adolfo sarti: gli anni della formazione
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adolfo sarti: gli anni della formazione
ADOLFO SARTI: GLI ANNI DELLA FORMAZIONE MILITANZA E IMPEGNO CULTURALE DELLA GENERAZIONE POST BELLICA CUNEESE DI Ricostruire pensiero e azione di Adolfo Sarti (Torino, 1928 - Roma, 1992) significa ripercorrere la storia generale del Cuneese - di cui fu e rimane espressione politica eminente - dalla seconda guerra mondiale al drammatico declino dei partiti sorti tra lotta di liberazione e dopoguerra. Tale ricostruzione pare sempre più necessaria e urgente, per molteplici motivi. In primo luogo incombe - ove già non sia in massima parte avvenuta - la dispersione degli archivi di enti pubblici e privati già protagonisti del confronto politico-amministrativo e dell’azione conseguente dalle prime elezioni amministrative postbelliche (marzo 1946) alla litigiosa frantumazione della DC in diverse sigle, organizzate secondo i mezzi via via disponibili. In carenza di fonti dirette, lo storico venturo dovrà ripiegare su documenti meno affidabili: per esempio i giornali (la cui rivelatività è nota a chiunque abbia fatto parte di una redazione o vi abbia anche saltuariamente collaborato) e poi - faute de mieux - di quelle ‘carte di polizia’ che, parte reperibili presso le sezioni locali dell’Archivio di Stato, parte al Centrale, rischiano di rimanere fra le basi documentarie più ricche e continuative per la ricostruzione anche del dopoguerra, come già sono per l’Italia postunitaria. A ultimo rimangono le ‘testimonianze’ dei protagonisti. Al riguardo va però constatato che, quanto meno per il Cuneese, gli anni della nascita (o rinascita) dei partiti risultano singolarmente poveri di memorialistica. Acclarata da tempo la necessità di sottoporre a rigorosa verifica anche le peraltro rare ‘ricordanze’ degli anni di guerra pubblicate all’ indomani degli eventi, molte e maggiori cautele risultano indispensabili nel maneggio di quelle edite decenni dopo: generalmente frutto di lungamente studiate rivisitazioni del passato, con tutti i tagli, gli oblii e le sopravvalutazioni funzionali all’immagine che gli autori hanno inteso lasciare di sé. Quanto ai ‘ricordi’ consegnati a interviste, lo spettacolo che talune personalità già di primissimo piano nella storia politico-istituzionale van dando da anni prova 30 • R A S S E G N A N. 1 3 LUGLIO 2002 ALDO ALESSANDRO MOLA Rassegna ricorda lo statista cuneese, in occasione del decimo anniversario dalla scomparsa. Lo storico Aldo A. Mola descrive la formazione politico-culturale di una generazione che dette all’Italia, dal Liceo Classico cuneese “Silvio Pellico”, personalità quali Adolfo Sarti, Valerio Verra, Franco Cordero… Un mondo inesplorato, di straordinaria ricchezza. che esse servono più alle cronache della sopravvivenza sulla scena che alla ricostruzione della storia. La ricerca su Adolfo Sarti si colloca in tale non agevole ambito. Per la sua sola parte iniziale - dall’ inizio della militanza del movimento giovanile della Democrazia cristiana all’elezione alla Camera dei deputati (19451958) - essa presuppone ricerche ancora tutte da intraprendere e l’individuazione degli eventi, in massima parte generali, talora anche locali, che scandirono i tempi della formazione della generazione affacciatasi all’ impegno politico nel dopoguerra, segnata a fondo, come ovvio, dalla cruda esperienza della guerra civile, sia pure vissuta all’interno di una città che ne rimase meno travolta rispetto alla generalità di altri capoluoghi di provincia del Piemonte, quali, per esempio, Alessandria e Novara, a tacer di Torino... Del giovane Sarti va detto che “in principio fu il Liceo classico ‘Silvio Pellico’”, la cui storia auspichiamo venga scritta fin tanto che ne rimangono vivi e vigili quanti crebbero nelle aule della sua antica sede: affacciata su piazzetta Santa Chiara, con tanto di lapide che ricorda come in quegli spazi, già sacri alle clarisse, avessero preso corpo i Cacciatori delle Alpi, fugacemente passati in rivista da Giuseppe Garibaldi alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza (1859). Due passi dalla Biblioteca Civica - diretta da Gabriella,”Lalla”, Romano e poi da Aldo(ne) Quaranta, formalmente in servizio anche quando da mesi si sapeva che era al comando della banda partigiana di Valle Gesso, dedicata a Ildebrando, “Ildo” Vivanti - e dagli altri luoghi nei quali si condensava la memoria della città (il Palazzo del Governo, all’ imbocco di via Roma, all’epoca comprensivo dell’Amministrazione provinciale e del Provveditorato agli Studi; il Municipio, qual era detto il Palazzo civico, le chiese ‘storiche’, da Santa Maria, Sant’Ambrogio, San Sebastiano al Duomo; il popolatissimo Seminario vescovile: altra ‘istituzione’ in attesa di una storia adeguata...), il Liceo era, senza retorica, un vero e proprio tempio della cultura. E non solo per il ricordo del grande linguista bolognese Alfredo Trombetti, ricordato dalla lapide che faceva da stimolo a emularne la gloria, ma anche per il livello della docenza, tanto più in una città che non era “grande sede” e quindi non fungeva da pedana immediata per il balzo dalla cattedra liceale alla libera docenza universitaria e all’ordinariato, secondo l’iter all’epoca abbastanza consueto (fu quello, per esempio, dello storico Nino Valeri ), ma nondimeno si valeva di professori che gareggiavano nel tener viva la nobile tradizione dei decenni precedenti, quando vi avevano insegnato - fra altri - Gioele Solari, Balbino Giuliano (poi sottosegretario alla Pubblica Istruzione e primo ministro dell’ Educazione Nazionale ), Alfredo Poggi, Alfonso Maria Riberi, Michele Pellegrino, Michelangelo Fulcheri e, sia pure per breve ora, un giovane di grande talento quale Spartaco Beltrand. Negli anni durante i quali Sarti vi si formò, il ginnasio-liceo “Pellico” annoverò fra i suoi professori il giovane Luigi Bàccolo, giuntovi con la gloria di allievo della Normale di Pisa e di una monografia su Luigi Pirandello lodata da Benedetto Croce, il matematico Lorenzo Gondolo, Umberto Boella, già autore di saggi e traduzioni, il grecista Leonardo Ferrero, Adolfo Ruata, Giovannino Fassio, docente di storia e filosofia, e nativo di Piasco (classe 1918) ma orgoglioso della sua origine valdostana , Luigi Pareyson, che vi pronunziò la “promessa solenne” il 19 ottobre 1940 e il previsto “giuramento” dopo i due anni di straordinariato, superati con motivato plauso. Preside del Liceo era Sebastiano Gasco, già docente di scienze naturali, allora e poi venerato “come un padre” dagli allievi, che affettuosamente ne coglievano la ricchissima umanità, al di là dell’austera fisionomia di studioso della Terza Italia. Pressoché unica testimonianza, filtrata quale ‘romanzo’, del difficile passaggio attraverso i due ultimi anni di guerra - che per Cuneo fu anche di “lotta di liberazione” - sono le pagine di Franco Cordero, L’Opera (Milano, Bompiani, 1975, precedute da Viene il re): suggestiva evocazione dell’atmosfera che si respirava al Collego San Tommaso di Cuneo, dominato dalla ieratica e pragmatica figura di “padre Labrionitis”. I ‘Tommasini” erano un mondo di cui a lungo ci parlò anche Aurelio Verra che lo frequentò con il fratello minore, Valerio, e per breve tempo fu a sua volta ‘supplente’ nelle aule del “Pellico”. A parte quel ricetto, la città respirava all’unisono con il regime dell’epoca, ch’era poi una diarchia, in seno alla quale nell’ottica cuneese prevalevano il Re e i principi sabaudi, usi a trascorrere lunghe vacanze nelle diverse residenze disseminate da Pollenzo a Racconigi e alle valli, in specie a Sant’ Anna di Valdieri e a San Giacomo d’ Entraque... Ne scrissero, da diverse prospettive, Giorgio Bocca e Gino Giordanengo. Proprio quella prevalenza rendeva quasi indolore l’adesione dei pubblici impiegati al PNF e alle associazioni e ‘opere’ connesse, ovvia e generalizzata. Era il caso della scuola, il cui personale - presidi, docenti, amministrativi, bidelli...- era tutto tesserato al PNF. Facevano eccezione i sacerdoti: per esempio il teologo don Lorenzo Moncallero, docente di storia e filosofia al “Pellico”, aderente alla sola associazione fascista della scuola. Già iscritto al Gruppo Universitario Fascista (GUF), anche Luigi Pareyson risultava nelle file del PNF, e dell’ AFS, come Leonardo Ferrero, Adolfo Ruata e altri che si sarebbero poi distinti nella promozione del nucleo cuneese del Partito d’Azione e nella lotta di liberazione e i cui nomi spiace non veder neppure menzionati da pur corposi e presuntivamente ‘esaustivi’ Dizionari della resistenza (1). Quando, tra le fine del 1942 e l’inizio del 1943 - ma più fattivamente nella tarda primavera del 1943, quando s’ebbe notizia della catastrofe dell’ARMIR sul fronte sovietico-, s’avvicinò la 31 • R A S S E G N A N. 1 3 LUGLIO 2002 resa degl’italo-germanici in Tunisia, si prospettò l’imminenza dell’attacco anglo-americano al territorio metropolitano e fu chiaro che, malgrado le molteplici pressioni, Mussolini non riusciva a ottenere da Hitler né la pace separata con l’URSS né lo sganciamento dell’Italia dall’ormai rovinoso e poco produttivo tripartito (basti ricordare, al riguardo, che il Giappone non entrò in guerra contro l’URSS, pur mostrandosi esigente nei confronti dell’ impegno bellico italiano anche su quel fronte), anche a Cuneo e in pochi altri centri della provincia s’intravvidero i primi segni di cesura tra l’opinione organizzata e il regime. Proprio quanti più intendevano fare dovettero circondarsi di tutte le possibili cautele, nella convinzione che il fascismo fosse ancora profondamente radicato: anzitutto nelle cosiddette ‘masse popolari’, tenute insieme dal Dopolavoro e dalla miriade di tentacoli dell’ organizzazione parapartitica. Un giovane liceale del tempo doveva pertanto cercare in sé stesso - o nel riserbo della famiglia - le ragioni delle proprie scelte. Il “Pellico” non mancò tuttavia di incidere nella formazione dei propri allievi se il 4 febbraio 1944 il Capo della Provincia di Cuneo, Paolo Quarantotto, doveva comunicare al segretario particolare del duce, Eugenio Dolfin, i modesti frutti dell’ “opera di propaganda” da lui avviata “tra gli studenti dei vari Istituti, in riunioni, tenendo conversazioni, magari con veri e propri contraddittori, in modo da agganciarsi alla massa studentesca, e in maniera indiretta, dei Professori: “Si è anzitutto rilevato che indistintamente, in tutti gli Istituti dove sinora si sono svolte tali conversazioni, l’intero corpo degli insegnanti, tranne poche eccezioni, ha chiaramente dimostrato la sua mentalità avversa al governo attuale - era la sconsolata conclusione di Quarantotto -. Dove l’azione dei Professori si è potuta svolgere più in profondità, come ad esempio al Liceo di Cuneo, molti studenti si sono dimostrati decisamente ed apertamente contrari alla stessa idea di Patria ed hanno espresso , in violenti contraddittori, tutto il fiele ed il livore che la famiglia e la scuola vi hanno saputo infondere”. Un’ammissione di sconfitta bruciante, poco lenita dai consensi , almeno apparenti, ottenuti all’Istituto Magistrale e in altre città, a cominciare da Alba. Al riguardo il rimpianto ingegnere Gigi Monti ci lasciò ricordi di prima mano. Anche dinnanzi a tale constatazione, si verificò in Cuneo il “giro di vite” contro le persone 32 • R A S S E G N A N. 1 3 LUGLIO 2002 sospettate di attività antirepubblicana: il fermo del tipografo “mai iscritto al PNF” Arturo Felici e dell’ avvocato liberale Guido Verzone (poi prefetto di Cuneo alla liberazione), l’arresto di Leonardo Ferrero, da Cuneo trasferito alle ‘Nuove’ di Torino e detenuto sino al giugno seguente, la sospensione di Luigi Pareyson dall’insegnamento e dallo stipendio: misura poi revocata (10 giugno 1944) e mutata, dietro ricorso dell’interessato, nell’assegnazione “d’ufficio” al liceo di Correggio, mai raggiunto invero da Pareyson, che riuscì a trascorrere il 1944-45 nella più popolosa Torino, ov’era agevole riparare nell’anonimato. Proprio il suo allontanamento dalla cattedra suscitò l’indignazione degli allievi, che nei giorni 28 e 29 marzo si astennero alle lezioni, causando una inchiesta da parte del Provveditore. A sua volta occhiutamente sorvegliato fu il docente di storia e filosofia Giovannino Fassio, sul cui conto erano state chieste informazioni riservate anche ad Alessandria - donde provenne, “straordinario”, al “Pellico” - e che giunse sino al 1943 senza che ne fosse registrata alcuna adesione né al PNF, né all’ AFS: caso invero rarissimo di gioco a rimpiattino fra un professore di spiriti liberali e dichiaratamente monarchico e i filtri del regime, nelle cui maglie erano rimasti impigliati docenti non meno riluttanti alla disciplina coatta del fascismo post-staraciano: ancora più esigente e pervasivo, sotto il profilo ideologico e della mobilitazione. rispetto a quello degli anni del quieto ‘federale’ Attilio Bonino.. Come s’è detto, i liceali cuneesi individuarono nello studio la via più sicura per riaffermare la propria autonomia etica e intellettuale. Era anche il modo più giusto per prepararsi a quel dopoguerra che quasi tutti davano ormai per certo, nell’illusione che gli anglo-americani, giunti a Roma il 5 giugno 1944 e sbarcati in Normandia il giorno seguente, entro l’estate sarebbero di certo giunti in Liguria. Non pochi profittarono delle circostanze propizie saltando a pie’ pari la terza liceo, sì da iscriversi all’Università e sottrarsi ope legis a un servizio militare che, dati i tempi, la generalità delle famiglie considerava la peggiore fra le sciagure possibili. Con scelta singolare, Franco Cordero saltò invece la seconda liceo, presentandosi all’ammissione alla terza: un impegno al quale accompagnò anche qualche lezione d’un corso d’inglese avviato ma presto sospeso ai Tommasini. Al termine dell’anno scolastico 1944-45 anche del figlio di un notabile della nascente Adolfo Sarti conseguì la maturità classica, con votazione lusinghiera: 8 decimi in italiano, 7 in latino, 8 in greco, 8 in storia, 7 in filosofia, in matematica e fisica, 9 in storia dell’arte: qualche punto sotto Franco Cordero che meritò 8 anche in filosofia, 9 in matematica e scienze ma solo 8 in arte. Rinviato a ottobre, il figlio del console della Milizia, Oreste Sciavicco, venne respinto, mentre le figlie del Capo della Provincia, Franca ed Enrica Galardo, vennero addirittura “epurate”, vale a dire escluse dalla valutazione. Alla luce della linea tenuta negli scrutini e agli esami dal corpo docente cuneese risultava eccessiva la proposta, affacciata da Luigi Pareyson nel Progetto di riforma della scuola, vergato nella clandestinità e dato alle stampe poco dopo la liberazione, di annullare del tutto l’intero biennio 1943-45 o almeno quel 1944-45 durante il quale egli era stato escluso dall’ insegnamento. Invero, non era stato affatto un anno perduto. Né per i professori, né, meno ancora, per i giovani, che vi appresero a “divenire vecchi”, come auspicava Benedetto Croce. Lo si vide proprio dall’entusiasmo con il quale i liceali affrontarono il clima aperto anche in Cuneo dalla liberazione: nascita dei giornali, vita di partito, varo di circoli culturali, possibilità d’intraprendere un ampio e profondo “esame di coscienza”, molto oltre talune improvvide e non per caso rapidamente sconfessate misure epurative, messe in atto, per esempio, ai danni del preside del liceo “Pellico”, Sebastiano Gasco, e del professore di matematica, Lorenzo Gondolo. Altro però accadde, come Franco Cordero rievocò registrando i voti tra l’uno e l’altro “compito in classe”: uno spazio drammaticamente segnato dai morti ammazzati. Al ragazzo che rassegnatamente motivava un’esecuzione sommaria (“Era una previsione basata sulla conoscenza delle imprese di quel signore”) il gesuita padre Labrionitis replicò: “Non spetta a te giudicare(...) speriamo che i vincitori non imitino i loro avversari”. Cordero se ne ricordò anche quando scrisse la corposa ‘biografia’ di Girolamo Savonarola. Gli studenti di diciassettediciotto anni non avevano vissuto l’esperienza dei loro maggiori, avviati ‘in montagna’ l’estate del 1944 e “ritirati” dalle famiglie quando, in ottobre, fu chiaro che agli anglo-americani non avevano alcuna fretta di ‘liberare’ l’Italia settentrionale. Era stato il caso, sarcasticamente commentato da Dante Livio Bianco, Democrazia cristiana. Per di più, da poco insediato al governo di una Francia in pezzi e dilaniata all’efferato regolamento dei conti con i collaborazionisti, il generale Charles De Gaulle disconobbe l’armistizio dell’Olgiata del giugno 1940 e dichiarò che “Marianne” si considerava in guerra contro l’Italia. Non la Repubblica sociale italiana. Proprio l’Italia. De Gaulle voleva almeno l’Elba, la Valle d’Aosta, una larga fascia transfrontaliera. S’accontentò poi dei valichi dai quali erano poco entusiasticamente scesi in Francia i reparti del Regio esercito nel remoto 1940. I veri e immodibificabili oneri del trattato di pace - tutti già contenuti negli armistizi del 3 e 29 settembre 1943 - vennero però alla luce solo dopo il 2 giugno 1946. Così la generazione dei giovani che da pochi mesi s’era affacciata alla vita politica dovette farsi carico del passivo d’una guerra decisa da un regime morto e sepolto, fatta propria dai governi Badoglio, Bonomi, Parri, e che ora stava per essere sottoscritto da De Gasperi. Per i giovani cuneesi quel passaggio fu traumatico. Sarti era nato l’anno dell’ agognata inaugurazione della ferrovia Cuneo-VentimigliaNizza. Scendere da Limone-Tenda al mare significava passare in terra italiana. D’un tratto le terre sino a poco prima familiari risultarono proibite: un ‘buco nero’ nella memoria, negli affetti, nelle speranze. La guerra era stata davvero perduta. Occorreva risalire una lunghissima china. Il “cammino del cinabro”. Cuneo si era congedata dall’egemonia liberaldemocratica - o giolittiana che dir si voglia - con leggi elettorali differenziate, il sistema proporzionale per la Camera dei deputati, il maggioritario per i comuni e la ripartizione in collegi mandamentali a turno unico per i consigli provinciali. Sotto i tifoni del gigantismo riformistico le Province vennero ibernate, in attesa del decollo delle Regioni a statuto ordinario, varate un quarto di secolo dopo. Urgeva stabilire i veri rapporti di forza tra i partiti sedenti nel Comitato Centrale di Liberazione Nazionale ( “concerto a sei voci”, come scrisse Giulio Andreotti) e del CLN Alta Italia (uno di meno: vi mancava la Democrazia del lavoro, tendenzialmente monarchica). La verifica ebbe luogo prima con le elezioni amministrative, poi con quella dell’Assemblea costituente. Proprio perché sino a quel momento ogni ‘partito’ contava per un sesto o per un quinto era decisivo stabilire quale 33 • R A S S E G N A N. 1 3 LUGLIO 2002 seguito elettorale avesse davvero ciascuno di essi e, di conseguenza, quali maggioranze dovesse rappresentare il nuovo governo nazionale. In gioco erano la posizione dell’Italia nel quadro della guerra fredda tra USA e URSS, nettamente prospettata dal discorso di Churchill a Fulton sulla “cortina di ferro” scesa sull’Europa da Trieste a Stettino: tragica profezia di un quarantennio e più di sofferenze per popoli da molti secoli avviati a esperienze di democrazia liberale. Il diciottenne Adolfo Sarti non ebbe dubbi sulla posizione da tenere. L’Occidente. Fu una scelta immediata e definitiva. Per la libertà. Anche per chi non aveva capito. Anche per quanti non ne conoscevano ancora il gusto. A cospetto di un quadro di spartizione di poteri sulla base di rapporti del tutto astratti - la pentarchia (o esarchia) ciellenistica - era ovvio che un giovane prediligesse, per il momento, l’adozione della proporzionale. Strenuamente voluta dal mitico Luigi Sturzo, la sua introduzione, al posto dei collegi uninominali a doppio turno, un quarto di secolo prima essa aveva messo a nudo la fragilità dell’ egemonia giolittiana: somma di accordi tra clans regionali, clientele di grandi notabili, uso spregiudicato della macchina statuale e amministrativa a disposizione dei Presidenti del Consiglio/Ministri degl’ Interni e della rete di prefetti, questori., commissari di pubblica sicurezza... La proporzionale non era solo una qualunque legge elettorale. Faceva tutt’uno con l’avvento dei partiti di massa, tante volte annunciati ma mai realizzati, neppure durante il fascismo che fu per le masse, molto più che di massa. Iscritto al movimento giovanile della Democrazia Cristiana, Sarti non aveva motivo di non condividere l’adozione di quel metodo che avrebbe posto fine alla ciellenistica commedia degli equivoci, poi tante volte ripescata in altre sedi: i troppi ‘comitati paritetici’ e i governi di solidarietà nazionale che avvilirono l’Italia degli Anni Settanta. Nelle elezioni dei consigli comunali del marzo 1946 il sistema proporzionale dette i frutti attesi. I liberali ne uscirono a pezzi. Di rado superarono il 10% dei suffragi. Quasi ovunque, nel Cuneese, il PSI - che si riallacciava alla tradizione riformistica di Serafino Arnaud, Giuseppe Cavallera, Paolo Lombardo e parlava attraverso Spartaco Beltrand e Domenico Chiaramello - superò di molte lunghezze il PCI. Pressoché azzerato risultò infine il Partito d’Azione che anche - se non soprattutto - nel 34 • R A S S E G N A N. 1 3 LUGLIO 2002 Cuneese s’era presentato e continuò a proporsi, sino alla Costituente, quale “terza via” fra socialcomunisti (uniti dal patto d’unità d’azione) e “conservatori”. La cocente sconfitta del PdA fu accolta con esultanza da chi, come Sarti, non vedeva affatto la Democrazia cristiana quale blocco immobilistico o, peggio, reazionario, incapace di esprimere tutte le spinte innovatrici provenienti dal popolarismo. Quest’ultimo ebbe voce nel settimanale della Democrazia cristiana della provincia di Cuneo, “La Vedetta”, tuttora in attesa di uno studio approfondito e, perché no?, di un’antologia dei suoi articoli meno caduchi. Nel 1946, quando il foglio era al terzo anno di vita, tra i suoi collaboratori spiccavano l’avvocato Giovanni Campagno, rappresentante della DC nella lotta di liberazione, già intrinseco di Duccio Galimberti, il fossanese Luigi Bima, Giacomo Lombardi... Nel loro novero spiccò subito, per acume oltre che per ampiezza di orizzonti politico-culturali, il diciottenne Adolfo Sarti, che il 18 gennaio 1946 vi affrontò il tema, delicato, dell’“assenteismo politico” dei giovani. In città, invero, proprio dai banchi del Liceo erano usciti tre concordi-discordi promotori dell’impegno politico giovanile: Sarti stesso per i democristiani, Franco Cordero per i socialisti e Valerio Verra per la gioventù del Partito d’Azione. Sarti rilevò che la freddezza dei giovani nei confronti della militanza andava spiegata con le recenti scottature di cui essi erano stati vittime negli anni passati, quando il fascismo l’aveva imposta tramite l’Opera nazionale Balilla e la Gioventù italiana del Littorio, costringendo a riti opprimenti e all’esibizione di entusiasmi artificiosi. Di lì una generazione “terribilmente malata di retorica”, che conduceva, ribaltata, alla “piccola filosofia del ‘carpe diem’ che non ha certo rispondenze politiche. Il fascismo portò la giovinezza italiana alla retorica dell’eroismo(...) Temiamo seriamente che il nostro periodo conduca a una retorica ancora peggiore: l’apoliticità che è immoralità politica soprattutto da un punto di vista cristiano”. La partecipazione alla battaglia per i primi consigli comunali elettivi del dopoguerra (marzo 1946), dell’Assemblea costituente e per la scelta della forma dello Stato (2-3 giugno seguenti) anche per la generazione sartiana costituì terreno d’impegno qualificante. Candidati democristiani per la Costituente in provincia di Cuneo furono l’ex ministro d’età giolittiana Giovanni Battista Bertone, monre- (1) Troviamo singolare che di Pareyson non figuri neppure il nome nei due corposi volumi del Dizionario della Resistenza editi da Einaudi (Torino,2001) ,tanto più che vi ricorrono apporti di ricercatori cuneesi. Si tratta di una sconcertante amputazione della memoria storica, tanto più grave giacché si accompagna al totale oblio di altri antifascisti cuneesi, quali l’avvocato Felice Bertolino, già deputato del Partito popolare italiano, candidato al Consiglio comunale di Cuneo per il Partito d’Azione nel 1946 e risultato l’azionista più votato in Piemonte in quelle elezioni. Il citato Dizionario ignora inoltre Leonardo Ferrero (menzionato una sola volta e a sproposito) e altri molti (Campagno, Sidoli, lo stesso Toselli, fugacemente ricordato quale presidente del CLN provinciale senza spiegare come possa essere giunto a una carica tanto prestigiosa). L’opera ignora la generalità della pur corposa saggistica edita nell’ultimo quinquennio sui vari aspetti degli anni 1943-45 nel Cuneese. (2) Sarti è ricordato - e fuggevolmente - quattro sole volte in P .E. TAVIANI, Politica a memoria d’uomo, Bologna, Il Mulino, 2002, ove, del resto, Franco Mazzola neppure è menzionato, a conferma che la “Granda” ha il diritto-dovere di scrivere in proprio la sua storia, eludendo oblii e distorsioni del proprio passato. galese, il fossanese Luigi Bima, sindaco di Fossano, l’ex deputato del PPI Teodoro Bubbio, sindaco di Alba, l’avvocato Giovanni Campagno, ex internato politico, il contadino cuneese Sebastiano Gaiero, l’ “operaio” Armando Sabatini, l’avvocato saluzzese Emilio Villa, sindaco della sua città, e il Presidente del CLN provinciale e sindaco di Cuneo, ingegnere Antonio Toselli: un ventaglio di personalità che coniugavano il dopoguerra all’antico Partito popolare italiano ed esprimevano la molteplicità dei volti del “partito nuovo”, come per altro emergeva dall’ampio spazio dedicato dalla “Vedetta” al Movimento femminile e a quello giovanile. Tra i “problemi urgenti”, il 18 aprile 1946 G.Audisio tornò ad affrontare quello del disiorientamento giovanile: era anche un modo per prendere atto che questi non avevano potuto avere spazio adeguato nella prima tornata elettorale. Di lì il primato dell’impegno nell’ambito del partito e, ancor più, nella formazione delle nuove basi culturali sulle quali radicare il rinnovamento democratico del Paese, uscito dalla guerra economicamente impoverito e politicamente lacerato dalla dichiarata subordinazione del PCI (e del PSI sino alla scissione di Palazzo Barberini, guidata da Giuseppe Saragat) alle direttive dell’URSS. Su questo terreno Sarti recò un contributo di prim’ordine. Il Cuneese ne aveva bisogno anche per superare la delusione per la modesta presenza di suoi esponenti nell’Assemblea costituente: nettamente inferiore alla massa di voti recati dalla Provincia al successo della DC, come Alcide De Gasperi si affrettò a riconoscere in un messaggio di plauso alla Segreteria provinciale del partito. Sui sette democristiani eletti nella circoscrizione la “Granda” venne rappresentata dai soli Bertone e Bubbio: bilanciati, per così dire, dall’allora comunista Antonio Giolitti e dal liberale Luigi Einaudi. La separazione formale tra movimento giovanile e partito costituì a lungo un freno per la partecipazione adulta per la quale un Sarti si sentiva ormai abilitato. Di fatto, però, non poté essere inserito nel nuovo Comitato provinciale eletto dal Secondo congresso provinciale, al quale prese parte da... spettatore. La prima occasione di affermazione autonoma venne con la convocazione del I congresso provinciale giovanile, indetto a Fossano per il 1° dicembre 1946 presso il convitto civico di via Garibaldi, completo di “pranzo al sacco”, come all’epoca usava, o di una refezione su prenotazione (50 lire per la sola minestra, 200 per un pasto completo). Al congresso, presieduto da Carlo Donat Cattin in sostituzione dell’assente Enrico Pistoi, dopo i saluti rituali di Campagno, Bima e di Osvaldo Cagnasso, proprio Sarti svolse la relazione su un ordine del giorno che proponeva la “costituzione di un gruppo di tendenza che accentui il significato sociale del partito”. L’influenza del pensiero di Dossetti era palese. Intervennero altresì i fossanesi Polla e Giuseppe Manfredi, il cuneese Giraudo, Giovanni Richard, di Saluzzo, il saviglianese Enrico Graneris e altri... Seguito dall’adunanza” (non ‘congresso’) del Comitato provinciale femminile, l’assise vide affacciarsi una nuova generazione di militanti. Eletto nuovo delegato provinciale, in successione al geometra Audisio, a metà dicembre Sarti tracciò il quadro delle future iniziative dei delegati giovanili, guardando all’appuntamento decisivo ormai sull’orizzonte: non solo i contenuti della Carte costituzionale ma l’elezione del primo Parlamento post-bellico, nel contesto internazionale segnato dall’ormai caldissima ‘guerra fredda’. Anche per Sarti il “grande anno” fu il 1948. Ventenne non poté esprimersi attraverso il voto. Fece però molto di più: pubblicò ne “La Vedetta” una serie di articoli di straordinario vigore e di acume che già ne indicano la statura di politico, tuttora da valutare appieno (2). Iniziò il 20 febbraio, due mesi prima delle elezioni, con lo squillante Saluto ai giovani. Il 12 novembe pubblicò Questi intellettuali (Per dare al partito la sua funzione storica e nazionale) e chiuse l’anno con la risposta al “compagno L.D.”, ove scrisse:” Riconosciamo che la classe dirigente italiana molto deve ancora procedere sulla via del rinnovamento integrale, ma crediamo di avere già posto le premesse di questo rinnovamento. Spetta ora principalmente al nostro partito di adoperarsi affinché alle premesse seguano le realizzazioni, alla vecchia classe dirigente si sostituisca la nuova”. Un’ impresa realizzabile grazie alla vittoria elettorale del 18 aprile, al tracollo del Fronte popolare, alla collocazione dell’Italia nell’Alleanza Atlantica, alla ricostruzione civile ed economica in corso e alle solide basi culturali consegnate alla nuova generazione dai docenti della Scuola cuneese. Per la costruzione della nuova Italia, fondata sulla partecipazione democratica, Sarti ne fu certo l’esponente più rappresentativo. 35 • R A S S E G N A N. 1 3 LUGLIO 2002