo che avrebbe portato, secondo un
certo gruppo di teoriche, ad uno spostamento dell’ottica di analisi
propriamente femminista ad una molto più generica orientata alla
costruzione sociale delle differenze di gender.
Con l’obiettivo di trascendere queste speculazioni fortemente
restrittive, si potrebbe tentare di svelare, piuttosto, la più ampia e
produttiva inter(el)azione tra i Women’s e i Gender studies, facendo
appello alla loro comune natura multidisciplinare, eterogenea, permeabile
e contaminante. Per questo, proprio ripercorrendo la sua genealogia, si
nota che il pensiero femminista non si caratterizza come complesso di
teorie organiche e di elaborazioni sistematiche da cui articolare precisi
indirizzi strategici, ma diventa la sede privilegiata di un incontro tra
posizioni differenti, ibridismi, contraddizioni, domande, spunti di
riflessione e di lotta, dibattiti aperti, la cui dinamica e sorprendente
eterogeneità difficilmente si lascia inquadrare in schemi o criteri di
appartenenza. Ecco, dunque, il risvolto della questione: bisogna
rivalutare il pensiero femminista in riferimento alle tracce che esso ha
lasciato sia nei Women’s studies che nei Gender studies perché, per la
proprietà transitiva che regola ogni sapere fluttuante, non si può pensare
agli uni senza gli altri, dato che nei primi, per esempio, si elegge il gender
come strumento che consente una messa a fuoco delle inter(el)azioni
tra la donna e l’altro, la cultura e la società, il sociale e il simbolico, la
dimensione della rappresentazione e lo spazio dell’identità femminile;
negli altri, è il gender che si visibilizza, si lascia rintracciare, discutere,
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criticare, decostruire proprio attraverso il ripercorrere del pensiero
femminista che diventa, al contempo, schizzo, tela, cornice e quadro dei
Women’s studies. Ma nello spazio di più generazioni, i Women’s e Gender
studies si con(no)tano per una revisione globale dei grandi saperi che,
per esempio, rileggendo polemicamente il canone della letteratura
ufficiale, mostra come nei loro testi si manifesti l’ideologia patriarcale.
Una revisione che, grazie all’opera di rilettura della critica femminista
americana e non, recupera e valorizza una tradizione culturale e
letteraria al femminile marginalizzata e adombrata dal canone estetico
imperante. Negli ultimi vent’anni il panorama politico delle aree del
mondo occidentale nelle quali è nato il femminismo entra in crisi. È in
questo quadro che si rafforza anche l’accademizzazione dei Women’s e
Gender studies che si configurano sempre più come luoghi di attività di
ricerca e di riflessione non più collegata solo a un movimento delle donne
politicamente organizzato come era stato negli anni Settanta, ma a
gruppi di docenti universitari e impegnate in un lavoro teorico di
revisione dei concetti e questioni filosofiche di fondo. In particolare, i
Women’s e Gender
studies interpretano la postmodernità come
un’importante occasione: il declino delle grandi narrazioni dissolve il
privilegio prospettico di un punto di vista centrale e la pretesa di
un’interpretazione universale e stabile della realtà che (con)cedono
spazio a nuove configurazioni di identità alternative e ibride, che
confondono i confini delle categorie con le quali la modernità aveva
organizzato il reale. Studiose, teoriche e critiche femministe cercano di
chiarire e ripensare in modo nuovo temi quali l’identità, il corpo, la
soggettività, la diversità. Da qui, il tipo diverso di impegno teorico
riservato a lettrici più specialistiche e più colte rispetto a quelle cui si
rivolgevano le pensatrici femministe degli anni Settanta e segnato, dalla
metà degli anni Ottanta, dalla presenza crescente nella cultura filosofica
anglo-statunitense, dell’influenza delle tesi delle intellettuali francesi,
quali Irigaray, Kristeva, Cixous, Wittig e anche dei teorici del poststrutturalismo quali Derrida, Foucault, Barthes, Deleuze. Il femminismo
teorico di lingua inglese comincia a parlare la lingua della decostruzione,
del post-strutturalismo e del postmodernismo seguendo un percorso che
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lavora alla ridefinizione del gender attraverso la questione della politica
della soggettività. In particolare, il problema della soggettività e
dell’identità nella letteratura delle donne e nella critica femminista
rappresenta uno dei nodi centrali, e forse, più controversi partendo dal
semplice livello terminologico. Di per sé il termine soggetto appartiene
propriamente alla svolta moderna della storia della filosofia e trova il suo
ambiente più noto nell’orizzonte del cogito cartesiano che era sancito
come uno, reale, razionale e universale. Nel dibattito postmoderno,
questo soggetto viene polverizzato in frammenti plurimi, instabili ed excentrici, che mostrano quanto illusoria sia tanto la sostanza dell’uomo
come la pretesa realtà del sé. Dal dibattito postrutturalista sul soggetto
si ha la teorizzazione di un’identità precaria e contraddittoria che il
femminismo anglo-americano accoglie, nei suoi aspetti più fecondi,
impegnandosi alla demistificazione del concetto essenzialista di Donna,
dove la maiuscola del singolare viene sostituita da una minuscola che ci
introduce alla categoria della pluralità e delle differenze di donne. Ma la
traccia più profonda che Derrida lascia nei percorsi dei Women’s e
Gender Studies è, senza dubbio, la teorizzazione di linguaggio come
différance, come relazione differenziale e differita, generatrice di senso
che erode e contrasta tutte le pretese dell’identità uni(vo)ca. Nella
filosofia della decostruzione anche l’opposizione uomo/donna va
neutralizzata e la donna diventa l’altro , différance. Contro il soggetto
decostruito, Miller propone, in un suo articolo Arachnologies. The
Woman, The Text, and the Critic (1986), una poetica del leggere la
donna e il genere nel testo ed una pratica critica chiamata aracnologia,
che si pone contro l’indifferenza diffusa per scoprire l’incarnazione di una
soggettività sessuata nella scrittura. Tra le prime teoriche che hanno
messo in crisi il soggetto femminile/femminista neutramente bianco, si
trova Adrienne Rich che nello scritto Notes towards a Politics of Location
(1986) – contagiato fortemente dal pensiero di scrittrici di colore come
Audre Lorde – mette in guardia contro i rischi di una pratica di lettura e
di una teoria dell’identità che non prendano in considerazione le
differenze di razza, etnia, classe, età e preferenza sessuale che esistono
tra donne. Sempre in sintonia con alcune delle posizioni espresse dalla
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Rich si trovano anche quelle parti della critica femminista chiamate postcoloniale e etnica che annovera, tra le voci più significative, quelle di
Trinh T. Minh-ha, Chandra T. Mohanty e Gayatri C. Spivak. La loro
produzione teorica da un lato mette in discussione la tendenza da parte
del femminismo bianco a riprodurre un discorso monolitico che vede le
donne del terzo mondo come altre, facendo sì che la donna occidentale
diventi il soggetto femminile normativo e, dall’altro indaga, da un punto
di vista femminile, sul pericolo dell’egemonia della critica femminista
statunitense, un’egemonia che paradossalmente rischia di riprodurre gli
assiomi e la logica dell’imperialismo.
Fra le studiose femministe che hanno parlato della soggettività
femminile come il luogo delle differenze c’è anche Teresa de Lauretis
che, nel 1990, conia l’espressione queer theory per designare le più
differenti pratiche sessuali emarginate e contribuisce alla sua diffusione
in ambito femminista. In particolare, De Lauretis mette in luce il
passaggio graduale, nel settore degli studi culturali delle università
statunitensi, dai Women’s studies ai Gender studies e, infine, a quelli sul
Post-gender. Nel 1990 De Lauretis pubblica Eccentric Subjects. Feminist
Theory and Historical Consciousness, in cui attribuisce all’impulso postcoloniale il merito di avere dato specificità ed autonomia alla teoria
femminista e ci introduce ai soggetti eccentrici, soggetti altri, lesbici,
inappropriati, che designano la posizione del soggetto non legittimato
dal discorso egemone. Si è già detto che la decostruzione del soggetto
tradizionale ha portato le femministe a configurare nuove soggettività
femminili mettendo a nudo la loro natura liminale e ibrida. In particolare,
Donna Haraway, Gloria Anzaldúa, Monique Wittig e Rosi Braidotti hanno
proposto nuove soggettività rappresentate, rispettivamente, dal/la
cyborg , la m e s t i z a , la lesbica e la nomade. Queste con-figurazioni
condividono una preferenza per la trasgressione dei confini e una critica
del pensiero binario. Ecco, dunque, un’altra causa-effetto della
postmodernità che di-spiega l’esperienza della corporeità, nelle relazioni
sessuali e nella stessa configurazione del sesso. Le norme convenzionali
delle relazioni corporee tra i generi e all’interno del genere sono sempre
più aperte a nuove sfide e a nuove trasformazioni. I corpi stessi mutano
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e si trasformano per dare vita a nuovi corpi postumani. La prima
condizione di questa trasformazione corporea è la consapevolezza che la
natura umana è essa stessa completamente artificiale ed è aperta a
nuove contaminazioni, mutazioni, mescolanze e ibridazioni. Non solo
sovvertiamo consapevolmente i confini tradizionali ma ci muoviamo
anche nel mezzo, in una zona creativa e indeterminata, senza curarci dei
confini. Quello che emerge è la necessità per le studiose e critiche
femministe di pensare all’identità come a un luogo di (incontro di)
differenze. La nuova geo-grafia dell’identità ha portato a fare convivere i
due momenti opposti: da un lato, l’enfasi sulle differenze rin-traccia una
sottolineatura dei confini tra persone a tal punto che differenza si svuota
di ogni teorizzazione per significare solo divisione; dall’altro, ha portato
alla ricerca utopica e, al tempo stesso, concreta di spazi liminali, di
ibridità e contaminazione. È proprio in questa ricerca, comunque, di un
terreno comune di coalizioni che risiede la sfida dei Women’s e Gender
studies di fine secolo: non nella contrapposizione di varie culture le cui
frontiere rimangono intatte, né nell’azzeramento di ogni differenza, ma
nell’accettazione della complessità e della relazione cangiante tra le
identità in gioco.
(Cfr. anche Black Cultural Studies , Border Crossing , Critica
archetipica, Critica letteraria femminista, Cultura cyborg, Decostruzione,
Gender history, Politica culturale, Psicoanalisi della cultura, Semiotica,
Storia dei concetti, Storia delle mentalità, Studi gay e lesbici, Studi
(post-)coloniali, Studi queer , Studi sugli stereotipi e sul pregiudizio,
Subaltern Studies, Teorie della corporeità)
Critica
Femminista,
Cyborg,
Decostruzione,
Différance,
Differenza/Divisione, Écriture Féminine, Emancipazione, Essenzialismo,
Etica della differenza sessuale, Gender Studies, Lesbian Studies, Lesbica,
Liberazione della donna, Mestiza, Mistica della femminilità, Nomade,
Patriarcato, Parler femme, Pensiero femminista, Pensiero della differenza,
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Politica della soggettività, Post-gender, Postmodernità, Queer theory,
Studi post-coloniali, Suffragismo, Women-centered Perspectives.
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