Untitled - Circolo Istria

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Untitled - Circolo Istria
DA CHERSO AL CARSO
PARCO DI MITO STORIA TRADIZIONI
REALTA' E RIFLESSIONI SUL FUTURO
PRESENTAZIONE
Dopo l’uscita degli atti relativi al seminario «Istria, un futuro possibile: lo
sviluppo dell’Istria e la cooperazione con il Nord-Est», riprendono con questo
volumetto le pubblicazioni del Circolo di Cultura Istro-Veneta «Istria».
L’uscita avviene in un momento delicato, dopo le diverse e forse eccessive
speranze maturate a partire dal 1989 ed in una situazione di impasse nelle relazioni
tra gli Stati di IItalia, Slovenia e Croazia.
Una serie di articoli, quelli di Livio Dorigo, o meglio, delle riflessioni che
partendo da ipotesi (utopie?), obiettivi e proposte concrete, intendono raccogliere
la sfida per contribuire a definire un nuovo ruolo per noi, modesti operatori
culturali con radici profonde in questo territorio, ma anche per la nostra Città. Il
volumetto, realizzato con il contributo dell’U.P.T. e dell’I.R.C.I., vuole essere anche
strumento propedeutico per incontri tematici destinati ad un pubblico mirato, in
parte già realizzati ed altri programmati, su agriturismo, apicoltura, olivicoltura,
zootecnia,…
L’obiettivo è quindi vedere se, passo dopo passo senza fughe in avanti, è
possibile guardare al domani storicizzando, senza rimuoverlo, un passato –
settant’anni di storia in queste nostre terre – che per molti sembra essere ancora un
ostacolo invalicabile: un passato che sembra non passare mai, rendendo ancora più
incerto il cammino verso l’Europa. Come tutte le iniziative del Circolo «Istria»,
anche questa esprime la precisa volontà di contribuire ad approfondire il dialogo, il
confronto e di recuperare un rapporto di fiducia reciproca tra i cittadini di queste
terre, prospettando delle soluzioni e non usando il passato come strumento di
divisione nel presente.
Proprio per questo l’Alto Adriatico e in particolar modo l’Istria
multiculturale e multietnica, dove vive e lavora la nostra Comunità, rappresenta
anche un significativo test per noi, ma soprattutto per la politica estera del nostro
Paese.
Un’Istria dialogante con le tre capitali, laboratorio per un’Europa casa
comune dei popoli, delle culture e dell’ambiente, inteso come risorsa e ricchezza
che supera le dimensioni dei confini nazionali. Un’Istria punto di incontro tra le
culture italiana, tedesca, slovena e croata, da premiare oggi per la convivenza e la
solidarietà interetnica che sa esprimere, modello dal quale partire per favorire un
presente ed un futuro di collaborazione, integrazione e sviluppo per tutta l’Europa,
tutelando, quali valori europei, le identità ed i patrimoni di specificità di queste
nostre affascinanti, delicate, complesse regioni di confine.
Marzo 1996 – Marino Vocci
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PREFAZIONE
Sono quasi quindici anni che il Circolo di Cultura Istro - Veneta "Istria"
dedica la sua attività allo studio, alla reciproca conoscenza e alla valorizzazione di
tutte le culture esistenti sul territorio istriano per favorire in esso e nelle regioni
vicine un futuro di dialogo e di collaborazione.
In tal senso, le prime iniziative del Circolo sono state dedicate alle tematiche
dell'educazione, dell'arte, dell'ambiente, ecc...; ora, con l'affacciarsi al mercato
della Slovenia e della Croazia, l'economia diventa lo scenario più importante entro
cui matureranno e si evolveranno i futuri equilibri della regione istriana e l'attività
del Circolo.
Sarà l'Istria zona di sviluppo in cui la terra verrà considerata semplice
supporto di attività industriali per profitti esterni ed un terziario interamente
dedicato al turismo di massa, ancor più limitato di quanto non lo sia ora alla zona
costiera e concentrato in pochi mesi; oppure l'Istria sarà zona di progresso in cui
l'attività primaria continuerà ad essere motivo di radicamento delle culture
autoctone sul territorio, ospiterà un'attività artigianale ed industriale diffusa ed un
turismo capace di utilizzare anche le zone interne, ora abbandonate,
valorizzandone la storia, l'arte, il paesaggio ed i prodotti tipici?
Come in ogni dopoguerra, dice Livio Dorigo, attuale Presidente del Circolo
"Istria" ed autore di questa raccolta di articoli, sarà proprio il rapporto tra
sviluppo e progresso a delineare il futuro dell'Istria.
E' un dilemma che egli pone non solo come conoscitore del mito, della storia
passata e contemporanea nonchè dell'attualità della regione istriana, ma anche
come ricercatore universitario prima e come professionista poi, veterinario,
testimone e critico disincantato dei costi umani ed ambientali di un profitto tratto
da produzioni agrozootecniche massificate.
E' quello delineato qui sopra il senso più profondo di questa raccolta di
piccoli saggi, alcuni già pubblicati, la maggior parte inediti, che Livio Dorigo offre
ai suoi conterranei da pari a pari, ma con la sicurezza di uno che ha visto, ha fatto
e vuole ancora progettare e fare. Fare non con la mentalità predatoria con cui si
stanno affacciando all'Istria certi capitali d'oltr'Alpe o d'oltre Danubio, ma con
progetti rispettosi dell'idillio rinascimentale tra natura e cultura, evidente ancora
oggi nella maggior parte dell'Istria: certi borghi, come Montona, certe stanzie poste
in posizione rilevata e circondate da cipressi, i dolci declivi collinari terrazzati e
coltivati a vite non ricordano forse paesaggi umbri o toscani, noti anche per esser
stati illustrati dai sommi della pittura italiana?
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Gli articoli raccolti in questo libretto non hanno una struttura omogenea, si
passa dal pezzo d'intonazione giornalistica, alla nota autobiogafica, al saggio, alla
parabola,...
Tutti sono però collegati tra loro dall'amore di Livio Dorigo per la terra
istriana e per gli uomini di qualunque cultura, proprio perchè prima di tutto
uomini, che ne hano costruito la storia. Tutti sono inoltre collegati da un senso
mediterraneo dell'equilibrio, dell'armonia, della "sensibilità ecologica" di chi sa
che nell'Istria, come nel resto del Mediterraneo,acqua e sole, le forze della vita, non
agiscono in sinergia come nei lussureggianti climi equatoriali, ma agiscono
separate, sempre avare, talvolta contro l'uomo, la cui previdenza e la cui fatica non
devono perciò mai demordere. Ciò tanto più nelle zone istriane di natura carsica,
dove l'acqua scompare appena caduta, per ricomparire poi in mare a chilometri di
distanza. Motivo ulteriore di prudenza, perchè ciò che si fa in terra ha immediati
riflessi in mare. Ecco qui uno dei significati dello slogan "Da Cherso al Carso", che
ritorna frequentemete.
Dopo aver a lungo discusso di questi argomenti ed aver apprezzato lo spirito
con cui l'autore li tratta, l'ho convinto a darli alla stampa, nonostante la sua
ritrosia, sicuro che, come me, anche altri istriani ne potranno beneficiare
soprattutto come punto di riferimento in un momento di incertezza, se non di
confusione.
Sono stato io poi a scegliere la successione degli articoli; me ne assumo la
responsabilità, sperando che la scelta non nuocia ed augurandomi, al contrario,
che la lettura di questo sentito lavoro di Livio Dorigo dia a molti altri istriani la
stessa emozione e la stessa soddisfazione che ha dato a me.
Marzo 1996
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Giuliano Orel
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PREFAZIONE ALLA II EDIZIONE
Livio Dorigo, il pagano
La parte maggiore di questa raccolta di scritti di Livio Dorigo proviene dal
primo volume, interamente suo: "Da Cherso al Carso. Parco di mito, storie e
tradizioni. Realtà e riflessioni sul futuro". Un'altra parte è comparsa nel secondo
volume: "Da Cherso al Carso". Itinerari nei luoghi, nella storia e nelle culture,"
che comprende anche contributi di altri autori. Altri cinque quadretti ecologici sono
nuovi, ma si inseriscono armoniosamente nel contesto già delineato: l'Istria del
mito, l'Istria dei campi e del mare, l'Istria della storia e della cultura, l'Istria dei
contatti e dei rapporti, l'Istria del domani, Europa già oggi.....Questi riferimenti
non nascono perciò dal rimpianto di uno che ha dovuto lasciare la sua terra, ma da
un legame affettivo e culturale di uno che, pur lontano per molto tempo, quella
terra non ha mai lasciato e vive oggi nel timore che quello che non è riuscito alla
barbarie dell'uomo del passato possa riuscire alla barbarie dell'uomo della
tecnologia del presente e del futuro. Quest'ansia parte dall'Istria, ma non si ferma
ad essa, anzi si propone come sentinella di un mondo più ampio, di tutto il mondo:
dappertutto, dice Livio Dorigo, la tecnologia percorre la strada della
semplificazione, della omologazione, della massificazione, cercando di cancellare
le migliaia di anni di evoluzione che sono stati necessari per arrivare al bue, alla
pecora, all'ape, al maiale più adatti a vivere su un determinato territorio per
estrarre da esso il meglio, attraverso un rapporto sostenibile.
Dappertutto la tecnologia tenta di tagliare le radici che ancorano l'uomo al suo
passato materiale; distrugge gli strumenti che ognuno di noi utilizzava per modificare
cose della natura attraverso il lavoro e renderle adatte ai suoi bisogni; cancella la
memoria dell'odore dell'erba appena tagliata, del sapore del pane appena sfornato,
del prosciutto crudo o, meglio, dei prosciutti crudi....; fa dimenticare la scansione
delle stagioni, segnate un tempo dalla nascita degli agnelli, in marzo, dai fuochi di
San Giovanni, in giugno, dalla mietitura, dalla vendemmia, dalla transumanza in
pianura dopo la stipula dei contratti per i baré a San Martino,... C'è da chiedersi: che
cosa vuole suggerire Livio Dorigo con questi continui richiami ai tempi della natura
ed ai tempi dell'uomo, in passato così intimamente embricati?
Vuole forse riproporci una mitica età dell'oro, un bucolico quadretto di pace in
cui tutto era sobria armonia? Vuole riproporci un nuovo mito del buon selvaggio da
contrapporre alle esasperate proposte di Prometeo?
No! Livio Dorigo, essendo stato ricercatore universitario prima, valente
veterinario dopo ed attivo ancora adesso soprattutto nel settore apistico, sa bene che
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se dovessimo rinunciare alla meccanica agraria, agli apporti della chimica
nell'agricoltura e nella zootecnica ci troveremo seminudi, al limite della fame,
tormentati dai parassiti, con le messi rovinate o consumate da insetti, roditori,
uccelli. Non è perciò il progresso tecnologico in sè da condannare! Devono essere
condannati gli abusi che se ne fanno per obiettivi quantitativi, attraverso l'agricoltura
di rapina, attraverso la massificazione della produzione vincolando i produttori ai
brevetti ed ai monopoli dalla semina al raccolto, dalla fecondazione, allo
svezzamento, alla macellazione, alla ... mucca pazza, al vitello clonato, perseguendo
così anche nell'uomo l’obiettivo di allargare lo iato tra natura e cultura, funzionale a
nuovi brevetti, a nuovi monopoli. Bene! Ma se questa è la critica negativa, critica che
può essere condivisa, quale può essere la via d'uscita da questa situazione? Il
suggerimento dell'autore di questi piccoli idilli agricolo pastorali in prosa è
racchiuso essenzialmente in una parola: agriturismo. Non si tratta certamente di un
toccasana planetario, ma viene proposto per territori a spiccata diversità ambientale,
dove ancora la meccanizzazione spinta non è conveniente, dove la fragilità
ambientale non resisterebbe all'impatto di un'agricoltura e di una zootecnia intensiva
e non resisterebbe nemmeno ad un turismo intensivo strettamente delimitato
temporalmente e territorialmente come quello dell’Istria attuale. E' una soluzione che
viene proposta "Da Cherso al Carso", ma che potrebbe essere ampliata alle coste
della Dalmazia ed alle isole Dalmate per salvare in fin dei conti l'Adriatico, il più bel
mare del mondo, dalla trasformazione delle sue coste nelle due ganasce di una morsa
di cemento. "L'agriturismo rappresenta quindi un nuovo modo di produrre,
trasformare e commercializzare i prodotti della campagna [e del mare, n.d.r.]
rendendo il contadino- produttore ed il cittadino-consumatore protagonisti di una
rivoluzionaria trasformazione agrozootecnica. Si abbandonano le produzioni di tipo
industriale che [...] tendono solo alla quantità a danno della qualità del prodotto [...]
e si ritorna a produrre nel modo tradizionale, all'insegna della genuinità e della
salubrità [...] con risultati capaci di attenuare ed in alcuni casi annullare l'eterno
antagonismo tra il mondo della campagna e quello della città". La semplicità di
questa
affermazione
maschera
peraltro
l'importanza sociale e politica di un processo di questo genere, se è vero che, come
sembra indicare Paolo Rumiz, molti aspetti del recente conflitto balcanico potrebbero
essere ricondotti proprio alla mancata soluzione di questo dualismo.
Accingendomi a questa presentazione, mi sono chiesto se ci fosse la possibilità
di descrivere con una sola parola l'atteggiamento di Livio Dorigo nei confronti dei
problemi trattati. La soluzione più accettabile mi è stata offerta dalla parola
"pagano", non certamente nell'accezione che la contrappone a "cristiano", ma in
quella di abitante del pagus, del villaggio, fedele ai suoi valori sacri tradizionali, agli
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atti pubblici della sua religione ed ai rituali della fertilità, della vita, della
trasformazione delle cose, della morte, del sacrificio,...
Ho detto però che Livio Dorigo è ben lontano da riproporre il mito del buon
selvaggio, un ritorno ai pagi di una società agropastorale.
Tutto il suo lavoro si rivolge al domani, non rimane legato in modo nostalgico
al passato; i suoi inviti, i suoi incitamenti, i suoi progetti non sono altro che la
prefigurazione di un rapporto più corretto, di una nuova pace tra uomo e natura e
perciò tra uomo e uomo, soprattutto per la sua Istria, dove le antiche tradizioni legate
alla terra ed al mare ed il ricordo di antiche e recenti tragedie costituiscono
l’esortazione più valida a lavorare assieme a tutti gli istriani per realizzare questa
nuova pace.
Giuliano Orel
Trieste, 16 novembre 1998
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IL PROBLEMA DELL'ISTRIA E' DI ATTUALITA'
Il problema dell'Istria esce dall'oblio; da un po' di tempo se ne parla con sempre
maggiore insistenza ed interesse a vari livelli nei media, negli ambienti politicogovernativi e partitici. Si parla dei beni abbandonati dagli esuli e dello Statuto della
Regione istriana; si approfondisce la sua storia recente e le ragioni della rimozione del
problema istriano da parte dell'Italia; se ne parla non solo nelle nazioni coinvolte
direttamente ma anche in sede internazionale ed europea, in particolare.
E' il momento dell'Istria.
Si parla dell'esodo, delle foibe e delle motivazioni che hanno spinto gli istriani ad
abbandonare così massicciamente la loro terra. Ma le argomentazioni non concordano. I
dati numerici differiscono enormemente. Le analisi spesso non si sviluppano con
metodologie storiche ma con la faziosità e la capziosità della politica. Gli archivi
rimangono inaccessibili, ed a distanza di cinquant'anni non c'è ancora pietà per i morti,
ma strumentalizzazioni impietose.
Si riprende il discorso della Regione Istria, oggi Regione Europea.
Il discorso di una regione autonoma nello scacchiere giuliano non è proprio del
tutto nuovo. Se ne è parlato alla fine dell'ultimo conflitto e se ne è ridotto
progressivamente il perimetro territoriale fino a restringerlo alla ridicola zona del
Territorio libero di Trieste, per poi non farne nulla.
Ora si parla di Istria Regione autonoma; e sotto questo titolo scorrono
innumerevoli temi.
I confini storico-geografici dell'Istria partono dal Timavo per chiudersi con il
Quarnero; lungo questo territorio sono state tracciate nei secoli infinite delimitazioni a
dimostrazione della impossibilità di una sua divisione. Ora appartiene a tre stati
sovrani; uno di essi è in aspra contesa diplomatica con il secondo per la definizione
delle linee di confine terrestri e marittime. Il terzo paese, l'Italia, si torva in una delicata
fase politica di transizione che lo priva della necessaria serenità per la conduzione della
politica estera relativa allo scacchiere in questione.
Istria-Europa è quindi una invocazione corale, articolata su numerosi toni, alcuni
utopici, come quelli che prefigurano l'ingresso dell'Istria in Europa come entità politico
amministrativa autonoma, altri provocatori che considerano l'Istria bisognosa di
traghettatori temporanei e particolari verso l'Europa stessa.
Uno solo realistico. Quello della via europea dei tre stati presenti sul suo
territorio, via che permetterebbe il superamento progressivo e poi l'annullamento dei
confini statuali per renderli pure finzioni amministrative.
Soluzione realistica; da affrontare però con la dovuta cautela per le numerose ed
obiettive difficoltà di natura sia contingente che strutturale rappresentate dai conflitti in
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atto, dal coinvolgimento di realtà nazionali che dimostrano difficoltà a svestirsi
dall'abito comunista balcanico. Soluzione che esige tuttavia una attuazione la più
sollecita possibile per evitare che le situazioni gravemente compromesse da quanto
detto ed esasperate oggi da tendenze nazionalistiche, incidano sugli attuali rapporti inter
etnici, mettendo in più grave sofferenza la minoranza italiana in Istria, nel Quarnero ed
in Dalmazia. Queste difficoltà dovrebbero richiedere molto senso di responsabilità e
lungimiranza da parte della diplomazia italiana, delle forze politiche e da parte delle
organizzazioni degli esuli per l'influenza che possono esercitare su questa realtà. Ma se
gli approcci densi di distinguo, di contraddizioni e di ingiustificate titubanze nei
confronti della organizzazione dell'incontro primaverile degli istriani a Pola sono un
segnale, la strada realisticamente individuata sarà tutta in salita e forse non sarà
percorsa nella direzione necessaria a tutelare gli interessi delle minoranze.
Una spassionata lettura storico/naturalistica del territorio istriano e dei territori
circostanti può essere però di grande aiuto.
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I CONFINI DI UNA TERRA DI CONFINE
Percorsa l'uniforme pianura lombardo-veneta attraversando interminabili
piantagioni di granturco, abbandonato il suo monotono, piatto e un po' noioso
paesaggio, cui fa riscontro anche l'uniformità del cielo, e superato l'Isonzo, nei pressi
delle foci del Timavo, improvvisamente ti si presenta dinanzi lo zoccolo calcareo del
Carso con ciglioni, falesie, grotte, doline, foibe ed inghiottitoi ed un cielo di neverini,
con squarci d'azzurro di bora, azzurro diverso da quello dello scirocco e del maestrale.
Senti questi venti anche sulla pelle: quasi salata con garbin, ostro e scirocco, secca e
tesa con la bora. Varia così anche il tuo umore e quello della gente che sembra per
questo anche un po' matta. Queste atmosfere incuriosiscono e meravigliano anche chi
qui è nato e sempre vissuto, perché paradossalmente piove e c'è il sole e ti accolgono i
contrasti tra il clima atlanto/mediterraneo e quello siberiano. Così la salvia ed il
rosmarino si mescolano al carpino e al sommacco; l'ape ligustica lascia il posto al suo
ibrido con la carnica e la pecora padana a quella istriana che, in barba ai secoli, non ha
ancora raggiunto l'uniformità di una razza pura, ostinandosi a manifestare tutta la sua
ricchezza genetica. Dal Timavo ti vengono incontro le reti dei Castellieri, quel sistema
di fortificazioni presente su tutte le alture disponibili; ti accompagneranno nel corso di
tutti gli itinerari istriani. Le lingue d'uso e le etnie s'intersecano e ti giungono
all'orecchio i dialetti sloveni, l'istro veneto, poi l'istro rumeno dei cicci, più giù il
ciakavo ed ancora l'istrioto o istro-romanzo. Qui anche i fiumi non scendono
tradizionalmente al mare, ma vi salgono, scaturendo in esso dai fondali come polle
dopo aver consumato lo zoccolo calcareo: le acque spariscono a S. Canziano per
riaffiorare a Duino; vengono inghiottite dalla Foiba di Pisino per ricomparire nel Canal
d'Arsa ed in quello di Leme.
Dopo i Monti della Vena e del Caldiera riprende un'altra uniformità, quella
dinarica.
Così, appena giungi in questa terra ti accorgi e non hai dubbi che questa sia una
terra di incontri, terra di confine.
In virtù della loro particolare posizione geografica, collocati tra Mediterraneo ed
Europa centrale, tra Italia e Penisola balcanica, l'Istria ed il Carso sono stati fin dalle
epoche più remote area d'incontro tra genti e culture diverse e proprio la loro
mescolanza e la loro stratificazione hanno dato origine in ogni tempo alle più svariate
sfumature culturali.
Le più antiche popolazioni dell'Istria erano costituite da tribù di Istri, "genti
paleo-europee" legate attraverso il mito degli Argonauti alle popolazioni pelasgiche del
Peloponneso, parzialmente illirizzate e definite "isros" o vigorosi dalle popolazioni
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indoeuropee che si insediarono con esse nella penisola e, sopratutto al Nord, con esse
convissero. Fanno fede di queste sovrapposizioni l'uso contemporaneo di toponimi
come Formio e Risanus per lo stesso fiume ed i toponimi greci, venetici, illirici...
Le popolazioni dell'Istria erano separate dalle popolazioni confinanti dal corso
dell'Isonzo-Timavo, dalla Catena del Nevoso e dal mare, confini che, lungi dal
costituire un baluardo, hanno al contrario favorito in ogni tempo contatti fra
popolazioni e idiomi. I contatti con altre aree culturali più estese sono stati sempre assai
intensi, fatto testimoniato da oggetti importati dalle Alpi orientali, dalla Valle padana,
dalle regioni italiane del basso e medio Adriatico. Si tratta di oggetti paleo veneti, elmi
conici di fabbricazione picena, manufatti etruschi, vasi iapigi della Puglia...
Particolarmente intensi risultano i rapporti con l'area apula, con Adria e Spina e quindi
con il fiorente commercio etrusco-greco. L'Istria ha così assunto una funzione di punto
d'incontro e di mediazione tra cerchie diverse ed ha svolto questo ruolo in modo
completo nei secoli successivi elaborando una cultura differenziata rispetto a quella
delle regioni adiacenti.
La romanizzazione fu certamente molto precoce, rispetto alle date che la
storiografia assegna alla conquista romana dell'Istria, in quanto gli interessi
commerciali precedettero la fondazione di municipi e colonie. Ambedue furono solo il
riconoscimento ufficiale di un processo già compiuto.
Alla campagna contro Roma parteciparono infatti prevalentemente gli Istri di
Nesazio e non tutte le componenti della Penisola che comunque anche in seguito
continuarono a convivere con le genti latine, come avevano fatto in passato.
E' nei tempi successivi, per soddisfare esigenze ed egoismi prevalentemente
esterni, che avevano anche la pretesa di mettere ordine in queste diversità, che questa
terra fu ripetutamente percorsa, divisa e smembrata da numerosi ed alterni confini
statuali. Ancor più numerosi furono quelli proposti, provocando tensioni ed
aggravandole per poi riuscire soltanto a dimostrare che questa regione rappresenta
nella sua complessa diversità un unicum indivisibile, una regione transfrontaliera. I suoi
confini naturali sono stati indicati da una Commissione del IX Congresso geografico
svoltosi a Genova nel 1924, incaricata di proporre una divisione tecnico-scientifica di
tutto l'arco alpino. In base a questo lavoro essi risultano contrassegnati dal corso del
Vipacco, dal Passo del Preval, dalla depressione della Piuca, dall'avallamento
Liburnico, dal Golfo del Quarnero e dall'alto Adriatico fino al fiume Isonzo.
Riguardo alle sue origini, girando per le campagne dell'Istria se ne sentono delle
belle. In questo contesto una storiella calza a pennello. Quando Dio decise di distribuire
le terre ai vari popoli, gli istriani giunsero all'appuntamento quando i giochi erano già
stati fatti. Su questo ritardo circolano due versioni. La prima dice che, essendo gli
Istriani dei grandi lavoratori, si erano stancati molto il giorno prima ed il giorno fatidico
si erano svegliati quando il sole era già alto; l'altra afferma che essendo gli Istriani
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inventori e detentori del dolce liquore, forse la sera prima avevano alzato il gomito un
po' troppo.
Sia come sia, essi si lamentarono tanto di tale esclusione che Dio stanco e stufo,
nella sua infinita bontà e non avendo altro sotto mano, affidò loro una penisola che
aveva riservato a sè stesso, tanto era bella e diversa da tutte le altre terre.
Ecco cosa ha determinato l'inizio di tutti i guai degli istriani: i popoli vicini,
invidiosi della loro bella terra, da allora fecero di tutto per impossessarsene e cacciarli
via.
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LA CASA DEL VICINO BRUCIA
Uno scambio di punti di vista sui "rimasti" e più in generale sui rapporti da
intrattenere coi cittadini istriani, avuto con un mio ex concittadino di Pola, residente a
Trieste, ove abito anch'io da un po' di tempo, ha messo in evidenza posizioni molto
differenti. Secondo il mio interlocutore con "quelli lì", responsabili delle nostre
disgrazie, non bisogna aver alcun rapporto: non è assolutamente dignitoso. Se le cose
per loro sotto Tito andavano male ed ora vanno forse peggio perchè Zagabria non
concede autonomia alcuna ed esercita pressioni opprimenti "Ben ghe stà, i podeva
andar via con noi". Lo diceva esprimendo soddisfazione, come se le loro disgrazie
alleviassero le sue sofferenze di esule.
Questo atteggiamento mi ha fatto venir alla mente un episodio capitato a Pola
tanto tempo fa e che nelle sue pur modeste dimensioni ha una certa analogia con il
modo di vedere le cose dell'Istria da parte di alcuni gruppi od associazioni degli esuli
istriani di Trieste.
Venne ad abitare nell'appartamento al di sopra del nostro una famiglia numerosa
con la quale già il primo impatto non fece prevedere rapporti idilliaci per il futuro.
I nuovi arrivati effettuarono il trasloco nel corso di una giornata piovosa ed
infangarono atrio, scale e pianerottolo. Per usi e costumi locali ogni famiglia era allora
tenuta a mantenere la pulizia di alcuni settori e rampe di scale di uso comune e la cosa
era particolarmente faticosa per la posizione scomoda che veniva ad assumere chi
doveva sbrigare tali faccende date le attrezzature allora disponibili: in ginocchio, acqua,
soda e spazzola di saggina. La pulizia delle prime rampe di scale, ovviamente le più
sporche, era di pertinenza della mia famiglia, che abitava al primo piano. I rapporti si
deteriorarono ulteriormente in modo irreparabile a causa delle abitudini vivaci e
rumorose dei nuovi arrivati e dei differenti cicli giornalieri delle due famiglie. Le ore
che noi dedicavamo al relax ed al riposo notturno coincidevano con quelle della loro
massima attività, così almeno a noi sembrava.
I nuovi arrivati disponevano di un apparecchio radio, per quei tempi una rarità
che poca gente facoltosa si poteva concedere e che suscitava invidia. La facevano
suonare a tutto volume nelle ore più impensate. Nel periodo estivo che stava
sopraggiungendo ciò causava ancora maggior fastidio in quanto, a causa del caldo, le
finestre venivano lasciate sempre aperte. Soffriva soprattutto chi doveva dedicarsi allo
studio in prossimità della chiusura dell'anno scolastico.
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Anche le nostre uscite da casa erano programmate per non imbatterci in codesti
inquilini, ma ciò era abbastanza agevole perchè le loro erano preannunciate dallo
sbatter di porte e da tonfi sulle scale, particolarmente sonori sul pianerottolo. Anche la
pulizia delle scale era diventata un'ossessione. Ogni qualvolta pioveva od il tempo si
metteva al brutto ci si metteva in ansia per l'incombente corvée. La massa di gente che
veniva a trovarli! Era una cosa imperdonabile che in così poco tempo avessero potuto
conoscere tanta gente e stringere così numerose amicizie!
Un giorno dall'appartamento dei nuovi arrivati incominciò a diffondersi un forte
ed acre odore di bruciato che invase anche l'appartamento sottostante. Accolsi quasi con
gioia l'idea che la loro casa potesse andare a fuoco.
In un attimo, uno di quegli attimi lunghissimi in cui l'immaginazione supera la
velocità della luce, con soddisfazione incontenibile vidi il nemico giustamente colpito e
distrutto. Fu solo un attimo però, perchè divenne immediatamente ovvio che l'incendio,
se di incendio si trattava, poteva diffondersi a tutto l'edificio, compreso il nostro
appartamento. Corsi immediatamente al piano di sopra. Al mio bussare alla porta non vi
fu risposta. Non doveva esserci nessuno. Nel frattempo il pianerottolo veniva invaso da
fumo sempre più denso. L'appartamento andava veramente a fuoco. Ci fu il panico. I
pompieri giunsero tempestivamente e tempestivamente sedarono il focolaio d'incendio
che già aveva intaccato e danneggiato le travi del tetto ed in modo irreparabile le loro
quattro povere cose, compresa la radio che andò distrutta. Era un aggeggio assai strano,
con ogni probabilità allestito dagli stessi ragazzi che la facevano andare a tutto volume,
forse a memento della loro bravura. La casa non era assicurata e le spese per le
riparazioni dei danni gravarono in millesimi su tutti i proprietari degli appartamenti
dello stabile. Sia stato il caso o la loro scarsa accortezza, la vicenda dei vicini aveva
coinvolto anche noi, che volevamo evitarli.
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PREPARIAMOCI AGLI INCONTRI
Predag Matvejevic nel suo "Breviario Mediterraneo" scrive: "le caratteristiche
che riteniamo mediterranee vanno sul lato del Levante più in là della costa verso la
Persia o per meglio dire è da lì che sono venute; per queste strade sono venute a noi le
profezie. E' lì che sorge il sole e calano le prime ombre sul Mediterraneo".
A guardare la storia degli uomini ed ancor più la storia naturale non si può non
esser d'accordo con Matvejevic; e non solo le profezie sono venute da lì, ma i cavalli
dalle steppe, i bovini dalla Podolia, le api dal Caucaso, il baco e la sua seta dalla Cina,
tutti assieme alle loro tremende panzoozie; anche i popoli nelle loro migrazioni con le
loro malattie son venuti da lì.
Dalla Colchide gli Argonauti portarono il vello d'oro, ma anche tragedie.
Stremato dall'India, Alessandro da lì spianò la strada al cristianesimo. Sul Danubio i
Romani consolidarono con circospezione il loro impero. Dopo il balzo colombiano al di
là dell'oceano l'attenzione dell'Europa si è rivolta di nuovo ad oriente e due temerari
hanno sfidato successivamente con alterigia il corso del Sole, causando inutili e
tremendi lutti il primo all'Europa, l'altro al pianeta intero. E' di nuovo verso di là che
l'Europa deve guardare! E' lì il suo destino. Meglio predisporlo agli incontri che agli
scontri!
Si ipotizza che l'evoluzione sia un processo ormai esaurito; sarebbe diminuita la
plasticità degli organismi, facendo sì che la vita sulla terra non progredisca più e tutte le
linee evolutive abbiano finito il loro progresso. Farebbe eccezione la specie umana la
cui evoluzione continuerebbe a sollecitare i popoli nelle loro migrazioni.
Si può arrestare il corso del Sole e l'avanzata delle genti? Si può rallentare lo
sviluppo dei fenomeni naturali con conseguente accumulo di energia che può
naturalmente deflagare quando meno è opportuno?
La guerra fredda ha temporaneamente congelato il progressivo spostamento delle
genti. Con la caduta del Muro di Berlino la loro avanzata ha però ricevuto nuovo
impulso. Talvolta questo movimento ha assunto proporzioni bibliche; ora si realizza
attraverso migrazioni di singoli piuttosto che per orde organizzate.
I popoli giovani, coesi da recente e forte sentimento nazionale, non hanno
apparentemente affinità elettive con vicini di civiltà millenaria, frutto dei più svariati
apporti, legati alle numerose invasioni che hanno progressivamente, se non annullato e
19
completamente superato, sicuramente attenuato nel loro profondo le tensioni
nazionalistiche.
Il vigore, spesso arrogante, proprio dell'esser culturalmente giovani, accentua la
spinta atavica verso occidente.
Nel primo impatto, le leggi e le regole, la tradizionale capacità di cooptazione,
caratteristica essenziale di una millenaria cultura del rapporto sono sicura garanzia per
una reciproca conoscenza, tolleranza e successiva convivenza.
A meno che non vengano eretti steccati artificiali, facendo appello a posizioni
pseudoculturali, la stessa dinamica evolutiva, che è essenza di vita, mantenendo di
ognuno le caratteristiche salienti, è in grado di produrre una comune cultura base.
In effetti, in questi incontri ognuno si appropria di parte della cultura del vicino,
supera parte della propria e, riconoscendo l'altro, ritrova in definitiva sè stesso e la
propria disponibilità al futuro.
A questi incontri è necessario giungere preparati sotto il profilo di una
responsabile predisposizione culturale e della produzione legislativa, esaltando con
strumenti di gestione interstatale la funzione delle terre di confine la cui vocazione è
quella di essere raccordo di civiltà e popoli differenti e diversi.
Nel caso della Penisola istriana questa vocazione è stata inibita da subdole e rozze
influenze esterne che hanno esasperato contrasti di natura sociale e nazionale a partire
dalla spesso dimenticata politica asburgica del divide et impera, a quella fascista, a
quella titoista. Questa vocazione alla cultura del rapporto sta ora riemergendo in Istria
ed è necessario che sia valorizzata in pieno.
E' quindi innaturale, antistorico e pericoloso che politici, amministratori, reggitori
della cosa pubblica e delle genti continuino ad incitare le masse ad aspettare i barbari
del deserto asserragliati nella cittadella.
Gli stessi esuli, che nella prossima primavera parteciperanno agli incontri degli
istriani del Mondo, dovranno esser consapevoli che non ritorneranno alla loro Pola;
quella non c'è; sono passati cinquant'anni e molte cose sono avvenute nel frattempo;
potranno ritrovare però la loro Istria, tornata terra di mediterranea accoglienza con il
sale, il pane, il vino e l'ulivo.
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LE API INSEGNANO
Nel corso di un incontro, svoltosi nell'aprile del 1994, a Duino Aurisina, sede del
Circolo Istria, è stata presentata la rivista Jurina & Franina, edita contemporaneamente
in croato, italiano, sloveno e tedesco, le quattro principali lingue della cultura
altoadriatica. Duino Aurisina è anche sede del Collegio del Mondo Unito, dove si sono
incontrati, conosciuti ed hanno recentemente stretto amicizia Shally, figlia di Israele, ed
Omar di Palestina. L'oggetto dell'incontro e l'ambiente in cui si è realizzato sono stati
perciò anche simbolo degli ideali del Circolo, che ha posto tra i suoi fondamentali
impegni quello della convivenza e della collaborazione interetnica.
Nel numero invernale del 1993 di J & F distribuito nell'occasione, era contenuto
un articolo intitolato "Il sole in una goccia di miele", riportato anche nelle pagine che
seguono, in cui si illustravano alcuni aspetti della vita delle api, tipici della Regione
carsico-istriana; il lavoro naturalmente non pretendeva, nè pretende, di essere completo;
non lo sono neanche tutti i trattati sull'argomento; c'è infatti ancora molto da studiare
sull'evoluzione del phylum degli insetti sociali, mondo affascinante, ma molto
complesso.
Nell'articolo citato rimane tuttavia aperta una lacuna che è non solo opportuno,
ma necessario colmare. Si tratta dell'illustrazione e dell'interpretazione del significato di
una tecnica apistica universalmente conosciuta col nome di "Unificazione delle
famiglie".
Tale tecnica si applica per unire due o più famiglie poco numerose e quindi deboli
che avrebbero scarse possibilità di sopravvivere in difficili condizioni ambientali e che
sarebbero probabilmente preda del "saccheggio", fenomeno diffuso e che vede le
famiglie di api forti depredare e distruggere arnie di famiglie poco numerose.
La tecnica consiste nel sovrapporre due arnie mantenendole divise da una sottile
barriera, rappresentata generalmente da un foglio di carta attraverso il quale le due
entità possono scambiarsi informazioni attraverso gli odori ed i ferormoni che
identificano ciascuno sciame; praticati dei fori sul foglio di carta le due famiglie
rapidamente si fondono, dopo che in seguito ad una lotta quasi rituale una delle due api
regine elimina l'altra.
Nel corso della mia attività apistica svolta sul Carso, su cui si incontrano due
razze di api diverse nei loro aspetti anatomici e contemporaneamentali, quella
"Ligustica", o italiana, e quella "Carnica", allevata in Slovenia, ho avuto spesso la
necessità di unificare le famiglie appartenenti alle due razze.
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Non mi ha sorpreso, ma solamente rallegrato, il constatare che le api, coinvolte
nella pratica su descritta, una volta conosciutesi, si sono pacificamente unite
nell'interesse comune conservando in pieno le loro differenti caratteristiche. Il
fenomeno non può infatti sorprendere in quanto in natura, nelle singole specie animali,
l'appartenenza a razze diverse non è assolutamente di ostacolo alla convivenza ed a
fertili rapporti.
Ciò che mi preme inoltre segnalare in particolar modo sono i fenomeni che
avvengono successivamente alla unificazione degli sciami di ligustiche e carniche,
ossia la formazione di ceppi di ibridi; non c'è assimilazione di una razza da parte
dell'altra, ma integrazione genetica, in cui l'apporto delle due componenti rende l'ibrido
idoneo ad adattarsi nel miglior modo possibile alle condizioni orografiche e climatiche
locali, fenomei questi che l'interpretazione antropomorfa può essere portata enfatizzare,
ma che comunque sono meritevoli di giusta attenzione.
Su questi ibridi si può azzardare un'ipotesi quasi fantastica, ma che prospetta alti
margini di veridicità.
Nei primissimi Anni '80 l'apicoltura della regione carsica è stata investita con
gravi danni da una malattia proveniente dall'Est che à progressivamente avanzata nel
Veneto e nella Lombardia a metà degli Anni '80 e successivamente in Piemonte ed
oltre.
Orbene, in queste ultime regioni, nonostante gli immensi sfozi compiuti dai vari
enti, anche attraverso l'intervento di industrie chimiche e farmacologiche, la malattia ha
raggiunto una fase critica. Recenti notizie, comunicate in convegni scientifici, danno
per scomparse le api in vaste plaghe di queste regioni. Alla fine, in questi convegni,
come ultimo tentativo per preservare l'apicoltura da una completa distruzione, non si è
potuto far altro che auspicare non già la intensificazione della lotta chimica, ma la
possibilità di individuare ed isolare ceppi di api resistenti alle "Varroasi", il gruppo di
malattie in questione.
Nella regione carsica, pur con l'aiuto di presidi farmacologici, la situazione
sanitaria degli alveari si può considerare discreta, nonostante che, come prima si è
detto, la malattia abbia fatto la sua comparsa diversi anni prima che nel resto della
penisola.
In questa regione è infatti in atto da sempre un "ribollire" genetico nel quale le
razze si incontrano, si completano, si integrano e dove proprio per questa ragione si
sono forse selezionati i ceppi resistenti alla malattia.
Agli istituti di ricerca il compito di verificare tale ipotesi.
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DA CHERSO AL CARSO
Abbiamo bisogno di un grande sforzo di immaginazione,
che sconfini magari nell'utopia, per vedere e programmare il nostro futuro.
Per giustificare un rapido accesso della Slovenia e della Croazia all'Unione
Europea, vengono prevalentemente addotte ragioni di natura socio economica, ma sono
soprattutto di natura ecologica quelle che conferiscono reale urgenza alla questione; con
l'ingresso delle due nuove repubbliche nella U.E. si potrebbe infatti disporre di leggi
uniformi di salvaguardia per tutto l'Alto Adriatico e per il fragile ecosistema carsico,
leggi atte a scongiurare prevedibili e gravi degradi di tutta la regione.
L'urgenza di una produzione legislativa uniforme e la eventuale istituzione di
un'Agenzia per la verifica della sua corretta applicazione per la tutela del territorio del
Carso e delle zone adiacenti nonchè di una programmazione razionale della loro
fruizione appare del tutto evidente. A conflitto balcanico concluso infatti, la impellente
necessità di massicci investimenti per sollevare l'economia disastrata della regione e
l'enorme disponibilità, soprattutto all'Est, ma non solo all'Est, di capitali di dubbia
provenienza, disponibili a scopi puramente speculativi, potrebbero costituire le ragioni
di fondo per un uso scorretto del territorio.
Perchè si realizzi un evento politico che veda l'ingresso della Slovenia nella U.E. i
tempi non saranno sicuramente brevi; per quello della Croazia lo saranno ancora meno.
Non sono comunque soltanto i trattati o le convenzioni che modificano le realtà
consolidate negli anni; essi suggeriscono percorsi, sollecitano eventi, indicano
obbiettivi. Le cose si modificano invece attraverso piccoli passi, attraverso accadimenti
quotidiani apparentemente di scarso rilievo, capaci però di convincere e coinvolgere la
gente. E' quindi urgente approfittare del tempo a disposizione.
Da un bel po' negli ambienti competenti ed in quelli interessati, si parla della
possibilità e si studiano i modi di istituzione di un Parco naturale del Carso. Oggetto
dell'interesse il budello di territorio carsico confinante a Sud con il Golfo di Trieste ed a
Nord con la Repubblica di Slovenia; lungo una trentina di chilometri, largo dai tre ai
sette, esso collega la città di Trieste con l'Italia, è percorso da strade, autostrade, linee
ferroviatie, oleodotti, elettrodotti ecc. ecc. ed è amministrato, non senza momenti di
aspra conflittualità, dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, dalla Provincia di Trieste, dai
Comuni del Carso Triestino e dalla Comunità Montana del Carso.
Qualcuno ha definito questo Parco un'aiuola spartitraffico travestita ed ha
suggerito opportunamente di usare maggior coraggio sconfinando con fantasia
ecologica in Slovenia, per coinvolgerla nella costituzione di una struttura internazionale
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di dimensioni congrue rispetto all'estensione delle morfologie carsiche settentrionali e
con scopi e funzioni omogenei.
Le discussioni nel loro svolgersi suscitano speranze (in verità non molte),
illusioni, perplessità, dubbi, ma soprattutto timori, sia da parte degli amministratori che
da parte degli amministrati, siano essi cacciatori, agricoltori o proprietari di fondi e di
boschi; suscitano quell'insieme di diffidente curiosità, perplessa attenzione, saccente
incredulità che sempre accompagna l'annuncio di novità, soprattutto quando ciò avviene
con poca chiarezza; questi sentimenti vengono amplificati enormemente quando la
novità annunciata è un Parco. Si crede infatti comunemente, e questo
sentimento/credenza è ormai entrato nella coscienza collettiva, che un Parco rappresenti
il congelamento del territorio che coinvolge e sia un tributo dovuto alla coscienza
ecologica per continuare il saccheggio del territorio restante e che i malcapitati che
hanno un qualche interesse sul territorio destinato a Parco siano le vittime sacrificali
sull'altare del grande evento ambientalista.
CONTRARIAMENTE A QUANTO SI CREDE,
UN PARCO NON E' NECESSARIAMNTE COLLOCATO
IN CIMA AD UN MONTE
O NEL FONDO DI UNA VALLE INCONTAMINATA.
MOLTEPLICI ESPERIENZE HANNO INOLTRE DIMOSTRATO CHE
IL PARCO E' UN GROSSO AFFARE
SOPRATTUTTO PER QUELLI CHE VI VIVONO.
La parte meridionale della provincia di Varese, percorsa dalla strada del
Sempione ad Ovest e dalla statale Varesina ad Est, rappresenta una delle zone più
dannosamente antropizzate della Lombardia. Negli Anni Settanta il reddito pro capite,
tra i più elevati d'Europa, faceva da contrappunto ad un impatto ambientale giunto quasi
a punti di non ritorno; nella zona è stato istituito il più discusso Parco della penisola
italiana: quello del Ticino. A distanza di 15 anni dalla sua istituzione, esso risulta essere
il Parco più proficuo d'Italia.
Un Parco non è quindi una concessione alla nostra coscienza ecologica, ma un
particolare modo di vivere, la cui funzione fondamentale è quella di educare
amministratori, amministrati, imprenditori, lavoratori dipendenti, la gente insomma, a
vivere negli spazi e nei tempi della Natura.
Se l'era industriale si è conclusa con l'abbandono dell'obbiettivo utopico di
un'equa distribuzione della ricchezza, il postindustriale non può mancare quello più
realistico di un oculato uso delle risorse, quelle ambientali in primo luogo.
L'arco costiero giuliano, friulano e veneto, la penisola istriana e la costa
quarnerina chiudono in un modo splendido un mare meraviglioso, ma oggetto di un
intenso impatto ambientale; vi sboccano fiumi che drenano scorie di zone fortemente
antropizzate; esso è percorso da un fitto traffico marittimo, soprattutto petrolifero.
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Cionondimeno nell'Alto Adriatico sono puntate e fanno fulcro le speranze di sviluppo
economico di una parte dell'Europa centrale, del Nord Est italiano e della Repubblica di
Slovenia attraverso la ripresa dell'industria cantieristica e portuale di Trieste e
Capodistria nonchè le speranze della Repubblica di Croazia che punta su Pola e Fiume
per i traffici e sulla costa istriana oltre che sul Quarnero e le sue isole per il turismo.
L'impatto ambientale stagionale dell'industria turistica non è peraltro un problema
minore e aumenta d'importanza se il turismo viene lasciato crescere come fenomeno
impulsivo, concentrato nella zona costiera.
Lo slogan DA CHERSO AL CARSO indica la possibilità, ma anche la necessità
di coinvolgere nell'ipotesi di Parco tutta la Regione carsica di comune destino compresa
la parte istroquarnerina che, pur facendo parte di un unico sistema ecologico, anche nei
tempi recenti ed in rapida successione, è stata solcata da vari confini amministrativi e
statuali. Non solo, ma all'interno di essi si è preteso inoltre di ignorare, forse anche da
parte dei propositori del Parco internazionale italo-sloveno, che il territorio, il sistema
idrico sotterraneo che va dalle Grotte di S.Canziano a Pisino ed alla sua foiba, la flora,
la fauna, popolazione umana compresa, rappresentano un unico ecosistema inscindibile
e solidale nella tolleranza agli insulti; in esso i fenomeni evolutivi, compresi quelli delle
società umane, sono condizionati da punti critici di non ritorno al di là dei quali il
sistema si snatura e collassa.
Un Parco DA CHERSO AL CARSO preannuncia perciò un progetto di
complessiva integrazione e di tutela ambientale attraverso il quale mobilitare
l'attenzione delle popolazioni verso un nuovo modo di vivere l'ambiente. Ciò deve
essere fatto sollecitando gli amministratori, le istituzioni e gli istituti scientifici a vivere
ed operare congiuntamente per sostenere, valorizzare e controllare con analoghe
metodologie compatibili le risorse ambientali ed i prodotti tipici garantiti ed alternativi
alle produzioni dell'agricoltura e della zootecnia industriale. Metodologie e prodotti
che, circolando liberamente all'interno della Regione, saranno i primi strumenti per una
futura e necessaria permeabilizzazione dei confini statuali, in attesa di un loro completo
e definitivo superamento.
In ogni caso, se l'uso delle risorse nel contesto suaccennato non sarà
ecocompatibile, ma il territorio verrà considerato bene inesauribile e la necessaria
concorrenza commerciale pubblica e privata non saranno armonizzate in un contesto di
norme ed accordi precisi, la Regione tutta andrà incontro ad un fatale declino.
Una diffusa pratica dell'agriturismo, l'attività economica più compatibile con
l'esistenza del Parco, permetterebbe invece di alleggerire l'attuale eccessiva pressione
turistica irrazionalmente insediata esclusivamente sulla fascia costiera, sollecitando così
un indotto artigianale altrettanto soffice e favorendo altresì lo svolgersi nell'arco di tutto
l'anno dell'attività, oggi concentrata solamente e quindi pericolosamente nei mesi estivi.
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Anche sotto il profilo sociale la fascia costiera dell'Istria beneficerebbe di un valido
sostegno agli sforzi prodotti nel mantenere la sua particolare identità.
ECCO IL PERCHE' DELLA ASSOCIAZIONE IN UNO STESSO SLOGAN DI
UN SIMBOLO DEI TERRITORI INTERNI (CARSO) CON UN SIMBOLO DELLE
ZONE MARITTIME (CHERSO) E PER DAR MAGGIOR RISALTO ALLA
NECESSITA' DI UNA INVERSIONE DI TENDENZA: DA CHERSO AL CARSO.
Una prima iniziativa meritevole di considerazione potrebbe essere rappresentata
da un Convegno internazionale italo-sloveno-croato sulla lotta contro le malattie delle
api e la commercializzazione dei loro prodotti, in primo luogo il miele, magari in
occasione di qualche importante manifestazione popolare.
Perchè proprio le api?
Perchè l'ape è l'unica specie animale domestica che nel corso della sua attività
non può essere assoggettata a regimi di scambi controllati tra stati confinanti; i suoi
prodotti, fino alla fase di commercializzazione, sono il frutto più genuino di tutto il
territorio.
Un marchio di origine e di qualità per il Miele del Carso Italiano, Sloveno e
Croato solleciterebbe enti e strutture dei tre Stati interessati ad affrontare il problema di
avviare momenti di stretta collaborazione, preludio ai maggiori impegni derivanti dallo
studio e dalla progettazione del Parco e permetterebbe di giungere alla libera
circolazione del prodotto Miele del Carso su tutto il territorio. Anzi l'ape potrebbe far
parte di un eventuale simbolo dell'utopico Parco.
In effetti, la salvaguardia dell'ambiente, l'utilizzo razionale delle risorse, in una
parola l'ecologia, non è cosa che si possa gestire in modo autarchico entro i limiti
comunali, regionali o statuali. L'aveva intuito e ne aveva tratto monito per l'umanità
John Dane con la sua celeberrima poesia già sul finire del XVI secolo:
Nessun uomo è un'isola interna a sè stesso
Ogni uomo è un pezzo di continente, una parte della terra.
Se una zolla viene portata via dall'onda del Mare
l'Europa ne è diminuita,
come se un promontorio fosse stato al suo posto
o una magione amica o la tua casa.
Ogni morte di uomo mi diminuisce perchè io partecipo all'Umanità;
e così non andar a chiedere per chi suona la campana,
ESSA SUONA PER TE
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LA FOIBA DI PISINO
Nel quadro di una serie di iniziative tutte tendenti ad approfondire le conoscenze
sull'Istria e a diffonderle, sono stati sviluppati gli atti preliminari per organizzare un
Convegno internazionale sul fenomeno carsico "Foiba di Pisino". Ciò per raccogliere
notizie storiche, miti, leggende e storie di esplorazioni, nonchè per chiarire le modalità
di collegamento della struttura con le altre realtà carsiche sotterranee e di superficie ed
in particolare con i Canali del Leme e dell'Arsa e rappresentare poi le conclusioni del
Convegno all'Unesco perchè, come già per le grotte di San Canziano, possa designare
questo monumento naturale "Struttura d'interesse mondiale".
I primi rapporti con la realtà Amministrativa locale, Comune di Pisino e Regione
Istria, sono stati più che incoraggianti come per altro quelli con le strutture scientifiche
internazionali competenti, che hanno dichiarato il loro interesse e promesso appoggio e
contributo.
I primi sopralluoghi in sito e le analisi sui campioni d'acqua prelevati hanno però
completamente modificato i programmi iniziali. I tassi d'inquinamento emersi e le loro
cause rappresentano al momento un impedimento insormontabile all'attuazione dei
programmi originari. Non è pensabile infatti di proclamare monumento mondiale una
cloaca in cui si versano gli scarichi fognari della città di Pisino e di tutte le industrie
circostanti.
Il fenomeno non poteva però essere ignorato od accantonato, soprattutto per i
diretti collegamenti con il mare che hanno le acque della Foiba e che rappresentano un
immediato pericolo soprattutto per le interessanti attività d'acquacultura che si
esercitano negli specchi d'acqua del Leme e del Canal d'Arsa e per la esigenza di tutela
delle attività, quella turistica compresa, dislocate nelle zone a Nord del Leme. Poichè il
Carso sotterraneo può inoltre costituire in un futuro ormai prossimo una possibile
riserva di acqua per tutta la regione, il problema della Foiba di Pisino si collega a quello
più complesso della tutela ambientale di tutta la penisola istriana e del territorio carsico
in generale e induce ad esercitare tutto l'impegno già espresso con lo slogan "Un Parco
da Cherso al Carso" per coinvolgere l'attenzione delle realtà politiche amministrative e
sociali su queste tematiche.
E' di rilevante importanza e sta a sottolineare la sensibilità della amministrazione
regionale su questi problemi e ad incoraggiare la nostra azione, il fatto che siano stati
stanziati congrui finanziamenti per realizzare un idoneo sistema fognario e di
depurazione delle acque nella zona.
In attesa che la realizzazione dell'opera succitata permetta di riprendere e dar
avvio ai programmi originariamente formulati, l'attenzione è stata rivolta ad un'altro
comprensorio assai interessante del carsismo istriano: quello degli "inghiottitoi di
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Grisignana". In questa zona si sta poi sviluppando un vivo interesse per un rilancio
socio economico in cui l'attività dell'agriturismo e del turismo "intelligente" vuol
rappresentare un supporto assai importante. Un programma di studio sul carsismo
locale rappresenterà un ulteriore contributo alla valorizzazione del comprensorio stesso.
E' cosa tecnicamente fondamentale, oltre che saggia, tener conto delle
caratteristiche geologiche di un territorio prima di avventurarsi nella programmazione
socio economica che lo dovrà investire. E' questa una regola generale.
Nel caso di territori carsici, in considerazione della loro fragilità e della loro
incapacità di liberarsi in tempi relativamente brevi da insulti prodottti da inquinamenti
di varia natura, ciò è assolutamente indispensabile.
Il comprensorio di Grisignana rappresenta un'isola nel terrorio circostante e
manifesta in modo interessante e degno di studio aspetti particolari del fenomeno
carsico.
La penisola istriana viene comunemente suddivisa in Istria bianca, grigia e rossa
per evidenziare i tre aspetti geomorfologici che la contraddistinguono: il calcare
cretaceo caratterizza prevalentemente la Ciceria, il "Flysch" (da flissen = scorrere;
alternanza di marne ed arenarie) che interessa prevalentemente la zona di Isola e si
inoltra poi nella valle del Dragogna, e il calcare eocenico ricoperto di terra rossa, che
raggiunge il mare ed in esso si insinua e ben si manifesta con il plateau che dal Leme
arriva a Pola. Questi aspetti geomorfologici spesso si intersecano e si sovrappongono
in modo piuttosto complesso.
L'"Isola" di Grisignana è attualmente divisa da un confine statuale che taglia il
continuum geologico che dalla valle del Quieto va al Dragogna. Essa è sovrastata da un
ampio gradino di flysch su cui si sono formati dei letti di scorrimento che convogliano
in modo torrentizio le acque piovane facendole poi scomparire in una serie di
inghiottitoi che si allineano nella sottostante zona calcarea cretacea. In essa si aprono
47 grotte, tra cui quella detta "Buco di Portole" che raggiunge i 180 metri di profondità.
Nella sua complessità il fenomeno è meritevole di studi approfonditi, ma
rappresenta anche un indubbia attrattiva per altre, diverse forme di turismo che si
auspica prendano sempre più piede nella regione.
Per la loro ampiezza e profondità e quindi per i gradienti termici che vi si
determinano, gli inghiottitoi stessi (in particolare quello di Grisignana) ospitano flora e
fauna meritevoli di interesse scientifico e di divulgazione, rappresentando una specie di
libro della Natura, di lettura abbastanza agevole per i sempre più numerosi appassionati,
interessati ad una più intelligente fruizione dell'ambiente.
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IL TALLONE D'ACCIAIO E' UN TALLONE D'ACHILLE
Il mito ci racconta che la Dea, afferrato il figlio per il tallone, lo immerse nella
schiuma del mare per renderlo invulnerabile; il tallone non poté giovarsi del benefico
bagno e fu così che, trafitto da una freccia nemica, causò la morte del pelide Achille.
Probabilmente da allora il genere umano mise in atto ogni sua possibilità per
corazzare il suo tallone e difenderlo da ogni forma d'insulto. Ci riuscì!
Ci riuscì quando lo scimmione cominciò a spogliarsi di un po' di peli e ad
assumere la posizione eretta sfidando con lo sguardo il Sole e, credendosi libero dal
giogo dell'istinto, con il libero arbitrio e la tecnologia si costruì un tallone d'acciaio.
Con il nuovo invulnerabile tallone non procedette più in punta di piedi come tutti gli
altri organismi e cominciò a schiacciare piante e animali e tutto ciò che con lo sguardo,
ormai proteso al cielo, non poteva vedere.
Tecniche orientali del massaggio zonale, ora diffuse anche in occidente,
individuano sulla pianta del piede zone in cui è possibile con opportune manipolazioni
produrre per via riflessa azioni benefiche a corrispondenti organi interni; tali zone sono
dislocate dalla punta a tutta la regione plantare; sul corazzato tallone insistono
solamente quelle corrispondenti al testicolo/ovaio, organi con sempre più ridotta
funzione nella nostra civiltà a crescita negativa.
In effetti ognuno può constatare che a differenza di tutta la parte distale dell'arto
inferiore il tallone offre scarsa se non nulla sensibilità al tatto. Non più tallone d'Achille
quindi, ma tallone d'acciaio dotato della durezza e dell'insensibilità necessarie e
conseguenti al modo con cui ci poniamo nei confronti della Natura e della sua
complessità.
Sicuramente le condizioni di vita attuali, caratterizzate da esasperata competitività
ci portano a considerare nemico tutto ciò che non corrisponde con funzionalità al nostro
egocentrismo, appartenga o no alla nostra specie.
Nel gioco dell'errore e correzione che caratterizza l'evoluzione, compresa quella
della nostra specie e della nostra società, pare giunto il momento che si riprenda a
camminare in punta di piedi tra le altre creature del nostro Pianeta e che si ridia
sensibilità al nostro tallone che, pur essendo estremamente corazzato ed insensibile,
subirà la vendetta del "Tutto" e tornerà ad essere il nostro tallone d'Achille.
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LE PRODUZIONI PRIMARIE ALLA BASE DI UN ARMONICO
SVILUPPO SOCIOECONOMICO DELLE REGIONI
Ed in principio c'era la campagna; poi fu creata la città che fu posta al suo
servizio. Potrebbe esser l'inizio di un libro della Genesi.
Le città sono sorte nel tempo proprio al servizio della campagna: centri di
mercato delle produzioni agricole, sono divenute quindi sedi notarili, di giustizia, di
banche e poi di divertimento, di cultura, di assistenza sanitaria ecc.... Progressivamente
però la città ha incominciato a sottrarre alla campagna le migliori risorse, ad iniziare da
quelle umane, per passare poi a quelle idriche, boschive, energetiche, ecc.... Poi i ruoli
si sono invertiti e la campagna è stata posta al sevizio delle esigenze della città e
successivamente alla sua mercè. Nel contempo la città ha incominciato a restituire il
mal tolto opportunamente elaborato, sotto forma di rifiuti solidi urbani, scarichi,
inquinanti, ecc....
Oggi nei programmi di sviluppo regionali, le produzioni primarie, dalle quali
sono derivate quelle industriali ed i servizi, sono a mala pena considerate, nonostante
rappresentino le uniche fonti dell'approvvigionamento annonario.
E' l'industria ormai a condizionare la qualità e la quantità delle produzioni agroalimentari della campagna, invadendone indiscriminatamente la base produttiva che è il
territorio; i sistemi di trasporto ferroviario, stradale ed aeroportuale la privano poi delle
porzioni più produttive segregando le produzioni primarie in zone marginali. Ciò
avviene talvolta con insediamenti di forte impatto ambientale o ecologicamente
incompatibili che compromettono lo sviluppo di altre attività produttive ecologicamente
più vantaggiose.
Alcuni settori della produzione primaria sono poi tenuti in vita solamente perché
tributari dell'industria chimico-farmaceutica-mangimistica, che ne condiziona le scelte
produttive, mentre il commercio decide lo sviluppo o addirittura il declino di vaste aree
di territorio. Anche il turismo e la fruizione del tempo libero non tengono in alcun
conto
le esigenze della campagna, investendone
anch'esse il territorio e
sconvolgendone talvolta l'equilibrio socio economico.
La programmazione equilibrata di una Regione od anche un suo rilancio non può
tuttavia non tener conto di quel settore produttivo che e stato e sarà sempre alla base di
ogni altra attività economica, assieme alla pesca, l'unica fonte alimentare per l'umanità.
Nello stesso tempo la campagna è anche un importante strumento di ammortizzazione
sociale nell'accogliere l'esubero di mano d'opera compreso quello che in futuro le
sempre più alte tecnologie determineranno nella produzione industriale e nei servizi
tradizionali.
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E' inoltre opportuno tener presente che allo stato attuale le più esasperate
tecnologie nel settore della produzione agricola hanno raggiunto livelli assai critici ed
oltremodo preoccupanti: l'abbandono delle specificità genetiche autoctone ed il ricorso
ormai esclusivo a specie altamente selezionate sono possibili solo con il sostegno,
ormai insostituibile, della industria chimica sia nel settore delle fito che delle zoo
produzioni, nonostante l'allarme e le denunce spesso inascoltate provenienti dai settori
più avanzati della sanità. Nelle produzioni agricole si fa sempre più massiccio l'uso di
fertilizzanti, anticrittogamici, erbicidi e pesticidi. Nelle produzioni animali si abusa poi
di antibiotici. Gli stilbenici ed il metil tiouracile d'un tempo sono stati sostituiti da
cocktail ormonali che i laboratori di controllo della sanità pubblica non sono in grado
di individuare.
Spesso il commercio dei prodotti chimico-farmaceutici più nocivi alla salute
dell'uomo impiegati in agricoltura e nella zootecnia è ormai appannaggio della malavita
organizzata, che talvolta ne impone l'impiego con mezzi violenti. Non sono da
trascurare poi i sistemi di allevamento che causano grave sofferenza agli animali
compromettendo ulteriormente la salubrità dei prodotti destinati alla alimentazione
umana. Le situazioni su descritte obbligano a considerare nuovi sistemi e programmi
produttivi in agricoltura che abbiano come obiettivo la qualità delle derrate alimentari e
che escano dalle strettoie di un mercato di massa che non tiene assolutamente conto
della salute dei consumatori, ma persegue il profitto fine a sè stesso. Gli ambienti
scientifici più responsabili, le assise internazionali competenti e sempre più vasti settori
dell'opinione pubblica ormai reclamano un'inversione di questa tendenza.
Se la Slovenia così come la Croazia e quindi l'Istria aspirano ad entrare in Europa
è necessario che prendano atto di questa inversione di tendenza ed impostino per il loro
territorio programmi agroalimentari ispirati a concezioni rivolte al futuro, calibrando gli
altri settori produttivi sulle esigenze della produzione primaria, che sono poi le
esigenze fondamentali dell'uomo.
E' recente la notizia delle prese di posizione degli allevatori croati nei confronti
della Camera dell'Economia croata circa la grave situazione in cui versa la zootecnia e
tutta l'agricoltura nazionale che vede di giorno in giorno ridurre in modo preoccupante
le sue produzioni, schiacciata dalle sempre più massicce importazioni .
Nessun Paese, neanche i membri della C.E.E., possono trascurare la loro
agricoltura, fonte di produzione di alimenti, ammortizzatore sociale fondamentale nei
momenti di transizione ad altre tecnologie, tutore del territorio, delle sue tradizioni e
delle radici culturali di un paese.
Il Circolo Istria ha elaborato uno slogan: "Un Parco da Cherso al Carso", slogan
che interessa tutta la Regione storica dell'Istria, provocazione per gli amministratori e
tutto il corpo sociale della Regione istriana. Esso indica un nuovo modo di intendere il
rapporto con il territorio in cui le forme più avanzate della produzione primaria possano
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armonizzarsi con gli altri settori produttivi. Un nuovo modello di sviluppo che porti la
Regione nell'era post industriale e non la releghi in posizioni di sottosviluppo.
Ma l'Istria e le sue condizioni orografiche e climatiche sono in grado di
sviluppare una produzione agroalimentare economicamente valida?
Sicuramente l'Istria non è in grado di competere sui mercati tradizionali con le
produzioni di massa, appannaggio di paesi come Olanda, Francia, Paesi Bassi , Baviera,
Valle Padana; non può competere con le produzioni laniere australiane o con quelle
casearie della Sardegna ecc. Può programmare invece produzioni tipiche, recuperando e
diffondendo le risorse genetiche locali e rivolgersi a mercati in grado di apprezzarle. In
effetti, sul territorio istriano gravita potenzialmente un milione di persone residenti
nelle tre grandi città di Fiume, Trieste e Pola, desiderose di evadere ogni qualvolta
possibile da ambiti cittadini che non possono più definirsi a misura d'uomo. Sono
queste persone i possibili fruitori del territorio istriano, non masse di selvaggi
metropolitani che ne invadono soprattutto la costa esclusivamente nella stagione estiva.
Ritornati a casa questi ultimi, i "cittadini" triestini e istriani sono i primi possibili
fruitori di un turismo intelligente, da realizzarsi nel corso di tutto l'anno, capaci di
apprezzare nel loro complesso le offerte specifiche della nostra penisola, dove
ambiente, economia e cultura appaiono ancora integrate in un idillio rinascimentale.
Proprio per conservare e valorizzare questo equilibrio tra uomo e natura,
l'agriturismo è probabilmente in grado di rappresentare una svolta importante nello
sviluppo della Regione sopratutto per le sue plaghe interne, ora pressoché abbandonate,
ma ancora segnate dalla dignità e dal valore dell'uomo.
Questa attività che molti considerano come la semplice possibilità di offerta
saltuaria di ricovero notturno a qualche occasionale ospite ha invece molteplici modi di
estrinsecarsi. In breve puo esser così definita: trasferimento dei prodotti agricoli freschi
o convenientemente trasformati direttamente dal produttore al consumatore.
E'questa una forma di turismo dolce, dal trascurabile impatto ambientale, che può
esser sviluppato nell'arco di tutto l'anno e che permette al contadino/imprenditore
aggregazioni di reddito tali da consentirgli un tenore di vita più che decoroso,
togliendolo nel contempo dal secolare isolamento; è un'attività che riesce a far
coincidere gli interessi del contadino con quelli dell'uomo di città e riporta alla
campagna ciò che la città le ha tolto.
L'agriturismo rappresenta quindi un nuovo modo di produrre, trasformare e
commercializzare i prodotti della campagna rendendo il contadino-produttore ed il
cittadino-consumatore
protagonisti
di
una
rivoluzionaria
trasformazione
agrozootecnica. Si abbandonano le produzioni di tipo industriale che come si è visto e
come è ben risaputo tendono solo alla quantità a danno della qualità e salubrità del
prodotto e degli alimenti derivati e si ritorna a produrre nel modo tradizionale,
all'insegna della genuinità e della salubrità. Si impiegano specie vegetali ed animali
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autoctone, perfettamente adattate all'ambiente, che crescono e si sviluppano
naturalmente; anche le lavorazioni e le trasformazioni dei prodotti della terra e della
zootecnia avvengono nel rispetto della tradizione e della salubrità. Si consumano
prodotti freschi o naturalmente stagionati. Ci si alimenta così con prodotti locali,
genuini e di stagione.
Questa scelta rappresenta una svolta assai importante nell'ambito delle produzioni
primarie, meritevole di attenzione, ma anche di sostegno nelle sue fasi iniziali. Come
numerosi esempi possono attestare, essa è feconda di risultati positivi, non solamente
di natura economica, ma anche in campo sociale, capaci di attenuare ed in alcuni casi
annullare l'eterno antagonismo tra il mondo della campagna e quello della città.
E' intuitivo che la diffusione
della pratica dell'agriturismo presuppone
un'organizzazione abbastanza complessa ed uno sforzo d'avviamento non indifferente
che non possono esser lasciati all'improvvisazione o alla spontaneità illudendosi, o
peggio facendo finta di aver risolto il problema elargendo occasionali contributi.
Senza scendere in una dettagliata descrizione delle problematiche e delle tecniche
proprie di questo comparto economico, è necessario però sottolineare che nella
programmazione del rilancio socio economico della Regione storica dell'Istria, il futuro
della produzione primaria, rappresenta il problema centrale.
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ANCORA SUI PARCHI
Per la loro conduzione economica la pratica dell'agriturismo è fondamentale
I parchi Canadesi, Nord Americani e quelli Africani, in cui l'intervento dell'uomo
può considerarsi inesistente, la vita si svolge all'insegna di equilibri naturali, entro i
quali ogni specie vegetale ed animale domina ed è dominata concorrendo a mantenere
una dinamica ambientale in continuo equilibrio.
In Europa, se si escludono alcune plaghe della Scandinavia, l'intervento dell'uomo
si è spesso inserito armonicamente nei meccanismi naturali modificandoli in modo tale
da causare il predominio di alcune specie sulle altre, tanto che ormai la sua presenza è
divenuta determinante nell'evitare talvolta sconvolgimenti ecologici; valga per tutti
l'esempio delle zone montane o di quelle cosiddette marginali che sono andate incontro
a progressivo degrado dopo che l'uomo le ha pressoché abbandonate.
L'opera paziente e discreta dell'uomo della montagna con il riordino dei corsi
d'acqua e dei sentieri, con la cultura del prato e del bosco ha infatti indotto il
mantenimento di un secolare equilibrio idrogeologico e la sua assenza è stata al
contrario causa di gravi alluvioni e frane, conseguenza dell'incuria nei confronti dei
patrimoni boschivi, del loro incendio, dell'erosione e dell'alterazione della capacità di
ritenzione idrica dei terreni.
La Confederazione Elvetica ha risolto questo grave problema sociale ed
economico favorendo la permanenza dell'uomo sulla montagna ed incentivando al
massimo quella forma di turismo capillare che oggi viene definito genericamente
AGRITURISMO.
Questa attività che ha molteplici manifestazioni si può in definitiva così
sintetizzare: trasferimento dei prodotti agricoli direttamente dal produttore al
consumatore.
E' una forma di turismo dolce, dal trascurabile impatto ambientale, che si può
sviluppare nell'arco di tutto l'anno e che permette al contadino o al montanaro
imprenditore aggregazioni di reddito tali da consentirgli un tenore di vita più che
decoroso, togliendolo nel contempo dal secolare isolamento, uno dei motivi di
abbandono della terra.
E' un'attività che riesce a far coincidere gli interessi del contadino con quelli
dell'uomo di città e riporta o conserva alla campagna ed alla montagna ciò che la
pianura e la città hanno loro da sempre tolto: acqua, legna, risorse umane, energia vitale
insomma.
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Ma l'agriturismo rappresenta anche un nuovo modo di produrre, trasformare, e
commercializzare i prodotti della campagna rendendo il contadino ed il consumatore
cittadino protagonisti di una rivoluzionaria trasformazione agrozootecnica.
Si abbandonano infatti le produzioni di tipo industriale che, come è ben risaputo,
tendono fondamentalmente alla quantità a danno della qualità e salubrità del prodotto
base e degli alimenti derivati, dovendo far sempre più massiccio uso di fertilizzanti,
anticrittogamici, erbicidi e pesticidi nelle produzioni vegetali e di antibiotici, ormoni
ecc. nelle produzioni animali. I sistemi di allevamento causano poi grave sofferenza
agli animali, a sua volta motivo di compromissione delle produzioni.
Si ritorna a produrre nel modo tradizionale, all'insegna della genuinità e della
salubrità. Si impiegano specie vegetali e razze animali autoctone, perfettamente adattate
al loro ambiente e che quindi si sviluppano e crescono in modo naturale. Anche le
lavorazioni dei prodotti della terra e della zootecnia avvengono nel rispetto della
tradizione e della salubrità al riparo di ogni sofisticazione. Si consumano così prodotti
freschi di stagione o naturalmente stagionati.
Si è già detto che una diffusione della pratica dell'agriturismo presuppone
un'assistenza tecnica abbastanza complessa ed uno sforzo d'avviamento e di successivo
sostegno non indifferenti.
Individuate le aziende ritenute potenzialmente in grado di svolgere tale attività,
l'assistenza tecnica deve seguirle, iniziando da una programmazione produttiva
compatibile con la vocazione del comprensorio e poi in tutte le fasi successive, per
concludersi con la somministrazione del prodotto all'ospite turista, dopo aver verificato
e garantito la sua genuinità e salubrità, a partire dalle materie prime e comprendendo
tutte le fasi di lavorazione. Poiché non è assolutamente pensabile che ogni singola
azienda sia in grado di assicurare tutta la gamma delle produzioni richiesta dalla pratica
dell'attività agrituristica (pane, latte, miele, carne, vegetali, attività ricreative, ecc.) si
rende indispensabile istituire sul territorio una rete organizzativa capace di garantire ad
ogni singolo operatore l'approvvigionamento di tutto ciò che le singole aziende non
sono in grado di produrre e preparare.
Inoltre, polmone indispensabile per la commercializzazione del surplus prodotto
rispetto alla capacità di smaltimento delle singole aziende agrituristiche, sono uno o più
spacci di vendita collegati alle attività produttive.
Oggi sotto la denominazione di agriturismo operano attività che poco hanno a che
fare o vedere con l'agriturismo genuino anche se sono reclamizzate dai mass media, se
non addirittura da trasmissioni televisive dedicate ad esse.
Oltre all'assistenza tecnica sono quindi indispensabili strutture di controllo
sull'attività delle singole aziende per evitare, come spesso accade, che da imprese
produttive si trasformino progressivamente in pure attività commerciali che conservano
di agricolo solamente la facciata, ma che di fatto smerciano prodotti provenienti da
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aziende di tipo industriale o dall'industria conserviera stessa o addirittura suoi prodotti
di scarto.
Altra struttura indispensabile soprattutto nella fase di avvio è quella in grado di
erogare aggiornamento professionale nel settore della produzione, lavorazione e
somministrazione dei prodotti. In effetti, rappresentando la pratica dell'agriturismo una
profonda innovazione, va da sè che deve esser sostenuta ed adeguatamente indirizzata
in tutte le sue fasi.
Questa attività ecologicamente compatibile, se correttamente condotta e
convenientemente supportata, dà sicuramente frutti insperati in regioni ecologicamente
fragili come quelle carsiche o a limitata vocazione agricola o comunque non in grado di
competere sul mercato tradizionale con l'agricoltura industriale, come certe, pur per
altri versi dotate, zone istriane.
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PASSANDO IN TRENO LUNGO IL LAGO DI LUGANO
L'Istituto universitario presso il quale avevo iniziato a lavorare subito dopo la
laurea era di decisa impronta virkoviana, sia perché sviluppava la ricerca in senso
anatomopatologico cercando i segni della malattia negli organi colpiti, sia perché
direttore, aiuto ed assistenti avevano frequentato università tedesche in Svizzera,
Germania ed Austria.
Negli anni cinquanta incominciavano però a svilupparsi piani di studio sulla
istochimica delle ghiandole a secrezione interna e sull'adenoipofisi in particolare ed
anche i libri e le riviste scientifiche, strumenti essenziali della ricerca, attraverso la
bibliografia, fino ad allora scritti per gran parte in tedesco, incominciavano a provenire
dai paesi anglofoni. Fui inviato perciò in Gran Bretagna a perfezionare il mio inglese
con un aiuto finanziario pressoché simbolico. Sotto il profilo economico il mio
soggiorno all'estero rappresentava perciò quasi un'avventura. Era il periodo in cui
iniziavano le prime fasi della ricostruzione post bellica del Paese: mi apprestavo alla
nuova esperienza con molto entusiasmo, pagato con pochi soldi.
Al passaggio del primo confine statale mi si presentò una Svizzera nella sua
massima opulenza. Il Lago di Lugano era un'eslposione di turismo estivo. Il treno
procedeva lentamente e mi permetteva quasi di toccare le sue manifestazioni più
evidenti attraverso i bagnanti che, sulla sponda del lago si godevano l'atmosfera distesa,
tipica della regione dei laghi prealpini. Fui invaso da una sensazione strana, mai provata
prima di allora: fortissima, capace di un coinvolgimento totale. Avevo la
consapevolezza di transitare attraverso un mondo ricco e sopratutto pieno di
spensieratezza. Esso si manifestava con grande evidenza. Portandomi dietro l'immagine
del mio paese, appena uscito da una guerra, pensavo che non avrei mai potuto far parte
di quel mondo, non avrei mai potuto godere di un'atmosfera simile a quella che mi si
manifestava in quel momento. Questa sponda del Lago di Lugano diveniva un simbolo,
una premonizione.
Chiusa l'esperienza della ricerca universitaria incominciai il mio rapporto con il
Ministero della Sanità, prima sul confine di Trieste e quindi a Cremona, cuore della
zootecnia padana e punta di quella tecnologicamente più avanzata. Esperienza
fondamentale sotto il profilo professionale, determinante per le scelte successive.
Scongiurai un vantaggioso trasferimento a Mantova che mi avrebbe però costretto
chissà per quanto tempo ancora a dedicarmi alla produzione zootecnica intensiva,
rivolta quasi esclusivamente alla quantità delle produzioni e non alla qualità e quindi
alla salubrità degli alimenti. Finalmente approdai a Varese, dove mi dedicai in
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particolare al recupero di terre marginali attraverso strumenti zootecnici come gli
allevamenti di ovini e caprini, non asoggettabili che a regime di conduzione estensiva
tradizionale. Mi lasciai coinvolgere pure in esperienze amministrative. Per dieci anni
infatti, in qualità di presidente, amministrai una Comunità montana, quella della Val
Ceresio, valle che si affacciava sul lago Ceresio, o lago di Lugano.
Furono anni di intenso lavoro, di importanti realizzazioni e di grandi
soddisfazioni.
I risultati giunsero anche perché, a seguito di fortunate congiunture, ebbi
occasione di operare come Vice Presidente dell'UNCEM (Unione Nazionale Comunità
Montane) della Regione Lombardia, di responsabile della commissione regionale per
l'agricoltura del Psi, come segretario di una sezione dello stesso partito e poi come
segretario del suo comitato cittadino. Iniziò così per me un periodo di intensa attività a
favore di quelle forme di agricoltura e zootecnia che oggi vengono dette "biologiche" o
"ecologiche". Le Giornate Agricole di Tradate, da mercato zonale, assunsero
importanza regionale grazie alle tavole rotonde che nel suo ambito si svolgevano su
argomenti di attualità della zooctenia alternativa, alle quali partecipavano sempre più
numerosi docenti delle facoltà di Agraria e Veterinaria dell'Università di Milano e
funzionari degli assessorati regionali competenti. Di grande rilievo fu quella dedicata
al bosco ed all'attività pascolativa alla quale parteciparono anche docenti dell'Università
di Torino e nella quale si confrontarono due opposte tendenze, quella tradizionale, che
dava l'ostracismo a qualsiasi forma di attività pascolativa, all'interno dei boschi, ed
un'altra, abbastanza recente, che invece la incoraggiava sulla base di attente
osservazioni sul comportamento delle singole specie animali al pascolo effettuate anche
nell'alto Varesotto. Sulla base di questa nuova concezione, furono tra l'altro modificate
alcune norme regionali che, in modo difforme rispetto al passato, permisero
l'inserimento di greggi di capre in più vaste zone, anche boschive, del comprensorio.
Sono di questo periodo le mie prime esperienze apistiche volte ad acquisire
nozioni elementari sulla biologia dell'ape e quindi impostare campagne di profilassi
contro la varroasi, malattia di recente introduzione e la fondazione di un'associazione
provinciale di apicultura per la lotta biologica contro le malattie delle api.
Un'impegno di tutto rispetto fu il recupero della pecora varesina, reliquia
genetica, portata a popolazione attiva e la costituzione di una associazione regionale di
pastori nonché la costituzione di una associazione provinciale tra agricoltori ed il suo
ingresso nelle strutture regionali e poi nazionali.
Con il mio contributo politico, tecnico ed amministrativo, fu realizzato un
laboratorio provinciale per la diagnostica delle malattie degli animali ed il controllo
degli alimenti di origine animale. Presso la Comunità Montana fu istituito un
laboratorio per le analisi dei terreni e dei foraggi, che divenne in breve, di valenza
regionale ed un centro d'istruzione professionale per l'agriturismo.
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Si susseguirono da allora conferenze sull'agriturismo nelle zone più intensamente
urbanizzate della Lombardia, articoli divulgativi, pubblicazioni scientifiche, la gestione
di una rubrica televisiva a diffusione locale sull'agriturismo, agricoltura e zootecnia
tradizionali, la costituzione e l'avvio del Parco del Campo dei Fiori, la realizzazione di
quello del Ticino ed infine la partecipazione della nostra Comunità Montana alla Fiera
di Milano, a cui intervennero l'anno successivo tutte le Comunità lombarde e
successivamente ancora quelle nazionali. Le serate di presentazione dei prodotti della
pastorizia del Varesotto al prestigioso Albergo Gallia fu un nuovo rilancio per questo
modo "soft" di concepire agricoltura e zootecnia.
Per i pastori furono organizzati viaggi di studio in Francia, Olanda e Belgio.
Pastori e futuri erboristi visitarono l'Ungheria. Veterinari ed agronomi che si
interessavano di zootecnia alternativa furono ospiti in Francia dell'Università di Tours.
Furono organizzati corsi regionali per veterinari sugli strumenti di lotta biologica alle
malattie delle api e contro le malattie degli ovini e dei caprini. In questo contesto furono
intessuti intensi rapporti con le Università, sopratutto con quella di Milano, che sui
problemi della zootecnia alternativa non aveva nè conoscenza nè interesse, tutta protesa
al sostegno di quella industriale. Allargandosi il numero dei sostenitori di questo
approccio, riuscimmo a coinvolgere Milano, Torino e Sassari, il Consiglio Nazionale
delle Ricerche e l'Istituto Superiore di Sanità alle problematiche dell'umile pastorizia.
Riuscimmo infine a portare a Varese e a dedicarlo all'agricoltura ed alla zootecnia
alternativa il Congresso Regionale del Partito Socialista lombardo sull'agricoltura.
Anche il Congresso della Sipaoc (Società italiana pastorizia ovicaprina). fu portato a
Varese e fu un vero successo perché da allora Varese venne eletta sede di incontri
internazionali annuali dedicati alla patologia ovi-caprina.
Fu un coinvolgimento totale per me e per tutta la mia famiglia. In collaborazione
con la Lega Ambiente restaurammo una vecchia cascina del seicento e là
incominciammo ad esercitare l'attività apistica.
Il risultato più esaltante di questa attività, prova anche della sua validità
economica, fu che i giovani incominciarono a ritornare alla montagna.
Venne poi tangentopoli. Vennero i dissapori con la classe politica, con quella
amministrativa, con l'ambiente veterinario, ecc... e si fece strada con sempre maggior
prepotenza nella struttura sanitaria, quella veterinaria compresa, l'idea che era
decisamente più lucroso curare che prevenire, nonostante che nelle unità sanitarie locali
i servizi veterinari fossero stati inseriti per tutelare i consumatori. Si fece strada l'idea
che il non inquinare era meno redditizio del disinquinamento. Posi fine allora alla mia
esperienza varesina. Erano gli Anni Ottanta. Vendemmo la cascina e ci trasferimmo
nelle adiacenze di Sistiana: a Malchina. Una casa isolata sul Carso.
Dopo circa un anno dalla partenza da Varese una lettera del Presidente della
locale Camera di Commercio mi comunicava che la Giunta camerale "per gli impegni
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della professione veterinaria al servizio della cosa pubblica con entusiasmo, capacità e
senso del dovere" avendo "offerto stimolante contributo per la tutela sanitaria del
comparto zootecnico provinciale e per la promozione degli allevamenti alternativi,
favorendo il progresso economico dell'intero settore" mi assegnava una medaglia d'oro
ed un diploma premio per il lavoro svolto ed il progresso economico e sociale favorito
dalla mia attività.
Pregai un amico di ritirare medaglia ed attestazione.
Vent'anni a Varese. Una partenza improvvisa. Come se non ci fossi mai stato.
Ho ripreso l'attività d'apicoltore. Poi quella di esperto apistico provinciale. Ora,
attraverso il Circolo Istria, riannodo rapporti con la realtà istriana, cercando di rendermi
utile alla mia terra ed a chi attualmente in essa vive rispettandola in un momento in cui
sviluppo e progresso verranno drammaticamente a confronto come in ogni dopoguerra.
Sarà la prima Lugano o l'ultima Varese?
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MANGIAR PER VIVERE
Milano fin dall'inizio mi si presenta in modo apparentemente contraddittorio. Mi
affascina il suo modernismo tecnologico mentre mi dà preoccupazione e mi sbalordisce
il modo di vivere frenetico, quasi disumano. Mi rimane vivo il ricordo di uno
spettacolo che mi si offrì nel corso di una delle mie prime frequentazioni milanesi.
Al Self Service Motta, Piazza del Duomo, eravamo in autunno; fuori pioveva; la
tipica pioggia lombarda, incessante ed impalpabile, che però ti bagna tutto; l'ambiente
interno molto frequentato, pervaso da una luce cruda, intensa che ti fa socchiudere gli
occhi; un forte e fastidioso brusio, alla fine assordante. La mia attenzione viene attratta
da un distinto signore con capotto grigio, bavero di astrakan, lobbia, ombrello appeso
all'avambraccio, che legge un giornale piegato in quattro e, stando in piedi, porta alla
bocca tortellini al ragù da un vassoio appoggiato ad un piedistallo, bevendo di tanto in
tanto un sorso di lambrusco. Manca poco che schiocchi la lingua ad ogni forchettata,
tanta è la soddisfazione che esprime la sua faccia.
Meraviglia, forse pena, sicuramente fastidio. Come si può, con il collo circondato
da una pelliccia umida, in una posizione talmente scomoda, immerso in un fastidioso ed
incessante brusio, la vista offesa da una luce innaturale, l'attenzione rivolta alla lettura
di un arido listino di borsa, ingurgitare tortellini al ragù e lambrusco e schioccare la
lingua?
Ho sempre associato i tortellini e il lambrusco ad una tavola riposante, comoda,
immersa nel tepore, maggiormente apprezzato per il freddo esterno, a luci soffuse, il
silenzio rotto magari dallo scoppiettio di un caminetto; in definitiva li ho associati al
tipico primo piatto di un pranzo che si esaurisce pian piano.
Alimentarsi o nutrirsi? Mangiar per viver o vivere per mangiare?
L'alimento è comunione con la natura, con la tradizione, con la storia.
Per contrasto, scene come quella descritta fanno venir alla mente con quale
intensità, con quanto sè stesso, il neonato che, pur non avendo ancora completato il
coordinamento tra percezioni, e movimenti corporei, reclami il suo cibo e poi
soddisfatto, appagato dall'orgasmo orale, riposi rilassato.
Ho maturato il convincimento che, per assolvere pienamente la funzione del
nutrire, il cibo debba esse assunto innanzi tutto in una cornice ambientale idonea e che
si debba esser preparati a gustare la sua complessità impiegando con intelligenza tutti i
cinque sensi: dal suo aspetto, al profumo ed al sapore con la consapevolezza di come
esso è stato preparato, delle sue funzioni, del suo ruolo nelle tradizioni e nel cammino
dell'uomo nella sua storia evoluiva e che perciò ogni piatto debba esser preparato con
prodotti freschi di stagione ed ottenuti in loco.
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Certo è che i sistemi moderni di "produzione animale", che vanno
dall'allevamento razionale, come quello del vitello o del pollo in batteria, ove, oltre a
mangimi concentrati, vengono impiegate le più sofisticate diavolerie della chimica, per
non parlare dei sistemi di trasporto e di macellazione e poi di quelli lavorazione,
preparazione e conservazione degli alimenti in cui ancora la chimica sostituisce la
lavorazione tradizionale, questi stessi sistemi sono in linea con gli atteggiamenti ed i
comportamenti del distinto signore del Motta di Milano.
Ma ci sono vie d'uscita alle trappole che ci tende il tecnicismo imperante?
Qualche giorno di ospitalità presso una famiglia contadina, con vocazione ed
adeguata preparazione a gestire un'azienda agrituristica, conscia della sua funzione
sociale e quindi dedita all'agricoltura per libera scelta e non per costrizione (si tenga
presente che fin quasi ai giorni nostri le famiglie contadine erano legate alla terra
come servi della gleba da una legge risalente all'Imperatore Costantino), può
rappresentare la migliore opportunità per incominciar a dare il giusto significato al
cibo; un'esperienza che quanto meno può far riflettere. Ogni stagione può offrire
occasioni particolari e sempre interessanti: la primavera del fieno maggengo, l'estate
della mietitura, l'autunno della vendemmia e l'inverno della salatura del prosciutto. Si
può aver l'occasione di apprender che il Miele non è solo un dolcificante e, osservando
l'andirivieni delle api, renderci conto di quanta fatica costi la raccolta della goccia di
miele che magari abbandoniamo noncuranti sul cucchiaino. L'eccesso di cibo
rappresenta tra l'altro una piaga dell'attuale società dei consumi; se un bicchiere di vino
rosso può aiutarci a controllare l'accumulo di colesterolo, l'abuso alcoolico lascia segni
indelebili nell'individuo; ciò vale anche per gli zuccheri, i grassi e le proteine. Il
soggiorno campagnolo diventa così educazione e cultura e può convenientemente farci
riflettere sul valore dei nostri alimenti, desiderando di conoscere, per meglio
apprezzarli, i prodotti da cui derivano, come essi si ottengano, le loro funzioni nutritive
e, come nel caso del miele, le sue funzioni medicamentose. Tutto ciò eventualmente
partecipando con un po' di impegno fisico al lavoro della fattoria.
Potremmo così conoscere le vecchie usanze contadine, tramandate dai vecchi, e
con esse risalire indietro, quasi all'origine della storia. Potremmo così riscoprire la
sacralità dell'impasto del pane ed i segreti della sua cottura, la magia del vino, ecc... e
capiremmo che il cibo non ha solo funzioni plastiche per farci crescere e riparare i
tessuti usurati del nostro organismo, non è solo fonte di energia motoria e funzionale,
ma serve anche a mantenere vivo il nostro sistema di relazione, le nostre emozioni, i
nostri pensieri, ecc... in definitiva a progettare le nostre azioni, ed a metterle in atto.
Reimpareremmo così che le complesse sensazioni che il cibo ci offre concorrono
assieme a tutte le altre a costituire anche quella parte di noi che non è solamente
materia.
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Ci renderemmo conto allora che ci si nutre anche di sensazioni, di tradizioni, di
storia: il cibo assimilato diventerebbe così contemporaneamente natura e cultura.
Quale alienazione, ricco pover'uomo di Milano!
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AMALTEA, NUTRICE DEGLI DEI
La capra: l'animale, il mito, il simbolo.
Da quando è stato ripescato il vecchio emblema istriano, l'interesse, o quanto
meno la curiosità, nei confronti della capra, ha conosciuto un ritorno di fiamma. Ma la
capra non è solo lo stemma che serve a contraddistinguere l'Istria, o l'emblema che ne
evoca immediatamente l'idea; è piuttosto e soprattutto il suo simbolo che adombra un
significato complesso e profondo, quasi ermetico. Nella sua interpretazione, passando
attraverso il mito, risalta l'antico legame della Regione con le più antiche civiltà
mediterranee. Contrariamente a quanto si è ritenuto fin poco tempo fa, è ancor oggi
assai importante e ancor più lo sarà in futuro il contributo positivo che la capra, se
convenientemente utilizzata, può dare nel recupero delle terre marginali (che nella
Regione rappresentano una quota notevole) e nell'avviamento all'agriturismo, essendo
considerata dagli esperti la strumento zootecnico dell'era postmoderna.
Il cav. Beatiano Giulio Cesare, gentiluomo di Giustinianopoli, scrive nella
"Tavola dedicata alle cose più importanti" del suo "Araldo veneto, ovvero Armerista
universale, stampato a Venetia il MDCLXXX: l'Azzurro, chiamato da alcuni turchino,
veneto, giacinto e celeste per la sua similitudine e colore col gran scudo del cielo, e
nell'arme significa zelo del buon operare, perseveranza nello intraprendere, amore alla
patria, preludio di vittoria e promessa di buon governo. Tra i pianeti è assegnato a
Venere, dei dodici segni alla Libra, Gemini ed Acquario, dei giorni della settimana a
Venerdì, dei dodici mesi a settembre, e degli elementi all'Aria, dei metalli allo stagno,
delle pietre preziose allo zaffiro, delle piante al Mirto, degli animali alla Capra.
La Capra all'arme viene posta nella sua posizione naturale per lo più elevata sopra
i piedi di dietro in atto di aggrapparsi; è simbolo della fatica perchè è proprio di questo
animale portarsi tra le balze per pigliar le piante più tenere per il proprio vitto, e lasciar
quelle che a suo bell'agio può aver nel piano. Onde chi di tal blasone si fregiò, fece
conoscere che il suo animo era dedito alla fatica, e che con gloria aveva incominciato a
salir i gradini della lode, per esser quella la madre delle imprese (...). Afferma Giov.
Stobeo che esser la Capra vero simbolo della fatica e della accurata diligenza, perciò
che da questa provengono tutti i beni a colui che non è pigro da poco..."
E sempre il Cav. Beatiano, nel descrivere il "Blasone di Venetia e dei suoi regni e
stati" dice: "Il quinto pur coronato con corona marchionale dell'antico regno dell'Istria,
come in Tito Livio ed altri moderni autori si legge di tal regno le antiche glorie e potere,
fu da Carlo Magno dichiarato ed intitolato Ducato e poi Machesato sotto i Patriarchi
d'Aquileia. Questo scudo è d'azzurro con la Capra d'oro passante (in araldica detto dei
quadrupedi nell'atto di camminare), coronata e membrata di porpora, antica insegna di
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quella provincia, come da molte medaglie si vede esistenti nello studio del Conte Giov.
di Lazzara, cav. paduano".
Corna non rosse ma color porpora, dunque, per la capra istriana, la preziosa e
nobile porpora che gli antichi ricavavano dai murici del Mediterraneo. Per tingere una
sola tunica erano necessari migliaia di molluschi; da ciò l'alto costo e la preziosità di
tali tessuti che presso i Romani antichi rappresentavano il segno esteriore della più alta
dignità. Prerogativa dei senatori era una striscia di porpora sovraposta alla tunica (latua
clavus); quando più stretta, distingueva gli appartenenti all'ordine equestre. La porpora
fu successivamente prerogatriva degli imperatori, soprattutto bizantini, e fino ai giorni
nostri dei principi della Chiesa.
Appare chiaro perciò che la presenza della capra nello stemma istriano è una
questione di araldica e non derivi come comunemente si crede dal numero di capre
presenti nella Regione. Giova ricordare però che prima della conquista romana
dell'Istria, e quindi prima della riforma agraria attuata dai Romani, che modificò
radicalmente tutta l'economia della Regione, l'allevamento della capra era prevalente
rispetto a quello degli altri animali domestici. Ne fanno fede i rinvenimenti di ossa di
animali durante gli scavi archeologici di Nesazio nei primissimi anni del secolo.
L'esame delle ossa nei laboratori museali di Vienna rilevarono che un'altissima
percentuale delle stesse apparteneva ad una razza di capre grande e robusta, mentre
relativamente scarse erano le ossa appartenenti ad altre specie animali, suini e cinghiali
compresi.
Il Kandler, parlando di una statuetta bronzea di buona fattura, raffigurante una
capra, rinvenuta nei pressi di Pirano, ritenuta del I° secolo della nostra era e di un'altra
di minori dimensioni ritrovata sempre nella regione, pensa anche per altre simili
raffigurazioni presenti in Istria che "LA CAPRA, OGGETTO DI CULTO, SIA STATA
LA RAFFIGURAZIONE DELL'ISTRIA DIVINIZZATA" ed asserisce che questa
provincia anche nello stemma conserva attraverso i secoli questo simbolo. Non si deve
ciononostante pensare che l'allevamento della capra fosse in Istria tanto diffuso da
elevare l'animale a simbolo della regione. Affascinante, bellissima e coinvolgente
ipotesi che nessuno ci impedisce di far nostra. Anche Plinio nella "Storia delle cose
naturali", parla di pecore istriane anzichè di capre e non è pensabile che da allora in
Istria, soprattutto dopo la grande riforma agraria dei Romani, l'allevamento della capra
abbia potuto assumere maggiore rilevanza. Esistono anzi testimonianze che Roma
incrementò l'allevamento della pecora introducendo dal Medio Oriente soggetti
miglioratori; da allora fino al nostro secolo non si sono verificate situazioni tali da
produrre significativi cambiamenti in questo settore. Al riguardo, possono esser presi a
riferimento i dati riportati dall'Atlante geografico - scolastico di C. Battisti edito
dall'Istituto Geografico De Agostini di Novara nel 1920 che si riferiscono agli anni
1900 - 1910. Ebbene, di pecore ne erano state censite 203047, concentrate con alta
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intensità (400 capi per abitante) nell'isola di Cherso e di Veglia, nella parte sudorientale della penisola (200-150 capi per abitante), nella Ciceria e nel Pisinotto (150100). Di capre invece ne risultavano 2551, con una densità di 0,5 capi per km2. Nel
periodo cui si riferiscono questi dati, l'Istria era quindi, se si fa eccezione per la
poderosa crescita della città di Pola, la fabbrica Tabacchi di Rovigno e qualche
stabilimento per la conservazione del pesce, oleifici, mulini e distillerie, un'area
prevalentemente agricola, con una pastorizia che riguardava in primo luogo le pecore.
Ma la capra sin dall'antichità è stato l'animale che ha permesso all'uomo di
sopravvivere anche in condizioni orografiche e climatiche particolarmente sfavorevoli,
nelle aree più povere e disagiate del bacino del Mediterraneo.
La capra è per sua natura estremamente frugale. E sempre la sua natura non le
permette di adattarsi all'allevamento intensivo, neanche con l'impiego dei più sofisticati
presidi tecnici, profilattici, terapeutici (tentativi di allevamenti intensivi, con 1000
fattrici, non sono riusciti a portare a svezzamento, tra mastiti, malattie broncopolmonari, diarree dei capretti, che il 10% dei nati).
In natura il gregge è guidato dalla femmina anziana più esperta, che indica a tutto
il gruppo di quali essenze pascolare, assaggiandole per prima. Al capro è affidata la
salvaguardia del gregge; attirando su di sè l'attenzione degli assalitori, li invita
all'inseguimento sui dirupi, dai quali si getta giù trascinando con se i nemici.
Le capre si alimentano con vegetali anche grossolani, disdegnati dalle altre specie
animali e per mezzo dei batteri del rumine riescono ad organicare l'azoto atmosferico,
come le leguminose, trasformandolo in proteine. E' per questa sua frugalità, che ha del
miracoloso e che va di pari passo con la delicatezza dei prodotti che da essa si ricavano,
che la capra, nutrice degli dei, entrò sin dai primordi, nel bene nel male, dapprima nella
mitologia e poi nelle grandi religioni mediterranee.
Così la mitologia greca racconta di Rea, che, partorito Zeus, lo affidò alla Madre
Terra che lo portò a Creta, dove venne accudito dalla capra Amaltea. Zeus le fu grato e,
divenuto signore dell'Universo, immortalò fra le stelle l'immagine di Amaltea nella
costellazione del capricorno. Prese poi in prestito una delle sue corna, che divenne la
famosa cornucopia o corno dell'abbondanza, che trabocca di cibo e di bevande non
appena lo si desideri.
Nell'Antica Grecia era inoltre animale sacro a Dionisio. Un capro veniva dato in
premio ai poeti tragici. Appunto dal nome greco del capro, tragos, derivò quello di
tragedia.
Presso gli Ebrei il capro espiatorio era quello su cui il popolo scaricava le proprie
iniquità e che veniva poi cacciato nel deserto. Nella religione cristiana il capro
espiatorio era stato inteso in seguito come simbolo di Cristo.
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Si racconta nei testi sacri che Dio permise a due angeli di venire in terra, dove si
accoppiarono con le figlie di Eva. Uno di essi si pentì e si rifugiò nel cielo del Sud,
dove divenne la costellazione di Orione. L'altro, Azael, lungi dal pentirsi, continuò ad
offrire alle donne ornamenti e vesti di ogni colore per sedurre gli uomini. Per questo
motivo, nel giorno dell'espiazione, i peccati d'Israele vengono scaricati sull'annuale
capro espiatorio, che viene lanciato giù dalla rupe di Azael.
Strano destino quello della capra. Sostegno dell'uomo nelle situazioni ambientali
più difficili, decantata e mitizzata, strumento per la conquista delle terre marginali, e la
loro valorizzazione agrituristica da un lato, e dall'altro oggetto di ostracismo, anche da
parte di strutture pubbliche moderne, che le imputano danni irreparabili alla
vegetazione boschiva, facendone ancora una volta un capro espiatorio. In passato le era
stato concesso talvolta il pascolo in zone limitate con provvedimenti ispirati al peggior
oscurantismo medioevale: a condizione cioè che venisse privata dei primi incisivi
inferiori. Di quelli superiori i ruminanti sono naturalmente privi. Eppure in natura la
capra può essere educata al pascolo, e l'apprendimento conseguito generalmente viene
trasmesso alla discendenza o a nuovi capi introdotti nel gregge, purchè l'operazione
venga condotta con razionalità, senza turbare l'armonia dell'assieme; gli etologi
chiamano questo fenomeno trasmissione culturale dell'appreso. Se l'entità dei soggetti
nel gruppo è eccessiva, il patrimonio culturale acquisito si disperde e nella pratica del
pascolamento brado il gruppo così costituito può veramente arrecare danno
all'ambiente.
A questo punto si può ben dire che i miti che circondano la capra e la carica
simbolica (specie quella del capro espiatorio) di cui questo umile ma intelligente
animale è investito, racchiudano qualcosa di pragmatico applicabile anche alla penisola
istriana; ne interpretano quasi il destino di terra su cui tradizionalmente si sono
riversate, nella speranza di espiazione, colpe altrui, ma che sfodera sempre risorse di
rinnovamento, talvolta insospettabili.
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IDA LA VECCHIA CAPRA
L'inverno particolarmente duro quell'anno si stava consumando e con sè
consumava la campagna. Il vento secco aggravava la siccità; alcuni alberi giovani e
parecchi di specie più bisognose di acqua erano già morti. Ne soffriva tutto l'altipiano e
chi in esso viveva.
Ida, la vecchia capra, che aveva contribuito ad alleviare ed a momenti addolcire i
disagi delle prime fasi dell'insediamento agreste donando allegria, latte e capretti con i
quali santificare la Pasqua e celebrare la rinascita della primavera, aveva sofferto in
modo particolare; aveva cessato la produzione del latte molto presto, anche il parto era
andato male: il capretto non era sopravvissuto.
Erano questi i segni che era giunta la fine della sua "carriera".
Aveva raggiunto la nuova residenza di campagna con tutta la famiglia quando era
ancora giovane capretta ed aveva trovato subito la sua posizione gerarchica all'interno
del gruppo familiare.
Sono complicati nel mondo delle capre i meccanismi con cui si stabiliscono i
ruoli dominanti e subalterni all'interno del gregge. Si manifestano rapidamente, subito
dopo lo svezzamento, e coinvolgono tutte le femmine nel giro di pochi giorni; questi
assestamenti da cui sono esclusi assolutamente i maschi, si sviluppano attraverso una
competizione assolutamente pacifica con il gioco rituale degli istinti. All'interno del
gregge, si formano gruppuscoli di tre o quattro soggetti in cui spicca subito la
dominante; ad essa è concesso il miglior sito all'interno dello spazio conquistato dal
gruppo ed il boccone migliore; poi progressivamente, per aggregazione di nuovi
soggetti, il gruppuscolo aumenta e quindi al suo interno si ristabiliscono e vengono
verificati i ruoli; alla fine emerge la patriarca, la regina cui spetta in natura la
conduzione del gregge intero.
Competizione pacifica, ma gerarchia ferrea; se disturbata, come spesso accade,
dall'improvvida interferenza dell'uomo, possono scatenarsi conflitti cruenti, talvolta
letali. L'abnegazione del singolo nei confronti del gruppo è assoluta; il capro in libertà
attira su di sè l'attenzione dei predatori del gregge precipitandosi giù dai dirupi e
coinvolgendoli nella caduta.
Nella gerarchia del gregge di capre è quindi compresa anche la famiglia umana. E
così, man mano che nella famiglia i cuccioli d'uomo crescevano, Ida scendeva nella
scala gerarchica per giungere alla fine all'ultimo gradino.
Aveva giocato e rallegrato l'aia; era lei che incitava gli altri al gioco e lei che
decideva quando chiuderlo. Il suo linguaggio più eloquente era quello della coda in
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perpetuo movimento e lo sguardo comunicava momenti di intensa allegria e di profonda
tristezza. Alla fine della prima gravidanza divenne saggia; ne era testimonianza la sua
ormai lunga barba talvolta un po' impertinente; disertò così il gioco dei più giovani.
Ora chiudeva la sua "carriera".
Si decise di sacrificarla. Allontanati i più giovani, per i quali il mistero della vita e
della morte ma anche del bene e del male doveva dalla natura esser svelato nei momenti
più opportuni e con molta cautela, con l'aiuto di amici esperti si compì il sacrificio. Non
era rassegnata ma consapevole.
La consapevolezza di Ida trapelava dal suo sguardo colmo di profonda tristezza,
dalla sua coda muta e dalla barba inespressiva. Si era già dimostrata conscia del suo
destino ogni qualvolta aveva donato i suoi capretti, permettendo così di santificare la
Pasqua. Ora il sangue avrebbe fertilizzato le aiuole di fiori davanti la casa. Le interiora
sarebbero state utilizzate tutte per la preparazione di una sorta di salsicce pepate che,
appena arrostite sulla brace, sarebbero state consumate la sera stessa del sacrificio.
Quello che rimaneva sarebbe stato dato agli amici quale mercè per avervi preso parte.
Prosciutti e spalle affidati alla stagionatura, il resto insaccato con grasso suino spezie,
aglio e vino.
La pelle salata, le corna e le ossa essicate furono poi cedute al solito raccoglitore
nel corso della sua visita semestrale. Il collare di Ida, in attesa di una sua probabile
sostituzione, fu appeso ad un chiodo dietro l'uscio. Il ricovero non riassettato fu
sprangato e di Ida non si parlò più. Nel silenzio era però ancora presente.
E venne primavera; iniziò il lavoro dei campi con il massimo impegno da parte di
tutti anche dei più giovani. Arrivò allora una giovane Ida; allegra, curiosa, riempì di
vivacità il vecchio ricovero e l'aia e la famiglia.
Al rientro da una giornata particolarmente gravosa per il duro lavoro che aveva
visto l'impegno di tutti, anche dei più giovani, il Vecchio li accolse con un: "Oggi iera
el momento giusto e gò sonà el violin". Prosciutto di capra/violin a causa del modo con
cui lo si imbraccia per tagliarne le fette manovrando il lungo coltello a mo' di archetto.
A favorire il momento giusto aveva contribuito l'arrivo della nuova stagione,
l'impegno primaverile nei campi, la nuova Ida portatrice di nuova vita nell'aia e nel
vecchio ricovero. L'inizio di un nuovo ciclo della vita, insomma.
"Ciolè el giusto" continuò il Vecchio "Serchelo con religion, cussì la Ida sarà
ancora con noi": la dura legge della vita ritualizzata dalla saggezza della tradizione
contadina.
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UN ALBERO DI SASSO
La Capra è il simbolo della nostra Regione; l'Ulivo potrebbe esserlo altrettanto
degnamente, condividendone le caratteristiche salienti.
Pur appartenendo a due mondi diversi, quello animale e quello vegetale, capra ed
ulivo posseggono caratteristiche fondamentali simili: vivono quasi abbarbicati in zone
marginali, inospitali per quasi tutte le altre specie; la prima si alimenta di essenze
trascurate o disdegnate dagli altri animali ed è capace di produrre proteine nobili
dall'azoto atmosferico: si potrebbe dire che si ciba di aria.
Dell'ulivo poi non ci si rende conto da dove tragga alimento. Forse dalla
roccia stessa da cu si innalza in alcune plaghe particolarmente sassose, comuni nella
nostra penisola e nelle isole. Con il tronco sofferto e contorto, con le bianche radici,
che nella loro millenaria crescita incastonano le pietre del suolo, trascinandosele
dietro verso l'alto e con le foglioline argentee, sembra quasi un albero di sasso.
La loro frugalità e parsimonia, che si ritrova anche nelle genti dei loro areali
di distribuzione e la povertà dei terreni su cui prosperano sono inversamente
proporzionali alla fragranza dei loro prodotti. E' per questa ragione che, proprio
nelle zone più povere ed inospitali del Mediterraneo, capra ed ulivo hanno permesso
la nascita e lo sviluppo delle più alte civiltà.
E mentre si deve convenire che tutto il bene e tutto il male ci sono giunti da
oriente seguendo il percorso del sole, si deve rilevare invece che l'ulivo e la capra
sono originari proprio delle terre mediterranee; anzi la culla dell'ulivo è solo
mediterranea e verso Nord il suo areale si esaurisce col venir meno del mare. Quasi
a testimonianza di ciò San Dorligo della Valle - Dolina ospita il più settentrionale
impianto per la torchiatura dell'oliva.
Il latte di capra, assieme al miele, concorreva a formare l'ambrosia degli Dei;
l'olio d'oliva è nel Mediterraneo l'elemento sacro per eccellenza.
Utilizzato in alternativa alla cera delle api, dava luce alle regge, alle dimore
principesche ed ai luoghi di culto. I guerrieri, prima di affrontar la battaglia,
ungevano i loro corpi con l'olio d'oliva; ancor oggi il Sacramento della Cresima (dal
greco crisma = unzione) nella religione Cattolica Romana impiega l'olio d'oliva per
consacrare i guerrieri di Cristo, che ricevono lo Spirito Santo; con esso si impartisce
l'Estrema Unzione e con esso i sacerdoti sono unti dal Signore come re David lo fu
da Saul.
Se nel tempo il suo uso nell'alimentazione umana ha subito alterne vicende,
con la riscoperta della dieta mediterranea il suo impiego ha ricevuto un grande
impulso, tanto che dal bacino del Mediterraneo la coltura dell'Ulivo è stata
introdotta anche nelle Americhe. A motivo della sua composizione in acidi grassi il
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suo impiego è di gran lunga preferito a quello degli altri olii o grassi animali il cui
abuso è ritenuto responsabile di fenomeni degenerativi dell'apparato cardiovascolare.
A tale riguardo è utile ricordare che alle latitudini ed alle quote più elevate
compatibili con la presenza dell'ulivo il contenuto di acidi grassi insaturi aumenta e
l'acidità diminuisce. Alla salubrità dell'alimento si aggiunge la sua fragranza ed il
suo sapore; quella dell'olio istriano era conosciuta ed apprezzata fin dai tempi più
antichi in tutto il Mediterraneo; è un vero peccato che attualmente pochi sappiano
apprezzare queste qualità.
Mentre a Cherso facevo da guida a due amici veneziani, attratti dalle
meraviglie dell'isola, mi è capitato di aver abbondantemente oltrepassato l'ora in cui
avremmo potuto trovare un posto qualsiasi ove consumare un pasto. Niente di male.
Un contadino ci cedette una bottiglia di olio e qualche fetta di pane. I miei
amici rimasero sbalorditi nel rilevare tanta fragranza in un alimento che utilizzavano
costantemente, ma non erano mai stati in grado di apprezzare pienamente.
Olio extra vergine di oliva. Va bene, ma quale? Ce ne sono diversi; ognuno
con sue proprie caratteristiche che derivano sì dalle molteplici varietà dell'ulivo, ma
anche dalla terra madre su cui esso è cresciuto.
Oggi finalmente il carattere e la fragranza propria di ciascun olio sono oggetto
di rassegne e concorsi come da tempo lo sono stati altri prodotti della campagna.
Nel contempo la sensibilità degli chefs illustra e propone le specifiche qualità di
ciascun olio per il suo migliore impiego gastronomico.
Una rassegna di olii dell'Istria che è in progamma in primavera a San Dorligo
della Valle, terra istriana anch'essa, ma anche finestra dell'Istria aperta su Trieste
favorirà la conoscenza di questo meraviglioso prodotto della nostra terra, simbolo di
civiltà mediterranea.
Ulivo, albero di sasso, ma albero di pace: dopo il diluvio con il suo ramoscello
la colomba annunciò a Noè la riconciliazione degli uomini con l'Onnipotente.
Si moltiplichino gli ulivi della nostra penisola e con essi i segni di pace!
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IL SOLE IN UNA GOCCIA DI MIELE
Nella mitologia greca ambrosia e nettare erano il cibo e la bevanda degli dei.
Trasudavano dalle corna della capra Amaltea e sia l'una che l'altro conservavano
agli dei l'immortalità e l'eterna giovinezza. I prodotti dell'alveare possono essere
considerati i succedanei di ambrosia e nettare ad uso degli umani: non procurano
l'immortalità, ma di certo aiutano a star meglio.
Nei delicati equilibri messi in atto dalla Natura nei vari momenti evolutivi, ogni
elemento assume una funzione importantissima, insostituibile.
Nel mondo vegetale, così come avviene nel mondo animale, la capacità adattativa
è mantenuta dall'arricchimento genetico che viene attuato attraverso l'incrocio
intraspecifico generalizzato, mentre la selezione, soprattutto quella operata dall'uomo,
equivale ad un suo impoverimento. Nel mondo vegetale l'arricchimento avviene tramite
la produzione del frutto, alla cui produzione concorrono in parte gli agenti atmosferici,
e il vento in particolare (riproduzione anemofila), e in parte gli insetti pronubi, che
favoriscono l'impollinazione. Fra questi ultimi primeggia l'ape.
Alcuni studiosi ritengono che l'ape mellifica, la cui caratteristica principale e più
importante è quella di produrre eccezionali quantità di miele, si sia evoluta dalle specie
presenti nell'Asia sud-orientale, vale a dire l'ape dorsata gigante, l'ape florens o nana
(specie queste due molto primitive) e l'ape ceranea (molto più evoluta delle precedenti).
I più tendono comunque a collocare nel vicino Oriente il centro d'origine dell'ape
mellifica. Questa di solito viene sistemata in tre grandi gruppi: razze europee, orientali
ed africane, fra le quali sussistono comunque varie relazioni.
Sotto il profilo produttivo le razze che interessano maggiormente e le più studiate
sono quattro. C'è innanzitutto l'ape nera diffusa in tutta l'Europa del Nord, ad Ovest
delle Alpi, e della Russia centrale. Lo sviluppo della moderna apicultura non è stato
però favorevole a questa razza, che è stata un po' dovunque sostituita da quella carnica
o da quella ligustica. Per le sue caratteristiche produttive quest'ultima, cioè l'ape
ligustica o italiana, si sta diffondendo in tutte le aree del mondo che abbiano spiccate
vocazioni apistiche. Ma anche l'ape carnica, che è originaria dell'Austria e dei Balcani,
sta progressivamente aumentando la sua area di diffusione. Ad oriente i confini della
sua espansione sono difficilmente individuabili in quanto si confonde gradatamente con
l'ape nera, attraverso la razza della steppa (A. cervorum).
Con numerose forme di transizione, la quarta razza è l'ape caucasica, che è
limitata al Caucaso e alle aree transcaucasiche.
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Nel bacino mediterraneo, soprattutto nella sua parte orientale, sono presenti
diverse razze locali, come la sicula, la syriaca, la cypria e, nella Macedonia e nella
Grecia settentrionale, quella macedone o cecropica.
Gli effetti dell' eterosi, ossia il vigore degli ibridi, consolidati nella pratica
agricola e nella produzione dei cereali, sono stati studiati ed utilizzati anche
nell'apicultura, ove nella deposizione della uova e nella produzione del miele gli ibridi
hanno talvolta migliorato i ceppi originali puri.
Nonostante che in più occasioni siano stati introdotti nel carso triestino ed in
Istria, come pure nelle isole del Quarnero, ceppi puri di api ligustiche dall'Italia
(soprattutto negli anni trenta) e recentemente siano state immesse le api carniche dalla
Slovenia, vi ha costantemente prevalso un ibrido che decisamente migliora
quantitativamente la produzione mellifera della carnica riducendone la tendenza alla
sciamatura, mentre aumenta la resistenza della ligustica alle difficili condizioni
ambientali, specie alla siccità dovuta alla percolazione del terreno, accentuata dalla
frequenza dei venti (bora) secchi, smussandone anche l'aggressività. Per altro la carnica
è la più mite delle razze mellifere.
Nella prima metà dell'ottocento l'apicoltura ha subito una svolta radicale con la
messa a punto in America dei telaini mobili (cioè dei supporti cerei su cui le api
costruiscono le ben note cellette - assurte a simbolo del risparmio e della laboriosità entro le quali poi depositano le riserve di miele, e l'ape regina la covata). Ciò ha
permesso la razionalizzazione della produzione apistica; fino ad allora le arnie erano
infatti dei semplici cestini di paglia, i tradizionali bugni villici, che per la raccolta del
miele obbligavano all'apicidio.
Come risulta anche dal riportato avviso di concorso del 1869, l'amministrazione
asburgica riconosceva all'apicoltura una notevole importanza, motivo per cui venivano
appunto emanati provvedimenti tendenti a favorire il suo ammodernamento anche sul
litorale adriatico.
La pratica apistica è attività assai interessante, sotto il profilo economico e
sociale, per l'impegno che tutti i suoi prodotti possono trovare, direttamente o
indirettamente, nel settore dell'alimentazione e della medicina, anche di quella
alternativa. Su un altro versante, lo studio della biologia e della vita sociale delle api, tuttora avvolte in parte dal mistero - è estremamente affascinante. I sistemi mimici di
comunicazione delle api, studiati da Karl von Frisch che, al riguardo, nel 1973 si è ben
meritato il Nobel, hanno dell'incredibile, come pure i sistemi di orientamento che fanno
riferimento alla mutata posizione del sole, sia per raggiungere il pascolo sia per
recuperare successivamente la via del ritorno. Il raggio d'azione delle api si spinge fino
a 5 chilometri; ciononostante ognuna di esse ritrova quella d'origine tra le numerose
arnie di un apiario.
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Altrettanto sbalorditiva è l'itegrazione della comunicazione mimica con quella
olfattiva ed ormonale, che regolano l'attività della famiglia, all'interno della quale esiste
una rigorosa suddivisione dei ruoli che le api operaie svolgono nel corso della loro vita:
ci sono le api di casa, che accudiscono alla covata, le guardiane e le foraggere
bottinatrici che cercano e raccolgono il polline, il nettare, la propoli e l'acqua. Si ha
l'impressione di essere di fronte ad un'unica entità, pur essendo questa formata da oltre
50.000 individui.
Continua ad incantarci il volo nuziale, la sciamatura, che è la festa dell'alveare,
attraverso la quale le api si diffondono e colonializzano il territorio. Non meno
stupefacente è la pappa reale, prodotta dalle giovani api e con cui vengono alimentate le
larve nei primi giorni di vita. Questa complicata e misteriosa sostanza, impiegata con
risultati talvolta ottimi in medicina, ha del prodigioso. Nell'alveare viene utilizzata per
tre giorni nell'alimentazione delle larve destinate a diventare operaie, e soltanto qualche
giorno in più per il nutrimento di quelle destinate a diventare le future regine. Si tenga
presente che l'unica reale differenza tra le operaie e le regine è dunque la diversa
quantità di pappa reale a loro somministrata: è questa che ne determina le enormi
differenze anatomiche e funzionali, perchè uova e larve sono identiche sotto il profilo
cromosomico. L'operaia è sterile, gode di una vita media di trenta giorni, se nata nei
mesi primaverili o estivi; le è invece concesso di vivere sei mesi se dovrà superare
l'inverno. La regina è l'unica che può produrre uova. In un solo giorno ne può produrre
in una quantità equivalente al suo peso corporeo. Può svolgere la sua funzione
riproduttrice (tranne che nei periodi sfavorevoli in cui blocca la produzione di uova) per
oltre cinque anni.
Oltre al miele, unico dolcificante un tempo conosciuto in Europa, alla cera,
preziosa in passato per l'illuminazione delle case dei nobili e delle chiese, e alla
prodigiosa pappa reale, ci sono altri prodotti delle api che ultimamente destano sempre
maggior interesse, il polline e la propoli. Quest'ultima è una resina raccolta dalle piante
e utilizzata per disinfettare l'arnia e per la chiusura di sue eventuali fessure. Dotata di
potere disinfettante e antisettico, viene usata per imbalsamare visitatori nocivi che una
volta uccisi non vi possono essere espulsi. Era conosciuta già dagli antichi egizi che,
date le sue proprietà, la impiegavano nella mummificazione dei cadaveri. Non presenta
controindicazioni, talchè oggi è sempre più utilizzata per scopi terapeutici e come
disinfettante in diversi diluenti, sia per uso esterno che interno.
Il polline raccolto, nel corso della bottinatura, è prodotto germinale maschile delle
piante. Ricco d'ormoni vegetali, rappresenta la parte proteica nell'alimentazione delle
api. Viene utilizzato dall'uomo a scopi terapeutici e come ricostituente.
Ma il prodotto più famoso e nobile delle api è il miele.
Dagli insetti viene elaborato utilizzando il nettare dei fiori. E' l'energia solare che
si materializza e che l'ape offre all'uomo.
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Già usato, come si diceva, esclusivamente come dolcificante, se ne scoprono oggi
molte altre virtù. Oltre al classico mille fiori, prodotto dalla raccolta su essenze diverse,
ci sono i mieli selezionati attraverso smielatura del prodotto di un pascolo monoflora:
acacia, tarassaco, castagno, agrumi, lavanda, ecc. Questa selezione ha permesso di
identificare proprietà ad azione farmacologica particolare, derivanti appunto dalle virtù
specifiche delle singole essenze.
E qui vanno segnalati alcuni mieli tipici della nostra regione, come quello di
tiglio, di timo, di salvia, che, nel quadro di un turismo intelligente, potrebbero
rappresentare proprio la classica "goccia di miele", mentre un incremento della pratica
apistica, attualmente piuttosto trascurata, eserciterebbe, per motivi suaccennati, un
influsso benefico su tutto il settore agricolo.
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IL RICAMBIO DELLA REGINA
L'apicultore osserva le proprie api, quasi coinvolto nel loro andirivieni; cerca di
individuare attraverso il colore del polline che le operaie portano a casa dalle loro
esplorazioni quale sia l'essenza di cui si avvalgono al momento, quanto lungo sia il
percorso che devono compiere, prestando attenzione al loro stato di salute, alla loro
vigoria e, quasi manifestando segni di stanchezza per la loro fatica, vorrebbe aiutarle,
sgravarle del loro peso; cerca di interpretare la loro "danza", quella serie di movimenti
che compiono al loro rientro dai campi per comunicare alla famiglia la quantità e la
localizzazione del pascolo perchè altre api lo possano raggiungere con vantaggio.
Nell'osservarle partecipa della loro gioia e quasi si immedesima nella vita dell'alveare.
Ma la sua gioia è massima al momento della sciamatura di qualche cassetta; è una
vera festa dell'alveare; è la nascita di una nuova famiglia, e perciò non pensa ai disagi,
alle fatiche che dovrà sobbarcarsi per recuperare il nuovo sciame, ma se l'impresa poi
non riesce, se la nuova famiglia parte per formare una nuova colonia in qualche parte
sconosciuta del territorio, quasi ne è felice.
Quale soddisfazione però quando riesce a formare un nuovo nucleo! E' sempre
una nuova famiglia che lui stesso ha contribuito a far nascere attraverso la sciamatura
artificiale.
Quando i manuali parlano della produzione di regine o della loro sostituzione,
vengono illustrati numerosi metodi e l'apicoltore non solo prova imbarazzo, ma anche
una certa confusione. Lui, deve sceglierne uno solo ed imparare a praticarlo con
disinvoltura e sicurezza. Tutti gli altri sistemi, come il trapianto di uova, o di celle reali
ecc. faranno parte solamente della sua cultura apistica.
La formazione di nuove famiglie rappresenta il sistema migliore anche per la
sostituzione delle api regine negli apiari non industriali, che rappresentano poi la quasi
totalità di quelli presenti nella regione del Carso ove il numero delle arnie per apiario è
piuttosto modesto.
E' questa una pratica semplice che permette anche di ottenere famiglie sempre
forti.
Innanzi tutto bisogna tener presente che non è sempre conveniente e spesso è anzi
sconsigliabile introdurre regine da altre regioni. Ciò soprattutto quando non vengono
adeguatamente garantite con idonee certificazioni sulle condizioni sanitarie dell'apiario
di provenienza e in special modo quando si introducono nella nostra regione
appartenenti a razze pure, siano esse ligustiche o carniche.
E' ormai noto che, vuoi per la sua scarsa vocazione apistica, vuoi per le
condizioni orografiche e climatiche e per quelle della sua flora, sul nostro territorio
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opera con profitto un ibrido frutto di incrocio tra l'ape ligustica o italiana e quella
carnica.
Questo incrocio ha un grande merito, quasi una virtù che deve essere gelosamente
conservata e se possibile esaltata attraverso una attenta selezione, quella cioè di
presentare una notevole resistenza alla varroasi; e ciò nell'interesse locale, ma anche
nell'interesse generale.
Infatti la varroasi sta producendo gravi danni in vaste aree del Nord Italia ed in
altre vaste regioni europee ove domina l'ape ligustica, ma prima ancora aveva messo in
ginocchio l'apicultura sicula, che utilizzava appunto l'ape sicula.
Ebbene, oggi si parla di introdurre in Italia regine dalla Tunisia, che pare siano
capaci di difendersi dalla varroasi liberando letteralmente il loro corpo dall'acaro.
Non ci si ricorda però che questa malattia è giunta da noi per l'inopinata
introduzione della ligustica nelle isole del Pacifico ove ha esaltato appunto la capacità
infestante della Varroa jakombosi.
Non ci si ricorda neanche che la famosa "ape killer" che ha distrutto l'apicoltura
dell'America del Sud e ora minaccia quella del Nord America è il risultato di un
altrettanto inopinata introduzione dell'ape africana.
Ed allora, perchè introdurre regine dalla Tunisia quando nella nostra regione
esistono ceppi di api che dimostrano una certa resistenza alla malattia?
Nella formazione delle nuove famiglie, attraverso la pratica della sciamatura
artificiale si dovranno ovviamente scegliere la famiglie più forti e far sì che si
diffondano nel nostro apiario.
Ma la possibilità di produrre regine, tra i tanti vantaggi ne ha anche uno che fino
ad oggi è stato assai poco apprezzato, ma che attualmente può assumere grande
importanza.
Si è infatti da poco affacciata allo scenario della patologia dell'ape, una malattia
oggetto di intensi studi, sostenuta da un gruppo di virus che colpisce le api regine con
effetti letali; pare che sia la varroa a trasmetterlo con le sue punture.
E' invalsa ancora l'abitudine di sostituire annualmente tutte le regine perchè quelle
giovani hanno sicuramente maggior vigore di quelle anziane di 4 o 5 anni; è sempre
saggio però avere una certa scorta di regine non più giovanissime in piccoli nuclei di
qualche telaio nel caso ci si accorgesse di avere qualche famiglia orfana o per rafforzare
qualche famiglia nel periodo di grandi fioriture. Oggi tuttavia è più che mai necessario
disporre di piccoli nuclei con regine anziane forse naturalmente resistenti alle nuove
virosi, da cui far discendere tutte le regine per la futura vita dell'apiario. Nessuna ipotesi
è da scartare aprioristicamente.
La tecnica per la produzione di nuove regine, definita sciamatura naturale guidata,
è invero assai semplice e consiste nel prelevare il telaino contenente la regina anziana
da un'arnia che ha già preparato ed opercolato da qualche giorno celle reali e con esso
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allestire un nuovo nucleo, rafforzato con il contributo di altri telaini, prelevati da altre
arnie.
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LA STIMOLAZIONE PRIMAVERILE DELLE API
I trattati ed i manuali relativi alla conduzione degli apiari fanno quasi
esclusivamente riferimento a ciò che interessa le zone a spiccata vocazione apistica,
considerando come eccezione e spesso trascurando ciò che è proprio delle zone
marginali.
Compito dei consorzi e delle strutture locali è quello di raccogliere le
osservazioni degli apicultori più attenti ed individuare i fatti che avvengono localmente
per meglio applicare le nozioni generali dell'apicultura.
Queste note costituiscono un doveroso sforzo, si spera di qualche utilità, per
migliorare la conduzione dei nostri alveari.
La zona del Carso triestino costituisce un crinale che delimita l'area
d'insediamento dell'ape ligustica da quella carnica ed ospita un ibrido, frutto della
congiunzione delle due razze, che riunisce in sè alcune caratteristiche di ambedue le
razze originarie. Tali caratteristiche, che a seconda del tornaconto zootecnico vengono
considerate qualità positive o meno, sono in realtà la espressione dell'adattamento
dell'ibrido all'ambiente; un ambiente, quello del Carso triestino, di non spiccata
vocazione apistica, tutt'altro; in più costellato da numerosi e vari microclimi che
inducono svariate giustapposizioni di nicchie ecologiche. Si passa dalla zona delle fonti
del Timavo, abbastanza protetta dai venti dominanti, e che è sempre preservata da gravi
fenomeni di siccità a quella di Prosecco e di Opicina, spazzata dalla Bora e fortemente
siccitosa, per scendere poi a quella climaticamente mite della costiera, protetta
completamente dai venti del Nord Est ad opera del ciglione carsico e beneficiata
dall'effetto termico del mare, per giungere infine alla zona di Muggia e al dolce clima
istriano; si differenziano rispetto a tutte le altre, la zona di Basovizza, Trebiciano e
Groppada e quella di Draga S. Elia e della Val Rosandra. Anche la flora ovviamente
varia in modo considerevole e così i periodi della fioritura delle essenze d'interesse
apistico che, da zona a zona, presentano sfasature di quasi un mese.
La conduzione dell'apiario deve tener conto di queste differenti condizioni
ambientali ed adattarvi le nozioni generali di apicultura.
Considerando in tale contesto il periodo in cui in genere si consiglia di attuare la
stimolazione delle famiglie, si ritiene utile sviluppare alcune considerazioni al riguardo
con particolare riferimento alle condizioni orografiche e climatologiche del Carso
triestino.
La pratica della stimolazione primaverile consiste nel fornire alle famiglie che
escono dall'inverno idonee quantità di sciroppo zuccherino, circa 400 gr. al giorno per
cassetta nella proporzione di 50% di acqua e 50% di zucchero; queste proporzioni
possono variare nelle giornate piovose in 2/3 di zucchero ed 1/3 d'acqua; la quantità di
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sciroppo, somministrata al tramonto per scongiurare saccheggi ma anche per non
distogliere le api dalla bottinatura, deve esser tale comunque da poter esser consumata
nelle 12 ore per evitare le proliferazione batterica particolarmente rigogliosa negli
sciroppi zuccherini.
Lo zucchero (saccarosio) può esser sciolto in acqua fredda o sottoposto a
bollitura. Nel primo caso è necessario aggiungere dell'acido acetico (aceto di vino) per
rompere la catena della molecola del saccarosio nei due zuccheri semplici che lo
compongono, fruttosio e glucosio, più facilmente utilizzabili dalle api; nel secondo caso
la temperatura stessa dell'acqua assolve a questa funzione.
Allo sciroppo è consigliabile comunque aggiungere un cucchiaio di aceto, in
quanto le api, come le formiche, beneficiano dell'apporto di sostanze acide, uno
spicchio d'aglio schiacciato ed un cucchiaio di miele, col quale aggiungere, seppur in
misura ridotta, tutto ciò che è contenuto nell'alimento naturale delle api.
Non si conosce a sufficienza quale sia il meccanismo intimo d'azione dello
sciroppo sulle famiglie. Si suppone che la costante presenza di un alimento simile al
nettare, dato per 8 giorni di seguito e ripreso per altri 8 dopo la sospensione di una
settimana, crei le condizioni perché la regina inizi la deposizione delle uova.
Quando si deve iniziare questa pratica?
Circa un mese e mezzo prima che inizi il raccolto ritenuto il più importante, cioè
il tempo necessario all'uovo depositato di diventare ape bottinatrice, in grado di
sostituire completamente le api che hanno superato l'inverno e chiuso il loro ciclo.
E fin qui assai poco di nuovo o quasi nulla.
Ma attenzione, quando si dice 45 giorni prima della fioritura dell'acacia, che si
suppone avvenga tra la fine di aprile ed i primi di maggio; dobbiamo tener presente che
nel nostro territorio la fioritura dell'acacia inizia nelle varie zone in periodi differenti,
talvolta sfasati tra loro anche di 25 giorni, ma soprattutto che l'acacia non è essenza di
maggior interesse in tutte le micro zone del nostro comprensorio; migliori raccolti si
fanno con i pruni ed i ciliegi selvatici ai primi di aprile ed alla fine di maggio con il
tiglio. L'ape ibrida delle nostre zone conserva dalla carnica una spiccata tendenza alla
sciamatura che in particolare nel corso dell'annata trascorsa ha arrecato non pochi
disagi ai nostri apiari.
Diversi fattori possono favorire la sciamatura, ad esempio condizioni climatiche
particolari come il sopraggiungere ed il perdurare di un periodo piovoso preceduto da
un buon inizio di stagione e seguito dal ristabilirsi del buon tempo.
Ma un fattore che può causare la sciamatura non desiderata è rappresentato
dall'errato momento in cui si effettua la stimolazione delle famiglie, quando cioè, ad
operazione conclusa, non si verifica la prevista fioritura e le famiglie, rese forti, non
trovano il necessario nutrimento sul campo. Ecco perché in diverse zone del nostro
territorio è più corretto e conveniente stimolare le famiglie per il raccolto sulle
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fruttifere, che dà un miele di qualità, ben accolto dal mercato e trascurare quello
dell'acacia a fioritura dei fruttiferi conclusa. In assenza della fioritura dell'acacia, specie
se le condizioni meteorologiche sono cattive, per evitare che il miele immagazzinato
venga utilizzato per l'autosostentamento della famiglia, è necessario procedere
rapidamente alla smielatura ed intervenire se necessario con l'alimentazione artificiale
in attesa della fioritura del tiglio.
Per concludere, nelle zone ove la fioritura dell'acacia è scarsa o nulla è preferibile
preparare le famiglie con la stimolazione primaverile per sfruttare i fiori dei fruttiferi,
abbondantemente presenti nel nostro territorio, preoccupandosi, però di smielare
prontamente il raccolto per evitare che venga utilizzato per l'autosostentamento della
famiglia e aiutare le famiglie con l'alimentazione artificiale, in attesa della fioritura del
tiglio.
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IL BOVINO ISTRIANO, OGGI BOSCARIN
Boscarin è il nome che oggi viene dato al bovino istriano di razza podolica, ormai
ridotto ad una reliquia genetica; sul territorio istriano sarà presente un centinaio di
capi; censimenti più accurati ne rileverebbero forse duecento. Gaiardo, Caparin, Napoli,
Viola erano i nomi più frequentemente usati per i rappresentanti della popolazione
bovina dell'Istria che in passato raggiungeva le sessantamila unità.
Stì Caparì', Zaa, erano incitamenti-comandi lanciati al bue dal contadinoconducente in modo lento, cantilenato in armonia con il suo modo d'incedere maestoso,
accompagnati da un dolce rotear di "scuria" che si appoggiava al collo dell'animale
come una carezza, un'intesa. La scuria e non frusta, era un segno di distinzione per il
proprietario; "una cubia de manzi" era tra l'altro un capitale, ma in più significava tanta
terra da lavorare; altrimenti si usava il mulo o l'asino.
Oltre a tutto il Boscarin è soggetto seppure possente, docile e mansueto alla
nostra mano. Il bue, aggiogato in diverse coppie, ha trasportato massi anche per la
costruzione dell'Arena e dissodato il tenace terreno istriano. Come quasi ogni altra cosa
è giunto alle rive dell'Adriatico dall'Est, dalla Podolia, dalle terre alte a base granitica
dell'Ucraina orientale; da qui si è diffuso alle zone litoranee della penisola appenninica
dando luogo per isolamento geografico successivo a popolazioni, famiglie e
sottofamiglie di forme in alcune delle quali, per l'influenza di caratteristiche ambientali
simili delle zone d'insediamento, il bue ha mantenuto od assunto aspetti morfologici
molto simili; si rassomigliano così l'istriano, il marchigiano, il pugliese, il calabro e per
certi aspetti anche il maremmano. Il pugliese e l'istriano adattati al terreno calcareo
carsico hanno assunto caratteristiche morfologiche pressocchè identiche.
Tra le due guerre mondiali si attuarono dei travasi genetici tra il ceppo pugliese e
l'istriano; testimonianza di ciò sono anche alcuni nomi che sono stati imposti ai figli dei
tori pugliesi nati in Istria: Napoli è uno di questi. In Istria si era soliti definire Napoli o
napoletano tutto ciò che proveniva dalle vecchie province. Secondo risultati di ricerche
geologiche, storiche e genetiche sul filum evolutivo delle razze bovine, quelle odierne
discenderebbero già nel Miocene dal Bos planifrons dal quale successivamente nel
Pleistocene sarebbero derivati il Bos primigenius o Uro europeo, ed il Bos namadicus, o
Uro afroasiatico. Dal primo nel neolitico sarebbero discese le razze a corna brevi, tutte
quelle del Nord Europa, Val padana compresa; dal secondo le razze a corna lunghe e di
grossa mole quali il Bos taurus macroceros dell'Europa meridionale ed orientale e
dell'Asia e quindi l'odierna razza della steppa o razza podolica nonchè alcune razze
iberiche.
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15.000 anni or sono l'Europa era coperta da foreste e da steppe ed i numerosi
bovini erano oggetto di caccia, com'è rappresentato nelle raffigurazioni cavernicole di
Spagna e Francia. 5000 anni or sono nel Nord Africa, Mesopotamia, Egitto, Grecia e
Sicilia il bovino era oggetto d'allevamento e quelli a corna a lira erano preferiti agli altri
e considerati sacri nei rituali, nell'arte e nella tauromachia che attualmente utilizza le
razze iberiche, ma in passato si esercitava anche in Egitto ed a Creta ove ha dato luogo
al mito del Minotauro.
Nella penisola italica si diffondevano invece ceppi di origine podolica; così in
Lucania, Calabria, Puglia, Veneto, Abbruzzo e maremma; così nella Penisola istriana,
nella Slavonia settentrionale, in Croazia ed in Serbia. Di particolare interesse risultano
ancora i ritrovamenti di ossa di animali nelle grotte del Carso che mettono in evidenza
come nel periodo protostorico ed in quelli immediatamente successivi le popolazioni
bovine appartenessero sia all'Uro che a razze addomesticate. Gli stessi ritrovamenti
testimoniano ancora come queste ultime in epoca romana aumentassero notevolmente
in grandezza e robustezza a seguito della selezione scientifica in particolare nei prodotti
della castrazione soprattutto se confrontati con soggetti di ceppo podolico ungherese,
che corrispondono a quelli del periodo protostorico della nostra regione. Nella cartina
allegata, adottando alberi filogenetici, elaborati nell'area geografica riportata, vengono
indicate alcune vie di migrazione delle razze bovine in Europa. La linea 1 indica il
passaggio delle razze originarie dell'Europa centrale verso quella del Nord, Padania
compresa; la 2 la diffusione della Podolica; la 3 la diffusione dei ceppi che hanno dato
origine alla Iberica, Modicana (Sicilia) e del Nord Africa.
Il bovino istriano è una razza a triplice attività: lavoro, carne e latte. Incontra il
primo mortale nemico, frutto della civiltà industriale, nel mezzo meccanico, alienatore
dei sensi: il trattore. Già nei primi anni trenta, esso aveva fatto la sua comparsa nelle
zone della bonifica istriana per competere con la tradizionale forza lavoro locale. Nelle
vecchie foto compaiono i conduttori-trattoristi appollaiati sull'assordante e puzzolente
mezzo a violentar la terra. Non si vede più il solenne bove con il suo cadenzato passo a
preparar la terra nelle umide giornate novembrine con l'alito condensato, quasi a
soffiare vita nelle zolle profumate di terra fresca che si apprestano a ricevere e
nascondere il seme.
Secondo nemico, più subdolo, la specializzazione zootecnica produttiva: latte o
carne.
Ed il Boscarin che fino ad allora aveva offerto all'uomo tutto quello che il bove
può offrire, compreso il tepore della stalla nelle notti invernali, chiudeva così il suo
rapporto antico con l'uomo ormai moderno: al macello.
La frenesia del profitto immediato, il voler tutto e subito, che sembra appartenere
alle giovani generazioni, ma che è ciò che ispira la civiltà consumistica, privilegia le
razze bovine altamente selezionate e specializzate nelle loro produzioni. Per il latte una
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razza ha il predominio oggi su tutto il Pianeta: la Pezzata nera di origine olandese,
anch'essa proveniente dall'Est. Le altre razze non necessarie sono state eliminate o sono
in via di eliminazione. Ed all'interno del ceppo della regina del latte sono stati scelti i
capi più produttivi ed ovunque si sono diffuse le loro discendenze, inizialmente con la
sola fecondazione artificiale, in seguito anche con "l'embrio-transfert". Ora domina,
avendo soppiantato le concorrenti, una sola linea di sangue, quella della Carnation
americana, capace di oltre 100 q.li di latte in 300 giorni; il seme dei tori migliori, che
hanno esaurito la loro carriera da decine di anni, congelato, è ancora quotato in borsa.
Quale il prezzo pagato?
Le razze autoctone costituiscono con il loro ambiente un ecosistema in equilibrio
dinamico che esprime la migliore potenzialità produttiva; quelle altamente
specializzate, capaci di produzioni record, necessitano costantemente di supporti
tecnologici di difesa nei confronti di malattie, contro la sterilità o ipofertilità, contro le
malattie neonatali, ecc. Questi interventi limitano anche le caratteristiche organolettiche
dei loro prodotti, destinati alla alimentazione umana, compromettendone spesso anche
la salubrità. Le loro esigenze alimentari sono poi superiori alle loro capacità digestive
per cui questi capi necessitano di quote di alimentazione concentrata, spesso medicata.
Le razze da carne se da un lato esaltano la precocità produttiva, dall'altro danno
delle produzioni scadenti sotto il profilo organolettico, nutritivo e della salubrità. Non è
ancora andato perduto il ricordo del sapore e del profumo di un piatto di lesso, arrosto
o brasato, ceduti dal bue di una volta per poter liberamente disprezzare ciò che si ricava
da un vitellone sottoposto a finissaggio, alimentato con insilato di miel-mais ed
integratori ed allevato in batteria.
La quota d'investimento in medicamenti è sempre in aumento, non per ricercare il
benessere dell'animale o il suo buon stato di salute, ma unicamente per favorire il suo
costante e rapido incremento ponderale.
Sono state selezionate alcune razze come la cuneese o "fassona" o della coscia e
la bianca e blu belga in cui i volumi della coscia nei vitelli sono notevolissimi, fatto che
costituisce il pregio della razza. Il canale del parto delle madri è tuttavia spesso
insufficiente e la maggior percentuale dei parti può perciò avvenire solo attraverso il
taglio cesareo: cinque, sei gravidanze, altrettanti parti cesarei.
Oggi finalmente negli ambienti più responsabili ci si rende conto che l'attuale
tendenza sta dilapidando un patrimonio genetico che la Natura ci ha donato attraverso il
lavoro selettivo di millenni, si stanno lanciando segnali di allarme e si tenta di correre ai
ripari.
L'Organizzazione mondiale per l'agricoltura, la FAO ed Istituti di ricerca dei
singoli Paesi, tra cui il C.N.R. in Italia hanno messo in atto programmi di recupero di
alcune reliquie genetiche per riportarle allo stato di popolazioni attive. Esistono anche
per il Boscarin i presupposti tecnici per un suo recupero e successivo rilancio, ma la
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necessità primaria è rappresentata da una presa di coscienza del problema in tutti gli
ambienti competenti e la volontà e perseveranza nel portarlo a soluzione.
Le tecnologie di recupero di razze animali da reddito in via di estinzione sono
ormai ampiamente sperimentate e si basano essenzialmente sulla identificazione
sierologica dei soggetti appartenenti allo standard di razza per la diffusione del suo
corredo genetico con l'impiego della fecondazione strumentale e dell'embrio-transfert,
utilizzando femmine portatrici. Ovuli di femmine rientranti negli standard di razza,
fecondati con seme di tori altrettanto puri, vengono fatti gestire da femmine di qual si
voglia razza, magari lattifere a fine carriera, che, a gravidanza ultimata, offrono vitelli
depositari del corredo genetico desiderato.
Al fine di non eccedere poi nella consanguineità, data la scarsità del materiale
disponibile, è possibile in questo caso utilizzare soggetti di origine podolica, ma con
grandi affinità genetiche al ceppo dell'istriana, come quelli pugliesi o calabri e con
identiche caratteristiche morfologiche anche se con marcatori sierologici non
perfettamente sovrapponibili.
I vantaggi che si possono ricavare da queste operazioni non sono certo quelli
derivati dal soddisfare le nostalgiche rimembranze di qualche vecchio sognatore o i
meri, limitati ed episodici interessi di singoli, ma innanzi tutto quelli inerenti la
conservazione di preziose risorse genetiche che ci sono state affidate e che abbiamo il
dovere di tramandare alle generazioni future. Preziose perchè perfettamente adattate al
loro ambiente, possono darci prodotti di alta qualità ed ineccepibile salubrità, ma
possono anche esser utilizzate per incroci di prima generazione nel miglioramento di
produzioni là dove ciò si rendesse necessario.
Circa l'adattabilità all'ambiente delle razze allevate, è opportuno tener presente
che in alcune regioni africane ove si era tentato di introdurre razze da reddito europee,
considerato l'alto costo della lotta contro le malattie infettive e parassitarie, verso le
quali i nuovi soggetti non erano resistenti, si sta facendo ora marcia indietro. Il notevole
sforzo per l'adattamento alle nuove condizioni ambientali ha suggerito di percorrere
altre strade, operando attraverso incroci di sostituzione con razze indigene o addirittura
iniziando l'allevamento di razze selvatiche autoctone quali gazzelle, bufali, zebre e
persino struzzi ed ippopotami.
Ed in Istria oggi paradossalmente si abbandona l'allevamento del Boscarin, ma si
allestiscono allevamenti di struzzi.
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Alcune vie di migrazione delle razze bovine in Europa
La linea 1 indica le vie di migrazione delle zone originarie dell’Europa centrale
verso quella del Nord.,Padania compresa; la linea 2 illustra la diffusione della
razza podalica; la linea 3 illsutra le vie di diffusione del ceppo che ha dato origine
alle razze Iberica, Modicana (Sicilia) e Nord Africana.
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L'ASINO E IL PANDA
Un'alltra vittima del progresso tecnologico, la cui estinzione viene passata sotto
silenzio, è il "MUS" o "SAMER", un tempo onnipresente in Istria. Non c'era contadino
anche il più povero che potesse farne a meno. Tra i "MUSSI" istriani si trovavano
soggetti di piccola taglia, simili a quelli appartenenti alla razza sarda, o, esemplari di
maggior mole, vicini a quelli di Martina Franca di Puglia, la razza gigante degli asini.
Era piuttosto comune il derivato dal suo incrocio con il cavallo: il mulo.
Un mio amico, profugo a Napoli, per conservare la sua identità metteva in atto gli
artifici più strani; ad esempio tifava per la squadra di calcio del Milan, non tanto perchè
la squadra della capitale morale della Repubblica, emblema delle regioni del Nord e
quindi della Venezia Giulia, ma perchè Nereo Rocco ne era l'allenatore e Maldini,
Cudicini e poi Barison, suoi punti di forza, erano almeno suoi corregionali. In seguito,
superate le prime difficoltà di adattamento, si affievolì anche la necessità di tali artifici
e, se tifo doveva fare per una squadra, scelse di farlo per quella della città che lo
ospitava, che con bizzarra fantasia e stravagante autoironia aveva eletto come suo
simbolo/mascotte, uno degli strumenti più preziosi dello sviluppo della civiltà
mediterranea e quindi di quella adriatica, anche se uno tra i più negletti: "U CIUCCIO",
per noi "SAMER" o "MUS".
L'araldica è piena dei simboli più strani, che vanno dallo scorpione al polipo;
l'aquila ed i rapaci vi dominano, ma vi figurano anche serpenti, lumache, ecc., mai
l'asino.
La Natura ha messo in atto numerosi accorgimenti per la difesa dei più deboli ed
indifesi, cioè i cuccioli a qualsiasi specie appartengano: diametri cefalici sproporzionati
rispetto a quelli corporei in cui domina l'enormità degli occhi e degli incisivi superiori;
arti ridotti, specie nel cucciolo d'uomo, per ridurre i danni delle numerose cadute; la
fronte convessa, caratteristica questa che desta simpatia e tenerezza e disarma sempre
negli animali ogni velleità di aggressione inter specifica. Nel samèr questi caratteri
permangono anche nel soggetto adulto. Ciò però non ha impedito all'uomo di sfruttare
spesso disumanamente la sproporzionata resistenza dell'asino agli sforzi e ad eleggerlo,
quanto meno nel nome, ad emblema della soma e della fatica: somaro. In effetti
nell'asino il rapporto tra peso corporeo e capacità di traporto al basto o al traino è di
gran lunga superiore a quello di ogni altra specie domestica.
Esso è l'animale, che assieme alla capra, è ancor oggi utilizzato per il recupero
delle terre marginali. Nonostante ciò, trovare un posto di rispetto nella vita è per l'asino
un'impresa assai dura. Può addirittura capitare di conseguire un parziale riconoscimento
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soltanto post mortem. E' stato inserito infatti con grande successo nei menù tipici delle
zone in cui viene ancora utilizzato. Ottimi i salami d'asino e le sue salsicce; la bontà
dello stracotto potrebbe esser anche fattore di accelerazione della sua definitiva
scomparsa. A fine carriera poi la sua pelle, forse perchè avvezza a sopportar bastonate,
viene utilizzata nella fabbricazione di tamburi; anzi per questo impiego è
particolarmente ricercata e continua così a sopportar ritmiche mazzate.
Capra ed asino sono i due animali addomesticati che hanno accompagnato l'uomo
nella sua storia e gli sono stati indispensabili per la sua sopravvivenza nelle terre meno
ospitali e più povere. Questa loro storia è soprattutto conseguenza della loro frugalità e,
nel caso dell'asino, della sua resistenza alla fatica. Tali doti sono però state raramente
oggetto di riconscimento da parte del "sapiens". La capra eletta a capro espiatorio dei
peccati dell'umanità intera; l'asino dileggiato, disprezzato e preso a simbolo di stupidità.
L'epiteto più frequentemente usato per disprezzare il prossimo è asino. Un pezzo
d'asino, lavar la testa all'asino, l'esser come l'asino di Buridano, sono modi di dire tanto
comunissimi quanto irriverenti. Andiamo meglio quando lo si preferisce vivo ad un
dottore morto o con il legar l'asino dove esso vuole.
A questo proposito, c'è da ricordare che ancora oggi a Dignano in occasione della
"Festa dei Bumbari" si fa la corsa dei sameri; molti di loro quando l'incitamento a
correre diventa una indebita pubblica legnata s'impuntano testardamente; vince
comunque sempre uno di quelli il cui cavaliere ha capito che la corsa è degli asini e non
di chi li monta e li lascia correre per loro conto.
Come strumento di dileggio riesce comunque a spuntarla, e con gran margine, nei
confronti del suino.
Chissà quali epiteti usano gli animali discorrendo tra loro e chissà se usano dirsi
l'un l'altro Homo sapiens?
Sembra che l'asino sia originario dall'Africa dove è stato conosciuto molto tempo
prima del cavallo; addomesticato per la prima volta in Numidia fu conosciuto in Europa
molto tardi, nel neolitico.
Associato fin dall'antichità alla vita dell'uomo ha dato luogo ad alcune forme di
culto (onolatria) ma anche qui in termini negativi. L'accusa di adorare l'asino venne
fatta agli Ebrei e poi ai Cristiani; su di essa si imbastirono numerose leggende e si mise
in relazione il nome divino di IAO col nome egiziano dell'asino, PIEO. Il motivo
fondamentale delle accuse di onolatria derivava dal fatto che gli ebrei non mostravano
di adorare alcun simbolo visivo, il che diede esca alla immaginazione polemica dei loro
nemici che vollero per disprezzo identificare il Dio degli Ebrei nell'asino; e ciò avvenne
in seguito anche per i Cristiani. Un prezioso documento archeologico della calunnia è
rappresentato da un graffito del Palatino ove è raffigurato un giovane che adora un
crocefisso con testa d'asino.
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Anche se è tardi, è ora di volergli un po' di riconoscenza ed accomunare l'asino al
Panda, simbolo della nostra improvvidenza, ancora più grave se non ci prenderemo cura
di questo fratello meno fortunato.
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LA PECORA DELL'ISTRIA
Una rapida carrellata dalle Isole britanniche alla Francia, all'Italia, al Nord Africa
e al Medio Oriente, ci permette di osservare una miriade di razze e sottorazze di ogni
specie di animali da reddito, bovini, suini, ovini, caprini, pollame e addirittura api.
Collocate in peculiari nicchie ecologiche esse sono capaci di dare il meglio di sè stesse,
in rapporto ai costi d'investimento e dei benefici ricavati. Ciò è il frutto delle selezioni
naturali in atto da secoli e della prudente opera dell'uomo.
La zootecnia è una pratica sorretta dalla scienza e dalla tecnica, alla base della
quale c'è la inesauribile pazienza dell'osservatore e quindi la sua profonda conoscenza
della Natura. Oggi la tecnologia più avanzata soccorre molto nella raccolta dei dati e
sopratutto nella loro rapida elaborazione; nei tempi andati i tempi di elaborazione erano
più lunghi, ma l'osservazione era forse molto più attenta e la conoscenza complessiva
dei fenomeni era comunque molto accurata.
Ricordo al riguardo un episodio che, nonostante la familiarità acquisita con
l'ambiente della campagna, mi colpì enormemente. Esso evidenzia in modo esemplare
la paziente perseveranza, la capacità di osservazione e la conoscenza del proprio
mondo, tipica dei pastori. Il mondo dei pastori è per noi un mondo un pò strano, un
mondo a sè. A questo proposito, nella mia lunga rincorsa alla pecora, mi è capitato per
le mani un vocabolario del gergo dei pastori ,una sorta di argot, risalente al medioevo e
usato da saltimbanchi, ladri di fiera, emarginati sociali,e pastori. Appunto, un altro
mondo. In esso le categorie tempo e spazio hanno valori assai diversi da quelli del
mondo della città. Dalla sommità della strada che percorrevo quel giorno in macchina
intravvidi a valle un gregge di pecore che pascolava in un campo; mi avvicinai a piedi
e mi intrattenni a chiacchierare amichevolmente con il loro pastore, che conoscevo da
tempo.
Daniele, infatti veniva delle volte a casa mia nelle ore più impensate senza
farsene un problema. Era tanto affascinato da un volume, ricco di fotografie di pastori e
pecore, intitolato "Fame d'Erba", che mi ero proposto di regalarglielo. Non ho mai
trovato l'occasione "giusta" per farlo.
Egli mi raccontò delle sue 130 pecore bergamasche, transumanti al piano nel
periodo invernale.
Daniele conosceva ogni sua singola pecora: chi era la madre di questa, di chi era
figlia l'altra e tutte le linee discendenti ed ascendenti di quel gregge di pecore tutte
uguali in cui io distinguevo a malapena gli agnelli più giovani... Quella aveva fatto
gemelli e verrà scartata (nella transumanza i parti gemellari sono un impiccio perchè la
madre non sempre riesce ad allattare tutti e due gli agnelli); quella li è buona, dà agnelli
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che vengono su bene; quell'altra (facevo fatica ad individuarla nel gruppo) è ancora
migliore... Aveva presente la storia di ciascun capo e sulla base delle singole storie
programmava il futuro del gregge.
Alla fine della chiacchierata avevamo finito il formaggio e il pane che egli aveva
tagliato con mani nerissime (la lanolina della lana delle pecore penetra rapidamente
nella pelle e veicola anche sostanze coloranti), avevamo bevuto dal collo del
bottiglione un vino nero, in verità non molto buono e mi accompagnò alla macchina.
Nell'atto di congedarsi mi tese la mano, che però ritirò prontamente "Non posso", disse.
Solo allora, dinanzi ad una macchina con il bollo del servizio di stato, solo un po' fuori
del suo ambiente, si accorse che la sua mano non era pulita.
Come nel Mar Tirreno ogni isola ha la propria razza di capra: tipica assai quella
dell'Isola di Monte Cristo, ma anche quella dell'Isola di Capraia e quella di Caprera;
tipiche poi quelle della Sardegna dove ci sono addirittura tre razze selezionate dai
gradienti altimetrici dell'Isola, così è per la pecora. Sembra quasi che la Natura si sia
divertita nel tempo a tirar fuori tante razze, dalle terre marittime del Nord Atlantico, alle
sponde del Sud Est del Mediterraneo e che poi l'uomo pazientemente, con osservazioni
durate una vita, le abbia migliorate per gli usi che ne doveva fare: latte, carne, latte e
carne assieme; la produzione di latte e lana pregiata mai possono coincidere nella stessa
razza per meccanismi fisiologici. Alla produzione del latte e della lana concorrono
infatti gli stessi aminoacidi.
Gli areali delle singole razze sono assai bene delimitati ed all'interno di essi si
ritrovano spazi altrettanto ben delimitati in cui sono ospitate famiglie di sottorazze.
Tipico è l'esempio della razza ad orecchie pendule della Valle Padana, alla sinistra del
Po. La sua presenza inizia dalle Langhe con una pecora tipicamente da latte che si
distingue in Biellese, Varesina, Bergamasca, e Lamon. All'Isonzo essa lascia spazio ad
un altra pecora da latte, l'Istriana che a sua volta passa gradatamente, modificando
sopratutto le esigenze del pascolamento, alla pecora dell'Isola di Cherso e a quella della
Dalmazia.
Tale è l'adattamento quasi simbiontico delle singole razze con il loro ambiente
che gli interventi dell'uomo devono ispirarsi alla massima cautela. Tentativi di
introduzione di soggetti provenienti da altri ambienti non sempre hanno avuto successo,
se non attraverso incroci di sostituzione, introducendo cioè riproduttori maschi e
verificando poi le capacità di adattamento all'ambiente dei nuovi nati, spesso aiutando
con supporti tecnici il frutto dell'incrocio. Ciò si ottiene con difficoltà per alcune specie,
ma con nessun vantaggio economico in quelle specie i cui redditi provengono dalla
pratica pascolativa per lo più esercitata su terreni poveri, come è generalmente il caso
delle pecore e delle capre, che tra l'altro mal si adattano alla conduzione stallina
permanente.
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Tentativi di questo tipo sono stati fatti nella Val Padana introducendo la pecora
Finnica dotata di alta prolificità, tentativi che non hanno dato risultati degni di rilievo;
analogamente la Massese, buona produttrice di latte, non ha però potuto adattarsi ai
terreni umidi della padania a causa di ricorrenti manifestazioni morbose agli zoccoli.
Altri tentativi sono stati fatti con le merinizzate della Tasmania, produttrici di lana di
altissimo pregio, da parte di un industriale biellese che avevo personalmente
sconsigliato di intraprendere tale avventura, risoltasi poi in un disastro economico.
Altrettanto fallimentari sono stati i tentativi fatti per migliorare le pecore di Pago con
l'introduzione di greggi Awashi di origine palestinese e nell'Isola di Unie con capi
merinizzati.
Sono per altro in atto da numerosi decenni esperimenti di incrocio di pecore
Romanov introdotte in Francia dalla Unione Sovietica per aumentare la prolificità in
alcune razze locali, ma ancor oggi non si è passati alla pratica applicativa sul
territorio.
Nonostante tutti questi insuccessi, l'accordo Goria-Miculich prevedeva tra l'altro
l'introduzione di migliaia di capi di pecore sarde sui monti della Ciceria, ove allo scopo
sono già stati allestiti imponenti ricoveri. Come se non bastasse, in Istria sono state
recentemente importate dall'Australia e dalla Nuova Zelanda pecore merinizzate,
specializzate nella produzione della lana.
In verità con l'avvento delle fibre sintetiche, la produzione della lana ha subito
gravi tracolli. I magazzini delle aziende produttrici sono stracolmi di lana invenduta,
tanto che attualmente si tende ad effettuare una sola tosa all'anno ed in Australia, per
ridurre i costi di tale operazione, che seppur effettuata su grandi masse riduce
notevolmente i costi degli impianti, si sta studiando l'impiego di prodotti chimici
capaci di produrre la caduta della lana. Allora: lana e carne o drastica riduzione della
massa di ovini, caratteristica principale dell'agricoltura australiana? Questo è un
problema ancora aperto.
C'è quindi da chiedersi che cosa ha mai fatto di male questa pecora Istriana per
vedersi soppiantare in casa sua dalla Sarda, dalla Awashi o dalle merinizzate che, come
si è visto, fuori dal loro ambiente sono incapaci di rendere.
L'Istriana era da secoli considerata razza a triplice attività (in realtà era solamente
da latte) che si accontentava delle scarse essenze prodotte da un terreno asciutto;
essenze quindi assai aromatiche come salvia, timo e ginepro, che davano alla carne, ma
sopratutto al latte e quindi ai formaggi odori e sapori inconfondibili. In effetti, questo
formaggio era un tempo assai ricercato perchè forse superiore al famoso formaggio di
Pago, oggi ormai confezionato (tranne che in pochissimi casi ove ancora opera qualche
vecchio pastore) prevalentemente con latte di vacca, ma reclamizzato e venduto anche a
caro prezzo a chi si pasce solo di pubblicità .
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E' evidente quindi che la pecora Istriana, da secoli perfettamente adattata ad un
ambiente assolutamente non facile, sembra oggi l'unica razza capace di trarre dalla
estrema povertà dei pascoli ad essa assegnati prodotti di altissima qualità.
Un suo recupero potrebbe rappresentare allora una valida via di utilizzo per
terreni poveri e non destinabili ad altre attività produttive.
Osservando un gruppo di pecore istriane si ha l'impressione d'esser di fronte a
pecore appartenenti a razze diverse tanto sono dissimili tra loro per il colore che va dal
bianco al pezzato nero, al nero; la lana comunque è sempre grossolana a fiocchi aperti;
non sempre sono presenti le corna; anche la taglia non è omogenea; le femmine adulte
in media raggiungono i 60, 70 Kg ed oltre. Le caratteristiche produttive la possono far
ascrivere ad una razza da latte.
Non essendo stata sottoposta a selezione, il suo corredo genetico è estremamente
ricco e le permette di adattarsi con estrema facilità ad ogni variazione climatica.
Di questa plasticità genetica hanno tratto beneficio i primi incroci di sostituzione
operati con soggetti Awashi introdotti da Israele, ma già alla terza generazione si sono
manifestati tutti i danni di un acclimatamento impossibile attraverso fastidiose e
persistenti manifestazioni morbose; è successo così, seppur con minor intensità, anche
per nuclei di pecore Macedoni. Queste tollerate introduzioni di materiale genetico sono
intollerabili sotto il profilo tecnico perchè fonte di focolai morbigeni e di altri
grattacapi.
Le categorie spazio/tempo per il pastore dei nostri giorni hanno significati ancora
assai diversi da quelli che condizionano l'homo urbano, ma in quanto ad emarginazione
sociale e per quanto concerne l'aspetto economico, la situazione attuale è assai diversa
da quella del misero pastore del Medio Evo. Un gregge di pecore (pecus-pecunia) ha
oggi lo stesso valore e dà lo stesso prestigio sociale dei tempi di Roma. Il pastore di
oggi è a tutti gli effetti un imprenditore economico di tutto rispetto.
La pastorizia poi utilizza con grande profitto le cosiddette terre marginali e terreni
coltivi nella fase di riposo arricchendoli con abbondanti concimazioni. In Istria, i grandi
spazi incolti aspettano proprio la pecora e tutti noi ci auguriamo che a colonizzarli sia
proprio quella Istriana.
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LA PASTORIZIA A CHERSO
L'attività dell'isola di Cherso, prima del recente avvento del turismo, era
rappresentata dalla pastorizia, integrata da un'agricoltura, consistente essenzialmente
nella produzione di ottimo olio e di vino nonchè, prima dello sviluppo dell'industria
chimica, dalla raccolta del piretro.
La razza ovina allevata anche attualmente è di ceppo antico, perfettamente
adattato alle condizioni climatiche e soprattutto orografiche meravigliosamente aspre
dell'isola, ma poco generose sotto il profilo delle produzioni. Conserva intatte le
caratteristiche genetiche originarie per l'influenza dell'isolamento geografico e può
esser considerata razza a sè stante pur presentando strette analogie con la pecora di
Pago, dell'Istria ed in genere con le razze autoctone del Meridione d'Italia e della costa
dello Ionio. Di ceppo greco e quindi forse siriano, è una razza a triplice attitudine:
carne, latte, lana. Di taglia leggera, la femmina adulta raggiunge i 40 kg., 60 il maschio;
dà circa 1 kg. di lana raccolta da un'unica tosa; ottima da materasso, oggi, con l'avvento
del materasso a molle, viene quasi rifiutata dal mercato. Testa, addome ed arti ne sono
privi. Il vello, a fiocchi lunghi ed aperti è generalmente bianco con quasi costanti
macchie nere sulla testa e più raramente in altre parti del corpo. La razza presenta
talvolta soggetti completamente neri partoriti da femmine a vello bianco che a loro
volta possono dare frutti bianchi, caratteristiche queste di tutte le razze autoctone della
costa adriatica e ionica ed indice di integrità del patrimonio genetico e quindi di
grandissima adattibilità dei ceppi. La razza leccese mette a frutto tale ricchezza genetica
favorendo la presenza di soggetti completamente neri là dove le essenze del pascolo
produrrebbero dannosi effetti legati alla fotosensibilità.
Allevata oggi nel modo del tutto tradizionale, i nuclei sono condotti
all'accoppiamento alla fine dell'estate, prevalentemente in ottobre; a S. Giuseppe, in
concomitanza con lo sbocciare delle essenze novelle, avvengono i parti; a fine maggio i
soggetti non destinati all'allevamento vengono sottratti alle madri che iniziano ad essere
munte e da questo momento possono dare complessivamente 40 kg. scarsi di latte
attraverso due mungiture giornaliere. I soggetti destinati alla rimonta del gregge
vengono sottratti alle madri a S. Giovanni.
Nell'Isola l'agnello veniva tradizionalmente sacrificato solo nelle ricorrenze o
nelle occasioni particolari, mentre, come avviene tuttora, venivano utilizzati per
l'alimentazione prevalentemente soggetti maturi o a fine carriera che forniscono carni di
ottima qualità.
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Dalla coscia opportunamente trattata si ricavano i delicati prosciutti di pecora che,
per il modo con cui vengono affettati che ricorda quello con cui il musicista imposta il
violino, vengono talvolta definiti violino di pecora. Dalla salagione alla completa
maturazione sono necessari circa tre mesi; altre parti della carcassa, se non consumate
fresche, previa salagione, vengono essicate e successivamente utilizzate per arricchire
fragranti minestre di verdura.
Il consumo di carne di soggetti a fine carriera, completamente priva del sapore
sgradevole tipico dell'ovino adulto, è reso possibile dalle caratteristiche del pascolo,
costituito da essenze aromatiche alofile che danno gli inconfondibili caratteri
organolettici anche al latte e quindi al formaggio, in alcuni casi ottenuto ancora oggi
utilizzando il tradizionale caglio. La cagliata viene ottenuta a caldo dal latte delle due
mungiture giornaliere, eseguite nelle ore più fresche della giornata, anche se i nuclei di
pecore distano notevolmente dall'abitato e si trovano in siti non sempre raggiungibili
attraverso strade o sentieri agevoli.
Le mungiture sono eseguite assolutamente ogni giorno indipendentemente dalle
condizioni atmosferiche. Il formaggio, circa 6 kg. per pecora, che viene a maturazione
nell'arco di un mese, appaga pienamente di ogni fatica per molteplici aspetti tranne che
per quello economico perchè il prodotto non è stato ancora convenientemente portato
all'attenzione di chi sa pienamente apprezzarlo, tanto che oggi nella sola zona di Orlec,
contro le 7 tonn. circa del passato, se ne producono solamente 2 scarse.
Gli ovini a Cherso vengono allevati in modo tradizionale e ad esso sono
perfettamente adattati, attraverso un fragile equilibrio con l'ambiente, merito anche
delle indispensabili strutture eseguite dall'uomo e rappresentate soprattutto da quello
strano arabesco che ricama tutta l'Isola: le masiere. Esse circoscrivono e limitano le
particelle in cui in un giusto rapporto con il territorio (1-2 capi per ettaro) possono
insistere gli ovini, particelle che vengono usate a rotazione e nei delicati momenti
dell'accoppiamento, del parto e dell'allattamento; una maggiore pressione sull'ambiente
rappresenterebbe un rifiuto al pascolo, pregiudizio alla fragranza dei prodotti, e la fuga
dal sito con abbattimento e distruzione dei recinti; per questo motivo non vengono
allevate capre, non assoggettabili a questa disciplina, nè assolutamente cani.
La costruzione delle masiere, realizzate nel corso di numerose generazioni è
frutto di una coscienza perfetta non solo dell'arte di erigerle così alte e sottili ma del
rapporto ovino, clima, territorio e quindi pascolo; un loro danneggiamento sarebbe di
pregiudizio alla pastorizia e all'equilibrio fino ad oggi raggiunto e mantenuto, causa di
degrado del territorio e di allontanamento dell'uomo da questo ambiente in nessun altro
modo più utilizzabile, pregiudicando così anche un possibile e non tanto futuro turismo
intelligente.
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ALCUNE CURIOSITA' E QUALCHE CONSIGLIO
PER I CONSUMATORI DI CARNE SUINA
E' diffusa la convinzione che il divieto delle religioni medio-orientali di
consumare carne di maiale rappresenti una prescrizione d'ordine igienico-sanitario
intesa a scongiurare soprattutto gravi infezioni di cisticerchi e trichine, trasmissibili
all'uomo attraverso il consumo di carni di suini infestati; oggi è ormai sicuro invece che
queste proibizioni dipendevano dal fatto che l'onnivoro suino è un grande antagonista
alimentare dell'uomo; si ciba infatti degli stessi alimenti che compongono
l'alimentazione umana con grande perdita di energia di trasformazione. Le calorie
necessarie a produrre 1 Kg di carne di maiale sono infatti di gran lunga superiori a
quelle fornite all'uomo dal chilogrammo di carne suina ricavato. Tale perdita è oggi
portata alla esasperazione dai cosiddetti allevamenti razionali industriali di suini.
Le carni di suino hanno tuttavia da sempre rappresentato un apporto
progressivamente più importante nella dieta delle popolazioni man mano che dal
Mediterraneo orientale si progrediva verso il settentrione (presso i popoli di origine
celtica costituiva la quasi totalità dell'apporto proteico animale) e si andava dalla costa
verso le zone interne.
Anche nella penisola istriana il consumo di carne di suino risulta essere stato
piuttosto modesto nella zona litoranea meridionale abitata da popolazioni istropelasgiche, mentre nelle zone settentrionali abitate da Celti il suo consumo era
notevole.
L'esame condotto su ossa di animali rinvenute negli immondezzai di Nesazio nel
corso degli scavi nella città capitale degli Istri ha messo in evidenza che la maggior
parte di esse appartenevano ad una razza di capra grande e robusta mentre
relativamente scarse erano quelle appartenenti ad altri animali, maiali e cinghiali
compresi.
Il maggiore o minore impiego delle carni di suino era influenzato sia dalle
condizioni climatiche che ne condizionavano la conservazione, sia dalla lontananza
dalla costa ove i prodotti della pesca rappresentavano nella stagione invernale, in
assenza di vegetali freschi, il massimo apporto vitaminico, in particolare di vitamine C
ed A.
Inoltre, nelle zone in cui era conveniente il suo impiego, il suino rappresentava il
salvadanaio di cibo per la famiglia; alimentato con residui della mensa domestica,
all'inizio della stagione invernale veniva sacrificato e forniva, soprattutto attraverso il
fegato, che doveva venir consumato immediatamente e con il sangue che costituiva la
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base della preparazione dei sanguinacci, "smulisse", la necessaria ed agognata
integrazione alimentare alle razioni di granaglia e vegetali secchi.
Necessità e desideri consacrati poi nel rito della macellazione. Per il loro scarso
tenore in acqua, per l'alta percentuale in grasso e per le qualità particolari del grasso
stesso, a differenza di quelle di altre specie animali, le masse muscolari del maiale ben
si prestano alla lunga conservazione mediante salagione ed affumicazione, mantenendo
ed anche aumentando la loro fragranza originaria, ma soprattutto la morbidezza del
prodotto. Gli insaccati di qualsiasi altra specie necessitano infatti quanto meno
dell'apporto di grasso di maiale proprio per evitare una rapida ed eccessiva essicazione.
Le tecniche di lavorazione e di conservazione nonchè l'aggiunta di particolari
spezie, che differiscono da regione a regione, hanno permesso nel tempo di ottenere
numerosi e particolari tipi di prodotti.
Troneggia su tutti il Prosciutto, per le caratteristiche organolettiche che presenta,
ma anche per le qualità nutritive e per la sua digeribilità; nel corso della maturazione
infatti le proteine del prosciutto si trasformano progressivamente scindendosi in protidi
e peptidi, aumentando così la digeribilità del prodotto e rendendolo consigliabile anche
nella dieta di persone sofferenti di disturbi gastrici e nella prima infanzia.
Le tradizioni locali dell'allevamento del suino (stabulazione permanente, stato
brado o semibrado e tipi di alimentazione adottati), le condizioni climatiche e le
tecniche di lavorazione hanno permesso nel tempo la caratterizzazione di prosciutti
tipici rinomati che vanno da quello dolce di Parma-Langhirano, ricavato da suini
pesanti, attraverso stagionature annuali, a quello istriano ottenuto da suini leggeri,
semigrassi. Le carni di questi ultimi, sottoposte talvolta a breve bagno in salamoia e
sempre a pressatura, grazie al loro basso tenore di grasso, vengono preparate poi con
stagionatura relativamente breve, integrata spesso dall'aroma particolare di una leggera
affumicatura a basse temperature. Di sapore meno dolce di quello di Langhirano ed
anche di quello di S. Daniele, il prosciutto istriano è ricercato oggi con grande impegno
da parte dei suoi estimatori.
Il suino, nell'uso e quale strumento di dileggio è secondo solamente al somaroasino-mus; suino-porco, ingiustamente identificato come animale sporco; porcile, il suo
ricovero, è sinonimo di sporcizia; da porco deriva sporco e da questo porco, nel senso
di indegno, senza tener presente che il livello delle condizioni igieniche del maiale non
dipende da colui che nel porcile è ricoverato.Nella scelta di qualità operata dalla civiltà
moderna per la progettazione e la costruzione dei ricoveri, il suino non ci ha
guadagnato tuttavia un gran chè rispetto al passato e neanche il consumatore.
Il maiale è un'animale dotato di uno sviluppatissimo sistema estesiologico e
percepisce una vasta gamma di colori oltre che movimenti impercettibili di oggetti.
Supera il cane nella percezione degli odori e nella memoria olfattiva, fatto per cui
veniva utilizzato nella ricerca del tartufo.
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Alla costante ricerca di cibo in ampi spazi nel sopra- e nel sottosuolo, è di solito
costretto in ricoveri in cui sono eliminate le escursioni termiche e luminose, ove i pasti
vengono somministrati ad orari costanti ed i movimenti vengono limitati per impedire
lo spreco di energia; ciò anche a danno della ginnastica funzionale della muscolatura
scheletrica e di quella degli arti posteriori in particolare. Maschi e femmine coabitano
ed alla calma sovrana economicamente neccessaria ovvia l'onnipresente chimica che
comunque non riesce ad eliminare lo "stress" che immancabilmente incide sulla
salubrità del prodotto.
Per questi motivi è sempre più arduo il reperimento di tipici prodotti della
salumeria tradizionale, anche di quella istriana.
Per fortuna tuttavia gli amatori, sempre più numerosi ed attrezzati per poter
distinguere, rifiutano la produzione industriale di massa e giustamente premiano il
prodotto tipico, che esige di esser consumato nella stagione opportuna. Tale prodotto ha
inoltre il compito di far sopravvivere e diffondere la cultura popolare e contadina e le
sue genuine produzioni estensive, contribuendo così alla conservazione dell'ambiente,
spesso fortemente minacciato dalle porcilaie intensive.
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L'UOVO E LA GALLINA
Quando sarai in grado di usare forchetta e coltello senza far pasticci, potrai sederti
alla tavola dei grandi. Questo era quanto mi veniva detto, ancora bambino, ogni
qualvolta tentavo di inserirmi nell'agognata tavola. Sarebbe stata una vera promozione
l'esser accolto in quel modo nel mondo dei grandi. Imparai abbastanza rapidamente a
destreggiarmi con questi strumenti di emancipazione, ma il pollo, quello arrosto, che
rappresentava poi il mio piatto preferito, non fui mai capace di affrontarlo
convenientemente con quegli strumenti; eppure il mio impegno era stato massimo tutte
le volte che ne avevo avuto l'occasione. Allora il pollo non figurava frequentemente
nelle mense dei più; anche i grandi delle nostre parti non sembravano avere tanta
dimestichezza con l'argomento; mi dicevano anzi che nei ristoranti chic e nelle case dei
signori talvolta la coscia del pollo arrosto veniva servita con la parte distale dell'osso
avvolta in carta stagnola per agevolare i commensali nell'ardua impresa. Non riuscii
mai a cavarmela dignitosamente.
Ed andai profugo. Forse perché non avevo appreso i segreti dello stare in società?
Mi laureai e lavorai all'Università come assistente; ero soddisfatto; anche se le
retribuzioni erano assai povere godevo però della simpatia dei colleghi e della
benevolenza del Direttore dell'Istituto che era anche Preside della Facoltà e Prorettore
dell'Università.
Un giorno mi arrivò tra capo e collo un suo invito a cena. Ero inorgoglito, ma
provavo quello stato d'animo che si ha prima di sostenere un esame importante; mi
preoccupava soprattutto il che cosa indossare: non era l'imbarazzo della scelta, ma
piuttosto il fatto che l'unica giacca che possedevo aveva i bordi delle maniche consunti
ed a tavola ciò si nota anche senza voler essere curiosi.
Ma fu la notizia del Menù che mi colpì come un pugno nello stomaco. Pollo
arrosto! Altro che benevolenza, quella era una cattiveria!!
Non so che cosa venne servito come primo piatto, e se ci fu dell'antipasto.
Pensavo solo al pollo che finalmente arrivò con l'immancabile contorno di patatine
arroste ed insalata. Altro che acquolina in bocca! Avevo la lingua e la gola secche,
pensando ad una nuova battaglia: io contro il pollo. Avvenne però un miracolo: la carne
si staccava quasi da sola dall'osso tanto che armeggiai, coltello e forchetta, talmente
bene che riuscii in qualche modo anche a non esporre tanto i bordi consunti delle
maniche. E la saliva ritornò: erano anni che non gustavo un pollo. Mi ero dimenticato il
suo sapore o forse avevo inconsciamente idealizzato nel ricordo il mio piatto preferito.
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Quello che mangiavo non era pollo: la scarsa consistenza delle carni mi andava
certamente bene facilitando il lavoro dei ferri, ma quelle carni sapevano di pesce!!
Nel corso della cena venne fuori il Santo che aveva compiuto il Miracolo.
Il Direttore mi raccontò che spesso comperava dei polli, prodotti da due nostri
colleghi, che avevano allestito un allevamento sperimentale in batteria, di quelli di tipo
industriale che incominciavano ad andar di moda in America. Alimentati con mangimi,
costavano molto meno di quelli prodotti dai contadini. C'erano ancora dei problemi, ma
quello sarebbe stato il pollo dell'avvenire. Non si usavano ancora gli antibiotici, perché
assai costosi e neanche gli estrogeni. Ma in seguito sarebbero arrivati e nel corso della
mia attività professionale ne avrei fatto l'incontro. Avrei visto allevamenti con svariate
decine e talvolta centinaia di migliaia di capi, ad ingrasso rapidissimo e destinati alla
sola produzione di carne oppure alla produzione di sole uova: trecento e più in un anno.
Le razionalizzazioni del processo si susseguivano di giorno in giorno. Compito del
nostro servizio era, anzi avrebbe dovuto essere, quello di controllare la sanità e l'igiene
delle produzioni zootecniche per tutelare la salute dei consumatori. Compito
mistificato, tanto che gettai la spugna, alleggerendo di molto la mia coscienza.
Elencare le sofferenze e gli stress cui sono sottoposti gli animali negli allevamenti
"razionali" sarebbe troppo lungo. Alla moderna zootecnica non interessa poi rilevarli e
quantificarli se non quando pregiudicano lo stato di salute incidendo quindi
negativamente sulle produzioni economiche. Vengono individuati allora idonei sistemi
profilattici o terapeutici a base di sostanze chimiche che non sempre sono ininfluenti
sulla salubrità dei prodotti destinati all'alimentazione umana. Partendo da lontano, con
una rapida carrellata si può segnalare la dissennatezza con cui si è permesso che tutto il
patrimonio genetico del pollame, così come quasi tutto quello degli animali da reddito,
sia stato concentrato da poche compagnie anglo-americane-olandesi che ora ne
detengono il monopolio a cui sono soggetti un po' tutti coloro che vogliono partecipare
a questo tipo di mercato. Emblematico è il caso della gallina livornese, già all'origine
altissima produttrice di uova, il cui materiale genetico, ormai americano, viene portato
anche in Toscana, sotto il nome di Leghorn. In breve, uova incubate danno pulcini che
vengono allevati alla chioccia artificiale ed alimentati "razionalmente"; da pollastre
entrano nei locali produzione uova. I pulcini maschi, che non interessano alla
produzione di uova, ma neanche a quella della carne, per la resa ponderale che danno
queste razze vengono generalmente cremati. Le femmine sistemate a tre a tre in gabbie
di 1\2 metro quadrato, becco reciso per evitare reciproche offese, iniziano
l'interminabile deposizione delle uova. Si tenga presente che nel corso di tutta la loro
carriera produttiva sono protette da un costante ombrello antibiotico, e non potrebbe
esser diversamente se no presenterebbero tutto il panorama della patologia aviare. A
fine carriera, in ceste appena sufficienti a contenerle, attraversano mezza Italia su
camions scoperti, cospargendo di piume i percorsi autostradali. E lo stress? Poco
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importa, tanto vengono macellate immediatamente all'arrivo. Le modificazioni
ematiche causate dallo stress da trasporto sono solo curiosità scientifiche. E le uova?
Tranquilli! L'ombrello antibiotico protegge anche il consumatore.
E i polli da carne? La copertura antibiotica è ancora più necessaria, soprattutto
negli allevamenti a terra con lettiera permanente. Qui i polli raggiungono pesi forma nel
giro di poche settimane con l'aiuto di sostanze nei confronti delle quali i laboratori
pubblici di controllo sono in perenne affanno nel rincorrere i nuovi ritrovati della
tecnica per mascherarle o per farle metabolizzare e quindi eliminare più in fretta. Ma
vengono veramente eliminate? E' emblematico un episodio riportato da tutta la stampa
mondiale: un cuoco svizzero, ghiotto di colli di pollo, si vide crescere le mammelle
perché proprio sul collo dei polli venivano impiantate delle pastigliette di ormoni
destinati ad accelerare l'incremento ponderale. Ancor oggi si assiste ad episodi ancor
più preoccupanti, come quello osservato personalmente, durante la mia carriera di
veterinario, in cui diversi maschietti di un asilo che forniva ai suoi ospiti alimenti a base
di pollo con una certa frequenza furono colpiti da ginecomastia, ossia si videro crescere
le mammelle.
Conclusione di questa chiacchierata: è preferibile che ancor oggi sulla nostra
mensa il pollo arrosto arrivi con minor frequenza e si sia costretti a mangiarlo con le
mani perché sodo in quanto ruspante e sano. Tanto, alle accuse di eresia da parte del
Monsignor del Mugello noi istriani siamo abituati da lungo tempo.
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IL PANE DI CAMPAGNA
Tanti anni or sono, quando il benessere era un traguardo dei più, non esisteva
ancora il termine rifiuto solido urbano; lo smaltimento del mucchietto di spazzatura che
ogni singola famiglia produceva giornalmente non rappresentava affatto un problema;
la conservazione dei residui dell'alimentazione poi, pur non essendoci ancora i frigo,
non lo era nemmeno perché i pasti, se non insufficienti, erano misurati, e gli scarti
della loro preparazione, come le bucce delle patate o le foglie esterne dei cavolfiori o
delle verze ecc. venivano messi da parte per la gallina od il porco, magari quelli del
vicino.
Il pane poi non aveva il tempo di seccare tanto da non poter esser consumato, ma
se tale evenienza si verificava ecco che "i gnocchi de pan" facevano la loro comparsa a
tavola dopo qualche giorno.
Il pane non era solo un alimento, era un simbolo, era il pane quotidiano delle
preghiere; per i paesi cristiani assurgeva a simbolo del corpo di Dio fatto uomo.
Cosa assai rara, se capitava di trovarne un pezzettino per terra era consuetudine
raccoglierlo e posarlo su di un sito elevato dopo averlo avvicinato simbolicamente alle
labbra per baciarlo.
Il pane è il risultato dell'impasto lievitato e cotto di farina di frumento ed acqua.
Era conosciuto fin dai tempi degli Egizi, dei Greci e dei Romani; il Rinascimento
affinò le metodologie della sua lavorazione ed ovviamente il XVIII secolo ne iniziò la
produzione industriale con la introduzione delle macchine impastatrici e formatrici;
successivamente vennero i forni elettrici e poi quelli a radiazione.
Al cosiddetto lievito naturale, piccole quantità di pasta conservata da lavorazioni
precedenti, ricavate all'inizio da impasti con farina e mosto di vino essiccati, le
osservazioni di Pasteur consentono oggi di sostituire fermenti selezionati, prodotti
industrialmente. Oggi vengono tuttavia usati anche lieviti artificiali come il bicarbonato
di sodio, il cremor di tartaro, il carbonato d'ammonio ed altre diavolerie della chimica,
necessarie ad annullare gli effetti inibenti la lievitazione, causati da residui di
antiparassitari impiegati nella conservazione dei grani insilati o degli anti ossidanti
(bleu di metilene, ossido di azoto, perfosfati, perossidi di potassio, cromati, iodati,
percarbonati, perossidi di benzoile, ecc...) impiegati nella conservazione delle farine.
La farina di un tempo era ottenuta mediante la bassa molitura del frumento,
eseguita con macine di pietra che producevano la immediata rottura del chicco, per
modo che amido e glutine si polverizzavano e si mescolavano in un unico prodotto
bianco, un po' giallognolo e grigio, che veniva successivamente grossolanamente
setacciato per eliminare la crusca. Oggi, con la macinatura fatta ai laminatoi si
ottengono farine dalla sola parte interna del chicco, farine OOO, OO, O, composte
quasi esclusivamente d'amido. Queste vengono poi sottoposte ad abburattamento
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(tamisada) attraverso una sorta di setaccio meccanico con oltre 2000 fori per cm2 che le
rende, se possibile, ancora più bianche, privandole di quel complesso proteico che è il
glutine. Il variare della percentuale dei componenti del glutine conferisce particolari
caratteristiche al pane e ne condiziona i risultati della lievitazione.
Il glutine dà infatti all'impasto la necessaria tenacia per trattenere i gas che si
originano dalla fermentazione, nel corso della quale si producono peraltro piccole
quantità di acidi e sostanze odorose, alcoli, ecc. che contribuiscono a fornire al pane gli
aromi caratteristici
Poi la cottura. Oggi, come abbiamo visto, viene ottenuta con forni
elettromeccanici o a radiazioni, ieri unicamente a legna in forni in muratura. Un tempo
anche la qualità della legna contribuiva a dare al prodotto caratteristiche particolari
che variavano a seconda delle essenze impiegate. A Venezia, nei ristoranti di maggior
prestigio, fin a poco tempo fa, era ancora consuetudine servire il pane cotto
esclusivamente con legna proveniente dall'Istria. Ancora oggi in Istria ci può cogliere
la gradita sorpresa di trovare pane cotto sul classico "fogoler istrian" precedentemente
arroventato con brace di legna, naturalmente del posto.
Alla superficie dell'impasto, ove la temperatura è maggiore, il glutine coagula
unendosi all'amido ed alla destrina per formare la crosta, le cui caratteristiche variano
anch'esse a seconda della composizione delle farine; la destrina caramellizza e
conferisce alla crosta il tipico colore giallo bruno, contribuendo in modo fondamentale
alla formazione dell'aroma.
Oggi, per conseguire risultati di durata e di fragranza, si usano anche sostanze
tensoattive ad azione antiraffermante; è consentito l'uso di acido propionico e dei suoi
sali di calcio come aromatizzanti; con funzione conservativa, antiossidante e
antifungina, sono pure consentiti l'acido acetico, l'acetato di sodio ed il diacetato sodico,
oppure l'acido sorbico ed i suoi sali di potassio e calcio.
Oggi sono commerciati numerosissimi tipi di pane e per invogliare il consumatore
ad usarne sempre in maggior quantità se ne fanno di bianchissimi all'olio, allo strutto, al
burro, al latte e di tantissime fogge, non avvicinandosi nemmeno al record della Grecia
classica, dove, secondo Ateneo (2°-3° sec. d.C.), venivano confezionati settantadue tipi
di pane senza l'aiuto della meccanica e della chimica moderna.
Ma il vecchio pane di campagna, con la grossa crosta mai troppo croccante, con
la mollica a buchi irregolari, tenace, color giallo grigiastro, che con i giorni acquista
aromi e sapori sempre diversi e sempre appetitosi, quel pane capace di esaltare il sapore
di ogni pietanza, ma sopratutto quello da accompagnare al nostro prosciutto crudo, al
prosciutto istriano, esiste ancora?
Nella zona degli inghiottitoi di Grisignana, ove l'acqua che scorre alla superficie
dei substrati di arenaria e di flysh per inabissarsi negli anfratti calcarei eocenici, si apre
un luminoso pianoro su cui scorre un torrentello che precipita in cascata e si trasforma
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in pittoresco laghetto, e poi in rio che viene rapidamente inghiottito; ai suoi bordi sorge
la costruzione di un vecchio mulino che fino a poco tempo fa utilizzava l'energia del
torrente; tetto di pietra, pareti di grossi massi, conserva ancora le mole e le ruote.
E' intenzione delle autorità locali recuperarlo alla sua antica funzione per produrre
ancora oggi il vecchio, mai scordato, pane di campagna.
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OLIO, MIELE, LATTE E FORMAGGI, OVVERO LA BUONA CUCINA
PER IMPARARE A CONOSCERE LA NATURA, AMARLA E RISPETTARLA
Capita sovente che il veterinario dica: "il suo cane è ormai cieco; una gravissima
cataratta". La sorpresa è grandissima; non ci eravamo mai resi conto del fatto: il nostro
cane fino a quel momento si era sempre comportato normalmente.
Certamente i cani sono guidati più dall'olfatto e dall'udito che non dalla vista,
anche se grazie ad essa percepiscono ogni più piccolo movimento. E' sopratutto
attraverso l'olfatto però che mantengono uno stretto rapporto con il loro ambiente; con
esso ne disegnano le mappe, ne registrano i minimi cambiamenti e poi attraverso una
formidabile memoria olfattiva ne ricostruiscono la storia odorosa.
Queste capacità olfattive sono peraltro sviluppate in vario grado, ma
generalmente in maniera elevata, in quasi tutti i mammiferi.
L'olfatto li orienta, come il complicato, ma efficientissimo sistema ultasonoro
guida i mammiferi marini od anche i nostri quasi scomparsi amici pipistrelli.
Lo scimmione nudo, con il suo ridicolo naso, riesce invece a malapena a sentire la
puzza pestifera che produce in sempre maggiori quantità e non ha quindi coscienza dei
gravi pericoli cui va incontro per poterli evitare. In verità l'olfatto è uno strumento
prezioso che ci dovrebbe mettere in condizione di riconoscere ambienti inidonei alla
nostra salute ed individuare cibi dannosi. La sua ridotta funzione rappresenta quindi
uno scotto molto grosso che paghiamo ad un malinteso progresso tecnico e sociale.
Altri piccoli inconvenienti costellano inoltre la nostra vita quotidiana: la quasi
assoluta incapacità di godere degli immensi piaceri che possono derivarci dal mondo
olfattivo limita nel contempo la possibilità di trarre adeguate soddisfazioni dal mondo
del gusto.
Di queste gravi mutilazioni è sicuramente responsabile anche la forma dei nostri
rapporti sociali; si pensi infatti alla volontaria soppressione degli odorosi richiami
sessuali ed alla susseguente disponibilità all'amplesso demandata a profumi e belletti.
Abbiamo diseducato e mortificato il nostro olfatto e quindi il gusto e, ritenendolo
non più indispensabile od anche inutile, talvolta fastidioso ed inopportuno, l'abbiamo
lasciato cadere in disuso. Atrofia per mancata funzione.
..........................
E' ormai acquisizione comune che l'equilibrato sviluppo socio economico di una
regione non può prescindere da un adeguato supporto da parte delle attività primarie;
ciò è particolarmente indispensabile per quelle plaghe come quella carsico-istriana che
presentano strutture geologiche ed ambientali piuttosto delicate, incapaci di tollerare
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impatti ambientali troppo pesanti (si pensi alla delicatezza del suolo e dell'idrologia del
Carso, ai tempi di ripristino della sua vegetazione, ecc...).
E' soprattutto qui che la produzione primaria deve tener conto della vocazione
originaria dell'ambiente per non dover ricorrere a sempre più costosi interventi
artificiali attraverso pesticidi, anticrittogamici, fertilizzanti, e nel caso della zootecnia
con ormoni, antibiotici ecc., che mal si conciliano sia con la salubrità dei prodotti che
con gli equilibri ecologici. Quest'ultima condizione poi è imprescindibile per quelle
zone che si prestano anche allo sviluppo di diversificate attività turistiche a motivo
delle loro condizioni orografiche, climatiche e geopolitiche.
In queste particolari situazioni l'attività primaria e quella turistica trovano il loro
naturale compendio sopratutto quando la tradizione culinario-gastronomica locale
riesce a mantenere la sua originaria purezza utilizzando esclusivamente materie prime
della zona.
E' necessario quindi un recupero delle più genuine tradizioni gastronomiche
attraverso una loro purificazione, ma per far ciò è fondamentale ed imprescindibile
ritornare all'impiego esclusivo di prodotti ricavati da specie vegetali ed animali che nel
corso del tempo si sono acclimatate a quel particolare ambiente e sono quindi capaci di
esprimere al massimo la loro potenzialità, senza gli artificiosi sostegni dell'industria
chimica.
In tale prospettiva, è quindi indispensabile il loro recupero e la loro diffusione
procedendo nel contempo con la massima oculatezza nell'introduzione di specie
alloctone.
Nella nostra epoca, caratterizzata dall'appiattimento del gusto, dalla
massificazione delle produzioni e del conseguente annullamento delle specificità è non
solo utile, ma necessaria e urgente, una riappropriazione delle capacità sensoriali
necessarie a riscoprire il fascino originario dell'ambiente in cui si vive con la
consapevolezza che la vita vissuta in armonia con l'ambiente è sicuramente più piena. E'
una sensazione ancora inconscia, ma viva e sempre più fortemente diffusa, quella di
dover uscire dalla morsa di un consumismo che tende a ridurci strumenti passivi di un
altrui profitto ed a disarticolarci ed alienarci inesorabilmente dal nostro ambiente
naturale.
E' possibile questa inversione di tendenza o i nostri sensi sono irrimediabilmente
perduti? No, niente è ancora del tutto perduto. Esistono persone, per altro normali,
appartenenti a particolari categorie professionali, quali i saggiatori di vini, di caffè, di
mieli, tabacchi, profumi ecc. che hanno educato e sviluppato la funzione del gusto e
dell'olfatto e la loro relativa memoria per individuare e classificare decine o centinaia di
odori o sapori quasi simili.
Questa inversione di tendenza può esser aiutata ed incentivata soprattutto in Istria,
terra di tradizioni ancora vitali, ad esempio mediante l'offerta di una cucina che sia in
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grado di esaltare odori, profumi e aromi legati all'ambiente ed alle sue tradizioni in
modo di fissare in ogni ospite anche il ricordo di una breve vacanza e di rafforzarlo,
completarlo ed arricchirlo ad ogni nuova sua visita.
Ecco perché è doveroso ed anche utile usare tutti gli strumenti educativi
disponibili per ridare alla gente la possibilità di recuperare ed utilizzare queste sopite
capacità mettendola in grado di riscoprire piacevoli sensazioni attraverso quelle
tradizioni culinarie regionali a cui si sta indirizzando, dopo quella italiana, anche la più
sciovinista cucina francese. Quanto mai utili appaiono allora quelle rassegne e
manifestazioni volte a presentare alla gente i prodotti tipici e genuini dell'agricoltura
locale con lo scopo principale di educare i sensi, a distinguere, apprezzare e ricercare il
meglio.
Si dice che i francesi, e non è una esagerazione, dispongono di un formaggio per
ogni giorno dell'anno. Se a quelli francesi aggiungiamo quelli italiani e quelli del
bacino del Mediterraneo ed a questi ancora quelli caprini ed ovini, potremmo
naufragare in mare di sapori differenti. Ma chiediamoci quanti ne sapremmo distinguere
e poi saremmo in grado di ricordare. Chiediamoci poi quanti mieli, spesso così
differenti tra di loro, potremmo essere in grado di elencare. Siamo in grado di
distinguere il Grana Padano dal Parmigiano Reggiano? O forse riusciamo a distinguere
queste due perle della gastronomia soltanto in base alla differenza di prezzo? E se è
effettivamente così, come potremo mai riconoscere i pecorini prodotti in Friuli rispetto
a quello istriano, a quello di Cherso o a quello di Pago?
Quale, tra gli olii di oliva istriani esalta meglio il sapore di una insalata cruda, di
una verdura cotta , di una frittura di pesce o dei vari tipi di frittata, e quale poi siamo in
grado di preferire?
Attraverso una buona cucina possiamo conoscere meglio il nostro piccolo mondo,
possiamo amarlo, rispettarlo ed anche proteggerlo a tutto nostro grande vantaggio.
Il sapore di un alimento mette nelle condizioni di rivivere le fatiche, gli studi, le
intuizioni e tutte le tappe che hanno segnato gli sviluppi culturali di una regione e
quindi complessivamente le sue tradizioni. I diversi cibi contraddistinguono i popoli e
la loro storia. Assaporare un alimento è come cercare le radici che li legano alla Terra: è
come rivivere la loro Storia. Una Coltura è frutto di una Cultura!
Il riconoscimento e l'apprezzamento di queste diversità possono spesso avvicinare
etnie originariamente diverse più di quanto possa superficialmente apparire.
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BANCHETTANDO A CHERSO PER TROVARE SERENITA' E PACE
Il senso dell'udito così come quello della vista, indispensabili per un corretto
rapporto con l'ambiente e necessari alla sopravvivenza dell'individuo, riservano
all'uomo anche la possibilità di godimento, letizia ed arricchimento spirituale; quelli del
gusto e dell'olfatto avvisano della salubrità dell'alimento e sono anch'essi capaci di
gratificarci di meravigliose sensazioni.
Ed odori, sapori e suoni richiamano una terra, il suo panorama, la sua aria e
viceversa un panorama richiama odori, sapori e suoni. Esistono infatti profonde
interconnessioni psico fisiologiche tra i vari sensi che concorrono a determinare le
sensazioni complessive di benessere. Il soddisfacimento del gusto in particolare
concorre ad umanizzare i rapporti con l'ambiente e con i propri simili.
Ma se la musica e le arti figurative, attraverso la tecnica e l'arte, stabilendo regole
e sistemi, hanno contribuito ad affinare il senso della vista e dell'udito ed a catturare
melodie e bellezza, per quanto riguarda il gusto "si mangia ancora ad orecchio". Anzi le
conquiste tecnologiche dell'età industriale relative alla produzione, lavorazione,
conservazione, trasporto e somministrazione degli alimenti tendono a produrre un
generale disorientamento.
Basta far riferimento agli allevamenti intensivi, fonti di grande sofferenza degli
animali e responsabili di prodotti assai scadenti sotto il profilo della salubrità e delle
caratteristiche organolettiche. Ed è un vero peccato e fonte di viva preoccupazione che
ancor oggi, con il concorso di capitali stranieri, si tenti di insediare in Istria queste
strutture sotto l'appellativo di aziende agrituristiche. Ancora additivi, coloranti,
conservanti ecc... Non più cibo ma alimento, non banchetto ma tavola calda, quantità
piuttosto che qualità, diete caloriche e non armonizzazione di colori, odori, sapori...
E se nello sviluppo embrionale, l'ontogenesi ripercorre la filogenesi, così la
varietà del cibo richiama le tappe evolutive del rapporto dell'uomo con la natura ed
anche la sua stessa evoluzione anatomica, fisiologica e psicologica. Un banchetto, come
una sinfonia accuratamente predisposta, deve perciò armonizzarsi con le condizioni
climatiche e stagionali del luogo e darci momenti di comunione con l'ambiente, con le
nostre tradizioni, i miti, le religioni, mettendoci in grado di raggiungere quello stato di
benessere che è serenità, predisposizione alla pace.
"Moro de sede ma no bevo sto Cabernet rubino su sta tavola de formica zala".
Con l'efficacia della semplicità il mio amico Bruno da Pola manifestava la sua assoluta
indisponibilità all'autoinganno e la necessità dell'armonia complessiva per trarre letizia
anche da un semplice, ma buon bicchiere di vino. L'alimento infatti vale per l'apporto
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nutritivo che offre, ma anche e talvolta soprattutto per quello che rappresenta ed è nei
riguardi di chi lo gusta il fatto che deve contribuire in modo armonico ad un
soddisfacimento spirituale.
Le Pasque religiose ed ancor prima la primavera pagana, ricordavano il mistero
della fertilità, della vita e della morte, svelato dal mito di Demetra e Core; ad esso era
dedicato il sacrificio dell'agnello; con il suo sangue si restituiva alla Madre Terra la
fertilità di cui si erano goduti i frutti; i visceri, tratti i necessari auspici, cosparsi di sale
e olio, attraverso il fuoco, venivano offerti agli dei; le carni, purificate sulla brace di
ulivo, erano poi cibo per il banchetto.
Oggi si festeggia la Pasqua attraverso uno strano rito autolesionistico: ci si
rimpinza di agnello della Nuova Zelanda, partorito nel corso dell'inverno australe,
surgelato, cotto alla piastra e magari riscaldato alle microonde, durante pasti più che
rumorosi, assordanti.
Queste contraddizioni, con chiarezza e forza risultano in tutta la loro evidenza in
modo particolare a Cherso, nell'arcipelago delle Absirtidi, dove la principale risorsa è
ancora la pastorizia e l'agricoltura è limitata all'olivicoltura: le greggi di antico ceppo
greco, ottimamente adattate alle condizioni orografiche e climatiche, sono allevate in
modo tradizionale, si cibano prevalentemente di salvia e di altre essenze aromatiche; gli
agnelli quasi presaghi del loro destino sacrificale, che immaginiamo bianchi di farro e
quindi puri, sono immolati per rinnovare l'antico mistero della fertilità.
Quando il sole arrossa l'Occidente e smorza la musica del maestrale tra gli ulivi
per intonare quella più ritmata della risacca su scogli simili a quelli di Ulisse nell'Isola
dei Feaci, saziamo anche il cuore e nella serenità ci predisponiamo all'amore.
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DAVID E GOLIA
Il secolo XX ha fallito l'utopico obbiettivo dell'equa distribuzione della ricchezza.
Pena il realizzarsi delle più catastrofiche previsioni, il secolo futuro non deve fallire
assolutamente quello del razionale uso delle risorse.
E' diffusa l'erronea credenza che le religioni medio orientali vietino l'uso
alimentare della carne suina per motivi igienico sanitari, essendo esse potenziali
trasmettitrici di malattie parassitarie all'uomo; le ragioni di tale divieto sono invece da
ricercarsi soprattutto nel fatto che a differenza dei ruminanti il suino, come per altro il
pollo, è un temibile antagonista alimentare dell'uomo. La capra, al contrario, come le
piante leguminose, riesce addirittura ad organicare l'azoto atmosferico trasformandolo
in gustosi e delicati alimenti ricchi di proteine.
Eppure la civiltà industriale ha relegato la presenza delle capre in zone marginali
sotto il profilo produttivo mentre ha esaltato l'allevamento del suino e del pollo.
Se fermiamo la nostra attenzione sulla catena alimentare che va dalla produzione
del fitoplancton attraverso lo zooplancton, pesci plantofagi, predatori, farina di pesce,
poi carne di suino o pollo e quindi all'uomo e sul fatto che ad ogni passaggio si ha una
considerevole perdita di energia, ci si rende conto di quale spreco si determina
operando in questo modo. Lo spreco diventa poi una bestemmia contro l'umanità se si
pensa poi che molte navi fattoria, per esigenze economico-armatoriali, completano la
loro campagna di pesca riempiendo le stive con farine ricavate da nobili e pregiati
merluzzi, ricavate cioè da prodotti già adatti all'alimentazione umana.
In effetti tutta l'agricoltura industriale, alla ricerca esclusiva ed esasperata del
profitto, è impostata sulla convinzione che le risorse non acquistate con denaro non
abbiano valore, ma soprattutto prezzo.
E così i prodotti di selezione artificiale ed ibridi sostituiscono tutte quelle specie e
razze animali e vegetali che, pur perfettamente adattate all'ambiente, non danno in
tempi brevi quelle forme di profitto valutabili esclusivamente in moneta.
L'impiego di ibridi, come quello di razze selezionate in allevamenti intensivi, ha
però la necessità di costanti apporti da parte dell'industria chimica sotto forma di
antiparassitari, pesticidi, fertilizzanti, insetticidi, ecc. ecc. mentre la salute degli
animali, richiede un sempre più massiccio apporto di antibiotici, ormoni, antiormoni,
ecc. ecc., i cui residui spesso contaminano i prodotti alimentari finiti; sulla loro
salubrità incidono inoltre negativamente le tecniche di allevamento spesso causa di
sofferenza degli animali; a questi aspetti negativi vanno poi aggiunti quelli derivati
dalle tecniche di lavorazione, conservazione e commercializzazione dei prodotti che
fanno largo impiego di sostanze conservanti, addensanti, coloranti, ecc. ecc.
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La civiltà industriale è il motore di questa tendenza in quanto elimina tutte quelle
specie che non sono ritenute utili economicamente, non solo quelle selvatiche, ma
soprattutto quelle domestiche. Ed alla ricerca del profitto ad ogni costo si abbandonano
le terre scarsamente produttive, come quelle collinari e montane, alle quali in
precedenza la città aveva sottratto le energie più vive, concentrando gli investimenti ed
i conseguenti impatti ambientali nelle zone di pianura, ritenute le più produttive.
Ora, per l'assenza dell'uomo, che con la sua poco appariscente, ma costante opera
aveva favorito l'equilibrio delle zone montane e marginali, i ciclici incendi boschivi,
seguiti da cicliche alluvioni sono lo scotto che tutti siamo costretti a pagare per queste
scelte.
Ad esempio la Valle Padana, cuore attuale della attività agricola e zootecnica
italiana, ora produce eccedenze che, aggiunte a quella degli altri paesi CEE riempiono i
depositi frigoriferi di mezza Europa (con ulteriore spreco energetico), per poi essere
vendute sottocosto o addirittura distrutte. E' come ricavare uno stecchino da un tronco
per poi non utilizzarlo. Venisse a cessare l'apporto della chimica, la regione sarebbe un
deserto.
Ma l'imperativo è: bisogna consumare! Siamo martellati in questo senso dai
media; ed allora trionfano le malattie cardiovascolari, quelle disendocrine, le
degenerative che ormai accompagnano la nostra civiltà, per non parlare poi delle
campagne pubblicitarie tendenti a diffondere ed incrementare l'abuso alcoolico e quindi
le malattie che ne derivano. E la denuncia delle contraddizioni certo non si esaurisce
qui. Ma poiché nessuno è un'isola e la campana suona anche per te è necessaria
un'assunzione di responsabilità che, al di là della denuncia, rappresenti uno strumento
per un'inversione di rotta.
Se si considera che l'organizzazione produttiva attuale, responsabile di questa
tendenza, inizia dagli istituti di ricerca delle Università e coinvolge le aziende agricole,
quelle di trasformazione e commercializzazione dei prodotti alimentari con al centro il
colosso dell'industria chimica e petrolifera, l'impresa appare non solo utopica, ma anche
terrificante.
Se il fine ultimo della nostra azione deve essere il benessere dell'individuo, non
dobbiamo tuttavia lasciarci sviare da questo obbiettivo.
Il recupero delle terre marginali attraverso l'impiego di metodiche e strumenti
tradizionali, il recupero di essenze ed attività zootecniche autoctone, lo sviluppo
dell'agriturismo che non è solamente un nuovo modo di produrre, di lavorare e
commercializzare ma una coincidenza di interessi dell'uomo della campagna con quelli
dell'uomo di città, tradizionalmente in storico conflitto, rappresentano sicuramente una
occasione molto importante per invertire la tendenza: può esser questo il David da
contrapporre a Golia.
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Non si può obbligare nessuno a fare alcunché, ma l'esempio, l'educazione,
l'informazione, gli investimenti che si pagano da se, gli incentivi e il sostegno tecnico
da un lato, la denuncia non episodica ma costante dall'altro sono strumenti che offrono
un'alternativa, avviando nuove tendenze. In questa lotta contro il tempo possiamo
intanto progressivamente aumentare la componente di Homo sapiens che c'è in noi,
rispetto a quella di Homo faber, che fa le scoperte scientifiche, ma poi le usa male.
92
IL PROSCIUTTO CRUDO: NEL SUO NOME UN GRANDE EQUIVOCO
Lo definiscono prosciutto crudo, eppure le sue carni da un punto di vista chimico hanno
più le caratteristiche delle carni cotte.
Nella sua maturazione le lunghe catene proteiche si sono scomposte in elementi molto
semplici: dapprima in polipeptidi, quindi in peptidi ed addirittura in aminoacidi semplici. E' il
frutto di fenomeni enzimatici complessi, frutto del processo sapientemente controllato
dall'uomo e condizionato da peculiari condizioni climatiche locali che hanno contribuito a
rendere famosi nel mondo i tipici prosciutti di Langhirano e di San Daniele. Talvolta, quando
il fenomeno si è protratto eccessivamente nel tempo, alla superficie di taglio compaiono dei
puntolini bianchi, appena visibili: sono i cristalli di tirosina, un aminoacido appunto.
Questi processi conferiscono al prodotto caratteristiche gastronomiche che lo pongono al
massimo vertice della produzione salumiera mondiale e lo rendono nel contempo assai
digeribile; addirittura i fenomeni digestivi sono già avvenuti a noi non resta che assaporarlo e
semplicemente assimilarlo. Ecco perché è raccomandato nelle diete di persone sofferenti di
disturbi digestivi ed in quelle dei bambini. E' presente comunque sempre in quelle dei
buongustai.
Questo dono di pregio che la Natura ci ha elargito attraverso l'attenta e sagace opera di
artisti della salumeria nelle sue varietà, è anche il rappresentante tipico, l'emblema delle
diverse forme di agricoltura e ne esprime i caratteri salienti.
Così è per il Langhirano dell'agricoltura emiliana, il San Daniele della friulana, l'Istriano, il
Dalmato, ecc...
Nell'agricoltura emiliana, il maiale allevato al pascolo delle colline emiliane, nelle prime
fasi della sua carriera veniva poi trasferito nelle vicinanze dei "caselli", tipiche strutture
cooperative, dove il latte veniva trasformato in Parmigiano Reggiano. Qui veniva alimentato
essenzialmente con il latticello, sottoprodotto della lavorazione del formaggio, e veniva
portato a pesi che superavano abbondantemente i due quintali; la sua massa muscolare e
quella dei suoi arti posteriori, caratterizzata da un rapporto proteine/grassi ottimale e da scarsa
acqua di struttura consentiva di avviare i prosciutti a fasi di lavorazione e quindi di
maturazione con l'impiego di minime quantità di sale.
In tal modo, dopo lunghissimi periodi di stagionatura-maturazione, per il minimo tenore
salino presente, il prosciutto era ed è veramente dolce e morbido: il dolce prosciutto di
Parma...
Le plaghe di San Daniele meno vocate alla produzione lattiero casearia, ma caratterizzate
da un'abbondante produzione cerealicola producevano e producono suini leggermente meno
pesanti. La loro carne, caratterizzata da un rapporto proteine grassi ed acqua leggermente
diverso da quello dei suini emiliani, richiedeva un maggior contributo salino per i prosciutti e
che, a maturazione avvenuta, permetteva di distinguerli dai prosciutti di Parma, meglio della
persistenza in sito della caratteristica zampetta.
Completamente diverse dalle precedenti le caratteristiche e le funzioni del suino dell'Istria
e della Dalmazia. Per la famiglia contadina rappresentava il salvadanaio da rompere nei
periodi critici invernali. Acquistato slattato e talvolta magrone nelle fiere e mercati paesani, il
suinetto veniva alimentato con gli scarti dell'alimentazione famigliare e con i sottoprodotti
dell'agricoltura e dell'orto.
Sacrificato nei mesi invernali ad un peso decisamente inferiore a quello dei suini emiliani o
friulani e quindi con un contenuto in acqua maggiore, aveva bisogno di più sale, che veniva
fornito attraverso immersione in salamoia e nella concia successiva. La sua conservazione
non poteva esser protratta nel tempo per la scarsa presenza di grassi che non ne avrebbero
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garantito la morbidezza. I prosciutti istriani e soprattutto quelli della Dalmazia risultavano
quindi prodotti di notevole consistenza che non si prestavano ad esser ridotti in fette sottili da
cui venivano tratte brevi fette di un qualche spessore, tanto che scherzando si diceva che
"serviva la manera per taiarlo". Contrariamente a quanto può far sospettare la loro apparenza
essi però si sciolgono in bocca e, ad onta del sale presente, che non permette assolutamente di
classificarlo tra i prosciutti dolci, essi esaltano assai più dei precedenti il profumo e le
caratteristiche peculiari della carne suina.
Per le sue caratteristiche organolettiche, adatte a stimolare una abbondante attività salivare
e per il suo sapore robusto, il prosciutto istriano ben si sposa con il vino bianco tipico
dell'Istria, il Malvasia, ma ancor più con il dolce e profumato Moscato di Momiano.
Accompagnato con pane di campagna di qualche giorno, no più morbido, un po' secco e
leggermente acidulo, diventa cibo da gourmet.
In passato, quando la pubblicità esasperata non aveva ancora appiattito e massificato il
gusto della gente e le sensibilità individuali e l'attenzione era riservata alle lievi, ma sempre
importanti variazioni dipendenti da diversi fattori, le razze dei suini utilizzate, fortemente
adattate all'ambiente, erano in grado di esaltare a pieno le caratteristiche del luogo. Queste
caratteristiche erano tenute nel massimo conto, tanto che per l'ottenimento del marchio di
origine e qualità era previsto che i suini provenissero da plaghe ben delimitate e tipiche.
Oggi imperversano ovunque razze di suini del Nord dell'Europa il cui pregio maggiore
consiste nella rapidità di accrescimento.
Peccato!
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RIMANE IL RICORDO
Bruno venne a trovarmi a Cremona; da qui raggiungemmo Varese per incontrare un
vecchio amico di Pola che ci avrebbe accompagnato nelle nostre fiere enologiche, che
quell'anno avevano come meta le Langhe.
Nel corso della traversata Lombarda, cominciò a lagnarsi della eccessiva presenza di
carrozzerie ed officine meccaniche e dell'assoluta assenza di qualche buco ove consumare il
rituale merendino di mezza mattina ed un buon bicchiere di vino. Mancava un buffet,
un'osteria insomma.
In Lombardia non c'è il rito della merenda ne tanto meno l'uso del "rodoleto de coto". Lì si
lavora.
Nel corso del mio soggiorno lombardo quasi trentennale, pensando alle origini, talvolta il
ricordo rievocava Trieste, le sue strade terse e deserte nelle serate di bora, ogni tanto
ravvivate da nuvole di vapore che uscivano da qualche buffet. Quelle nuvole dense erano
cariche di profumi di porcina, crauti e birra ed erano parte del tepore dell'ambiente, della
familiarità che in esso regnava, predisponendo alla compagnia il nuovo venuto. Il ricordo si
attardava al sapore delle "cragno" al perfetto amalgama dei loro componenti. Apparentemente
compatte si scioglievano al primo tocco di lingua ed uniformemente gemevano i loro umori
pieni e soddisfacenti dando un immediato senso di sazietà, alla quale poi si contrapponeva la
giusta acidità dei crauti. Il ricordo andava poi alle "vienna", di una grana setosa la cui
dolcezza spesso veniva nascosta da qualche goccia di senape e la birra spinata alla
temperatura di cantina, che permetteva il formarsi di una abbondante schiuma sapientemente
dosata e densa, quasi da masticare. La Dreher, ricca di luppolo contrastava piacevolmente con
la dolcezza delle "vienna". La Spaten, dal pregiato doppio malto, quasi inzuccherava,
ammorbidiva o spegneva il pungente aroma di "kren".
Da allora sono passati trent'anni e più, diversi buffet hanno cambiato gestione, e qualcuno
anche il nome. I piatti son chiamati allo stesso modo di allora, ma il sapore, la fragranza non
sono più quelli di una volta non perché nel ricordo si è idealizzato il tempo passato. No!
Purtroppo l'aroma dell'affumicato è pungente, l'impasto è secco, tiglioso: lo stesso budello è
un qualcosa di estraneo, di fastidioso alla bocca; la grana delle "vienna" è grossolana e quella
delle "cragno" gommosa e secca, quasi arida e priva di qualsiasi sapore.
Anche qui la tecnologia ha lasciato il segno. Certo i suini non sono quelli di un tempo, ma
il danno più grave l'hanno prodotto i sistemi di conservazione delle carni e la congelazione. I
cristalli dei liquidi congelati strappano le fibre del muscolo ed al loro sciogliersi permettono
la dispersione e perdita del loro contenuto; la carne rimane costituita da una trama di
connettivo insipido e gommoso. Molti triestini osservano ancora il rito della merenda di
mezza mattina e qualcuno sembra gustare i cibi tradizionali con piacere e soddisfazione della
gola, ma mi dà più l'impressione di un mimo che vuol esprimere compiacimento, piuttosto che
di un avventore soddisfatto. Sicuramente non lo sono e mi rimane per ora solamente il ricordo
di un tempo e una Città che non ho più ritrovato.
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I TRATTURI
Sentieri di civiltà antica
Fernand Braudel ne "Il Mediterraneo", trattando della migrazione dei suoi popoli,
identifica la loro storia con una lunga lotta e conflittualità tra nomadi pastori e sedentari
contadini; tra il necessario possesso della terra per l'esercizio dell'attività agricola ed il suo
libero e temporaneo uso, cadenzato solamente dai mutamenti stagionali. Queste conflittualità
sono ricorrenti; sono esche sempre vive e pericolose, in attesa di eventuali spregiudicate,
drammatiche strumentalizzazioni. Nello spazio mediterraneo, questa conflittualità viene
sedata e lascia il posto a leggi particolari: quelle della transumanza che tra l'altro mirano ad
associare le risorse complementari della pianura con quelle della montagna, regolando ed
organizzando gli spostamenti dei greggi dai pascoli montani estivi a quelli invernali di
pianura.
E non poteva esser che così, in conderazione del fatto che le civiltà mediterranee
sopratutto quelle più recenti, l'ebraica, la greco-romana e la cristiana sono civiltà di origine
prettamente pastorale.
Le Meste spagnole e la Dogana della Mena in Puglia già nel XVI secolo ma anche molto
prima regolano ed organizzano infatti il trasferimento di milioni di pecore . La transumanza
regolata da leggi caratterizza la civiltà mediterranea e la distingue da altre, ove il nomadismo
rappresenta ancora oggi una costante causa di inestinguibili lotte tribali.
Con la transumanza la diminuzione di coloro che accompagnano il bestiame va di pari
passo con l'aumento dei capi spostati: non più intere famiglie nomadi, sempre e comunque
alla ricerca della sopravvivenza, ma pastori professionisti: "sono personaggi un pò misteriosi,
depositari di segreti e sempre in odor di magia: gli ultimi migranti ai margini di una società
di sedentari."
Al riguardo, un importante documento è rappresentato da il Slacadura di Tacoler ossia la
parlata dei pastori di Giuseppe Facchinetti , sorta di vocabolario del gergo parlato dai pastori
in uso in tutto l'arco alpino, nelle sue valli, lingua franca, al di sopra della babele dei mille
dialetti delle altrettanto numerose valli.
Preziosa poi la documentazione raccolta dal Rev. Andrea Gaudiani nel 1700 sulle regole
per il buon governo della Regia Dogana della Mena delle pecore in Puglia, che traggono
origine però da leggi romane dell'età repubblicana, cui fanno riferimento già Tacito e
Cicerone.
E già in agosto dai monti della Vena i pastori si recavano in pianura per sottoscrivere i
contratti per l'uso dei pascoli o "Baré" da utilizzare con i loro greggi nel corso della
transumanza invernale.
Sui monti della Vena e sull'altopiano della Ciceria, che si estendono dalla Val Rosandra ad
Abbazia, vivono popolazioni dedite alla pastorizia, un tempo anche alla produzione del
carbon dolce ed alla coltivazione del bosco con la cui legna, trasportata nei centri abitati con i
caratteristi carri cici, assicuravano il tepore alle citta istriane. Sono i Cici e i Ciribiri.
Di origine rumena, completamente slavizzati, con dialetti che si rifanno a parlate kaikave,
ciakave, stokave, i Cici sono raccolti nei paesi di Slum, Dane, Brest, Vodice, Trstenik,
Raspor, Rakitovac, Jelovice , Podgace, Lanisce, Borgudac. I Ciribiri sono invece raggruppati
in paesi alle appendici del Monte Maggiore e del Planik ed in numerosi villaggi raggruppati
amministrativamente nel comune di Valdarsa-Susnjevice.
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Il comune è stato istituito nel 1922 per tutelare meglio quelle genti dal punto di vista
etnico-culturale. Tutt'ora parlano un dialetto di origine dacio-rumena ed ogni paese custodisce
la sua parlata, incomprensibile al mondo esterno.
Tra questi centri, quello di Raspo risulta particolarmente interessante. In esso la
Repubblica veneta, dopo averlo fortificato, aveva istituito un presidio avanzato a difesa dalle
incursioni turche.
L'altopiano dei Cici rappresenta la parte meno ospitale dell'Istria: fredda, siccitosa,
spazzata dalla bora. Quella abitata dai Ciribiri, parimenti fredda e ventosa era colpita da
inondazioni ricorrenti fino alla bonifica del lago di Ceppich, fatto che ne ha peraltro
aggravato le condizioni climatiche e naturalmente anche quelle economiche.
Il periodo e le ragioni che hanno spinto le popolazioni dacio-rumene ad insediarsi nella
Ciceria non sono ben note. L'ipotesi pù accreditata e quella della fuga davanti all'avanzata
turca.
Della Ciceria, prima dell'avvento dei sistemi di produzione comunista, sono
particolarmente interessanti l'organizzazione fondiaria e gli usi e costumi in vigore per la
gestione del territorio. In essi i terreni coltivati ad orto, i boschi e le zone a valle, destinate
alla produzione di foraggio da fieno, erano di proprietà familiare, mentre i terreni lasciati a
pascolo, attività primaria e fondamentale, erano gestiti in comune e denominati "Comunelle".
I bovini erano condotti al pascolo da salariati. I somari (ogni famiglia ne possedeva almeno
uno) in prevalenza femmine di razza padovana, erano condotti al pascolo alternativamente
dai singoli proprietari.
Le pecore, di razza istriana, erano sempre governate, condotte al pascolo ed alla
transumanza direttamente dai proprietari. A Slum nel 1935 erano censiti 700 abitanti, 3000
pecore e 100 vacche.
Le pecore per uso familiare erano macellate per la fiera di San Matteo il 21 settembre e
ridotte a pezzature venivano conservate immerse nel grasso sciolto di pecora in particolari
recipienti di legno"sec" e consumate esclusivamente lessate in brodi densi con patate e verze.
L'uso dell'arrosto era sconosciuto. L'agnello veniva naturalmente venduto.
Generalmente si praticava il baratto tra i prodotti della pastorizia con altri generi
alimentari ed il prezioso sale.
Pecora, pecus, pecunia, sale, salario ecc... l'essenza del commercio in poche parole.
Nella Ciceria nel 1940 si contavano 8000 pecore. La mungitura giornaliera dava un litro di
latte ed era praticata da marzo a luglio; già nel mese di agosto le femmine venivano condotte
ai maschi.
Nella festa dell'Ascensione o della Sensa era uso dare in dono un litro di latte a quelle
famiglie che non possedevano pecore .
I formaggi venivano portati e barattati al mercato di Pinguente. Con la costruzione della
ferrovia Pola-Trieste il latte veniva però giornalmente destinato al consumo cittadino.
Nella Zona di Grisignana veniva prodotto, da gente di origine bergamasca, un particolare
mantello uguale a quello in uso presso i pastori lombardi detto "cerma" che sull'Altopiano le
ragazze da marito dovevano possedere assieme ad una particolare fune di lana "oprta" che
servirà per il trasporto a spalle dei carichi di fieno. Venivano tessute pure delle particolari
coperte dure come tavole, dette "pognave".
Caratteristiche della Ciceria sono sono le "vidolice", melodie prodotte da particolari flauti
"surle" contemporaneamente in due tonalità alta e bassa o anche da cantori, maschi
accompagnati dal meh specie di cornamusa ricavata dagli stomaci di pecora. l'Armonica
triestina è introduzione piuttosto recente.
La transumanza iniziava dopo il San Martino e si concludeva il 1° di maggio. Si poteva
effettuare solo se in possesso di contratti stipulati per il pascolo in pianura.
97
I greggi lasciavano l'Altopiano alle 5 del mattino, per guadagnare la pianura in giornata
attraverso particolari sentieri i "troisi". Molte pecore portavano appesa al collo la slape, il
campanaccio ed erano accompagnate da cani: "Sarplaninac" razza di taglia bassa, mantello
giallognolo, orecchie pendule coda molto lunga e dalla immancabile somara. Anche i pastori
cici come tutti i pastori conoscevano ad una ad una tutte le loro pecore ed ognuna aveva un
nome: Zelenka, Pika, Skaba, Roska,...
Una delle mete della transumanza per i pastori cici era il buiese, fino al mare, e tutta l'Istria
fino al Leme; Rovigno, Valle, Promontore e Medolino erano invece le mete dei ciribiri.
Nei pascoli estivi della Ciceria i pastori valutavano il tempo dalla posizione delle stelle ed
in particolare da quelle dei due carri dell'Orsa, dalle quali prendevano anche l'orientamento
sulla via del ritorno.
Spesso quando il tempo si deteriorava rappresentavano sicuro rifugio le numerose grotte
presenti sull'altopiano, un tempo dimora dei primi abitatori della zona.
Dopo il secondo conflitto mondiale, sollecitati anche dagli ampi spazi vuoti causati
dall'esodo delle popolazioni rivierasche, con la prospettiva di una vita meno dura ed in ciò
seguendo anche la tendenza quasi universale all'urbanizzazione, causata dall'assoluto
abbandono ed isolamento in cui sono state lasciate le popolazioni montane, l'ultima
transumanza dei pastori della Ciceria si è interrotta in riva all'Adriatico.
Oggigiorno l'altopiano è pressochè diasabitato; dei 6000 abitanti censiti tra le due guerre
oggi se ne contano 700, con un età media di 65 anni.
Ma la nostalgia degli ultimi pastori per il loro mondo perduto è immensa. E' altrettanto
grande anche quella dei loro discendenti
Statistiche alla mano questi ultimi rappresentano la parte più culturalizzata dell'Istria.
Garanzia questa che, con l'ausilio delle moderne tecnologie, quelle terre non saranno
definitivamente abbandonate, ma rappresenteranno ancora, come suggerisce Braudel la
possibilità di associare le risorse della montagna a quelle complementari della pianura.
Saranno così recuperate e tutelate le risorse autoctone e per gente di città e di pianura l'Istria
della pastorizia sarà meta di interessanti percorsi turistici da percorrere attraverso i tratturi o
troisi, agevolmente trasportata dai tipici carri della ciceria (veliki medyed) od in groppa a
nobili cavalli o a docili somare padovane..
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IL FORMAGGIO DI PECORA
NEL COMPRENSORIO CHERSO-CARSO
Nelle regioni mediterranee gli addomesticatori di microbi e di enzimi hanno contribuito
allo sviluppo delle più importanti civiltà.
Lieviti e fermenti sono infatti gli artefici della vinificazione, della panificazione e della
caseificazione e sono alla base della preparazione dei prodotti stagionati della salumeria,
tipiche espressioni di queste civiltà.
Con ogni probabilità, per ciò che si riferisce al formaggio, osservando le viscere degli
agnelli sacrificati per trarre i loro vaticini, i sacerdoti notarono come il latte cagliato non solo
fosse gradevole al palato ma si prestasse anche alla conservazione. Ancora prima era stato
osservato che dopo qualche tempo il latte cagliava spontaneamente, favorito in ciò da
temperature ambientali elevate. Oggi sappiamo che ciò avviene per effetto dell'azione di
microrganismi, sempre presenti nell'ambiente, che ad idonee temperature sono capaci di
trasformare il lattosio, zucchero del latte, in acido lattico e creare così una situazione
favorevole alla precipitazione della caseina, rafforzando e rendendo più rapida l'azione del
caglio.
Da queste osservazioni ebbe inizio la pratica della caseificazione del latte di pecora, primo
animale addomesticato dall'uomo. In seguito attraverso il perfezionamento della tecnica, con
un sapiente uso del caglio si ottennero diversi tipi di formaggi pecorini, freschi, stagionati,
grassi, semigrassi, dolci, salati, cotti, semicotti. Sono formaggi crudi quelli in cui all'azione
del caglio non fa seguito nessun trattamento termico; semicotti quelli che, rotta la cagliata,
sono portati a temperature di 42°-43°, cotti quelli in cui il secondo trattamento termico
raggiunge e supera i 48°C.
Le caratteristiche dei formaggi, dipendono fondamentalmente da tre fattori: dalla razza
delle pecore, dal pascolo che il gregge frequenta, dalle tecniche di caseificazione.
La fase della cagliata è assai delicata; essa è condizionata sia dall'acidità della massa del
latte, che può variare a seguito di numerosi fattori, sia dalla forza del caglio, la cui azione
viene definita appunto "forza" perché minime quantità di fermento sono capaci di agire su
ingenti masse di latte. Il suo dosaggio sapiente condiziona perciò la buona riuscita del
formaggio.
Oggi i fermenti utilizzati per la preparazione della cagliata sono detti scientificamente
chimosina o pre-caglio e sono forniti dall'industria. Un tempo, la preparazione del caglio era
frutto di attività artigianale e prima ancora venivano ricavati direttamente dal singolo pastore
dal quarto stomaco di agnelli o capretti assolutamente lattanti, opportunamente salato, ridotto
in polvere o raccolto in soluzione salina.
Il richiamo iniziale agli antichi Vati non è stato fatto a caso. Certo, oggi le conoscenze di
biochimica e di microbiologia ci permettono di capire ed in parte controllare il fenomeno
della caseificazione. Alle origini e fino a ieri, esso era invece guidato solamente da una fine
intuizione e da una grandissima sensibilità; era quasi un'arte divinatoria di cui erano
depositari soltanto i pastori che la sapevano utilizzare correttamente per dominare tante
variabili misteriose. Il rinomato formaggio Emmenthal con i suoi grandi occhi è rimasto
infatti solo svizzero fino a quando il particolare caglio impiegato per la sua preparazione è
rimasto un mistero per gli altri paesi concorrenti. Importantissima è ovviamente la sua attenta
titolazione.
Altro elemento che concorre alla caratterizzazione del formaggio, è l'alimento delle pecore,
cioè il pascolo, le cui essenze conferiscono al latte ed alla carne particolari e tipici aromi; ne
sono un buon esempio il latte, il formaggio e la carne degi ovini dell'isola di Cherso, ove i
pascoli sono costituiti prevalentemente da salvia ed essenze alofile. Anche il periodo del
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pascolo assume particolare importanza ed il mese di maggio è il più favorevole. Gli agnelli,
anche quelli nati da parti tardivi, sono ormai allontanati dalle madri ed in questo mese le
essenze del pascolo sono le più ricche sia sotto il profilo nutritivo che per gli aromi e
contengono una grande quantità di ormoni vegetali che esercitano effetti benefici sullo stato
di salute delle pecore lattifere e quindi sulla produzione del latte.
Notevoli sono anche le variazioni chimiche della composizione del latte e delle sue
caratteristiche organolettiche nei diversi mesi; esse sono influenzate dal pascolo e dalle
condizioni meteorologiche, ma variano soprattutto a seconda della razza delle pecore; ad
esempio, il titolo in grasso varia dal 6% della pecora sarda al 10-12 di quella istriana;
analogamente varia il tasso proteico ed in particolare quello della caseina, principale
responsabile della resa del latte in formaggio; varia pure il tenore dei glucidi e del lattosio in
particolare, sostanze che conferiscono al formaggio caratteristiche peculiari di dolcezza e
morbidezza. Al grasso sono poi legati gli inconfondibili e particolari aromi dei pascoli.
L'alto tenore in acqua invece condiziona la lavorazione del latte; per quello della pecora
sarda si usa la cottura ed abbondante sale, sì da rendere il prodotto piccante ed assai adatto al
condimento di piatti robusti come le penne all'arrabiata, alla amatriciana o alla carbonara, ma
poco adatto ad esser consumato fresco come companatico; accade il contrario invece per
quello istriano, formaggio dolce per eccellenza. Nelle zone ove viene consumato fresco, il
formaggio sardo è accompagnato alla rinfrescante fava verde ed al vino bianco dei castelli
romani.
Composizione del latte di pecora sarda ed istriana (%)
Pecora sarda:
Pecora istriana:
grasso
caseina
lattosio
sost. secca
acqua
6,20
5,15
4,17
16,45
83,55
11,57
7,36
5,11
24,69
75,31
La composizione chimica del latte e la sua resa in formaggio variano notevolmente nelle
diverse fasi della lattazione; in maggio per ottenere un chilo di formaggio sono necessari
almeno 6 litri di latte, in agosto solamente 3,5.
Un tempo, nel nostro comprensorio Cherso-Carso venivano allevate esclusivamente pecore
istriane, razza autoctona, introdotta in Istria nelle prime fasi della colonizzazione romana e
perfettamente adattata all'ambiente attraverso i millenni.
Attualmente, accanto all'istriana ci sono altre razze come la macedone, la palestinese, la
awashy, la frisona, proveniente dall'Olanda, e la sarda, oltre a diversi tipi di incroci tra di esse,
incroci in grado di utilizzare e trasformare in vario modo il pascolo delle nostre zone.
L'incrocio con l'awashy e con la frisona viene effettuato per migliorare la resa in carne degli
agnelli e favorire i parti gemellari.
La femmina della pecora istriana può giungere ai 13 anni. In media, porta a compimento 9
gravidanze. Il maschio raggiunge i 100-110 kg a 5 anni. I parti, gemellari nel 50% dei casi,
iniziano verso la metà di gennaio, ma in alcune zone, quando i maschi sono lasciati nel
gregge, avvengono in novembre e gennaio. Gli agnelli alla nascita pesano 5 kg e vengono
macellati sui 14-18 kg di peso vivo con una resa la macello del 55%; vengono svezzati
attorno al mese ed alimentati con fieno e sfarinati di orzo. Maschi e femmine portano corna a
spirale aperta; il vello, a biocchi aperti, è di color bianco con macchie nere sulla testa, le
zampe e spesso sul ventre. Alcune pecore sono completamente nere. La femmina produce dai
45 ai 130 kg. di latte per lattazione con una resa alla caseificazione del 20%; da 5 l di latte si
ricava cioè 1 kg di formaggio.
Nella nostra regione vengono tradizionalmente prodotti formaggi pecorini dolci a pasta
semicotta. Al latte portato alla temperatura di 32° si aggiunge il caglio che agisce per 20-40';
100
si passa quindi alla frammentazione della cagliata e si riporta la temperatura a 42-48°; si
procede poi alla raccolta della cagliata ed alla sua riduzione in pezzature del peso di 2 kg
circa che, collocate in forme cilindriche, per breve tempo, sono sottoposte a pressione per
accelerare lo spurgo del siero che viene completato dalla successiva sgocciolatura. Le forme
così ottenute sono salate a secco, alternativamente sulle due facce, o vengono mantenute in
salamoia per un paio di giorni; il formaggio viene allora estratto dalle forme ed avviato ala
stagionatura ed alla maturazione. Durante il loro corso, nella sua massa si manifestano
importanti processi che finiscono per conferire al formaggio sapori e profumi particolari e
caratteristici. La temperatura ambiente più favorevole ad una buona maturazione è situata
attorno ai 15-18°.
Durante questa fase il formaggio cambia di struttura, di consistenza, di colore, di sapore e
di odore, ed i fiocchi di caseina si fondono in una massa semitrasparente omogenea, interrotta
soltanto dagli "occhi" ossia da cavità più o meno diffuse, della grandezza di un riso. La pasta
del formaggio, inizialmente acida, diventa progressivamente neutra, talvolta alcalina. I
costituenti che durante la maturazione si modificano profondamente sono la caseina
coagulata, i grassi, il lattosio e l'acqua. Per azione dei fermenti e dei batteri proteolitici la
caseina si decompone in polipeptidi, albume, peptoni, aminoacidi ed ammine, con
produzione di anidride carbonica, responsabile della formazione dei caratteristici "occhi"; la
materia grassa, a sua volta si degrada in glicerina ed acidi grassi, alcuni dei quali
contribuiscono, come il capronico, caprinico, caprilico e laurinico, ad accentuare il sapore e
l'odore tipico, in particolare, del formaggio di pecora. Il lattosio, durante la maturazione, può
subire la fermentazione lattica o butirrica, contribuendo anch'esso alla formazione degli
"occhi". Nelle fasi fermentative possono prevalere i fenomeni proteolitici o quelli lattici
conferendo al prodotto leggere variazioni organolettiche. L'acqua progressivamente evapora
ed il formaggio diminuisce di peso.
Da quanto precede, si può facilmente concludere che, per il formaggio pecorino istriano,
non può essere formulato uno standard rigido, tanto numerose sono le variabili che
concorrono alla sua preparazione in cui nessuna caratteristica fondamentale deve prevalere o
mortificare le altre. E' un formaggio ricavato da puro latte di pecore sane che hanno pascolato
nella Regione, esente da alterazioni o difetti, da consumarsi preferibilmente almeno dopo un
mese dalla sua preparazione; di colore paglierino, occhiatura diffusa ed omogenea, dolce al
sapore, dalla grana delicata, frutto di un'azione del caglio sapientemente controllata; morbido,
assolutamente non gommoso, con spiccata tendenza quasi a sciogliersi in bocca; dotato di
leggero profumo e sapore tipico di pecora, mitigato dagli aromi residui delle essenze del
pascolo, che variano da zona a zona, nei diversi periodi della stagione produttiva.
Nel corso della lavorazione del latte o nella fase di maturazione del formaggio, possono
manifestarsi alcune alterazioni che modificano notevolmente le caratteristiche della cagliata e
del formaggio.
La presenza di antibiotici nel latte inibisce la cagliata; fenomeni di mastite della pecora la
alterano profondamente, conferendole uno sgradevole sapore amarognolo. L'eccesso
dell'azione del presame causa la formazione di scaglie sulla superficie della forma o gonfiore
ed incurvamento delle facce; una eccessiva azione dei fermenti proteolitici sulla caseina, dà
luogo a sgradevoli sapori di putrefazione oppure ad abnorme occhiatura. L'eccessivo
ispessimento della crosta è dovuto all'alta temperatura dei locali di stagionatura, a troppa
aerazione, o ad un eccessivo prosciugamento della cagliata. L'eccesso di occhiatura, è dovuto
ad insufficiente spurgo del siero; eventuali spaccature all'interno della pasta, sono causate
dall'elevata acidità del latte, dalla rottura affrettata della cagliata o da un'eccessiva azione del
caglio.
Quando sul piatto delle sue mani nere, di un nero che solo la lanolina delle sue pecore sa
catturare e conservare, il pastore ti porge un "cugno" di pecorino e non si accorge del
101
contrasto tra il bianco lattescente del formaggio e il nero delle sue mani, il suo sguardo è
come smarrito nel vuoto, quasi in quel momento rivedesse tutto il percorso della sua storia,
annullando millenni.
Il suo è lo sguardo del sacerdote, che trae vaticini dai visceri dell'agnello sacrificato e
raccoglie il caglio per porgerlo alla sua gente, per porgerle il mistero con cui il latte delle
pecore si trasformerà e si conserverà.
In quel "cugno" il pastore vede la sua storia, ma anche il suo futuro. In quel momento per
lui il tempo non esiste. Vede sè stesso quand'era cacciatore vestito di pelle; si vede ad
addomesticare le pecore e poi seguirle nel loro interminabile peregrinare scandito dai ritmi
della Natura, madre comune; si vede scoprire il misterioso caglio, prepararlo ed usarlo; non sa
cosa sia, ma lo conserva e lo dona con religione. I secoli scandiscono le sue conoscenze e le
sue conquiste; la sua intelligenza lo svincola misteriosamente anche dalla prigione dell'istinto.
Con la ragione afferma il suo dominio sul cavallo nero e su quello bianco. Del caglio ora sa
tutto ed offre il suo frutto con umiltà e saggezza.
Conservando il suo astruso ed ancora misterioso gergo, svincolato da ogni senso di
possesso e da quello di aggregazione, utilizza il pascolo e, solidale con la Natura, continua a
percorrere l'interminabile tratturo.
Ora, con il suo andare al di fuori di tempi e spazi convenzionali, si è trovato ai margini di
una società diversa. Il suo sguardo, perso nel vuoto, non è allegro e nemmeno triste. Vede con
la sua infinita saggezza il suo futuro e quello della nostra civiltà.
Il cacio di Cherso, ormai, è solo un ricordo e tra non molto lo sarà anche l'agnello.
L'inconfondibile agnello di Cherso... I vecchi pastori non hanno più la forza di ripristinare le
masiere abbattute da un nuova forma di turismo, quello ricco dei cittadini-cacciatori e dei loro
cani; e la locale cooperativa preferisce allevare pecore del Wuttemberg, che danno agnelli più
precoci, più pesanti, ma assai grassi; agnelli che crescono prima, che fanno prima peso e
piacciono ai nuovi turisti; il tempo è denaro; il tempo stringe. E nella Ciceria, patria dei
pastori istriani, gente in estinzione, meglio le pecore sarde: danno più latte!
E' una parte del nostro phylum evolutivo che se ne va; una fetta della nostra cultura
scompare e non ce ne accorgiamo nemmeno; le nostre radici se ne vanno sempre più in fretta,
perché il tempo è denaro; anzi, tutto è denaro.
Dopo aver riflettuto su quanta storia, fatica, intuizione e perseveranza ed ancora ai tanti
misteri che sono contenuti in un "cugno" di formaggio pecorino, accingiamoci con il giusto
spirito a gustarlo, a rilevarne i pregi, sottacendo, ma conservando nella memoria, eventuali
difetti.
Al pecorino istriano, formaggio dolce, si accosta per contrasto molto bene il vino Terrano
con alto grado di acidità; va altrettanto bene il Malvasia, oppure il Moscato di Momiano; se al
formaggio si aggiungerà pane di campagna, non più fresco, che ha maturato una punta di
acido, i contrasti tra i singoli cibi e le bevande, faranno reciprocamente risaltare le loro
rispettive principali caratteristiche.
102
LA FESTA DEL FORMAGGIO PECORINO A GRISIGNANA
Per chi abita costantemente in città il cambiamento delle stagioni è poco evidente; è
scandito per lo più dal mettere o smettere abiti invernali od estivi o dall'andamento del prezzo
del gasolio da riscaldamento; un po' meno dal variare dei cibi, quasi annullato dal loro veloce
trasferimento da un emisfero all'altro e dai sistemi di conservazione che li rendono disponibili
lungo tutto l'arco dell'anno. In campagna però la primavera esplode e ciò si vede e si sente da
tutto, anche e soprattutto dai cibi disponibili: da frutta, verdura, uova, formaggi, dai pecorini
in particolare; quelli prodotti con il latte di maggio sono ineguagliabili. E non può essere che
così.
La Natura dà il suo benvenuto ai nuovi arrivati con il meglio di se stessa.
Percorrendo i non usuali itinerari di tutto il Carso, di quello che va giù fino a Cherso,
partendo da S.Pietro, la terra è tutta in fiore; fiori bianchi, gialli, viola e poi gialli arancio,
rossi, celesti, indaco, di tutte le tonalità, rivestono prati e pianori e sono alimento delle pecore,
profumando ed esaltando il sapore dei loro pecorini.
Per questo motivo si è voluto approfittare di questa primavera particolarmente favorevole
per proporre presso la Loggia di Grisignana una degustazione di formaggi pecorini di maggio
dell'utopico Parco da Cherso al Carso. Da Ronchi a Divaccia, S.Servolo, Umago, Parenzo,
Valle, S.Vincenti, Brest sul Monte Maggiore, Verteneglio, Grisignana, quasi pietre miliari di
originali itinerari agroturistici (fig. ).
Gli ospiti saranno agevolati nella degustazione e per un confronto tra i vari prodotti da
notizie relative alle razze allevate ed ai loro incroci, ai sistemi di caseificazione, ai tipi di
pascolo utilizzati dalle pecore: dai pascoli di montagna a quelli delle zone rivierasche soggetti
all'influenza dei venti salmastri.
I pecorini saranno poi annaffiati con forti vini di contrasto: Terrano, Refosco, Malvasia e
Moscato.
Un piacevole impegno, per una domenica diversa, con il Circolo Istria ed il Comune di
Grisignana.
I pecorini nostrani
A: Vittorio Zale di Vermigliano (Frazione di Ronchi dei Legionari).
Orgoglioso di esser sloveno ed alpino della Tridentina in cui ha militato per 7 anni, a 70
anni, munge le sue 160 pecore di razza istriana due volte al giorno e d'estate, assieme alla
moglie, va all'alpeggio a Verzegnis. Fa il pastore da oltre quarant'anni ed ha comprato il
gregge a S. Pietro del Carso prima della guerra; ha provato diverse razze di pecore, ma per lui
le migliori sono le istriane. Conduce la caseificazione con il metodo tradizionale. Le sue
pecore producono 1 l di latte al giorno. A maggio la caseificazione dà 1 kg di formaggio per 7
litri di latte; in agosto 1 kg per 3,5 litri di latte; in inverno pascola nell'azienda Tarabocchia di
Sagrado.
Prezzo al kg: 15.000 Lire.
B: Oveja Farma di Karlo Zanuttini di Divacia.
Il gregge in origine era costituito da pecore bosniache, successivamente incrociate con la
frisona; ora, per aumentare il tenore in grasso vengono effettuati incroci con la pecora
istriana; ciò permette di ottenere dei formaggi assai morbidi ed una maggior resa alla
caseificazione.
103
Per la caseificazione, la massa del latte viene portata a 32°C lasciando poi agire il caglio
per 30-40 minuti; la cagliata viene rotta e riscaldata a 42°C per 15'; viene raccolta nelle
forme, fatta scolare e poi posta in salamoia per 48 ore. Il formaggio è pronto dopo 30-35
giorni. La resa è di 1 kg di formaggio per 5-6 litri di latte.
Prezzo al kg: 16.000 Lire.
C: Elio ed Elvina Stokovac di Murici di Grisignana
Gregge di 30 pecore di razza istriana. Gli agnelli vengono svezzati a 2-3 mesi. La
caseificazione viene fatta secondo il metodo tradizionale con salatura a secco. Si ottiene 1 kg
di formaggio con 7 litri di latte circa. La famiglia ha una lunga tradizione ovicolturale e
produce esclusivamente per il proprio consumo. Il formaggio proposto all'assaggio ha un
mese.
D: Marija&Josip Rumac di Brest Pod.
Di origine rumena, posseggono due nuclei di pecore di pura razza istriana che vengono
fatti pascolare sul pianoro di Brest attorno ai 650 m di altitudine, sul massiccio del Monte
Maggiore. Prima della guerra la zona ospitava circa duemila ovini, oltre a numerosi bovini;
allora Brest contava circa duecento anime, fatto testimoniato dal grande edificio scolastico in
stato di incipiente degrado. Oggi Brest conta quaranta abitanti, di cui molti serbi. Tranne due
trentenni tutti gli altri sono ultrasessantenni. Nel periodo prebellico, durante i mesi invernali,
veniva effettuata la transumanza verso Valle, Pola, Medolino e Promontore.
La caseificazione avviene secondo le tecniche diffuse su tutto il comprensorio. Viene usato
il caglio liquido acquistato a Milano. Il posto è meraviglioso, però è situato a pochi km da
Fianona, la cui centrale termoelettrica con le sue piogge acide provoca gravi danni alla
vegetazione.
Le pecore adulte partoriscono a novembre e ad aprile. La produzione di latte dura 4-5 mesi
e dà 1-2 litri di latte al giorno con una resa nella caseificazione di 1 kg di formaggio ogni 5
litri di latte in inverno e 1 kg per 6 litri di latte in maggio; i parti sono costantemente
gemellari ed anche trigemini. Gli agnelli vengono venduti a 15 kg.
Prezzo al kg: 25.000 Lire.
E: Branko e Jozica Maglica di Goli Vhr di Umago.
Gregge di incroci tra razza istriana ed awashy. Per la caseificazione la massa del latte viene
portata a 32°C; rotta la cagliata, la massa viene riportata alla temperatura di 42-43°C e trattata
poi con il metodo tradizionale. La forma in assaggio proviene dalla mungitura del 7 maggio.
Prezzo al kg: 23.000 Lire.
F: Miro Radossevich di Grobine di Verteneglio.
Il gregge è composto da incroci awashy ed istriana ed attualmente anche con frisone.
Conserva però ancora istriane in purezza. Munge a macchina; ha avuto in passato gravi fatti
di mastite, ora completamente risolta. Gli incroci di terza generazione vengono coperti con
maschi frisoni: ciò per migliorare la resa in carne, visto che gli agnelli istriani danno una resa
al peso morto del 50%, l'incrocio istriana-awashy del 58% e l'incrocio istriana/awashy con la
frisona del 62%. Migliora anche la media dei parti gemellari. I parti avvengono solamente in
febbraio. La caseificazione viene effettuata con la solita tecnica; le forme vengono poi
sottoposte al peso per 6 ore, indi passate in salamoia a 18-20 gradi per 48 ore. La resa alla
caseificazione è di 1 kg di formaggio per 6 litri di latte a maggio; in agosto le rese sono
maggiori, anche se la produzione complessiva di latte è inferiore.
Prezzo al kg: 20.000 Lire.
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G: Agrolaguna di Torre di Parenzo (Tar)
Gregge di 1100 capi di ceppo istriano con sangue sardo e frisone. Le femmine, di 55-60
kg, partoriscono in dicembre e producono circa 1 l di latte al giorno in due mungiture con una
resa in formaggio di 1kg/5 litri in aprile-maggio. Il pascolo avviene nei pressi dell'azienda su
essenze che risentono l'influenza del mare.
Gli agnelli vengono svezzati a 30 giorni sui 14 kg.
La mungitura avviene meccanicamente ed i capi, ormai adattati, non hanno più sofferenze
alla mammella. Prima di essere lavorato, il latte viene pastorizzato e poi caseificato con la
tecnica tradizionale; la salatura avviene per salamoia a 20° Beaumé ed il formaggio così
preparato viene posto in stagionatura in ambienti mantenuti a 12°C e 95-98% di umidità
relativa. Il latte del prodotto in degustazione è di fine aprile.
Prezzo al kg: 25.000 Lire.
H: Giovanna Maticchio e Giordano Persich di Krancic-Cranceti (S Vincenti).
Gregge di razza istriana; peso vivo 70-75 kg, le femmine; 70% di parti gemellari; i maschi
raggiungono 120 kg; resa al macello 50% scarso. Le femmine hanno 7 anni di carriera
produttiva e danno in media 9 kg di formaggio per lattazione. Il gruppo di pecore pascola su
trifoglio misto ad essenze foraggere. In prossimità dei ricoveri le fattrici ricevono
giornalmente a volontà fieno di trifoglio.
I parti iniziano a febbraio-marzo; gli agnelli vengono svezzati a due mesi sui 20 kg.
Tecnica di caseificazione: il latte delle due mungiture giornaliere viene portato a 36°C e,
aggiunto caglio di provenienza italiana, dopo 45' si procede alla rottura della cagliata; si
riscalda a 45° e, raccolta la cagliata, viene messa nelle forme, sottoposta a peso, e dopo 6h
salata a secco. Il formaggio non viene mai messo sott'olio, ma stagionato in luogo fresco.
Dopo un mese è già pronto per il consumo, ma la stagionatura viene protratta talvolta anche
oltre l'anno.
Il formaggio portato all'assaggio è il prodotto della mungitura del 25 aprile.
Prezzo al kg: 21.430 Lire.
I: Evelina Zanfabro di Valle (Bale).
Gregge di pecore istriane incrociate con la macedone; peso medio delle pecore adulte sui
60-65 kg.
I parti avvengono tra gennaio e marzo; gli agnelli vengono svezzati sui 25 kg a circa 60
giorni. La mungitura va oltre la metà agosto; le pecore ricevono 300 gr di sfarinato di orzo e
granturco, gli agnelli 250; il latte migliore viene prodotto in maggio sui pascoli migliori nelle
prossimità della cascina.
Produzione media annuale: 8-9 kg di formaggio per capo.
Il latte delle due mungiture viene caseificato separatamente. Il latte viene portato a 36° e su
di esso si lascia agire il caglio per 1h; si rompe quindi la cagliata, la si riscalda a 48° e si
trasferisce nello stampo a scolare, con pesi a crescere.
Il prodotto, salato a secco, è pronto dopo 40 giorni; a sei mesi viene spalmato con olio; un
tempo veniva posto anche nelle girni.
Prezzo al kg: 26.000 Lire.
L: Tarcisio Music di Orlec (Cherso) ed altri.
A Cherso non viene prodotto più il famoso pecorino.
M: Dario Kolorec di S. Servolo (Socerb).
105
Pecore di razza istriana pura, mantenute al pascolo nella zona di S. Servolo. Le femmine
pesano 70 kg di media; in carriera possono dare 9 parti a cadenza annuale con inizio a
gennaio; 50% di gemellarità.
Gli agnelli vengono svezzati a due mesi (circa 20 kg); in prossimità del parto, la femmina
riceve concentrato; la resa in formaggio è di circa 1 kg per 5 litri di latte.
La produzione media nell'annata è di 120-130 kg di latte e quindi con una resa in
formaggio di circa 25 kg. La caseificazione viene fatta con il latte delle due mungiture
giornaliere. Portato il latte a 32°C, viene aggiunto il caglio che viene fatto agire per 30-40
minuti; si frantuma quindi la cagliata e si porta la temperatura a 42°C; la cagliata viene
spremuta in garza e quindi viene immessa in forme da 2-2,5 kg; il giorno successivo la forma
viene salata in superficie; al terzo giorno la forma viene rigirata e salata a secco sull'altra
faccia; nei mesi estivi le forme vengono messe anche in salamoia per due giorni e quindi
messe a stagionare.
Il formaggio in esame è stato prodotto con il latte dei primi giorni di maggio.
106
IL GERME DELL’IRREDENTISMO IN UN “CUGNO” DI FORMAGGIO.
E’ più facile trovare un ago nel proverbiale pagliaio che il germe dell’irredentismo in un
cugno di formaggio pecorino istriano. Se poi a presentare il formaggio c’è il Circolo Istria ciò
è assolutamente impossibile. Eppure nelle pieghe più recondite della ricerca storica sul
pecorino qualcuno ha cercato l’irredentismo e ..., haimè, pare si sia convinto d’averlo trovato.
Lasciando da parte il sarcasmo che la stessa truculenza etimologica della parola ci
sconsiglia di usare, ma facendo solo dell’amichevole e piacevole ironia, il pensiero corre per
analogia all’irredentismo delle sibibe e fighi secchi di Slataper o all’accanimento della ricerca
scientifica fascista che voleva ad ogni costo trovare il bisato italico nel Mediterraneo in modo
da contrapporlo a quello dei Sargassi.
Questo legame tra irredentismo e pecorino, sembra, come si diceva, seriamente accreditato
dal Prof. Miroslav Bertosa nell’articolo apparso su Glas Istre del 17 giugno 1996 sotto il
titolo “S okuson sira: od Cresa do Krasa”, “Con il sapore del formaggio: da Cherso al Carso”.
Una rassicurazione in merito al problema può essere però ottenuta già analizzando la lettera di
invito e il materiale informativo distribuito prima della degustazione dei formaggi,
organizzata a Grisignana il 9 giugno dal Circolo Istria, in collaborazione con il comune
ospitante, manifestazione a cui la stampa e la televisione hanno dato notevole risalto
attribuendole un lusinghiero successo.
Dall’articolo del Prof. Bertosa apprezziamo alcuni contributi storici relativi alla pastorizia
e condividiamo in pieno la lode al pecorino; ciò ci permette sin d’ora di considerarlo nostro
gradito ospite e, perché no, anche collaboratore per le prossime analoghe manifestazioni che
organizzeremo allo scopo di diffondere la conoscenza delle tradizioni e della cultura materiale
dell’Istria, quali veicoli di promozione agrituristiche e di turismo culturale.
A quanto già comunicato, aggiungiamo che il formaggio di Pago, che tra l’altro ci è stato
gentilmente offerto, non è stato incluso tra quelli portati alla degustazione in quanto non
corredato dai dati relativi alla sua composizione: data di mungitura, razze di provenienza,
tecniche di caseificazione, prezzo, ecc..., notizie fornite invece per gli altri formaggi
presentati. Informiamo inoltre che il pecorino di Cherso non si è reso disponibile per una serie
di coincidenze tra le quali alcune dovrebbero destare seria preoccupazione in ordine alla
stessa sopravvivenza della pastorizia locale alla quale è legata la presenza dell’uomo in
particolari siti dell’Isola e quindi in ordine al suo attuale delicatissimo equilibrio ecologico.
Precisiamo infine che in zootecnia, disciplina che si interessa di produzioni animali, le razze
da reddito sono universalmente indicate con il nome delle regioni in cui si sono naturalmente
selezionate, così la piemontese, la chianina, la frisona, la yorkshaire, la cheolais, la jersey e
fatalmente la istriana e quindi, zootecnicamente, non croata, ma solamente pecora istriana.
Per concludere e tranquillizzare anche i più apprensivi aggiungiamo che l’azione che da
sempre ha contraddistinto il Circolo Istria ha le sue radici e si ispira non sicuramente ad
irredentismi o sciovinismi di sorta che consideriamo aspetti assolutamente negativi e
oltremodo pericolosi, ma unicamente a principi di tolleranza, di pacifica convivenza, di
amicizia e collaborazione interetnica per la diffusione della conoscenza tra i popoli, compreso
l’aspetto della loro cultura materiale; principi insomma che rappresentano i cardini su cui si
fonda l’Unione Europea, alla quale ci auguriamo possano essere accolti soprattutto gli Stati di
cui l’Istria fa parte. Su ciò non ci sono nè si possono insinuare dubbi di sorta. Ciò è
assolutamente garantito.
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VITA DI CAMPAGNA
Una volta non ci si rendeva conto del perchè entrando in un ricovero di ruminanti ci si
sentiva acarezzare le narici da un tiepido soffio che pian piano, piacevolmente ti scendeva nel
petto dilatandolo e ti dava una sensazione di vigore ed un leggero stordimento.
Era l'odore dei residui alcoolici della fermentazione del fieno maggengo e della enorme
quantità di vitamine, soprattutto la vitamina B che si producevano nel tratto digerente dei
ruminanti presenti nella stalla.
Oggi l'industria ricava infatti il complesso B dal contenuto del rumine dei bovini.
Questa strana, ma piacevole sensazione ti colpiva con particolare intensità in alcuni
periodi, quando entravi in un ricovero anche precario di ovini ed un leggero calore ti
accarezzava l'orecchio arrossando le gote e le labbra.
Entravi in un'atmosfera satura di estro, che ti avvolgeva inconsapevolmente e che l'uomo di
oggi non è più capace di percepire.
A maggio, un pò prima del tramonto, con l'aria ancora tiepida, quando sui carri i buoi
avevano trasportato all'aia l'erba ormai maturata al sole venivano costruite le mede.
Accorrevano i più giovani e danzando con i piedi nudi in circolo attorno al palo, man mano
che il fieno ancor tiepido veniva accatastato, lo comprimevano al ritmo della danza,
costringendolo a liberare i profumi della fermentazione e quelli dei fitormoni. I più anziani,
ricordando la giovinezza, rivivevano compiaciuti il rito pagano. Per noi piccoli danzatori era
più che un gioco; era celebrare l'ultima primavera della nostra fanciullezza; si apriva quasi
con una danza pagana la fase più intensa della nostra vita, quella dell' adolescenza;
l'iniziavamo con una sensazione sconosciuta e piacevole che definivamo "far i gusti".
Dopo solo sei mesi saremmo accorsi ad un'altra danza a conclusione della vendemmia,
quella della pigiatura dell'uva. Le gonne delle giovinette non si sarebbero più gonfiate e poi
sollevate nella foga della danza, ma strette con cura attorno alle magre gambe avrebbero
sottolineato la sopraggiunta consapevolezza.
108
LA FESTA DELLA MIETITURA
Il ciclo biologico del grano è ciò che meglio rappresenta il Mistero della vita e della morte,
il viaggio agli inferi, e la resurrezione, anzi per certi versi si identifica con esso. E’ il mito del
ciclo, il mito assiro di Gilgamesh, che non potendo avere l’immortalità per l’amico Enchidu,
lo evoca dagli inferi; il mito di Demetra che evoca Persefone e le stagioni feconde; quello di
Osiride smembrato, ricomposto da Iside; quello di Ulisse che parte e ritorna; è quello
dell’uomo che feconda la Madre Terra: in essa nasconde il mistero della vita e da essa la vita
ritorna; dalla semina d’autunno, quando la natura si assopisce, all’esplosione della vita in
primavera si giunge alla raccolta dei doni, delle messi, del Pane.
Questo è l’appuntamento con la Natura più importante e più festeggiato dell’anno. Si tratta
di un ciclo di feste che inizia il 23 giugno e si conclude il 29, feste che si svolgono in tutti i
paesi europei dalla Scandinavia alla Grecia e si sono sviluppate da un antico culto solare,
legato al solstizio o lampus dell’antico calendario romano. Tali feste hanno tutti i caratteri
della purificazione e della propiziazione e sono ovviamente di natura agreste; perciò si
rivolgono a divinità solari ed insieme agrarie. Tra i romani antichi Fors, Fortuna e Cerere
inauguravano religiosamente le operazioni della mietitura. La stessa ricorrenza del Battista
conserva i caratteri del rito agreste nella sua festa e nell’antica iconografia che lo rappresenta
fra tronchi d’albero spezzati e rigermogliati, simboleggianti i due temi magico religiosi della
morte-rinascita e fecondità-fertilità. Sono suoi attributi il fuoco e l’acqua della purificazione.
In Istria schiere di giovani saltano oltre i fuochi di S.Giovanni, ma questo rito è comune
presso tutte le popolazioni mediterranee dai greci a quelle mussulmane del nord Africa.
L’acqua in quella notte acquista virtù soprannaturali ed ha la proprietà di scacciare gli spiriti
malvagi.
Cerere, l’antica Dea italica della terra coltivata, padrona della fecondità agraria e
protettrice dei morti, con Tellus rappresentava i due aspetti della divinità originaria. Il suo
nome era collegato al crescere ed al creare con riferimento alla vegetazione. A Lei e Tellus
che aprivano e chiudevano i cicli vitali veniva sacrificata, il giorno prima dei riti, la scrofa
precidanea a scopo propiziatorio ed espiatorio per eventuali trasgressioni commesse durante
le pratiche rituali del giorno della mietitura. Univa nella sua duplice natura la vita e la morte.
Cerere era analoga a Demetra, divina maternità greca della Terra e della vegetazione ed ad
Iside, dea della rigenerazione.
La mietitura chiude il misterioso ciclo del grano con la raccolta del più prezioso dono di
Demetra.
Oggi, la macchina seminatrice e mietitrebbiatrice, terribile mostro distruttrice del mito,
vorrebbe accompagnarci, moderno Virgilio, nel mondo delle tenebre, impedendoci di
ritualizzare con la semina la fecondazione della Terra e di raccogliere direttamente con le
mani il suo più prezioso dono. Anche se con la macchina, oggi tuttavia rinnoveremo il
vecchio mito ed assaporeremo il pane di campagna ed i prosciutti della porca precidanea, che
ci salvaguarderà da futuri errori di comportamento.
109
TEMPO DI VENDEMMIA
Quando la vespa cincia el gran
Di tutti i lavori dei campi, la vendemmia ha rappresentato anche in questo territorio
dell'Istria l'evento fondamentale, un atto quasi sacrale che trasudava tutta l'operosità e il
travaglio dell'uomo della terra. I sogni, le speranze, la vita della famiglia dipendevano da quei
tralci. Essi rappresentavano "l'entrada" e per questo la vite andava curata con sapienza e con
amore e se si era assistiti dalla provvidenza allora la vendemmia diventava una festa e da un
campo all'altro risuonavano allegri richiami e canti paesani.
Ma da quando risale la presenza della vite da noi e la magica trasformazione del mosto in
vino? Studi e ricerche in merito ci portano nei meandri della preistoria, in quanto risulta che
la vite nasceva qui per vegetazione spontanea (non così l'ulivo che è stato importato) e già
circa 3000 anni fa si facevano delle selezioni di vari ceppi selvatici nel tentativo di migliorare
il prodotto. Si creavano così varie sottospecie che davano vini rossi molto vicini al refosco e
al terrano. Le uve bianche invece erano vicine al garagogna o garganica, una specie diventata
rara ma ancora reperibile in certi vigneti a pergola e che produce un acino un poco più grosso
della malvasia che presenta puntini scuri mentre le foglie sono abbastanza grandi e coperte di
una peluria sottile nella parte inferiore della pagina.
Nell'epoca romana la produzione si amplia notevolmente e vede nei vini rossi la
preminenza col famoso pucinum, affine al refosco e ottenuto dall'incrocio di vari ceppi. Per il
"cultivar" di uve bianche si ricordano la già nominata garagogna, la lacryma Christi, la
pagadebiti, la ribolla, il semion e poca malvasia. In ogni caso fino alla fine dell'Impero
asburgico i vini rossi erano predominanti, con il 70%, sui bianchi. La malvasia (originaria
probabilmente dall'omonima isola greca) viene introdotta da noi e coltivata su larga scala
dopo la crisi del vino degli Anni '20.
Nella zona di Momiano si afferma quel moscato che già nel 1611 il nobile capodistriano N.
Manzuoli descrive come "vino da Re" e che poi sarà omologato come "moscato giallo di
Moniano" (per differenziarlo dal moscato bianco d'Asti) ed è caratterizzato da piccoli granelli
molto fitti sul raspo e una resa che non supera il 55%; ma il suo aroma e il suo profumo sono
inconfondibili e sono dovuti oltre che al vitigno alla zona collinare molto appropriata, alla
terra biancastra ricca di calcio carbonato e alla poca vegetazione della pianta che può così
megio ricevere il sole. Nei filari inoltre i ceppi vengono coltivati molto fitti (il che vale anche
per la malvasia); si ottiene così meno uva ma la qualità ne risulta avvantaggiata, ossia la
concentrazione diventa sinonimo di pregio. Questo sistema di coltivazione è in realtà
abbastanza recente. Precedentemente si usava come sostegno l'albero dell'"opolo" (acero
comune) ben potato che di solito sosteneva tre o quattro viti. Intorno al 1860, quando con la
comparsa della filossera e della peronospora si cominciarono a innestare le viti su porta
innesti americani, più resistenti a questi parassiti, si passò alla coltivazione a schiera che
risulta più adatta anche per le irrorazioni.
La lavorazione della terra, anche per la configurazione del suolo, disposto a terrazzi,
veniva eseguita prevalentemente con la zappa. Un lavoro duro quanto si vuole, ma per molte
famiglie la vite rappresentava veramente l'unica risorsa. Per sfruttarne al massimo il ricavato
si usava fare il secondo vino, chiamato qui "scavesso" (da ex cavecium), aggingendo acqua
alle vinacce e in tempi più recenti anche dello zucchero.
La coltivazione della vite ha lasciato nel nostro territorio un vasto repertorio di sostantivi,
per lo più di origine latino-veneta, per la definizione degli utensili usati dal contadino, ma
anche nella toponomastica troviamo nomi interessanti come Vignarìa, Vignarese, Marsemini,
Moscati, Monte Madonna delle Vigne, Refoschi, S. Lorenzo delle Vigne, Braida, Braidine,
110
Fresche Bride... Nella onomastica troviamo Ribolo, Botter e un Pietro Moscatello gia nel
1481.
La vendemmia! Un rito che si perpetua e che racchiude in sè tanti frammenti di antiche e
nuove esperienze. L'euforia che si sprigiona già prelude a quel "ribollir dei tini", a quel
processo di trasformazione del mosto in vino che nel suo divenire fa ormai parte della natura
dell'uomo e della nostra civiltà.
111
Avviamento all’Apicoltura
Queste poche righe sono destinate soprattutto ai giovani.
Mi è spesso capitato, all’inizio con grande meraviglia, oggi solo con disappunto,
d’incontrare dei giovanissimi non del tutto convinti che il latte fosse prodotto dalle vacche e
non nelle fabbriche o centrali del latte ed il miele frutto della laboriosità delle api.
Ho assistito anche a manifestazioni di paura e d’angoscia di qualche bambino di città (e
sono i più) al suo primo impatto con l’erba del prato. L’erba questa sconosciuta.
La causa di ciò è ben nota: si sta producendo e si allarga sempre di più una frattura tra
natura e cultura.
Queste righe perciò vogliono esser un invito ed una guida per entrare nel mondo misterioso
ed affascinante delle api e incominciare così a conoscere la Natura, per trarne utili
insegnamenti. Sono da sfatare innanzi tutto alcuni pregiudizi nei confronti di questi utilissimi
insetti esorcizzando soprattutto la paura che molti hanno nei loro confronti.
Molte persone infatti, confondendo api, vespe e calabroni, sono restie ad avvicinarsi non
solo alle api ed al loro mondo perché hanno paura delle loro punture, ma rifiutano anche di
assaggiare il loro miele ed i prodotti dell’alveare, rinunciando così all’apporto di preziosi
alimenti.
La puntura d’ape è genericamente fastidiosa, in casi assai rari nei confronti di pochissime
persone può anche essere pericolosa, ma è bene che ognuno conosca le sue risposte e le sue
reazioni a questi eventi per adottare gli opportuni accorgimenti in modo da ridurre ed
eliminare i loro effetti negativi. Per la quasi totalità delle persone una prima puntura d’ape
rappresenta all’inizio solamente un fastidio, in seguito per successive punture il fastidio
diviene generalmente quasi trascurabile.
Pochi però sanno che la puntura d’ape è quanto mai salutare ed anche utilizzata in
medicina come rimedio efficacissimo nella lotta contro alcune forme reumatiche.
Una puntura d’ape ogni tanto fa bene quindi alla salute.
Ma quanti insegnamenti possiamo trarre attraverso un rapporto costante con il mondo delle
api.
Osservando il continuo andirivieni e la febbrile attività che contraddistingue il mondo delle
api e la loro laboriosità si prova sempre meraviglia e stupore e ci si rende conto allora di
quanta fatica costi la produzione di una sola goccia di miele.
Non si ha il coraggio allora di sciuparne abbandonando residui sul cucchiaio o nel vasetto.
Sorgono allora spontanee anche altre considerazioni generali sugli inutili consumi o sprechi
che quotidianamente facciamo dei doni della Natura.
Impariamo ad allontanarci dalle tentazioni del CONSUMISMO.
Addentriamoci poi nel mondo dell’ape, di questo meraviglioso insetto sociale. La sua vita
è regolata da un prestabilito, connaturato, difficilmente definibile, ma armonioso ordine che
governa e sovrintende alla vita di tutte le api e che alcuni chiamano «Spirito dell’Alveare».
Siamo necessariamente stimolati ad approfondire le nostre conoscenze sui loro sistemi di vita,
di comunicazione, sui ruoli dei singoli componenti la famiglia, della Regina, delle operaie, dei
fuchi (i maschi) ecc. ma anche a riflettere ed a trarre analogie anche con nostri
comportamenti.
I più ignorano quasi tutto delle api e degli insetti in generale, anzi, quasi non sopportano
formiche e vespe. Delle termiti hanno poi un terrore che razionalmente non si giustifica ma
che il nostro inconscio collettivo ha registrato assai bene.
112
Prime tra gli insetti sociali che dominavano il mondo 20.000.000 di anni prima che gli
ominidi vi facessero la loro comparsa, esse sono ancora al loro posto.
Sopravvissute a sconvolgimenti climatici inimmaginabili, impossibilitate a vivere in
superficie sotto un sole non filtrato che inaridiva ogni cosa, hanno adattato la loro biologia
alla vita sotterranea creando le condizioni indispensabili alla loro sopravvivenza e ci danno
ora utili ammonimenti, che però non abbiamo saputo o voluto ancora leggere!
Tuttavia c’è da rilevare che molti, anche tra coloro che non hanno quotidiana
dimestichezza con il mondo delle api, danno appropriati significati e traggono utili
insegnamenti dal loro modo di vivere.
In una nota intitolata «Le api insegnano» avevo descritto come famiglie di api di razze
diverse, contraddistinte da caratteristiche morfologiche evidenti, se convenientemente riunite
nello stesso alveare, convivano, cooperino pacificamente nell’interesse dell’ormai unica
famiglia; ciò avviene dopo che una delle due regine è stata opportunamente eliminata.
Le api insegnano la convivenza ma anche la costanza ed il discernimento: non volano da
fiore i fiore alla ricerca cieca di nettare o polline, ma esercitano la loro azione di raccolta da
singole essenze fintanto che i fiori sono in grado di offrire i loro migliori prodotti.
Soltanto così l’apicoltore esperto ricava i preziosi mieli monofora, di acacia, di tiglio, di
salvia …
Osservando lo svolgimento della vita dell’alveare balza immediatamente alla nostra
attenzione la dedizione che le singole api offrono alla loro società attraverso le funzione
altamente specifiche. Ci sono infatti dame della Regina madre, l’unica femmina abilitata alla
deposizione di uova e quindi alla procreazione, oppure nutrici della covata ad ancora
bottinatrici o ricercatrici d’acqua, esploratrici e guardiane. Esse svolgono volta a volta ruoli
ben precisi anche se parzialmente intercambiabili nel tempo a seguito di particolari
contingenze. La vita, l’ordine, la sicurezza, la prosperità ed il perpetuarsi della famiglia sono
affidati rigidamente al preciso, circoscritto e regolato impegno di ogni suo singolo elemento:
la limitazione dell’attività e della libertà del singolo sono condizione di ordine nella vita della
famiglia e presupposto della sua sopravvivenza.
Così le bottinatrici, pur raccogliendo enormi quantità di nettare, utilizzando solamente
quanto loro necessita: l’Ape prende solo quello che le serve e dà tutto quello che può. Le
guardiane non esitano ad attaccare chiunque, sia esso uomo od orso, minacci la sicurezza
della casa comune pur sapendo che l’aver infisso il pungiglione al nemico causerà la propria
morte. Eppure se all’esterno dell’alveare le api che lo custodiscono vedono le loro compagne
soccombere ad eventuali nemici o predatori rimangono indifferenti: il singolo, quando è
lontano dalla famiglia, quando non è sentito partecipe d’essa, non è considerato meritevole
d’aiuto. La specificità od autonomia individuale, o di gruppo, quando non partecipa
coralmente all’universalità della famiglia, diviene estraneità. Insegnamenti preziosi e di
grande attualità per quelle numerose, preziose ed indispensabili specificità culturali che ora
finalmente emergono e si affermano anche a prescindere da riferimenti etnici.
Sulle api sono stati scritti innumerevoli libri eppure di esse si sa ancora molto poco.
Osserviamole con attenzione e rispetto; da esse abbiamo tanto da imparare e, anche se
modesti apicoltori, diventiamo produttori di un così prezioso alimento che destiniamo ai
nostri famigliari più cari. Aumenterà inoltre il nostro impegno quotidiano a migliorare la
qualità del miele attraverso una sempre maggior conoscenza delle tecniche di produzione,
lavorazione e conservazione. La nostra attenzione si rivolgerà poi con maggior competenza
anche verso gli altri prodotti alimentari del commercio. Inizieremo poi a valutare la genuinità
del nostro miele, la sua purezza, le caratteristiche igienico – sanitarie ed approfondirne quelle
nutrizionali e le analogie con gli altri alimenti. Gustando il nostro miele impareremo inoltre
ad affinare e convenientemente esercitare il senso del gusto, a distinguere i sapori derivati
dalle diverse essenze; affinando progressivamente il nostro gusto aumenterà anche la nostra
113
capacità di giudicare e valorizzare gli altri alimenti. Ci si presenterà allora un nuovo mondo
tutto da scoprire.
Ma come si può diventare apicoltori ?
Bisogna dire che l’età media degli apicoltori della nostra zona aumenta con il passare degli
anni e che l’agricoltura ha assolutamente bisogno dell’ape per la sua funzione impollinatrice e
quindi ha bisogno degli apicoltori. L’ape è preziosa anzi indispensabile all’agricoltura, alla
produzione dei nostri alimenti e quindi alla nostra VITA.
Il Consorzio degli Apicoltori della provincia di Trieste, sollecitando la collaborazione delle
organizzazioni degli apicoltori disponibili e con i preziosi contributi della Camera di
Commercio di Trieste, si propone quindi di mettere in atto una serie di iniziative per facilitare
l’ingresso dei giovani in apicoltura. All’uopo esso istituisce dei corsi di avviamento a questa
nobile pratica con lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche, operando altresì perché ai novelli
apicoltori pervengano magari modesti aiuti. Nel contempo il Consorzio agevolerà incontri
attraverso i quali individuare ed offrire la possibilità di collocare convenientemente sul
territorio qualche arnia; favorirà incontri tra l’uomo della città e quello della campagna che
potranno anche sfociare in future amicizie, che permetteranno di ricomporre culture che le
produzioni massificate hanno contribuito ad allontanare l’una dall’altra, fino a produrre i
paradossi illustrati all’inizio. L’esperienza magari potrà durare per un periodo limitato,
oppure in seguito questa attività potrà anche consolidarsi ed irrobustirsi attraverso una rete
istituzionalizzata di piccoli scambi.
Sarà comunque un’esperienza utile ed indimenticabile.
Ci introdurrà nei misteri dei mondi sconosciuti, che poi sono il nostro mondo sconosciuto.
Livio Dorigo
Presidente del Consorzio degli
Apicoltori della provincia di Trieste
114
PROLEGOMENI
ISTRIANO.
ALL’ESTESIOLOGIA
GUSTATIVA
DEL
PROSCIUTTO
(da «L’elegia del PORCO» di L.Dorigo)1
Titolo altisonante, che vuol grondar cultura da ogni sua sillaba. Quanto segue è però
soltanto una semplice premessa; poiché su questo argomento non c’è nulla di nuovo sotto il
sole, essa si propone infatti solamente di ricordare cose assai ovvie, anche se oggi abbastanza
curiose.
L’umanità, ma forse solamente la nostra civiltà ha privilegiato, educandoli ed esaltandoli,
unicamente alcuni strumenti della nostra vita di relazione: la VISTA e l’UDITO.
Il GUSTO, l’OLFATTO ed il LINGUAGGIO DEL CORPO sono stati invece repressi e
spesso ingannevolmente corrotti.
Arti figurative e musica sono i simboli di questi privilegi; musei, teatri, accademie e
conservatori sono i loro templi, i luoghi ove la loro educazione si trasforma in art. Il Gusto,
l’Olfatto e la lettura del Linguaggio del Corpo, che sono i veri strumenti della decodificazione
del mondo che ci circonda e dei sentimenti più intimi non hanno riscontri altrettanto
prestigiosi.
L’organizzazione stessa della nostra Civiltà, che ha avuto alla sua base la famiglia
patriarcale, si sarebbe sgretolata se queste nostre vie di comunicazione non fossero state
parzialmente o quasi totalmente bloccate, nascondendo così o rappresentando in modo più
conveniente momenti di simpatia altrimenti inconfessabili o forti attrazioni colpevoli, oppure
ancora, in momenti diversi, sentimenti di fastidio o repulsioni. Addio perciò, tra le espressioni
del corpo, alla «casta porpora alle donzelle in viso» o pallori e rossori delle labbra
manifestanti, magari pubblicamente, momentanee predisposizioni all’approccio od un suo
approfondimento…
Ecco arrivare allora il belletto, maschera di sentimento. Analoghi impedimenti sono stati
altresì introdotti per rendere inutilizzabili strumenti di comunicazione ancora più prepotenti,
che superano barriere fisiche e lontananze inimmaginabili, che dilatano addirittura la nostra
portata esteriologica. Analoghi impedimenti sono stai eretti per sviare gli organi dell’olfatto e
del gusto. Abluzioni, profumi … essenze mistificatrici. In effetti, anche l’olfatto che è stato ed
in parte è ancora il prezioso custode della nostra salute, che ci comunica la presenza di cibi
dannosi e ci permette di individuare quelli più gustosi, mai come oggi è stato ingannato. Oggi
la mortificazione dell’Olfatto e del Gusto è addirittura oggetto di pianificazione generalizzata.
Su questa via, l’industria chimica sforna ogni anno numerosi preparati tendenti ad alterare
le caratteristiche organolettiche dei prodotti destinati all’alimentazione umana. Rende così più
agevoli i tentativi dell’industria alimentare di propinarci i risultati di ancor più grandi
diavolerie derivanti da manipolazioni genetiche, allevamenti iperintensivi, trasformazioni,
elaborazioni, conservazioni di ciò che madre natura ancor oggi tenta di donarci in quantità
sostenibili ed in precise stagioni. Vengono così avvilite ed appiattite le caratteristiche
organolettiche dell’alimento e noi veniamo sfamati, anzi ingrassati, ma contemporaneamente
danneggiati sotto il profilo sanitario e privati delle nostre più belle usanze alimentari.
Vengono in definitiva minate le basi stesse delle nostre tradizioni culturali.
Come se ciò non bastasse, altre diavolerie ci tendono l’agguato. Concorrono infatti a farci
apprezzare i prodotti della gastronomia oltre all’olfatto ed al gusto anche altri sensi: quello
della vista e quello del tatto, definito in senso lato. Nello stesso modo agiscono poi numerosi
altri fattori, oltre che una preliminare e mai troppo approfondita conoscenza del cibo che ci
apprestiamo a degustare: le sue origini, le materie prime che lo costituiscono, la sua storia
evolutiva, il suo ruolo nello sviluppo della civiltà a cui appartiene, nonché particolari ricordi
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Dr. Livio Dorigo, Presidente del Circolo di Cultura Istroveneta “Istria”
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emozionali strettamente personali che il cibo evoca sono altri elementi della “fisiologia del
gusto”.
Ma l’udito?
Dicono che la trasformazione del foraggio fornito alle vacche, soprattutto nella sua ultima
fase, la produzione del latte, si realizzi in modo armonico, a suon di musica.
Fa ridere, ma non ridiamo troppo: per noi uomini, che sappiamo di aver psiche articolata in
conscio, inconscio e subconscio, l’armonica, completa e delicata sollecitazione dei sensi
rappresenta la condizione ideale perché un cibo diventi nutrimento. Sempre più spesso e
supinamente accettiamo invece di mangiare in locali sempre più capienti, costretti ad
assumere posture irrazionali, torturati da luci folgoranti, che si assommano spesso a frastuoni
tremendi. La pressione è così in continuo aumento, l’adrenalina ci secca le fauci privandoci
della saliva, strumento fondamentale della degustazione e della digestione; siamo obbligati ad
esaurire le nostre esigenze degustative e le nostre capacità digestive tra un primo piato ed un
secondo che non arriva mai, affiancati da commensali urlanti che pretendono di farci
conoscere la storia universale e la loro personale in mezz’ora.
E per parteciparvi un’esperienza dettagliata su ciò che mina alle basi la nostra cultura
porterò alla vostra attenzione le aggressione che via via vengono perpetrate nei confronti di
uno dei prodotti più nobili della nostra tradizione, quasi un salvacondotto, una identificazione
delle genti e delle loro tradizioni agricole e gastronomiche: il prosciutto crudo, o meglio i
prosciutti crudi.
L’isolamento geografico e la ricchezza del suo patrimonio genetico ha permesso alla
specie Sus scrofa e poi a Sus scrofa domestica di adattarsi a diversi microclimi diffondendosi
sul territorio e di differenziarsi in numerose razze e sottorazze (in Italia se ne sono contate
oltre ad 800), esaltate poi dalle influenze socioeconomiche e culturali delle rispettive
popolazioni umane.
Questa ricchezza genetica testimonia la quasi inesauribile plasticità della specie suina e
delle sue capacità di adattamento alle diverse realtà ambientali, socioeconomiche ed agricole
a sui è stata indotta a confrontarsi. Si sono manifestate così le tipicità dei tagli suini,
sapientemente esaltate dalle differenti culture gastronomiche ed alimentari locali. È accaduto
così anche per il suo taglio più nobile: IL PROSCIUTTO.
E così, i suini parmigiani, alimentati con il siero residuo della lavorazione del formaggio
grana, regalano il prosciutto dolce di Parma, preziosamente influenzato nella fase di
stagionatura dai particolari climi di Langhirano. Tra quelli della nostra regione spiccano i
prosciutti di S.Daniele, di Sauris, di Cormons, e così via, fino a quello del Carso, ai prosciutti
istriani e a quello dalmato.
Sus scrofa non ha avuto tuttavia uguale accoglienza presso tutti i popoli del nostro pianeta
Mediterraneo: le culture medio orientali in particolare, considerandolo animale immondo,
solo perché antagonista alimentare dell’uomo (si ciba infatti degli stessi nostri alimenti), lo
hanno messo al bando.
Analisi paleontologiche poi non lo annoverano neanche tra i principali produttori di
alimenti proteici presso le popolazioni Pelasgiche dell’Istria: gli ISTRI.
Nell’Istria però ha sempre rappresentato la «MUSINA» delle famiglie contadine,
utilizzando come suo alimento, alla pari che in altri siti, i residui delle produzioni agricole ed
alimentari delle comunità locali.
Oggi esigenze legate prevalentemente al profitto hanno cancellato dal mondo zootecnicozoologico quasi tutte le razze suine diffondendo ovunque le razze nordiche:la Landrace e la
Larga White.
L’alimentazione e le condizioni cosiddette «razionali» di allevamento, che umiliano la
complessa ed assai sviluppata estesiologia del suino con ripercussioni talvolta negative sulle
sue stesse produzioni, si sono uniformate su ampi strati del territorio. La lavorazione delle
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carni, sottratta all’influenza ambientale attraverso l’utilizzo uniforme di temperatura, umidità
e ventilazione, ossia azzerando l’azione del tanto decantato clima ha di fatto permesso di
differenziare la produzione delle salumerie e del prosciutto in particolare quasi
esclusivamente in base alle etichette ed alla tolettatura superficiale. Eccovi così serviti i
prosciutti di Parma, di Dan Daniele, ecc…: DOC.
E quello istriano? È forse il più fortunato!
Le varie razze di suini dell’Istria sono state anch’esse soppiantate dalle invadenti Landrace
e Larga White, ma la lavorazione delle loro carni ad iniziare dalla macellazione, che qui
preferiremmo identificare come SACRIFICIO, ha conservato sostanzialmente le
caratteristiche tradizionali.
Depilazione con il fuoco o con acqua bollente: due derivazioni culturali? Salatura a secco o
in salamoia? Numerose varianti nella concia. L’uso di pressare il prosciutto con un peso è
però una costante. Il suino viene sacrificato nei mesi freddi. Era il salvadanaio famigliare e
costituiva anche un apporto di vitamine quando ormai le verdure fresche erano da tempo rare
o finite e la dieta era ormai rappresentata da granaglie e patate. Allora il fegato ed il sangue
del suino erano anche preziosi riferimenti vitaminici e oligominerali.
Il freddo rappresenta anche il principale strumento di conservazione delle carni, ed il
prosciutto salato a secco o in salamoia, sottoposto a pressione meccanica per allontanare
ulteriori residui di umidità, viene esposto a correnti d’aria fredda orientando le aperture dei
locali in direzione del vento secco e freddo di N.E. Poi la stagionatura in cantina. Qui fanno la
loro comparsa le muffe, muffe verdi, parenti dei preziosi penicilli, custodi anche della salute
del prosciutto. È proprio qui che si incontra e si sposa la cultura celtica del suino con quella
mediterranea dell’utilizzo dei fermenti nella preparazione e conservazione dei prodotti
alimentari come vino, pane, formaggio, ecc.
Qui il prosciutto non ha ancora etichette.
È fortunato a non esser ancora prosciutto DOC.
Il prosciutto istriano come quello del Carso si propone ancor oggi come tipico figlio della
bora, di un terreno aborrito dall’acqua e frutto della nostra tradizione.
Sapientemente asciugato al vento come un tempo, successivamente protetto dai preziosi
penicilli conserva ancor oggi la tipica fragranza di sempre.
Lavorato con sapienza, si può distinguere da tutte le altre produzioni ormai uniformate ed
offerte ad un gusto massificato e disattento.
Al taglio il nerbo e la consistenza sono le caratteristiche principali della sua personalità; si
potrebbe così pensare ad un prodotto stopposo (si usa dire «da tajar co la manera»), ma questa
impressione viene subito contraddetta dal suo lento sciogliersi tra la lingua e palato che
permette di valutarne appieno e conservare a lungo tutte le sfumature gustative. Queste
esaltano al massimo le caratteristiche organolettiche della carne di suino, talmente preziose da
giustificare le nobili attenzioni che alla produzione di questo taglio vengono prodigate ed a
noi restituite per appagare al massimo le nostre esigenze sensuali.
Spesso una fetta di prosciutto viene presentata avvolta ad un grissino, oppure a Trieste
come «rodoleto», accompagnato da una fettina di pane bianco. Sono accostamenti originali ed
eleganti, ma veicoli poco adatti a legare con il PROSCIUTTO ed esaltarne il sapore: poca
mollica e tanta crosta consistente e caramellata producono un bolo alimentare disomogeneo
sia sotto il profilo fisico meccanico che sotto il profilo chimico. In esso finisce per prevalere e
sovrastare la componente glucidica; infatti la ptialina salivare componendo gli amidi del pane
dà luogo alla formazione di zuccheri il cui sapore assai dolce mortifica quello del prosciutto,
sopratutto nelle sue versioni più «gentili».
Meglio si adatta allora il pane di segale, di derivazione nordica, oppure il pane di
campagna di qualche giorno, quando la sua trama comincia ad assumere la giusta consistenza
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ed in esso i residui della fermentazione alcoolica incominciano ad acquistare sfumature
leggermente acidule che smorzano, rendendo mite ed amabile, il suo sapore zuccherino.
Ed i vini ? Un buon Malvasia va bene, ma forse soddisfa troppo rapidamente. È assai
meglio allora affidarsi ad un corposo Refosco, in grado di esaltare per contrasto la
combinazione, rendendo il palato disponibile ad un ulteriore assaggio.
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La stazione di Campomarzio: la porta di Brandeburgo triestina che forse non si
aprirà mai.
Abbandonata l’Istria, ogni qualvolta avevo l’occasione di soggiornare a Trieste, mi
capitava di ritrovarmi nei pressi di Campomarzio senza alcun motivo apparente e le prime
volte senza accorgermi di come vi ero giunto. Fino a poco tempo fa era ancora aperto il bar
della Stazione, lì prendevo una birra o un caffè: era come dare un saluto alla mia terra.
Quando si arrivava a Trieste con il treno, la stazione di Campomarzio era ancora Istria:
scesi i cinque scalini dell’atrio, si entrava nella grande città.
Anche quando si giungeva dal mare la nave attraccava lì vicino, nei pressi della sacchetta.
La sensazione che si provava era però assai diversa. Ciò accadeva forse perché il mare era
stato da sempre sentito come collegamento tra le cittadine della costa e conservava questo
ruolo anche confronti della grande città. Oppure era la consuetudine che si aveva con queste
forme di viaggio ad offuscare momentaneamente l’idea del distacco.
Per l’Istria il treno era un mezzo di trasporto relativamente recente, ma negli ultimi tempi
veniva usato con sempre maggiore frequenza, soprattutto dopo che accanto al tracciato
originario venne realizzato ed aperto al traffico il tronco Erpelle – Trieste. Eliminando così il
giro vizioso Divaccia – Aurisina – Diramare, esso riduceva infatti il percorso Trieste – Pola
dai 167 km originari a soli 130. La successiva introduzione della littorina aveva peraltro
accorciato, dimezzandoli, i tempi del percorso. Il servizio era utilizzato soprattutto per i
collegamenti dell’Istria interna.
Il suo tracciato non era studiato per soddisfare le esigenze civili, ma piuttosto quelle
militari. Collegava infatti la piazzaforte di Pola con l’interno dell’Impero e la lontananza dalla
costa la metteva al riparo da eventuali incursioni nemiche provenienti dal mare. Anche per
questa originaria impostazione, la sua entrata i funzione non diede però impulso alcuno allo
sviluppo sociale della parte interna della penisola: Canfanaro, Gimino, Pisino, Castel
Lupoliano, Erpelle e Cosina, così erano e così sono rimaste. Più utile e più frequentata perché
voluta e reclamata con forza da tutto il popolo dell’Altra Istria era invece la Parenzana alla cui
realizzazione contribuirono, anche finanziariamente, molti istriani.
Essa collegava i paesi e cittadine dell’interno a quelli della costa di Parenzo e Trieste e
successivamente, con il tronco Parenzo – Canfanaro, Pola avrebbe dovuto quindi collegare i
due grandi mercati di consumo con la più importante zona di produzione di prodotti agricoli
della Penisola.
Inizialmente il suo capolinea triestino era rappresentato dalla stazione di S.Saba, ma la
corsa fu prolungata fino alla Stazione di S. Andrea (Campomarzio), la più importante di
Trieste, cui giungevano le corse delle ferrovie statali. Questo prolungamento fu realizzato a
beneficio degli istriani in arrivo, che sarebbero così giunti con il treno fin dentro Trieste, nel
cuore della città, con poca spesa, maggior comodità e minor perdita di tempo. Anche per i
triestini tuttavia sarebbe stato più agevole raggiungere la Stazione di S. Andrea e servirsi della
nuova linea nei giorni domenicali e festivi.
Approvato il progetto, i lavori iniziarono nel luglio 1900 ed il viaggio inaugurale si
effettuò il 15 dicembre del 1902. In questi pochi mesi furono effettuati gli espropri dei terreni,
realizzati i necessari chilometri di percorso, 9 gallerie (per complessivi 1.530 metri), 16 ponti,
6 viadotti, 538 passaggi a livello, 16 stazioni. La ferrovia collegava Trieste, Villa Decani,
Capodistria, Isola, Pirano, Buie, Grisignana, Montona, Visinada, Visionano, Parenzo. Il
tornco Parenzo – Canfanaro e quindi il collegamento con Pola non fu mai realizzato. La sua
vita fu breve.
In altri paesi ed in particolare nella Svizzera la strada ferrata è invece stata sempre tutelata
anche per una valutazione complessiva dei costi e dei benefici generali.
Ancora oggi si possono vedere i lucenti trenini rossi percorrere le sue contrade più remote.
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Meravigliosa è la linea che collega la Valtellina con il Cantone dei Grigioni, la Tirano –
Coira, con un percorso di 145 km, 53 gallerie, una fermata a quota 2.256: costo a. r. 127 mila
lire il biglietto di 1a classe.
In altri paesi invece, inseguendo logiche di costi e benefici meno attente all’ambiente, a
decorrere dagli anni trenta, il trasporto su gomma, come si chiama oggi l’utilizzo
dell’automobile, ha definitivamente soppiantato la rotaia.
Sono curiosi poi anche alcuni episodi relativi alla dismissione della «Cara Parenzana» …
A distanza di mezzo secolo dalla messa a riposo della ferrovia istriana, sono sempre più
quelli che la rimpiangono e che oggi vorrebbero farvi nuovamente ricorso; e ciò non per pura
bizzarria o per il vezzo di andar contro corrente, ma per la piacevole tranquillità offerta da un
breve viaggio in ferrovia in confronto allo stress del viaggio in macchina, la libertà di godere
il paesaggio o una buona lettura, e non ultimo, la possibilità di evitare le code interminabili
che spesso inspiegabilmente si formano sui confini destinati a scomparire. In altri paesi alcuni
tratti ferroviari già in disuso sono stati riattivati, magari trasformati in metropolitane a cielo
aperto per il collegamento di centri abitati viciniori, o riattivate solamente per alcune
occasioni particolari; si è comunque avviata una tendenza che, per i vantaggi che comporta, è
auspicabile prenda sempre più piede.
Anche dalla stazione di Campomarzio, trasformata in museo ferroviario, è partito qualche
treno della nostalgia. Probabilmente verranno ripristinate anche le grandi volte liberty rimosse
negli anni Quaranta, ma quasi certamente un regolare servizio ferroviario non verrà più
ripristinato. La Parenzana, che in passato ha sicuramente svolto un’energica funzione di
collegamento per passeggeri e commerci con i centri che serviva, è stata messa in disuso alla
fine degli anni Trenta. Al contrario, oggi potrebbe rappresentare uno strumento per il rilancio
socio economico della zona che un tempo serviva, collegandola alla grande città. Nonostante
numerosi manufatti siano ancora perfettamente conservati, la «Parenzana» tuttavia non potrà
esser più riattivata; il suo percorso infatti è stato ormai invaso da agglomerati urbani ed altri
insediamenti: ci si era veramente rassegnati al peggio.
L’Istria tuttavia non si è arresa e non finisce neanche qui di sorprenderci.
Le Amministrazioni dell’Alto Buiese hanno deciso recentissimamente di riaprire alcuni
tratti della vecchia ferrata per ora solo al traffico pedonale, in seguito come pista ciclabile. Se
porzioni via via più cospicue del vecchio tracciato della gloriosa «Parenzana» potessero
essere opportunamente attrezzate nelle tre Repubbliche in sui si dipana, esse potrebbero
essere percorse anche a cavallo o sui caratteristici carri dei cici, trainati dagli instancabili
mussi e rappresentare un importante strumento di visita alla regione nel quadro di nuove
forme di turismo. Collegati convenientemente a strutture agrituristiche, questi percorsi
naturalistici potrebbero anche creare una rete alternativa alla viabilità ordinaria, utilizzando
anche i tradizionali tratturi percorsi dai pastori Cicci che collegano l’Altopiano della Cicceria
con la costa occidentale e quella del Golfo del Quarnero e la linea ferroviaria che attraversa
gran parte di questo altopiano.
Ficcare il naso in biblioteca permette di visitare il passato, di fare la sua conoscenza di
prima mano, di approfondire tematiche, di scoprire talvolta meravigliose intuizioni dei nostri
predecessori ancora non utilizzate, cadute nell’oblìo; spesso non si fa caso a queste riscoperte;
vengono solamente censite; contingenze particolari poi le riportano nitide davanti agli occhi
in tutto il loro valore e significato.
È accaduto così pure per l’ape dalmatica, illustrata dalla relazione tenuta dal Rev. Don
Giovanni Muscardin al X Congresso della Società agraria istriana e pubblicata sul giornale
della Società il 25 nov. 1877, intitolata «Ape e apicoltura nell’Isola di Cherso», relazione che
ci si augura possa esser pubblicata integralmente magari a puntate in qualche altra sede.
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Domenica 20 ottobre 1996 si è svolto a Gorizia il XV congresso internazionale intitolato
«Allevamento dell’ape regina».
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Ape carnica, sottorazza mediterranea, dalmatica o istriana?
«DOMACIA!»
Merito del caso o dell’intelligenza degli organizzatori, ha ottenuto risultati al disopra di
ogni più ottimistica previsione.
Le relazioni del croato Prof. Kesic, dello sloveno Prof. Zivic e di un esperto viennese,
nonché del nostro Gardi e soprattutto i successivi interventi del Prof. Frilli, del dott. Laurino e
del dott. Dorigo, pur sviluppando diversi aspetti del tema fondamentale, si sono incentrati su
unico punto: sulla necessità primaria di selezionare ceppi autoctoni, perché bene adattati
all’ambiente, perciò resistenti ad ogni tipo di insulto, malattie infettive comprese e quindi in
grado di darci produzioni ineccepibili anche sotto il profilo igienico sanitario. È questo un
fatto importante anche in previsione di una valorizzazione della specificità delle produzioni
mellifere anche per poter arginare e contenere ripercussioni negative nelle produzioni locali a
seguito di indiscriminate importazioni di mieli in conseguenza dell’applicazione delle recenti
normative CEE.
In particolare il prof. Kezic dell’Università di Zagabria, enunciando i programmi di ricerca
sulla selezione di Api regine e della produzione di ibridi, condotte presso quella Università,
illustra le caratteristiche della razza carnica presente nel territorio della Repubblica di Croazia
e delle sue sottorazze: la pannonica, la subalpina e la mediterranea,
L’areale di quest’ultima lambisce la costa dalmate, raggiunge le isole del Quarnero e si
diffonde in Istria, naturalmente su tutto il territorio della Penisola: nella sua parte croata, in
quella slovena e nella italiana: Muggia, San Dorligo - Dolina ma anche lungo tutta la costiera
di Trieste quindi anche sul Carso triestino.
È questo il NOSTRO IBRIDO, quello che il Muscardin voleva si chiamasse istriana e non
dalmatica e che Kesic classifica come sottorazza della carnica?
Un’ape diversamente chiamata ma insomma un’ape DOMACIA.
Sarebbe comunque interessante ed utile che le strutture competenti delle tre Repubbliche
sviluppassero un programma di ricerca congiunto per meglio precisare l’areale dell’ape
DOMACIA e le sue caratteristiche. Le risorse genetiche autoctone che la Natura ci ha affidato
devono esser gelosamente custodite ma prima convenientemente conosciute per esser poi
doverosamente affidate a coloro che verranno per la loro utilizzazione più opportuna. L’utilità
di questa ricerca congiunta viene suggerita dalla relazione del Rev. Muscardin.
Diceva infatti il Reverendo: «È invero la nostra ape forte di fisico organismo, robusto
corsaletto, assuefatta alla borra nelle giornate soleggiate sia in primavera che in autunno
volano ai lavori esterni non badando si a pure mezzo fortunale ne le piovicciole le trattengono
ordinariamente nelle case loro».
Adattate dunque all’ambiente tutt’altro che favorevole: venti umidi di scirocco, freddi e
secchi dal Nord-Est.
Negli anni Trenta vennero introdotto a più riprese le linguistiche più produttive, così come
dal ’45, fino al costituirsi delle Repubbliche di Slovenia e di Croazia, il nomadismo diffuse la
carnica subalpina. Le forti pressioni ambientali comunque pare abbiano privilegiato l’ape
autoctona, la «DOMACIA», ristabilendo così l’equilibrio primigenio.
Un’analisi dello sviluppo e dell’andamento della varroasi delle nostre zone ci permette poi
di rafforzare tali intuizioni.
Infatti, benché la malattia sia comparsa negli apiari del Carso ed in Istria, molti anni prima
che nel Veneto ed in Lombardia, e benché la lotta contro di essa non sempre sia stata condotta
in modo ineccepibile ed uniforme nelle plaghe appartenenti alle tre Repubbliche, negli ultimi
122
anni sembra non rappresentare quella gravità che ha assunto nelle province lombarde venete
ove viene allevata appunto la linguistica pura.
È possibile che il nostro ibrido abbia maggiori capacità di convivere con la varroa
che non le api appartenenti a razze pure? Al riguardo potrebbero esser fatte numerose
ipotesi e congetture; meglio sarebbe però a questo punto sviluppare adeguate indagini e
nel frattempo introdurre nella zona con grande prudenza materiale apistico prove
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INDICE
Presentazione...................................................................................... pag.
Prefazione.......................................................................................... pag.
Prefazione alla II edizione................................................................... pag.
Il problema dell'Istria è di attualità..................................................... pag.
I confini di una terra di confine......................................................... pag.
La casa del vicino brucia..................................................................
pag.
Prepariamoci agli incontri................................................................. pag.
Le api insegnano..............................................................................
pag.
Da Cherso al Carso..........................................................................
pag.
La foiba di Pisino...........................................................................
pag.
Il tallone d'acciaio è un tallone d'Achille............................................. pag.
Le produzioni primarie alla base di un armonico
sviluppo socioeconomico.................................................................. pag.
Ancora sui parchi............................................................................
pag.
Passando in treno lungo il lago di Lugano.......................................... pag.
Mangiar per vivere..........................................................................
pag.
Amaltea, nutrice degli dei................................................................... pag.
Ida, la vecchia capra........................................................................
pag.
Un albero di sasso............................................................................
pag.
Il sole in una goccia di miele.............................................................. pag.
Il ricambio della regina....................................................................... pag.
La stimolazione primaverile delle api................................................... pag.
Il bovino istriano, oggi boscarin......................................................... pag.
L'asino e il panda.............................................................................
pag.
La pecora dell'Istria..........................................................................
pag.
La pastorizia a Cherso......................................................................
pag.
Alcune curiosità e qualche consiglio
per i consumatori di carne suina......................................................... pag.
L'uovo e la gallina............................................................................
pag.
Il pane di campagna..........................................................................
pag.
Olio, miele, latte e formaggi ovvero la buona cucina
per imparare a conoscere la natura, amarla e rispettarla........................ pag.
Banchettando a Cherso per trovare serenità e pace.............................. pag.
David e Golia....................................................................................... pag.
Il prosciutto crudo: nel suo nome un grande equivoco......................... pag.
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68
72
74
77
80
83
86
88
91
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Rimane il ricordo............................................................................
I tratturi Sentieri di civiltà................................................................
Il formaggio di pecora nel comprensorio Cherso-Carso....................
La festa del formaggio pecorino a Grisignana..............................
Il germe dell’irredentismo in un “cugno” di formaggio...............
Vita di campagna ………………………………….....................
La festa della mietitura……………………................................
Tempo di vendemmia Quando la vespa cincia el gran ………...
Avviamento all’Apicoltura. Impariamo dalle api .......................
Prolegomeni all’estesiologia gustativa del prosciutto istriano........
La stazione di Campomarzio: la porta di Brandeburgo triestina
che forse non si aprirà mai............................................................
Ape carnica, sottorazza mediterranea, dalmatica o istriana? .........
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
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