adolfo sarti: gli anni della formazione

Transcript

adolfo sarti: gli anni della formazione
ADOLFO SARTI: GLI ANNI
DELLA FORMAZIONE
MILITANZA E IMPEGNO CULTURALE DELLA GENERAZIONE
POST BELLICA CUNEESE
DI
Ricostruire pensiero e azione di Adolfo Sarti
(Torino, 1928 - Roma, 1992) significa ripercorrere la storia generale del Cuneese - di cui fu
e rimane espressione politica eminente - dalla
seconda guerra mondiale al drammatico
declino dei partiti sorti tra lotta di liberazione
e dopoguerra. Tale ricostruzione pare sempre
più necessaria e urgente, per molteplici motivi.
In primo luogo incombe - ove già non sia in
massima parte avvenuta - la dispersione degli
archivi di enti pubblici e privati già protagonisti del confronto politico-amministrativo e
dell’azione conseguente dalle prime elezioni
amministrative postbelliche (marzo 1946) alla
litigiosa frantumazione della DC in diverse
sigle, organizzate secondo i mezzi via via
disponibili. In carenza di fonti dirette, lo
storico venturo dovrà ripiegare su documenti
meno affidabili: per esempio i giornali (la cui
rivelatività è nota a chiunque abbia fatto parte
di una redazione o vi abbia anche saltuariamente collaborato) e poi - faute de mieux - di
quelle ‘carte di polizia’ che, parte reperibili
presso le sezioni locali dell’Archivio di Stato,
parte al Centrale, rischiano di rimanere fra le
basi documentarie più ricche e continuative
per la ricostruzione anche del dopoguerra,
come già sono per l’Italia postunitaria.
A ultimo rimangono le ‘testimonianze’ dei protagonisti. Al riguardo va però constatato che,
quanto meno per il Cuneese, gli anni della
nascita (o rinascita) dei partiti risultano singolarmente poveri di memorialistica. Acclarata
da tempo la necessità di sottoporre a rigorosa
verifica anche le peraltro rare ‘ricordanze’
degli anni di guerra pubblicate all’ indomani
degli eventi, molte e maggiori cautele risultano
indispensabili nel maneggio di quelle edite
decenni dopo: generalmente frutto di lungamente studiate rivisitazioni del passato, con
tutti i tagli, gli oblii e le sopravvalutazioni
funzionali all’immagine che gli autori hanno
inteso lasciare di sé. Quanto ai ‘ricordi’
consegnati a interviste, lo spettacolo che talune
personalità già di primissimo piano nella storia
politico-istituzionale van dando da anni prova
30
•
R A S S E G N A N. 1 3
LUGLIO 2002
ALDO ALESSANDRO MOLA
Rassegna ricorda
lo statista cuneese,
in occasione del
decimo anniversario dalla
scomparsa.
Lo storico Aldo A.
Mola descrive
la formazione
politico-culturale
di una generazione
che dette all’Italia,
dal Liceo Classico
cuneese “Silvio
Pellico”, personalità
quali Adolfo Sarti,
Valerio Verra,
Franco Cordero…
Un mondo
inesplorato, di
straordinaria
ricchezza.
che esse servono più alle cronache della
sopravvivenza sulla scena che alla ricostruzione
della storia.
La ricerca su Adolfo Sarti si colloca in tale
non agevole ambito. Per la sua sola parte
iniziale - dall’ inizio della militanza del movimento giovanile della Democrazia cristiana
all’elezione alla Camera dei deputati (19451958) - essa presuppone ricerche ancora tutte
da intraprendere e l’individuazione degli eventi, in massima parte generali, talora anche
locali, che scandirono i tempi della formazione
della generazione affacciatasi all’ impegno
politico nel dopoguerra, segnata a fondo, come
ovvio, dalla cruda esperienza della guerra
civile, sia pure vissuta all’interno di una città
che ne rimase meno travolta rispetto alla
generalità di altri capoluoghi di provincia
del Piemonte, quali, per esempio, Alessandria
e Novara, a tacer di Torino...
Del giovane Sarti va detto che “in principio fu
il Liceo classico ‘Silvio Pellico’”, la cui storia
auspichiamo venga scritta fin tanto che ne
rimangono vivi e vigili quanti crebbero nelle
aule della sua antica sede: affacciata su
piazzetta Santa Chiara, con tanto di lapide
che ricorda come in quegli spazi, già sacri alle
clarisse, avessero preso corpo i Cacciatori
delle Alpi, fugacemente passati in rivista da
Giuseppe Garibaldi alla vigilia della seconda
guerra d’indipendenza (1859). Due passi dalla
Biblioteca Civica - diretta da Gabriella,”Lalla”,
Romano e poi da Aldo(ne) Quaranta, formalmente in servizio anche quando da mesi si
sapeva che era al comando della banda
partigiana di Valle Gesso, dedicata a Ildebrando,
“Ildo” Vivanti - e dagli altri luoghi nei quali si
condensava la memoria della città (il Palazzo
del Governo, all’ imbocco di via Roma,
all’epoca comprensivo dell’Amministrazione
provinciale e del Provveditorato agli Studi;
il Municipio, qual era detto il Palazzo civico,
le chiese ‘storiche’, da Santa Maria,
Sant’Ambrogio, San Sebastiano al Duomo;
il popolatissimo Seminario vescovile: altra
‘istituzione’ in attesa di una storia adeguata...),
il Liceo era, senza retorica, un vero e proprio
tempio della cultura. E non solo per il ricordo
del grande linguista bolognese Alfredo
Trombetti, ricordato dalla lapide che faceva da
stimolo a emularne la gloria, ma anche per il
livello della docenza, tanto più in una città
che non era “grande sede” e quindi non fungeva da pedana immediata per il balzo dalla
cattedra liceale alla libera docenza universitaria e all’ordinariato, secondo l’iter all’epoca
abbastanza consueto (fu quello, per esempio,
dello storico Nino Valeri ), ma nondimeno si
valeva di professori che gareggiavano nel
tener viva la nobile tradizione dei decenni
precedenti, quando vi avevano insegnato - fra
altri - Gioele Solari, Balbino Giuliano (poi
sottosegretario alla Pubblica Istruzione e primo
ministro dell’ Educazione Nazionale ), Alfredo
Poggi, Alfonso Maria Riberi, Michele Pellegrino,
Michelangelo Fulcheri e, sia pure per breve
ora, un giovane di grande talento quale
Spartaco Beltrand.
Negli anni durante i quali Sarti vi si formò,
il ginnasio-liceo “Pellico” annoverò fra i suoi
professori il giovane Luigi Bàccolo, giuntovi
con la gloria di allievo della Normale di Pisa
e di una monografia su Luigi Pirandello lodata
da Benedetto Croce, il matematico Lorenzo
Gondolo, Umberto Boella, già autore di saggi e
traduzioni, il grecista Leonardo Ferrero, Adolfo
Ruata, Giovannino Fassio, docente di storia e
filosofia, e nativo di Piasco (classe 1918) ma
orgoglioso della sua origine valdostana , Luigi
Pareyson, che vi pronunziò la “promessa
solenne” il 19 ottobre 1940 e il previsto “giuramento” dopo i due anni di straordinariato,
superati con motivato plauso. Preside del Liceo
era Sebastiano Gasco, già docente di scienze
naturali, allora e poi venerato “come un padre”
dagli allievi, che affettuosamente ne coglievano
la ricchissima umanità, al di là dell’austera
fisionomia di studioso della Terza Italia.
Pressoché unica testimonianza, filtrata quale
‘romanzo’, del difficile passaggio attraverso i
due ultimi anni di guerra - che per Cuneo fu
anche di “lotta di liberazione” - sono le
pagine di Franco Cordero, L’Opera (Milano,
Bompiani, 1975, precedute da Viene il re):
suggestiva evocazione dell’atmosfera che si
respirava al Collego San Tommaso di Cuneo,
dominato dalla ieratica e pragmatica figura di
“padre Labrionitis”. I ‘Tommasini” erano un
mondo di cui a lungo ci parlò anche Aurelio
Verra che lo frequentò con il fratello minore,
Valerio, e per breve tempo fu a sua volta
‘supplente’ nelle aule del “Pellico”.
A parte quel ricetto, la città respirava all’unisono
con il regime dell’epoca, ch’era poi una
diarchia, in seno alla quale nell’ottica cuneese
prevalevano il Re e i principi sabaudi, usi a
trascorrere lunghe vacanze nelle diverse residenze disseminate da Pollenzo a Racconigi e
alle valli, in specie a Sant’ Anna di Valdieri
e a San Giacomo d’ Entraque... Ne scrissero,
da diverse prospettive, Giorgio Bocca e Gino
Giordanengo. Proprio quella prevalenza
rendeva quasi indolore l’adesione dei pubblici
impiegati al PNF e alle associazioni e ‘opere’
connesse, ovvia e generalizzata. Era il caso
della scuola, il cui personale - presidi, docenti,
amministrativi, bidelli...- era tutto tesserato al
PNF. Facevano eccezione i sacerdoti: per
esempio il teologo don Lorenzo Moncallero,
docente di storia e filosofia al “Pellico”, aderente alla sola associazione fascista della scuola. Già iscritto al Gruppo Universitario Fascista
(GUF), anche Luigi Pareyson risultava nelle
file del PNF, e dell’ AFS, come Leonardo
Ferrero, Adolfo Ruata e altri che si sarebbero
poi distinti nella promozione del nucleo
cuneese del Partito d’Azione e nella lotta di
liberazione e i cui nomi spiace non veder
neppure menzionati da pur corposi e presuntivamente ‘esaustivi’ Dizionari della resistenza (1).
Quando, tra le fine del 1942 e l’inizio del 1943
- ma più fattivamente nella tarda primavera del
1943, quando s’ebbe notizia della catastrofe
dell’ARMIR sul fronte sovietico-, s’avvicinò la
31
•
R A S S E G N A N. 1 3
LUGLIO 2002
resa degl’italo-germanici in Tunisia, si prospettò l’imminenza dell’attacco anglo-americano al
territorio metropolitano e fu chiaro che,
malgrado le molteplici pressioni, Mussolini
non riusciva a ottenere da Hitler né la pace
separata con l’URSS né lo sganciamento
dell’Italia dall’ormai rovinoso e poco produttivo tripartito (basti ricordare, al riguardo, che il
Giappone non entrò in guerra contro l’URSS,
pur mostrandosi esigente nei confronti dell’
impegno bellico italiano anche su quel fronte),
anche a Cuneo e in pochi altri centri della
provincia s’intravvidero i primi segni di cesura
tra l’opinione organizzata e il regime.
Proprio quanti più intendevano fare dovettero
circondarsi di tutte le possibili cautele, nella
convinzione che il fascismo fosse ancora
profondamente radicato: anzitutto nelle cosiddette ‘masse popolari’, tenute insieme dal
Dopolavoro e dalla miriade di tentacoli dell’
organizzazione parapartitica. Un giovane
liceale del tempo doveva pertanto cercare in sé
stesso - o nel riserbo della famiglia - le ragioni
delle proprie scelte. Il “Pellico” non mancò
tuttavia di incidere nella formazione dei propri
allievi se il 4 febbraio 1944 il Capo della
Provincia di Cuneo, Paolo Quarantotto, doveva
comunicare al segretario particolare del duce,
Eugenio Dolfin, i modesti frutti dell’ “opera di
propaganda” da lui avviata “tra gli studenti dei
vari Istituti, in riunioni, tenendo conversazioni,
magari con veri e propri contraddittori, in
modo da agganciarsi alla massa studentesca,
e in maniera indiretta, dei Professori:
“Si è anzitutto rilevato che indistintamente, in
tutti gli Istituti dove sinora si sono svolte tali
conversazioni, l’intero corpo degli insegnanti,
tranne poche eccezioni, ha chiaramente
dimostrato la sua mentalità avversa al governo
attuale - era la sconsolata conclusione di
Quarantotto -. Dove l’azione dei Professori
si è potuta svolgere più in profondità, come
ad esempio al Liceo di Cuneo, molti studenti
si sono dimostrati decisamente ed apertamente
contrari alla stessa idea di Patria ed hanno
espresso , in violenti contraddittori, tutto il
fiele ed il livore che la famiglia e la scuola vi
hanno saputo infondere”. Un’ammissione di
sconfitta bruciante, poco lenita dai consensi ,
almeno apparenti, ottenuti all’Istituto
Magistrale e in altre città, a cominciare da
Alba. Al riguardo il rimpianto ingegnere Gigi
Monti ci lasciò ricordi di prima mano.
Anche dinnanzi a tale constatazione, si verificò
in Cuneo il “giro di vite” contro le persone
32
•
R A S S E G N A N. 1 3
LUGLIO 2002
sospettate di attività antirepubblicana: il fermo
del tipografo “mai iscritto al PNF” Arturo
Felici e dell’ avvocato liberale Guido Verzone
(poi prefetto di Cuneo alla liberazione),
l’arresto di Leonardo Ferrero, da Cuneo
trasferito alle ‘Nuove’ di Torino e detenuto sino
al giugno seguente, la sospensione di Luigi
Pareyson dall’insegnamento e dallo stipendio:
misura poi revocata (10 giugno 1944) e mutata,
dietro ricorso dell’interessato, nell’assegnazione
“d’ufficio” al liceo di Correggio, mai raggiunto
invero da Pareyson, che riuscì a trascorrere il
1944-45 nella più popolosa Torino, ov’era
agevole riparare nell’anonimato. Proprio il suo
allontanamento dalla cattedra suscitò l’indignazione degli allievi, che nei giorni 28 e 29
marzo si astennero alle lezioni, causando una
inchiesta da parte del Provveditore.
A sua volta occhiutamente sorvegliato fu il
docente di storia e filosofia Giovannino Fassio,
sul cui conto erano state chieste informazioni
riservate anche ad Alessandria - donde
provenne, “straordinario”, al “Pellico” - e che
giunse sino al 1943 senza che ne fosse
registrata alcuna adesione né al PNF, né
all’ AFS: caso invero rarissimo di gioco a
rimpiattino fra un professore di spiriti liberali
e dichiaratamente monarchico e i filtri del
regime, nelle cui maglie erano rimasti
impigliati docenti non meno riluttanti alla
disciplina coatta del fascismo post-staraciano:
ancora più esigente e pervasivo, sotto il profilo
ideologico e della mobilitazione. rispetto a
quello degli anni del quieto ‘federale’ Attilio
Bonino.. Come s’è detto, i liceali cuneesi individuarono nello studio la via più sicura per
riaffermare la propria autonomia etica e intellettuale. Era anche il modo più giusto per
prepararsi a quel dopoguerra che quasi tutti
davano ormai per certo, nell’illusione che gli
anglo-americani, giunti a Roma il 5 giugno
1944 e sbarcati in Normandia il giorno
seguente, entro l’estate sarebbero di certo
giunti in Liguria. Non pochi profittarono delle
circostanze propizie saltando a pie’ pari la
terza liceo, sì da iscriversi all’Università e
sottrarsi ope legis a un servizio militare che,
dati i tempi, la generalità delle famiglie considerava la peggiore fra le sciagure possibili.
Con scelta singolare, Franco Cordero saltò
invece la seconda liceo, presentandosi all’ammissione alla terza: un impegno al quale
accompagnò anche qualche lezione d’un corso
d’inglese avviato ma presto sospeso ai
Tommasini.
Al termine dell’anno scolastico 1944-45 anche del figlio di un notabile della nascente
Adolfo Sarti conseguì la maturità classica, con
votazione lusinghiera: 8 decimi in italiano,
7 in latino, 8 in greco, 8 in storia, 7 in filosofia,
in matematica e fisica, 9 in storia dell’arte:
qualche punto sotto Franco Cordero che
meritò 8 anche in filosofia, 9 in matematica
e scienze ma solo 8 in arte. Rinviato a ottobre,
il figlio del console della Milizia, Oreste
Sciavicco, venne respinto, mentre le figlie del
Capo della Provincia, Franca ed Enrica Galardo,
vennero addirittura “epurate”, vale a dire
escluse dalla valutazione.
Alla luce della linea tenuta negli scrutini e agli
esami dal corpo docente cuneese risultava
eccessiva la proposta, affacciata da Luigi
Pareyson nel Progetto di riforma della scuola,
vergato nella clandestinità e dato alle stampe
poco dopo la liberazione, di annullare del tutto
l’intero biennio 1943-45 o almeno quel
1944-45 durante il quale egli era stato escluso
dall’ insegnamento. Invero, non era stato
affatto un anno perduto. Né per i professori,
né, meno ancora, per i giovani, che vi appresero a “divenire vecchi”, come auspicava
Benedetto Croce. Lo si vide proprio dall’entusiasmo con il quale i liceali affrontarono il
clima aperto anche in Cuneo dalla liberazione:
nascita dei giornali, vita di partito, varo di
circoli culturali, possibilità d’intraprendere un
ampio e profondo “esame di coscienza”, molto
oltre talune improvvide e non per caso rapidamente sconfessate misure epurative, messe
in atto, per esempio, ai danni del preside del
liceo “Pellico”, Sebastiano Gasco, e del professore di matematica, Lorenzo Gondolo.
Altro però accadde, come Franco Cordero
rievocò registrando i voti tra l’uno e l’altro
“compito in classe”: uno spazio drammaticamente segnato dai morti ammazzati. Al ragazzo
che rassegnatamente motivava un’esecuzione
sommaria (“Era una previsione basata sulla
conoscenza delle imprese di quel signore”) il
gesuita padre Labrionitis replicò: “Non spetta
a te giudicare(...) speriamo che i vincitori non
imitino i loro avversari”. Cordero se ne ricordò
anche quando scrisse la corposa ‘biografia’ di
Girolamo Savonarola. Gli studenti di diciassettediciotto anni non avevano vissuto l’esperienza
dei loro maggiori, avviati ‘in montagna’ l’estate
del 1944 e “ritirati” dalle famiglie quando,
in ottobre, fu chiaro che agli anglo-americani
non avevano alcuna fretta di ‘liberare’ l’Italia
settentrionale. Era stato il caso, sarcasticamente commentato da Dante Livio Bianco,
Democrazia cristiana. Per di più, da poco insediato al governo di una Francia in pezzi e
dilaniata all’efferato regolamento dei conti
con i collaborazionisti, il generale Charles De
Gaulle disconobbe l’armistizio dell’Olgiata
del giugno 1940 e dichiarò che “Marianne”
si considerava in guerra contro l’Italia.
Non la Repubblica sociale italiana. Proprio
l’Italia. De Gaulle voleva almeno l’Elba, la
Valle d’Aosta, una larga fascia transfrontaliera.
S’accontentò poi dei valichi dai quali erano
poco entusiasticamente scesi in Francia i
reparti del Regio esercito nel remoto 1940.
I veri e immodibificabili oneri del trattato di
pace - tutti già contenuti negli armistizi del 3
e 29 settembre 1943 - vennero però alla luce
solo dopo il 2 giugno 1946.
Così la generazione dei giovani che da pochi
mesi s’era affacciata alla vita politica dovette
farsi carico del passivo d’una guerra decisa
da un regime morto e sepolto, fatta propria
dai governi Badoglio, Bonomi, Parri, e che ora
stava per essere sottoscritto da De Gasperi.
Per i giovani cuneesi quel passaggio fu traumatico. Sarti era nato l’anno dell’ agognata
inaugurazione della ferrovia Cuneo-VentimigliaNizza. Scendere da Limone-Tenda al mare
significava passare in terra italiana. D’un tratto
le terre sino a poco prima familiari risultarono
proibite: un ‘buco nero’ nella memoria, negli
affetti, nelle speranze. La guerra era stata
davvero perduta. Occorreva risalire una
lunghissima china. Il “cammino del cinabro”.
Cuneo si era congedata dall’egemonia
liberaldemocratica - o giolittiana che dir si
voglia - con leggi elettorali differenziate,
il sistema proporzionale per la Camera dei
deputati, il maggioritario per i comuni e la
ripartizione in collegi mandamentali a turno
unico per i consigli provinciali. Sotto i tifoni
del gigantismo riformistico le Province vennero
ibernate, in attesa del decollo delle Regioni a
statuto ordinario, varate un quarto di secolo
dopo. Urgeva stabilire i veri rapporti di forza
tra i partiti sedenti nel Comitato Centrale di
Liberazione Nazionale ( “concerto a sei voci”,
come scrisse Giulio Andreotti) e del CLN Alta
Italia (uno di meno: vi mancava la Democrazia
del lavoro, tendenzialmente monarchica).
La verifica ebbe luogo prima con le elezioni
amministrative, poi con quella dell’Assemblea
costituente. Proprio perché sino a quel
momento ogni ‘partito’ contava per un sesto
o per un quinto era decisivo stabilire quale
33
•
R A S S E G N A N. 1 3
LUGLIO 2002
seguito elettorale avesse davvero ciascuno di
essi e, di conseguenza, quali maggioranze
dovesse rappresentare il nuovo governo
nazionale. In gioco erano la posizione
dell’Italia nel quadro della guerra fredda tra
USA e URSS, nettamente prospettata dal
discorso di Churchill a Fulton sulla “cortina
di ferro” scesa sull’Europa da Trieste a
Stettino: tragica profezia di un quarantennio
e più di sofferenze per popoli da molti secoli
avviati a esperienze di democrazia liberale.
Il diciottenne Adolfo Sarti non ebbe dubbi
sulla posizione da tenere. L’Occidente.
Fu una scelta immediata e definitiva. Per la
libertà. Anche per chi non aveva capito.
Anche per quanti non ne conoscevano ancora
il gusto. A cospetto di un quadro di spartizione
di poteri sulla base di rapporti del tutto astratti
- la pentarchia (o esarchia) ciellenistica - era
ovvio che un giovane prediligesse, per il
momento, l’adozione della proporzionale.
Strenuamente voluta dal mitico Luigi Sturzo,
la sua introduzione, al posto dei collegi
uninominali a doppio turno, un quarto di
secolo prima essa aveva messo a nudo la
fragilità dell’ egemonia giolittiana: somma di
accordi tra clans regionali, clientele di grandi
notabili, uso spregiudicato della macchina
statuale e amministrativa a disposizione dei
Presidenti del Consiglio/Ministri degl’ Interni
e della rete di prefetti, questori., commissari
di pubblica sicurezza... La proporzionale non
era solo una qualunque legge elettorale.
Faceva tutt’uno con l’avvento dei partiti di
massa, tante volte annunciati ma mai realizzati,
neppure durante il fascismo che fu per le masse,
molto più che di massa. Iscritto al movimento
giovanile della Democrazia Cristiana, Sarti non
aveva motivo di non condividere l’adozione
di quel metodo che avrebbe posto fine alla
ciellenistica commedia degli equivoci, poi tante
volte ripescata in altre sedi: i troppi ‘comitati
paritetici’ e i governi di solidarietà nazionale
che avvilirono l’Italia degli Anni Settanta.
Nelle elezioni dei consigli comunali del marzo
1946 il sistema proporzionale dette i frutti
attesi. I liberali ne uscirono a pezzi. Di rado
superarono il 10% dei suffragi. Quasi ovunque,
nel Cuneese, il PSI - che si riallacciava alla
tradizione riformistica di Serafino Arnaud,
Giuseppe Cavallera, Paolo Lombardo e parlava
attraverso Spartaco Beltrand e Domenico
Chiaramello - superò di molte lunghezze il
PCI. Pressoché azzerato risultò infine il Partito
d’Azione che anche - se non soprattutto - nel
34
•
R A S S E G N A N. 1 3
LUGLIO 2002
Cuneese s’era presentato e continuò a proporsi,
sino alla Costituente, quale “terza via” fra
socialcomunisti (uniti dal patto d’unità
d’azione) e “conservatori”. La cocente sconfitta
del PdA fu accolta con esultanza da chi, come
Sarti, non vedeva affatto la Democrazia cristiana quale blocco immobilistico o, peggio,
reazionario, incapace di esprimere tutte le
spinte innovatrici provenienti dal popolarismo.
Quest’ultimo ebbe voce nel settimanale della
Democrazia cristiana della provincia di Cuneo,
“La Vedetta”, tuttora in attesa di uno studio
approfondito e, perché no?, di un’antologia dei
suoi articoli meno caduchi. Nel 1946, quando il
foglio era al terzo anno di vita, tra i suoi collaboratori spiccavano l’avvocato Giovanni Campagno,
rappresentante della DC nella lotta di liberazione, già intrinseco di Duccio Galimberti, il
fossanese Luigi Bima, Giacomo Lombardi...
Nel loro novero spiccò subito, per acume oltre
che per ampiezza di orizzonti politico-culturali,
il diciottenne Adolfo Sarti, che il 18 gennaio
1946 vi affrontò il tema, delicato, dell’“assenteismo politico” dei giovani. In città, invero,
proprio dai banchi del Liceo erano usciti tre
concordi-discordi promotori dell’impegno
politico giovanile: Sarti stesso per i democristiani, Franco Cordero per i socialisti e Valerio
Verra per la gioventù del Partito d’Azione.
Sarti rilevò che la freddezza dei giovani nei
confronti della militanza andava spiegata
con le recenti scottature di cui essi erano
stati vittime negli anni passati, quando il
fascismo l’aveva imposta tramite l’Opera
nazionale Balilla e la Gioventù italiana del
Littorio, costringendo a riti opprimenti e
all’esibizione di entusiasmi artificiosi.
Di lì una generazione “terribilmente malata di
retorica”, che conduceva, ribaltata, alla “piccola filosofia del ‘carpe diem’ che non ha certo
rispondenze politiche. Il fascismo portò la
giovinezza italiana alla retorica dell’eroismo(...)
Temiamo seriamente che il nostro periodo
conduca a una retorica ancora peggiore:
l’apoliticità che è immoralità politica soprattutto da un punto di vista cristiano”.
La partecipazione alla battaglia per i primi
consigli comunali elettivi del dopoguerra
(marzo 1946), dell’Assemblea costituente e per
la scelta della forma dello Stato (2-3 giugno
seguenti) anche per la generazione sartiana
costituì terreno d’impegno qualificante.
Candidati democristiani per la Costituente in
provincia di Cuneo furono l’ex ministro d’età
giolittiana Giovanni Battista Bertone, monre-
(1) Troviamo singolare
che di Pareyson non
figuri neppure il nome
nei due corposi volumi
del Dizionario della
Resistenza editi da
Einaudi (Torino,2001)
,tanto più che vi ricorrono apporti di ricercatori cuneesi. Si tratta
di una sconcertante
amputazione della
memoria storica, tanto
più grave giacché si
accompagna al totale
oblio di altri antifascisti
cuneesi, quali l’avvocato
Felice Bertolino, già
deputato del Partito
popolare italiano,
candidato al Consiglio
comunale di Cuneo per
il Partito d’Azione nel
1946 e risultato
l’azionista più votato in
Piemonte in quelle
elezioni.
Il citato Dizionario
ignora inoltre Leonardo
Ferrero (menzionato una
sola volta e a sproposito)
e altri molti (Campagno,
Sidoli, lo stesso Toselli,
fugacemente ricordato
quale presidente del
CLN provinciale senza
spiegare come possa
essere giunto a una
carica tanto prestigiosa).
L’opera ignora la
generalità della pur
corposa saggistica edita
nell’ultimo quinquennio
sui vari aspetti degli anni
1943-45 nel Cuneese.
(2) Sarti è ricordato - e
fuggevolmente - quattro
sole volte in P .E.
TAVIANI, Politica a
memoria d’uomo,
Bologna, Il Mulino,
2002, ove, del resto,
Franco Mazzola neppure
è menzionato, a conferma che la “Granda” ha il
diritto-dovere di scrivere
in proprio la sua storia,
eludendo oblii e distorsioni del proprio passato.
galese, il fossanese Luigi Bima, sindaco di
Fossano, l’ex deputato del PPI Teodoro Bubbio,
sindaco di Alba, l’avvocato Giovanni Campagno,
ex internato politico, il contadino cuneese
Sebastiano Gaiero, l’ “operaio” Armando
Sabatini, l’avvocato saluzzese Emilio Villa,
sindaco della sua città, e il Presidente del CLN
provinciale e sindaco di Cuneo, ingegnere
Antonio Toselli: un ventaglio di personalità che
coniugavano il dopoguerra all’antico Partito
popolare italiano ed esprimevano la molteplicità dei volti del “partito nuovo”, come per
altro emergeva dall’ampio spazio dedicato dalla
“Vedetta” al Movimento femminile e a quello
giovanile. Tra i “problemi urgenti”, il 18 aprile
1946 G.Audisio tornò ad affrontare quello del
disiorientamento giovanile: era anche un modo
per prendere atto che questi non avevano
potuto avere spazio adeguato nella prima
tornata elettorale. Di lì il primato dell’impegno
nell’ambito del partito e, ancor più, nella
formazione delle nuove basi culturali sulle
quali radicare il rinnovamento democratico
del Paese, uscito dalla guerra economicamente
impoverito e politicamente lacerato dalla
dichiarata subordinazione del PCI (e del PSI
sino alla scissione di Palazzo Barberini, guidata
da Giuseppe Saragat) alle direttive dell’URSS.
Su questo terreno Sarti recò un contributo di
prim’ordine. Il Cuneese ne aveva bisogno
anche per superare la delusione per la modesta
presenza di suoi esponenti nell’Assemblea
costituente: nettamente inferiore alla massa di
voti recati dalla Provincia al successo della DC,
come Alcide De Gasperi si affrettò a riconoscere
in un messaggio di plauso alla Segreteria
provinciale del partito. Sui sette democristiani
eletti nella circoscrizione la “Granda” venne
rappresentata dai soli Bertone e Bubbio:
bilanciati, per così dire, dall’allora comunista
Antonio Giolitti e dal liberale Luigi Einaudi.
La separazione formale tra movimento
giovanile e partito costituì a lungo un freno per
la partecipazione adulta per la quale un Sarti
si sentiva ormai abilitato. Di fatto, però, non
poté essere inserito nel nuovo Comitato provinciale eletto dal Secondo congresso provinciale,
al quale prese parte da... spettatore.
La prima occasione di affermazione autonoma
venne con la convocazione del I congresso
provinciale giovanile, indetto a Fossano per
il 1° dicembre 1946 presso il convitto civico
di via Garibaldi, completo di “pranzo al sacco”,
come all’epoca usava, o di una refezione su
prenotazione (50 lire per la sola minestra, 200
per un pasto completo).
Al congresso, presieduto da Carlo Donat Cattin
in sostituzione dell’assente Enrico Pistoi, dopo
i saluti rituali di Campagno, Bima e di Osvaldo
Cagnasso, proprio Sarti svolse la relazione su
un ordine del giorno che proponeva la “costituzione di un gruppo di tendenza che accentui
il significato sociale del partito”. L’influenza
del pensiero di Dossetti era palese.
Intervennero altresì i fossanesi Polla e
Giuseppe Manfredi, il cuneese Giraudo,
Giovanni Richard, di Saluzzo, il saviglianese
Enrico Graneris e altri... Seguito dall’adunanza” (non ‘congresso’) del Comitato provinciale
femminile, l’assise vide affacciarsi una nuova
generazione di militanti. Eletto nuovo delegato
provinciale, in successione al geometra
Audisio, a metà dicembre Sarti tracciò il
quadro delle future iniziative dei delegati
giovanili, guardando all’appuntamento
decisivo ormai sull’orizzonte: non solo i contenuti della Carte costituzionale ma l’elezione
del primo Parlamento post-bellico, nel contesto internazionale segnato dall’ormai
caldissima ‘guerra fredda’.
Anche per Sarti il “grande anno” fu il 1948.
Ventenne non poté esprimersi attraverso il
voto. Fece però molto di più: pubblicò ne
“La Vedetta” una serie di articoli di straordinario vigore e di acume che già ne indicano
la statura di politico, tuttora da valutare
appieno (2). Iniziò il 20 febbraio, due mesi
prima delle elezioni, con lo squillante
Saluto ai giovani. Il 12 novembe pubblicò
Questi intellettuali (Per dare al partito la sua
funzione storica e nazionale) e chiuse l’anno
con la risposta al “compagno L.D.”, ove
scrisse:” Riconosciamo che la classe dirigente
italiana molto deve ancora procedere sulla via
del rinnovamento integrale, ma crediamo
di avere già posto le premesse di questo rinnovamento. Spetta ora principalmente al nostro
partito di adoperarsi affinché alle premesse
seguano le realizzazioni, alla vecchia classe
dirigente si sostituisca la nuova”.
Un’ impresa realizzabile grazie alla vittoria
elettorale del 18 aprile, al tracollo del Fronte
popolare, alla collocazione dell’Italia
nell’Alleanza Atlantica, alla ricostruzione civile
ed economica in corso e alle solide basi
culturali consegnate alla nuova generazione
dai docenti della Scuola cuneese.
Per la costruzione della nuova Italia, fondata
sulla partecipazione democratica, Sarti ne fu
certo l’esponente più rappresentativo.
35
•
R A S S E G N A N. 1 3
LUGLIO 2002