P. VAN DOMMELEN, Momenti coloniali. Cultura materiale e
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P. VAN DOMMELEN, Momenti coloniali. Cultura materiale e
MOMENTI COLONIALI. CULTURA NELL ’ARCHEOLOGIA CLASSICA MATERIALE E CATEGORIE COLONIALI 1. Colonialismo antico Il colonialismo è generalmente definito come la presenza straniera in una regione lontana dal luogo di provenienza degli ‘stranieri’ stessi. Antro pologi e studiosi della storia moderna insistono che i rapporti fra ‘stranieri’ e abitanti ‘originari’ della regione siano ineguali, cioè che i primi dominino gli altri politicamente o economicamente. Mentre la ‘presenza straniera’ non implica necessariamente la fondazione di imponenti città coloniali, è proprio l’apparizione di stabili insediamenti estranei che è alla base della terminolo gia ‘coloniale’ abitualmente usata nell’archeologia classica e mediterranea per descrivere situazioni in cui quantità notevoli di cultura materiale estranea si incontrano in contesti altrimenti sostanzialmente locali. Benché non sia im possibile spiegare alcune situazioni con intensi contatti commerciali, nella maggior parte dei casi l’uso della terminologia ‘coloniale’ fa ricorso agli auto ri antichi, che già si riferirono agli insediamenti greci dell’Italia meridionale come coloniae ed apoikiai. Il carattere coloniale degli insediamenti fenici nel Mediterraneo centrale e occidentale trova simile conferma nelle fonti classi che, come dimostra per esempio Diodoro Siculo (5.20.1), che narra dei Feni ci che «fondarono molte colonie nella Libia e non pochi nelle parti occiden tali dell’Europa». Dato che queste ‘colonie’ e le zone circostanti si presentano ben diverse da un punto di vista archeologico, la ricerca moderna non ha mai dubitato del carattere coloniale di questi insediamenti. In questa prospettiva, bisogna anche considerare l’espansione romana, visto che la terminologia tradizionale in sostanza non è molto diversa, anche se nell’archeologia romana essa è meno frequente che in ambito greco o feni cio. Tuttavia, espressioni latine come colonia ed imperium stanno alla base delle espressioni convenzionali usate da archeologi e storici per riferirsi alla cultura materiale romana trovata fuori dell’Italia. La differenza fra coloniali smo e imperialismo è inoltre ritenuta una distinzione relativa piuttosto che fondamentale: secondo gli studiosi della moderna storia coloniale, l’imperialismo rappresenta un caso particolare di colonialismo, che è strettamente legato alle specifiche circostanze del mondo occidentale e della nascita del capitalismo nell’Ottocento e che costituisce, quindi, un termine che dovreb©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 1 be essere riservato all’espansione coloniale dell’Occidente nell’Ottocento e nel Novecento (FERRO 1994, pp. 13-41). Sono questi vocaboli ‘coloniali’ e le sue connotazioni negli studi classi ci che costituiscono il tema centrale di questo contributo. In questo senso, intendo anche discutere i fondamenti concettuali che stanno alla base delle attuali rappresentazioni archeologiche di situazioni coloniali nel Mediterra neo antico. Mi occuperò perciò, in primo luogo, più in dettaglio della termi nologia usata nell’archeologia mediterranea e dei concetti associati ad essa. Poi considererò alcune critiche basate su teorie sociologiche e antropologi che, per quindi volgermi alla descrizione di un’impostazione alternativa, nota come pensiero ‘post-coloniale’. Per meglio chiarire i temi di quest’ultima te oria, mi soffermerò a lungo sulle situazioni coloniali ottocentesche e nove centesche dell’Algeria e del Marocco sotto il dominio francese, illustrando la rilevanza archeologica di queste idee con riferimenti specifici a situazioni coloniali della Sicilia e della Sardegna in età arcaica e classica. 2. Pregiudizi coloniali I potenziali problemi associati con l’uso di espressioni come ‘colonie’, ‘colonizzatori’ e ‘imperialismo’ in descrizioni storiche e archeologiche del mondo antico sono chiaramente dimostrati da studi compiuti nei primi de cenni del Novecento: in fondo, sono le stesse idee e gli stessi pregiudizi di quell’epoca coloniale che oggi, dopo la decolonizzazione degli anni ’50 e ’60, si bollano come colonialisti e che ritornano in un modo o un altro negli studi storici e archeologici. L’espansione romana nel Nord Africa, ad esempio, è stata spesso definita come l’immediato precursore dell’imperialismo francese o britannico e, come tale, fu considerata come parte della loro giustificazio ne. Altrettanto significativo è che lo storico americano Broughton affermasse negli anni ’20 che gli abitanti indigeni del Nord Africa non sarebbero mai stati in grado di sviluppare forme più complesse di organizzazione sociale e economica senza l’intervento e ‘l’educazione’ da parte dei Romani, («It is doubtful even if they had remained untouched by foreign influence if they would have evolved any advanced political or social organisation»; BROUGHTON 1929, p. 6). La presunta superiorità culturale romana è qui chiaramente en fatizzata da uno storico che si identifica spontaneamente con i colonizzatori (MATTINGLY 1996). Simpatie ed idee simili sono altrettanto evidenti nell’opera classica The Western Greeks dell’archeologo Dunbabin (DE ANGELIS 1998): il fatto che anche uno studioso dalle credenziali impeccabili come lui non poté sottrarsi alle credenze del suo tempo sottolinea le profonde radici di queste idee nel mondo occidentale. Nel dopoguerra, comunque, dopo la decolonizzazione occidentale del Terzo Mondo negli anni ’50 e ’60, tali affermazioni colonialiste chiare e ton©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 2 de sono diventate rare. Si è conservato però, fino ad oggi, un interesse unila terale nel contributo greco, romano o fenicio nelle situazioni coloniali del Mediterraneo antico. Ancora nella seconda edizione del classico The Greeks Overseas, il Boardman osservò, riguardo alla colonizzazione greca dell’Italia meridionale, che «gli indigeni [italici] considerarono il loro nuovo benessere portato dai Greci e nonostante i luoghi e le terre cedute, furono generalmen te soddisfatti» («The natives weighted their new prosperity, brought by the Greeks, against the sites and land they had lost to them, and were generally satisfied»; 1980, p. 198). È inoltre significativo che nell’archeologia classica si presti sempre più attenzione ai rapporti fra gli insediamenti greci e fenici e le rispettive metropoli o alle relazioni fra i gruppi colonizzatori che non ai loro rapporti con gli abitanti indigeni delle regioni colonizzate. Le cosiddette ‘colonie’ greche o fenicie non sono quasi mai state studiate nel loro contesto regionale e indigeno. È tipico in questo senso il caso di Pithekoussai, per la quale si discute da anni del carattere fenicio o greco dei suoi abitanti, mentre dagli archeologi classici sono state ignorate le influenze di questa presenza straniera sulle zone intorno al golfo di Napoli. I pochi studi in questa direzio ne sono stati eseguiti da protostorici, il che sottolinea l’interesse limitato dei loro colleghi classici (CUOZZO 1994). Questa fissazione coloniale, del resto, non è rimasta senza contestazio ni: sulla scia della decolonizzazione francese del Maghreb si è attribuito già negli anni ’70 un ruolo significativo alle popolazioni indigene del Nord Afri ca in età romana. Marcel Bénabou (1976) in particolare definì il contributo indigeno in termini di resistenza e ne fece osservare gli effetti sulla società coloniale. Nonostante un breve dibattito sulle pagine dei Dialoghi di Archeo logia e delle Annales (THÉBERT 1978; FENTRESS 1983; MATTINGLY, HITCHNER 1995, pp. 169-170), questa visione alternativa del Nord Africa in età romana non ha mai avuto molto seguito. Una rara eccezione si è avuta proprio in Sardegna, dove le idee di Bénabou sono state riprese per spiegare la persi stenza punica in età romana in termini di resistenza culturale (MASTINO 1985, p. 48; BONDÌ 1990). Per altro, però, è solo in anni recenti che le idee di Bénabou sono state rielaborate da studiosi del mondo romano dell’Europa settentrionale che mettevano in dubbio concetti e termini di ‘romanizzazio ne’, facendo notare che si tratta di nozioni ottocentesche costruite con i pre giudizi coloniali dell’epoca (MATTINGLY 1996; FREEMAN 1997). Mentre gli studi fenici continuano a trascurare gli abitanti indigeni del le regioni interessate dall’espansione fenicia, l’esclusiva concentrazione greca e colonialista delle ricerche archeologiche e storiche nell’Italia meridionale è più recentemente stata tirata in causa dal forte interesse pre- e protostorico per le popolazioni indigene della tarda età del Bronzo e dell’età del Ferro in queste regioni. Un momento particolarmente significativo è stato segnato dal congresso internazionale di archeologia classica del 1985 che ha esaminato il tema dei «colonizzatori greci e popolazioni indigene» (DESCOEUDRES 1990). ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 3 Anche se qualcuno può rimanere convinto dalla nozione della superiorità greca (si veda, per esempio, BOARDMAN 1980, pp. 7-9), la maggior parte degli archeologi classici, sia in Italia che altrove, si sono ormai resi conto delle vecchie tendenze colonialiste e sottoscrivono il giudizio di David Ridgway che l’età del Ferro italiano non si può classificare ‘primitiva’ per la connota zione ingiustificabilmente negativa del termine (1990, p. 62). Questa critica si limita, però, all’osservazione di una visione unilaterale e colonialista e non indaga i concetti fondamentali che sottendono alle situa zioni coloniali, e tralasciando le implicazioni della terminologia coloniale. La contrapposizione alla classica visione colonialista di un punto di vista alter nativo, preistorico o indigeno che sia, lascia infatti intatta l’essenza della rappre sentazione colonialista, considerandola soltanto incompleta e difettosa. Le connessioni fra le due visioni rimangono inoltre poco chiare e il punto di vista ‘preistorico’ ha conseguentemente contribuito ben poco allo studio dei rapporti fra gli abitanti coloniali e indigeni. L’archeologo francese Y. Thébert ha infatti osservato che le proposte di Bénabou sulla resistenza degli abitanti alla romanizzazione di Nord Africa presuppongono paradossalmente un ruo lo dominante dei Romani, che è in fondo poco diverso della visione colonia lista (1978, pp. 76-80). Vorrei perciò sottolineare che, da questo punto di vista, le situazioni coloniali vengono di fatto considerate a priori in categorie opposte di dominazione e resistenza, e di colonizzatori e colonizzati. Una tale visione di situazioni coloniali si definisce perciò binaria o ‘dualistica’, perché finisce per affermare la differenza fra colonizzatori e colonizzati, il che significa che il carattere e l’intensità dei rapporti fra questi gruppi non costituiscono validi temi di ricerca per sé stessi. La cosiddetta ‘divisione colo niale’ (colonial divide) rappresenta quindi un concetto fondamentale, che riafferma il carattere diviso delle società coloniali e che riconferma la disso ciazione dei colonizzatori e colonizzati, malgrado l’abbandono dei vecchi pregiudizi di superiorità e inferiorità culturale. 3. Cultura classica e concetti coloniali Da un punto di vista teorico, non esistono distinzioni nette fra le rap presentazioni unilaterali e dualistiche delle situazioni coloniali (né fra i loro presupposti): ambedue le visioni sono basate su un concetto olistico in cui una cultura viene considerata come un insieme ben definito e ben integrato di elementi che sarebbe caratteristico di un determinato gruppo di persone o ‘popolo’, altrettanto ben definito e distinguibile (JONES 1997, pp. 15-29). Partendo da questo concetto, il termine ‘acculturazione’ si riferisce ai contat ti e agli influssi fra persone di gruppi diversi con culture diverse. Quest’ultima nozione è però spesso stata semplificata, riducendo acculturazione a un rozzo processo meccanico e evoluzionistico, in cui l’‘avanzamento’ di culture ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 4 indigene ‘primitive’ sarebbe uno sviluppo naturale e inevitabile. La sostitu zione del termine ‘acculturazione’ con quelli di ‘ellenizzazione’ e ‘romanizza zione’ finì per riaffermare implicitamente la superiorità greca e romana (GALLINI 1973). Il recente riconoscimento dell’eguaglianza delle culture coinvolte in una situazione coloniale dovrebbe, perciò, condurre all’abbandono di questi termini tutt’altro che neutri e alla rinnovata introduzione di un concetto di acculturazione con più sfumature, che si incentri sulle interazioni fra culture. La visione dualistica risulta in una separazione fondamentale delle cul ture e di conseguenza delle comunità colonizzatrici e colonizzate, perché con valida il loro carattere autonomo e indipendente. Si rischia inoltre di trascu rare gli individui coinvolti in situazioni coloniali e di negargli un ruolo nei processi di acculturazione, perché sarebbero per così dire stati ‘inclusi’ nelle entità culturali. In questo modo si finisce per studiare i contesti coloniali esclusivamente in termini culturali anziché umani o sociali, dimenticando che si tratta in fondo sempre di contatti e interazioni fra persone piuttosto che fra concetti astratti. Una rappresentazione di questo genere, in cui gli indivi dui sono attivamente coinvolti negli sviluppi culturali piuttosto che essere soggetti a processi e cambiamenti sociali e economici, corrisponde all’approccio archeologico detto ‘post-processuale’, che si basa sulla percezione e l’iniziativa umana (BARRETT 1994, pp. 155-172; CUOZZO 1996, pp. 14-16). Una seconda obiezione teorica deriva dal contrasto dualistico fra indi geno e coloniale, perché questi concetti, o le loro corrispondenti voci locali, vengono solitamente usati come fossero termini assoluti con un significato intrinseco su cui si basa l’identità culturale dei gruppi umani (‘popoli’). Con cretamente, si ritiene che gli oggetti abbiano un significato altrettanto unico e fisso, che non solo permette di identificarli inequivocabilmente come fenici, greci o italici, ma che rimane anche immutato in qualsiasi contesto, anche quando, per esempio, l’oggetto viene esportato e usato in situazioni del tutto nuove. È per questo motivo che si dubita del carattere fenicio degli oggetti coloniali importati in contesti indigeni iberici o sardi e che si considera il numero e la distribuzione di oggetti greci in contesti tombali dell’Italia meri dionale una misura affidabile del livello di ‘ellenizzazione’ di queste regioni – se non si arriva addirittura a dedurre che gli stessi defunti siano greci (PROCELLI 1989; ADAMESTEANU 1990; D’ANDRIA 1990). Anche quando a questo tipo di indicatori si sostituiscono il tipo o la decorazione degli oggetti, o il sistema insediativo o gli stessi riti funerari la situazione non cambia di molto (WHITEHOUSE, WILKINS 1989), perché ci si basa sempre su una supposta asso ciazione immutabile e fondamentale fra cultura, oggetti e persone. La stessa espressione di ‘importazioni greche in contesti italici’ implica che questi oggetti fossero sempre stati riconosciuti e apprezzati come tali, sia dalle persone che li offrirono come dono ai funerali sia da chi li ricevette. Studi etnografici di situazioni paragonabili del Pacifico nel XIX secolo sugge riscono tuttavia che oggetti occidentali in uso presso le comunità indigene ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 5 furono al contrario visti e considerati in termini indigeni, senza preoccuparsi degli originali significati occidentali degli oggetti (THOMAS 1991, pp. 83-124). Una simile interpretazione è anche stata proposta per le importazioni mice nee nell’insediamento siriano di Ugarit, perché un’analisi accurata dei conte sti d’uso ha dimostrato che gli oggetti importati rappresentavano una scelta ben precisa e che furono interamente inseriti nelle classificazioni locali (VAN WIJNGAARDEN 1999). Un’ulteriore conseguenza della rappresentazione dualistica di situazio ni coloniali è che si raggruppano gli abitanti della regione colonizzata (sia colonizzatori che colonizzati), senza verificare se ci fossero altre possibili di visioni all’interno delle comunità locali e coloniali, che richiederebbero una classificazione alternativa. La divisione dualistica trascura comunque diffe renze interne basate su età, sesso, posizione sociale ecc. Una classificazione binaria ignora anche altre comunità che vivono nella regione colonizzata, ma che sono né di origine coloniale né di nascita indigena – anche se queste persone erano magari nate nella stessa zona. Erano divisioni sottili di questo genere che regolava, per esempio, gran parte dei rapporti giornalieri e dome stici in Indonesia, dove si distingueva fra giovani e adulti olandesi, fra donne e uomini olandesi, ma anche fra militari, civili e ufficiali e queste divisioni potevano in certe situazioni intersecare il contrasto coloniale-indigeno, per ché le forze armate includevano anche un buon numero di truppe indigene (STOLER 1989). Non esiste attenzione per divisioni di questo genere nei con testi archeologici, dove l’opposizione fra coloniale e indigeno rimane predo minante. La complessità e variabilità di una situazione coloniale sono ben illu strate dagli sviluppi demografici nella cittadina coloniale di Bône nell’Algeria orientale, che era stata occupata dai Francesi in 1830. Nei primi decenni dopo la conquista, gli abitanti di origine europea dominavano numericamen te la città, ma solo una parte minoritaria di loro era effettivamente francese. Molti di loro, inoltre, tendevano a restare solo per periodi limitati, per moti vi sia commerciali che militari e ufficiali. Gli abitanti indigeni comprendeva no dal canto loro una diversità forse ancora maggiore ed in ogni modo più ambigua: da parte una minoranza ‘algerina’, articolata inoltre in diverse ‘tri bù’ o gruppi consanguinei (Fig. 1), oltre a Maltesi, Berberi, Italiani, Ebrei e ‘Ottomani’ (PROCHASKA 1990, pp. 85-91). Gli ultimi tre gruppi in particolare occupavano una posizione ambigua, perché la loro presenza in Nord Africa precedeva quella francese e gli Ebrei parlavano arabo, il che li rendeva ‘indi geni’. Gli Ebrei e gli Italiani, però, erano di norma classificati come ‘Euro pei’, il che avrebbe dovuto definirli come ‘coloniali’. Gli ‘Ottomani’, da parte loro, erano già ‘coloniali’ prima che lo diventassero i Francesi, perché erano i rappresentanti dell’impero ottomano che aveva occupato l’Algeria per di versi secoli. ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 6 Nel corso degli anni, questo problema diventava sempre più complesso per il semplice fatto che sempre più abitanti di Bône erano nati nella stessa cittadina o almeno in Algeria. Ottanta anni dopo la fondazione francese di Bône la maggior parte degli abitanti era infatti di nascita maghrebina e quindi effettivamente di discendenza locale (Fig. 2). A quell’epoca, però, nel primo decennio del Novecento, le parole ‘locale’ e ‘indigeno’ non erano più sinoni mi dei loro equivalenti di un secolo prima, perché la posizione sociale e eco nomica dei ‘Francesi locali’ era sempre notevolmente migliore di quella degli abitanti indigeni di Bône: come dimostrano i dati sulle occupazioni e delle origini etniche degli abitanti di Bône (Fig. 3), gli operai non qualificati del 1911 erano sempre in gran parte di origine berbera, algerina, maltese o italia na. Lo stesso grafico dimostra che soltanto gli Ebrei avevano tratto un van taggio degli sviluppi demografici, probabilmente perché la loro posizione ambigua si era gradualmente spostata verso quella dei ‘Francesi locali’, per mettendogli di accedere a un emergente ‘ceto medio coloniale’ (PROCHASKA 1990, pp. 135-153). 4. L’ansia post-coloniale La consapevolezza che le situazioni coloniali siano parecchio più com plesse di quanto non si assuma solitamente e l’osservazione che la distinzione fra coloniale e indigeno è tutt’altro che ovvia, costituiscono una tendenza nelle scienze sociali e culturali che ha preso il nome di ‘post-coloniale’. Sotto questo termine si raggruppa una grande varietà di studi e visioni in campi diversi, il che complica una definizione univoca del termine. L’applicazione di un unico termine, e la stessa parola poi, suggeriscono tuttavia che questa tendenza è associata con la decolonizzazione occidentale del Terzo Mondo negli anni ’50 e ’60 (PRAKASH 1995; LOOMBA 1998). Un elemento comune nella diversità degli studi post-coloniali è comunque l’interesse per gli aspetti ambigui e per le zone indefinite nelle situazioni coloniali. Altrettanto caratte ristico dell’orientamento post-coloniale è l’attenzione per altre dimensioni nelle situazioni coloniali, oltre a quelle economiche e politiche, come la rap presentazione in scritti e immagini, sia nella letteratura che nel giornalismo, nell’educazione, nella cultura materiale e nell’ideologia nel senso più ampio del termine (PRAKASH 1995; PELS 1997). L’attenzione post-coloniale per l’ambiguità si basa sulla consapevolezza che gli stereotipi hanno un ruolo essenziale nell’affermare e nel mantenere le differenze. Spesso, come nei casi moderni, si tratta della differenza fra colo nizzatori e colonizzati che nella realtà può essere poco chiara e che quindi stimola i primi a pretendere che gli altri siano veramente diversi da loro. Stereotipi di questo genere si trovano in opere letterarie che sottolineano la superiorità dei bianchi, ma anche in espressioni di uso comune, come ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 7 l’‘indigeno pigro’ (MACDONALD 1993; BHABHA 1994b). In seguito all’autorevole Orientalism di Edward Said (1978), in cui le rappresentazioni occiden tali del mondo orientale sono esaminate criticamente, le cosiddette ‘analisi di discorso’ sono diventate un’importante area d’attenzione degli studi post coloniali. Anche nell’archeologia mediterranea si è recentemente cominciato ad esaminare i modi in cui gli studi del mondo classico siano stati influenzati da concetti occidentali della cultura greco-romana come origine del mondo occidentale (MORRIS 1994). L’esame critico delle rappresentazioni moderne di situazioni coloniali nel Mediterraneo antico fanno parte di questo stesso orientamento nuovo nell’archeologia mediterranea (VAN DOMMELEN 1997; DE ANGELIS 1998). L’ambiguità costituisce uno dei temi post-coloniali per eccellenza, per ché consente di indagare le tensioni fra rappresentazioni stereotipate e la realtà sociale ‘sottostante’. È nato così l’interesse per le differenze già notate all’interno della società coloniale, che erodono i limiti del concetto di colo niale e che rendono problematica la loro opposizione ai colonizzati (BHABHA 1994b). Le conseguenze sono notevoli, anche per ricerche archeologiche, perché viene messo in dubbio il ruolo delle élites locali, che spesso sono state considerate le protagoniste nei contatti fra colonizzatori e colonizzati: una visione post-coloniale accentua, al contrario, l’ambiguità della posizione del le élites, che potrebbe essere interpretata anche in termini di collaborazioni smo e di rinnego della propria cultura. Un buon esempio ci viene delle espressioni pied noir e évolué, che furo no inventate in Francia e nel Maghreb francese all’inizio del secolo per ricon fermare il contrasto stereotipato fra coloniale e indigeno di fronte al crescen te numero di ‘Francesi’ di nascita locale e la posizione europea ottenuta da una minoranza algerina (Fig. 3). Con la parola évolué ci si riferiva agli abitan ti indigeni del Maghreb, che in un modo o un altro avevano ricevuto un’istruzione francese e che frequentavano il mondo coloniale: con questo termine si esprimeva il ‘progresso’ che queste persone avevano fatto – almeno da un punto di vista coloniale, mentre si sottolineava che in fin dei conti non erano Francesi ‘veri e propri’. Inoltre, se ce ne fosse stato bisogno, si riconfermava e ridefiniva così la distinzione ‘normale’ e normativa fra coloniale e indigeno. Il significato relativo dell’espressione si rivela soprattutto dalle parole pieds noirs che si cominciava ad usare in Francia per indicare dei ‘Francesi’ nati e cresciuti nel Maghreb: dal punto di vista della madre patria, questi colonizza tori non erano più Francesi ‘veri e propri’ (PROCHASKA 1990, pp. 206-229). Queste espressioni spiegano perché gli sviluppi demografici nel Maghreb ave vano messo in crisi il legame fra ‘locale’ e ‘indigeno’ e questi due gruppi ‘nuovi’ rappresentavano un’ambiguità che minacciava la vecchia distinzione fra coloniale e indigeno. Creare due categorie nuove fu la soluzione per met tere fine a quest’ambiguità e per salvare, almeno in apparenza, il vecchio contrasto. ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 8 5. Cultura materiale e categorie (post-)coloniali L’importanza antropologica e archeologica di queste osservazioni è le gata alla differenza fra il modo in cui la gente percepisce il proprio mondo e le loro azioni in pratica, ossia il contrasto fra percezione e rappresentazione da un lato, e la praxis (practice) dall’altro. Anche se i resti archeologici si riferiscono in primo luogo ad azioni ed attività che veramente si sono svolte nel passato, in quanto cultura materiale essi ci informano anche sulle scelte fatte allora dalla stessa gente – se si accetta almeno il presupposto post-processuale che il significato di cultura materiale dipenda del suo specifico con testo e che sia individualmente attribuito. Come d’altronde già suggerito da studi etnografici sulla cultura materiale in contesti coloniali di epoca più re cente (THOMAS 1991), questo significa che gli stessi oggetti possono avere dei significati ben diversi in contesti diversi, così come la ceramica di produzione greca e importata in Calabria o nella Sardegna non è necessariamente asso ciata con la Grecia, ma può avere un significato del tutto diverso per gli abitanti italici o per gli abitanti nuragici delle due regioni. Anche in studi archeologici nel Mediterraneo si insiste infatti sempre più esplicitamente sul la distinzione fra cultura materiale ed identità culturale (PAPADOPOULOS 1997; 1999; MORRIS 1998). Le espressioni pied noir e évolué dimostrano inoltre il valore relativo dei significati che si creano o che vanno fuori uso nel corso del tempo, in concomitanza con i cambiamenti delle circostanze. Anche perché, in una si tuazione coloniale, in cui i colonizzatori convivono con i colonizzati, vi è una necessità maggiore di definire i limiti e le differenze, mentre la contiguità giornaliera rende difficile non notare le somiglianze fra categorie presunte diverse: chi era ‘veramente’ francese nel Maghreb del primo Novecento? Da un punto di vista post-coloniale non ha senso, per motivi simili, distinguere fra insediamenti più o meno greci e romani o ellenizzati e roma nizzati. Distinguere fra coloniale e indigeno nei contesti archeologici diventa quindi ancora più arduo: è possibile interpretare la combinazione di riti fu nerari indigeni con un corredo largamente coloniale come indicativa di una ‘vera’ identità indigena o bisogna al contrario prendere gli oggetti importati come testimoni di un’autorappresentazione coloniale? La cultura materiale può inoltre essere usata in senso opposto, proprio per negare una situazione esistente ma indesiderata, in un modo comparabile alla negazione delle affinità fra coloniale e indigeno espressa dalle parole pied noir e évolué. Sempre nel Maghreb sotto dominio francese, le riorganiz zazioni delle città marocchine illustrano questo ruolo di cultura materiale: dopo la ‘pacificazione’ del Marocco nel 1907, il governatore del nuovo pro tettorato, il generale Lyautey, si proponeva di organizzare la società coloniale in maniera esemplare – evidentemente dal suo punto di vista. In base alle sue esperienze coloniali in Indocina ed Algeria, egli voleva conservare e mettere ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 9 insieme il meglio della cultura coloniale e indigena in Marocco (RABINOW 1989, pp. 282-316). Sotto la direzione di Lyautey, le città marocchine furono intenzionalmente divise in due, in una medina indigena o città tradizionale da una parte, e una ville nouvelle o città moderna dall’altra (Fig. 4). Le due zone delle città erano non solo separate fisicamente da una larga fascia verde (nel caso di Fez) o dalle vecchie mura (nel caso di Rabat), ma si distinguevano anche per una pianta e un’architettura chiaramente diverse (ABU-LUGHOD 1980, pp. 131-195). Il contrasto era ed è ancora ovvio: da una parte la città colo niale europea con larghi viali ed architettura europea in cemento dipinto di bianco; dall’altra i vicoli stretti e tortuosi, sempre affollati, fra piccole botte ghe irregolari e le moschee, costruiti in mattoni crudi di colore scuro che sembravano reificare la contrapposizione fra coloniale e indigeno (Fig. 4). La realtà coloniale era tuttavia ben più complessa, perché parecchi abi tanti delle città non si curavano molto di questa divisione che evidentemente non corrispondeva con lo stato delle cose – o almeno con come lo percepiva no gli abitanti nella loro vita giornaliera: si aprivano delle botteghe più o meno ‘indigene’ nelle villes nouvelles e a Casablanca la maggior parte dei commercianti preferiva la ville nouvelle agli spazi assegnati loro nella medina, che così fu ridotta a una zona secondaria e periferica della città anziché costi tuire un centro indigeno come previsto dagli architetti di Lyautey (ABU-LUGHOD 1980, pp. 196-215). Benché manchino dati dettagliati come quelli di Bône, non vi è dubbio che la popolazione delle città marocchine in sostanza non era meno compo sita di quella delle città algerine. È perciò possibile interpretare la politica di Lyautey come una reazione alla confusione creata dagli sviluppi demografici nel Maghreb ed una negazione della contemporanea erosione del significato dei termini ‘indigeno’ e ‘coloniale’. In un modo abbastanza simile all’introduzione delle espressioni pied noir e évolué, l’architettura e la cultura mate riale in genere si presentavano a Lyautey come un mezzo per riaffermare la distanza fra i colonizzatori e gli abitanti colonizzati del Marocco. Ridistribu ire gli abitanti fisicamente in due zone separate delle città e tenere gli indige ni letteralmente a distanza era la maniera per rivivere questa distinzione, che nei tempi di Lyautey ormai era diventata più concettuale che reale. Gran parte degli abitanti delle città marocchine, però, non si rassegnavano all’imposizione di una società divisa e man mano facevano piccole modifiche alle strutture loro imposte, minando poco a poco l’ordine voluto da Lyautey. In gergo post-coloniale, il discorso egemonico di Lyautey basato su una società dualistica fu attivamente riscritto dalla resistenza a questo dualismo delle persone a cui questa egemonia era stata imposta. ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 10 6. Categorie confuse e ibridismo nelle situazioni coloniali dell’Italia arcaica e classica Nelle situazioni coloniali del Mediterraneo occidentale in età arcaica e classica è possibile ravvisare tendenze simili a quelle fin qui descritte, cioè lo scomparire delle distinzioni fra coloniale e indigeno. Un esempio abbastanza chiaro è offerto dall’abitato e dalla necropoli di Morgantina nella Sicilia orien tale, dove i contesti tombali di età arcaica si presentano ellenizzati per quan to riguarda la tipologia delle tombe e parte del corredo funerario. La sepol tura di diverse persone in un’unica tomba, il trattamento degli stessi defunti, la presenza di un buon numero di oggetti siculi e la composizione del corre do dimostrano tuttavia che gli abitanti di Morgantina arcaica conservavano sempre le tradizioni locali del passato. Il fatto che in questo periodo i corredi comprendessero vasi greci, che erano stati importati dagli insediamenti colo niali sulla costa, indica più che la presenza di contatti fra gli abitanti ‘colonia li’ e quelli ‘indigeni’. L’accostamento di oggetti indigeni e importati e soprat tutto la scelta di oggetti esotici, ma uniformati alle categorie locali, provano che le norme per seppellire e onorare i defunti rimanevano, nonostante tut to, vicine alle tradizioni locali (LYONS 1994; 1996, pp. 182-186). È soprattut to significativa l’osservazione che gli oggetti importati rappresentavano una scelta ben precisa, perché i vasi importati corrispondevano funzionalmente a tipi locali frequenti nei contesti funerari (LYONS 1996, p. 186). L’insediamento di Morgantina si presenta invece alquanto diverso, perché fu ricostruito nella seconda metà del VI secolo a.C. secondo delle norme di evidente ispira zione greca: la seconda fase di Morgantina è caratterizzata da una regolare organizzazione spaziale e da nuovi metodi costruttivi. Spiccano soprattutto alcuni edifici monumentali che si inserivano nelle preferenze e tradizioni gre che dell’epoca, il che è sottolineato dalle decorazioni architettoniche (ANTONACCIO 1997, pp. 172-180). Questa ristrutturazione è generalmente stata interpretata come una pro fonda trasformazione della comunità locale che abbandonava le sue tradizio ni indigene per adottare nuove norme greche. Il confronto con le tombe dimostra tuttavia che il processo di ellenizzazione non fu così profondo e assoluto: la persistenza delle tradizioni locali nei riti funerari indica invece che la ‘ellenizzazione’ di Morgantina non fu un processo di sostituzione di una cultura autonoma con un’altra. Fu piuttosto uno sviluppo messo in atto e sostenuto dagli stessi abitanti che sceglievano di introdurre innovazioni in certi aspetti della loro vita, come l’aspetto e l’organizzazione spaziale dell’insediamento, ma che aderivano alle vecchie tradizioni per onorare i loro de funti. Anche se la scelta presumibilmente non era conscia, come nel caso marocchino, l’attivo coinvolgimento degli abitanti in questi sviluppi è co munque reso evidente dalle loro azioni, attestate dai resti archeologici. Que sto caso conferma quindi l’opinione post-coloniale che non è possibile defi©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 11 nire una situazione di questo genere come essenzialmente indigena o come invece in fondo già coloniale (‘ellenizzata’); essa rappresenta piuttosto una nuova identità, che è definita nel contesto locale rispetto agli elementi colo niali e indigeni di cui ingloba aspetti ma a cui non è riducibile. La novità dell’identità locale costruita in una situazione coloniale è ancora più evidente nel caso del nuraghe Genna Maria di Villanovaforru nella Sardegna centrale: una parte del nuraghe, originalmente costruita nella media età del Bronzo e poi abbandonata nell’età del Ferro (VI secolo a.C.), fu utilizzata nel IV secolo a.C. come luogo di culto in cui si celebravano riti connessi con la fertilità agraria. Come dimostrano un busto di Demetra, delle spighe di grano in argento e dei bruciaprofumi, fra cui alcuni cosiddetti kernophoroi rappresentanti Demetra, il culto aderiva primariamente a tradi zioni puniche (LILLIU 1993a; VAN DOMMELEN 1998, pp. 151-154). Il carattere punico, però, è messo in causa da alcuni elementi chiaramente estranei al culto di Demetra, come prima di tutto lo stesso luogo di culto che faceva parte di un fenomeno di riutilizzo di monumenti nuragici attestato in un’ampia zona della Sardegna centrale (PIRREDDA 1994; cfr. LILLIU 1990). Altrettan to estraneo era l’usanza di offrire delle lucerne, l’atto rituale principale a Genna Maria come dimostra il numero altissimo di lucerne ivi trovato, che riprende una tradizione indigena attestata già nell’età del Ferro (LILLIU 1993b). Dato il distacco cronologico fra l’abbandono del nuraghe e l’inaugurazione del sacello e visto l’originale carattere abitativo del monumento, è comunque da escludere una diretta continuità indigena per spiegare gli elementi ‘indige ni’ nel culto celebrato a Genna Maria. Bisogna invece considerare questo culto come un fenomeno strettamente sardo di età punica, perché gli elemen ti locali lo differenziano dal culto punico vero e proprio, mentre i bruciapro fumi e il busto di Demetra dimostrano che è ancora più impossibile conside rarlo come indigeno o ‘nuragico’. È infatti proprio l’accostamento degli ele menti locali e stranieri che mette in evidenza che il culto celebrato a Genna Maria e in altri sacelli della Sardegna centrale è una novità né punica né nuragica ma per l’appunto piuttosto ‘sardo-punica’. Ambedue le situazioni di Morgantina e di Genna Maria dimostrano che le abituali categorie di ‘coloniale’ e ‘indigeno’ non bastano per spiegare le influenze e i cambiamenti, perché essi sono attestazioni di sviluppi ben più complessi di una semplice transizione di una ‘primitiva’ società indigena a una civilizzazione coloniale. Si trattava al contrario di situazioni complicate e confuse, in cui gli abitanti locali della Sicilia orientale e della Sardegna centro-occidentale occupavano un ruolo centrale, perché erano loro che faceva no le scelte nei loro contatti con i nuovi abitanti coloniali. Il carattere talvolta parziale e contraddittorio di queste decisioni si spiega perché dovevano avere senso nel contesto locale anziché in quello greco o cartaginese. In termini post-coloniali, si definisce ‘ibrida’ o ‘creola’ una tale cultura mista che è stret tamente locale e innovativa (BHABHA 1994a, p. 110; HANNERZ 1987; YOUNG ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 12 1995). L’identificazione di processi di ‘ibridazione’ in situazioni coloniali è un’importante obiettivo post-coloniale, perché essi indicano l’attivo coinvol gimento degli stessi abitanti locali nei cambiamenti e sottolineano che si co struiscono i significati culturali nei contesti locali nel corso di continui con tatti quotidiani (VAN DOMMELEN 1998, pp. 214-215). 7. Per un’archeologia post-coloniale Le teorie post-coloniali sono importanti per l’archeologia delle situa zioni coloniali per due motivi: in primo luogo perché offrono i mezzi concet tuali per un’analisi critica delle rappresentazioni tradizionali tali contesti e in secondo luogo perché propongono concretamente degli approcci alternativi per studiare gli aspetti complessi e ambigui o ‘grigi’ delle situazioni coloniali antiche e per affrontare i problema dei termini e concetti di ‘coloniale’ e ‘indigeno’. L’attenzione post-coloniale per l’ambiguità coloniale è particolarmente rilevan te, perché supera la divisione netta, ma artificiale, fra coloniale e indigeno e perché mette in rilievo la realtà complessa e spesso confusa di tali situazioni. L’archeologia può da parte sua contribuire alle teorie post-coloniali esa minando il ruolo della cultura materiale. Come indica il caso delle città ma rocchine, un’attenta analisi della cultura materiale, e soprattutto delle sue contraddizioni interne, offre la possibilità di studiare gli atteggiamenti di chi è coinvolto nel rapporto coloniale. Il caso marocchino dimostra inoltre che la cultura materiale può essere stata vista ed usata in modi ben diversi da gruppi diversi, il che significa che gli stessi oggetti e gli stessi spazi nella città e nelle case avevano significati diversi per persone diverse. Mentre alcuni archeologi, in particolare quelli di ispirazione post-processuale, hanno indi pendentemente proposto di accettare che oggetti possano avere significati alternativi o anche contraddittori, le conseguenze di una tale visione per stu di archeologici di situazioni coloniali è notevole, perché implica che i termini ‘indigeno’ e ‘coloniale’ hanno senso soltanto se sono strettamente sincronici, dato che il loro significato si costruisce in un contesto specifico, delimitato nel tempo e nello spazio. Questi elementi possono essere riassunti in pochi punti di partenza per un’archeologia post-coloniale (VAN DOMMELEN 1997; ROWLANDS 1998). Al centro di tutto si trova il contesto locale, perché bisogna considerare i pre sunti insediamenti coloniali in primo luogo come parte di un sistema insedia tivo regionale che comprende anche insediamenti ‘indigeni’, anziché studiar li soltanto in connessione con altre fondazioni d’oltremare. Gli abitanti di una regione colonizzata, senza badare alla loro provenienza, e i rapporti che hanno fra di loro costituiscono così l’oggetto principale di un approccio post coloniale in archeologia. Segue poi il carattere locale e sincronico dei signifi cati della cultura materiale e delle identità locali, perché sono costruiti nei ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 13 contesti locali. Tenendo presente il ruolo dei processi di ibridazione colonia li, non si può dare per scontata a priori l’esistenza di un contrasto fra colonia le e indigeno – il che evidentemente non esclude che in certe situazioni una tale contrapposizione ci fu per davvero. Una visione post-coloniale mette poi in rilievo il ruolo attivo della cul tura materiale nella società ed il carattere costruito e contestuale dei suoi significati. 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