Art. 3 c. 2 di Massimiliano annetta tra le novelle legislative introdotte

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Art. 3 c. 2 di Massimiliano annetta tra le novelle legislative introdotte
Art. 3 c. 2
di
Massimiliano Annetta
All’articolo 635 del codice penale, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al secondo comma, numero 3), dopo le parole: «centri storici» sono
inserite le seguenti: «ovvero su immobili i cui lavori di costruzione, di
ristrutturazione, di recupero o di risanamento sono in corso o risultano
ultimati»;
b) dopo il secondo comma è aggiunto il seguente:
«Per i reati di cui al secondo comma, la sospensione condizionale della
pena è subordinata all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero, se il condannato non si oppone, alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo
determinato, comunque non superiore alla durata della pena sospesa,
secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna».
Tra le novelle legislative introdotte col cosiddetto “pacchetto sicurezza” vi è pure la previsione di sensibili inasprimenti dell’apparato sanzionatorio in materia di danneggiamento, imbrattamento di immobili,
insozzamento delle strade. In particolare, l’art. 3 c. 2 l. 15 luglio 2009,
n. 94, che modifica l’art. 635 c.p. (danneggiamento), si inserisce tra le
disposizioni per la repressione del fenomeno dei c.d. writers o graffitari, autori di murales e scritte su muri di edifici pubblici e privati, su
autobus, treni e, in generale, su beni mobili e immobili altrui.
L’obiettivo viene perseguito, in primis, mediante l’ampliamento della circostanza aggravante inserita al numero 3) del secondo comma
dell’art. 635 c.p. All’elencazione dei beni qui indicati – il danneggiamento dei quali, si rammenta, comporta la sanzione della reclusione
da sei mesi a tre anni e rende il reato procedibile di ufficio – e che già
comprendeva gli “edifici pubblici o destinati a uso pubblico o all’esercizio di un culto”, “cose di interesse storico o artistico ovunque siano
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ubicate” e “immobili compresi nel perimetro dei centri storici” e le altre cose indicate nel numero 7) dell’art. 625 c.p., vengono aggiunti gli
“immobili i cui lavori di costruzione, di ristrutturazione, di recupero o
di risanamento sono in corso o risultano ultimati”.
Si allarga, dunque, sensibilmente la gamma degli immobili protetti
dalla fattispecie aggravata: risultano ora tutelati non più i soli edifici
pubblici o destinati al culto o gli immobili ubicati nel perimetro dei
centri storici, nonché le cose di interesse storico o artistico ovunque
ubicate, ma anche quegli edifici che siano stati interessati da lavori di
risanamento, ovunque siano collocati. A ben vedere, tuttavia, la modifica, seppure condivisibile in linea di principio, rimane ancora parziale, soprattutto laddove confrontata con la novellata disciplina in tema
di deturpamento e imbrattamento di cose altrui (art. 639 c.p.), con la
quale si è introdotto un rafforzamento della tutela per tutti gli immobili, a prescindere dalle loro qualità ed ubicazioni.
Non v’è chi non lamenti la indeterminatezza della locuzione legislativa 1, che fa riferimento agli immobili i cui lavori di risanamento
“risultano ultimati”: posto, infatti, che tale espressione possa adattarsi
a tutti gli immobili dei quali siano ultimati – anche in epoche assai remote – i lavori di costruzione, pare ragionevole riferire il dictum legislativo ai soli immobili interessati da lavori di recupero a breve distanza di tempo dalla commissione del reato.
Per tutte le ipotesi aggravate di danneggiamento il legislatore ha
previsto – ed è questa, a parere di chi scrive, la vera novità introdotta
dalla novella legislativa – una particolare ipotesi di sospensione condizionale della pena “condizionata”. Il beneficio suddetto, infatti, potrà
essere concesso solo subordinatamente all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero, se il condannato non si
oppone, alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato, comunque non superiore alla durata
della pena sospesa, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna. La sospensione condizionale della pena (che può
1Così Bricchetti-Pistorelli, Introdotta una disposizione anti «graffitari», in GD 33/2009,
p. 48.
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essere concessa qualora la pena inflitta non sia superiore a due anni di
reclusione) è, pertanto, subordinata o alla riparazione a proprie spese
di quanto danneggiato o alla prestazione di lavoro socialmente utile:
chi rompe paga, dunque.
La disposizione introdotta all’ultimo comma dell’art. 635 c.p. è modellata sulla falsariga della seconda parte del primo comma dell’art.
165 c.p., come modificato dall’art. 2 c. 1 lett. a) l. 11 giugno 2004, n.
145. Si riproporranno. pertanto, anche in questa sede, le incertezze applicative già sorte attorno all’istituto della c.d. sospensione “condizionata” della pena 2.
Venendo ad analizzare gli specifici obblighi che possono essere imposti al condannato, occorre in primis evidenziare che il legislatore
non ha ritenuto di richiamare la prima parte dell’art. 165 c.p., che subordina la sospensione condizionale al risarcimento del danno ed alla
pubblicazione della sentenza a titolo di riparazione del danno.
In primo luogo, dunque, il giudice avrà la possibilità di subordinare
la sospensione condizionale della pena alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato. Nonostante la apparente genericità di tale formulazione, occorre subito precisare che gli obblighi
riparatori che il giudice imporrà al condannato non potranno essere
indeterminati: il riferimento, contenuto nell’ultima parte del novellato
art. 635 c.p., alle modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna, implica infatti la descrizione del risultato cui la condotta del reo
deve tendere. Ciò che può esigersi dal soggetto è un comportamento
uguale e contrario al reato, un attivarsi per rimuoverne gli effetti tipici
e comunque causali. Proprio la necessità dell’esistenza di un rapporto
di consequenzialità tra condotta ed evento di danno o pericolo tipico
nella sua concreta dimensione definirà gli interventi da imporre al reo
dietro la minaccia dell’esecuzione della pena. In altre parole, soltanto
gli accadimenti lesivi riconnessi causalmente al fatto di reato, che ne
caratterizzano il contenuto offensivo, possono essere presi in conside2 Si vedano Gatta, L’obbligo del lavoro nella sospensione condizionale riformata, in CM
2006, pp. 329 ss.; Guglielmo, Gli obblighi imposti con la sospensione condizionale della pena:
termini per l’adempimento, in DPP 2005, p. 293 ss.; M artini, sub art. 165 c.p., in Padovani (a cura
di), Codice Penale, II ed., Milano, 2005, pp. 881 ss.
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razione dal giudice al fine di arricchire di contenuti positivi la sospensione condizionale della pena 3. In altri termini, la legge pare porre a
carico del condannato una sorta di obbligazione di risultato: non basta
che il soggetto si attivi per la eliminazione delle conseguenze dannose
o pericolose del proprio agire (secondo lo schema dell’art. 62 n. 6 c.p.),
ma è necessaria la loro effettiva eliminazione. In buona sostanza, con
riferimento alla fattispecie delittuosa in esame, ciò che si è inteso fare
è imporre al reo la riparazione del bene danneggiato sotto la minaccia
dell’esecuzione della pena. Tale obbligo assume particolare significato
sul piano del recupero sociale del reo, imponendo all’autore del reato un
confronto impietoso con le conseguenze del proprio agire 4: qualunque
sia la natura delle conseguenze lesive del reato, siano esse quantificabili in un corrispondente pecuniario oppure no, l’ordinamento rivendica
il diritto di imporre al soggetto che goda della sospensione condizionale della pena l’obbligo di elidere i contenuti lesivi del reato commesso,
secondo modalità definite dal giudice nella sentenza di condanna.
Ciò indipendentemente dall’iniziativa di parte: ne discende che la
possibilità per il giudice di subordinare la sospensione condizionale
della pena all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose
del reato, a differenza di quanto accade per le diverse disposizioni a
carattere risarcitorio, come già detto non richiamate nel caso di specie,
non presuppone l’esercizio dell’azione civile in sede penale 5.
In alternativa alla condotta riparatoria, ove il condannato non si opponga, potrà essergli imposto di impegnarsi in una attività lavorativa
non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato e
comunque non superiore alla durata della pena sospesa, ovvero per un
tempo la cui durata è rimessa alla commisurazione del giudicante con
la sola fissazione del massimo.
Si tratta di una novità concepita in bonam partem, alla ricerca di
una condizione che possa arricchire il periodo durante il quale la pena
3 Si veda Martini, sub art. 165 c.p., in Padovani (a cura di), Codice Penale, II ed., Milano, 2005
p. 886.
4 Si veda Padovani, La sospensione condizionale oltre l’orizzonte delle “modifiche al sistema
penale”, in RIDPP 1983, p. 1265.
5 Cass. pen., sez. III, 2 giugno 1998, n. 7933, in GD 35/1998, p. 59.
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rimane sospesa, senza troppo pesare sul condannato, sottoponendolo,
nell’ipotesi alternativa della riparazione del danno, ad oneri finanziari
anche elevati. Quella che l’ordinamento ora gli propone è una opportunità: ove trovasse eccessivamente oneroso farsi carico del risarcimento
e della riparazione e ove non fosse in condizioni economiche di addossarsi la condotta di eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, accogliendo o sollecitando la decisione del giudice,
potrà veder pronunciata una condanna a pena sospesa che gli imponga
altresì una prestazione lavorativa gratuita. Uno degli elementi di giudizio che in tale prospettiva il giudice non potrà dimenticare di utilizzare
è quello delle condizioni di vita del reo, per evitare di imporre obblighi
che, risultando impossibili da rispettare, coincidano con un diniego
della sospensione, ovvero con una rinuncia al trattamento sanzionatorio più adeguato in chiave special-preventiva.
Non va sottovalutata, inoltre, la portata rieducativa che deriva
dall’assoggettare il reo ad una prestazione lavorativa a favore della collettività, considerando tale opportunità come strumento per riproporre
al soggetto il significato dei valori che con il proprio agire aveva compromesso, senza comportare necessariamente eccessi afflittivi o desocializzanti 6.
È ben vero che, per evitare lo scoglio rappresentato dal divieto di
lavoro obbligatorio sancito dall’art. 4 c. 2 C.E.D.U., al condannato è assicurata la facoltà di opporsi alla prestazione dell’attività socialmente
utile, ma si tratta – com’è agevole constatare – di una libertà dall’esercizio piuttosto rischioso, se il condannato non è, per qualunque ragione, in grado di percorrere la strada dell’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose. Rifiutandosi di eseguire la prestazione di utilità sociale, non resterebbe che l’esecuzione della sanzione tramite una
misura alternativa o, addirittura, secondo le vie ordinarie, con la carcerazione.
Quanto alle concrete modalità di adempimento della prestazione di
lavoro socialmente utile, si applica l’art. 18-bis disp. coord. c.p., intro6 Si veda Martini, sub art. 165 c.p., in Padovani (a cura di), Codice Penale, II ed. Milano, 2005,
p. 889.
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dotto dall’art. 5 l. 11 giugno 2004, n. 145, che al fine di determinare i
limiti dell’incidenza di tale lavoro sulle ordinarie occupazioni del condannato rinvia alle regole dettate per l’esecuzione dell’omologa pena
principale prevista per i reati rimessi alla competenza del Giudice di
pace. In forza di tale disposizione, nel regolare le modalità di esecuzione dell’attività non retribuita a favore della collettività, il giudice deve
osservare, in quanto compatibili, le disposizioni degli artt. 44, 54 c. 3,
4 e 6 e 59 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274.
L’art. 54 c. 2 d.lgs. 274/2000 stabilisce che “Il lavoro di pubblica
utilità non può essere inferiore a dieci giorni né superiore a sei mesi e
consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni
o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato”.
L’attività deve essere svolta in un ambito territoriale che non ostacoli le
ordinarie occupazioni e relazioni sociali del condannato (“nell’ambito
della provincia in cui risiede”, sancisce il comma 3 del citato art. 54)
e non può impegnarlo per più di sei ore di lavoro settimanale “da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro,
di studio, di famiglia e di salute del condannato”. A richiesta del prevenuto, egli può, tuttavia, essere ammesso ad impegnarsi per un tempo
superiore, ma comunque per non più di otto ore giornaliere.
L’art. 18-bis disp. coord. c.p. non richiama espressamente il disposto del comma 5 dell’art. 54 d.lgs. 274/2000, laddove si stabilisce che
“ai fini del computo della pena, un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione, anche non continuativa, di due ore di
lavoro”. Non si comprende dunque come debba computarsi la misura
dell’impegno del condannato a pena sospesa, posto che l’art. 635 u.c.
c.p. prevede soltanto che esso debba durare “per un tempo determinato
e comunque non superiore alla durata della pena sospesa”. In mancanza di una tale precisazione, risulta disagevole determinare la durata della prestazione in riferimento a quel tempo determinato imposto
dalla sentenza di condanna o comunque non superiore alla durata della
pena sospesa.
Il comma 6 dell’art. 54 d.lgs. 274/2000 (espressamente richiamato dall’art. 18-bis di nuovo conio) stabilisce che “le modalità di svol-
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gimento del lavoro di pubblica utilità sono determinate dal Ministro
della giustizia con decreto d’intesa con la Conferenza unificata di cui
all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997 n. 281”. In attuazione
di tale disposizione è stato emanato il d.m. 26 marzo 2001 intitolato
“Norme per la determinazione delle modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità applicato in base all’art. 54, comma 6, del D.Lgs.
28 agosto 2000, n. 274”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 80 del
5 aprile 2001.
Si è detto che la nuova norma contempla che il soggetto possa opporsi all’imposizione del lavoro di pubblica utilità: si pone, pertanto,
il problema delle forme di raccolta della volontà dell’imputato e delle conseguenze della manifestazione dell’opposizione susseguente ad
una sentenza di condanna che imponga l’obbligo del lavoro socialmente utile. Si dovrà immaginare un tempo ed un luogo processuale, dopo
la sentenza, nel quale la stessa opzione possa essere formulata, sulla
base della consapevolezza dell’alternativa che si pone. Simili soluzioni
processuali sono, però, tutte da studiare: può ben darsi che il giudice
abbia optato, ad esempio, per la prestazione di un’attività socialmente
utile, ma il condannato intenda opporvisi, per puntare sull’eliminazione delle conseguenze del reato. Ciò implica che la sentenza di condanna possa essere formulata in chiave alternativa: il soggetto si potrà vedere imposto il lavoro (ove consenta) in alternativa ad un adempimento
risarcitorio o riparatorio del tipo di quelli tradizionalmente concepiti.
In tal caso, ove il giudicante si fosse limitato ad una indicazione generica, non sarebbe ragionevole immaginare che la sola opposizione
del condannato possa produrre il risultato di una sospensione priva di
contenuti. Non resterebbe allora che confidare nell’intervento, quale
organo competente per la determinazione della prestazione da rendere, su istanza del Pubblico Ministero ai sensi dell’art. 657 c.p.p., del
giudice competente per l’esecuzione delle pene principali, che vedrà
così significativamente dilatato il proprio spazio di cognizione. D’altra
parte, è proprio la legge istitutiva della competenza penale del Giudice
di pace ad immaginare un coinvolgimento di tale organo giurisdizionale sancendo infatti all’art. 44, richiamato dall’art. 18-bis disp. coord.
c.p., che “Le modalità di esecuzione […] del lavoro di pubblica utilità,
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stabilite nella sentenza emessa dal giudice possono essere modificate
per motivi di assoluta necessità dal giudice osservando le disposizioni
dell’art. 666 c.p.p.”. In tal caso, però, risulterebbe comunque disagevole immaginare in che termini il contenuto della sentenza di condanna
possa dipendere dalle determinazioni di un organo non investito delle
valutazioni di merito: la questione attiene infatti al merito del trattamento sanzionatorio latu sensu inteso – censurabile, come noto, solo
attraverso l’impugnazione in grado di appello – mentre, ad avviso di
chi scrive, va considerata con grande perplessità l’ipotesi che essa venga prospettata, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, in sede di
incidente d’esecuzione.
All’atto pratico dobbiamo ipotizzare piuttosto che l’imputato medesimo possa risultare il primo promotore dell’applicazione di tale beneficio, pronunciandosi preventivamente, prima che il giudice si ritiri
in camera di consiglio, sulla disponibilità a subire l’imposizione di un
lavoro non retribuito nel caso in cui venga condannato. Pare, nondimeno, da escludere che prima della sentenza, in mancanza di una iniziativa da parte dell’imputato, possa essere sollecitata da parte del giudice
la dichiarazione dell’imputato in ordine alla disponibilità all’una piuttosto che all’altra delle condotte richieste per la concessione del beneficio dall’art. 635 c. 3 c.p., ciò che finirebbe con l’anticipare, neanche
tanto surrettiziamente, un giudizio di condanna, a meno di non concepire una simile dichiarazione come mero passaggio di stile, svuotando
in tal modo la scelta dei contenuti di ponderazione che è necessario la
precedano.
Quanto ai modi, rimane da definire se tale opposizione debba essere espressa dall’imputato o condannato personalmente ovvero anche a
mezzo del difensore ed in tal caso se necessiti una procura speciale. La
prima soluzione sarebbe più logica, implicando l’opzione scelte davvero personalissime; essa però precluderebbe la possibilità di esprimersi
per chi non partecipi personalmente al processo. Si potrebbe, allora,
immaginare la validità di un’opposizione espressa da un difensore munito di procura speciale ad effetti sostanziali.
Il legislatore non ha ritenuto di riproporre la disposizione dell’ultimo comma dell’art. 165 c.p. che stabilisce che il giudice provveda a
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fissare un termine entro il quale gli obblighi devono essere adempiuti.
È ben possibile che tale norma possa essere applicata in via analogica, stante anche il rapporto di specialità che lega la disposizione del
novellato ultimo comma dell’art. 635 c.p. all’art. 165 c.p., ma permangono tutti quei problemi interpretativi già emersi con riferimento a
quest’ultima norma, la quale non fornisce indicazioni sostanziali per
la determinazione del termine, che in astratto può spaziare tra l’immediata pretesa di adempimento e la scelta di un momento successivo alla
formazione del giudicato, se non addirittura coincidente col tempo nel
quale, alle condizioni di legge, dovrebbe maturare l’estinzione del reato in contestazione.
È discussa, invece, la possibilità che il termine sia fissato dal giudice a prescindere dall’esecutività della sentenza, con la conseguenza
che, per non vanificare le aspettative connesse alla sospensione condizionale della pena, il “condannato” potrebbe trovarsi costretto a dare
adempimento alle prescrizioni impostegli ancora prima di essere attinto dalla condanna stessa. In effetti la giurisprudenza non ha mancato di
osservare, in qualche caso, che la “sospensione della esecuzione della
pena” presuppone necessariamente una “sentenza di condanna eseguibile”, con la conseguente illegittimità di provvedimenti che tendano ad
anticipare gli effetti della relativa disciplina 7. Sennonché, pur volendo
ammettere la validità di un tale assunto sul piano generale, residuano
casi nei quali è la stessa legge ad ammettere l’esecuzione provvisoria
di provvedimenti adottati con sentenze non ancora irrevocabili ed è
tipico, in tal senso, il caso della provvisionale disposta in favore della
parte civile (al cui pagamento la sospensione condizionale può essere
subordinata secondo il comma 1 dell’art. 165 c.p.).
Nelle ipotesi in esame, nelle quali come detto manca una espressa
disciplina legislativa, con ogni probabilità mancherà da parte del giudice la fissazione di un termine per l’adempimento, con ulteriori problemi applicativi. In giurisprudenza, con riferimento a qualche specifico caso in cui era mancata la fissazione del termine ex art. 165 u.c.
c.p., sia pur precisando che la scelta era condizionata dalla natura della
7
Cass. pen., sez. VI, 5 febbraio 1998, n. 2347, in CP 1999, p. 126.
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prestazione nella specie imposta al condannato, si è ritenuto che il termine coincidesse col momento del passaggio in giudicato della sentenza 8. Anche in un’altra occasione si è sostenuto, stavolta sul piano generale, che la data di irrevocabilità del provvedimento assume il ruolo
di termine in tutti i casi nei quali il giudice, tacendo, non si sia avvalso
dell’opportunità di fissarne una diversa 9.
Proprio a quest’ultimo proposito, però, si registrano difformi prese di posizione della stessa giurisprudenza di legittimità. In assenza
di indicazioni nel provvedimento giudiziale, il condannato dovrebbe
intendersi ammesso a compiere utilmente le attività richiestegli entro
la data di maturazione dell’effetto estintivo tipico della sospensione
condizionale e cioè quella posta ad un biennio o ad un quinquennio
dal passaggio in giudicato della condanna riguardante, rispettivamente, una contravvenzione od un delitto 10. Non manca neppure la tesi che
contesta la legittimità di un provvedimento giudiziale privo del termine per l’adempimento, ponendo a carico del giudice dell’esecuzione il
compito di fissarlo con un proprio ed autonomo intervento 11.
In definitiva, avere affidato le sorti della nuova disciplina alla previsione della prestazione di utilità sociale significa scommettere su un
impegno organizzativo di notevoli proporzioni. È ben vero che la misura (nei suoi tratti contenutistici) è già presente, ad altro titolo e con
diversa finalità, nel settore dei reati di competenza del Giudice di pace
ed è dunque applicabile quale sanzione, tra l’altro, proprio nelle ipotesi
lievi di danneggiamento (art. 635 c. 1 c.p.), ma in quell’ambito il ricorso al lavoro di pubblica utilità quale pena alternativa risulta senz’altro
marginale, se non proprio eccezionale. Di contro, ponendolo (alternativamente alla condotta risarcitoria) come condicio sine qua non della
sospensione condizionale della pena, non è difficile prevedere una fre8Cass. pen., sez. I, 29 novembre 2000, n. 5217, in RP 2001, p. 460, relativamente all’obbligo di
versamento delle somme dovute per il mantenimento dei figli.
9 Cass. pen., sez. VI, 14 maggio 1996, n. 8392, in CP 1997, p. 2081.
10 Cass. pen., Sez. II, 13 marzo 1991, n. 8532, in CP 1992, p. 366.
11 V’è da dire, peraltro, che il principio è stato enunciato a fronte dell’assurdo di un provvedimento di carcerazione emesso, subito dopo la conseguita irrevocabilità della sentenza, sul presupposto che il condannato non avesse adempiuto all’obbligo impostogli, in relazione al quale era stata appunto omessa la fissazione del termine. Cfr. Cass. pen., sez. VI, 20 dicembre 1988, n. 180015,
in RP 1989, p. 993.
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quenza statistica di applicazioni assai rilevante, nel contesto delle reiterazioni del beneficio.
Da segnalare, peraltro, la scarsa dimestichezza con tale istituto del
giudice monocratico (competente per le ipotesi aggravate di danneggiamento), come dimostrano le difficoltose applicazioni dell’istituto
nelle ipotesi analoghe disciplinate dall’art. 165 c. 1 c.p. e dall’art. 73 c.
5-bis d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309 per l’ipotesi attenuata di spaccio di
stupefacenti.
Deve, infine, notarsi come non sia stata riproposta (analogamente
alla disposizione dell’art. 165 c. 3 c.p.) la clausola di salvaguardia per
le ipotesi di c.d. prescrizione breve disciplinata dall’art. 163 c. 4 c.p.
Quid iuris, dunque, nel caso in cui la pena inflitta non sia superiore ad
un anno ed il reo abbia già riparato interamente il danno prima che sia
pronunciata la sentenza di primo grado, ovvero quando il colpevole si
sia già adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato? In altri termini,
laddove siano maturati i termini per ottenere il beneficio della prescrizione breve, dovrà e potrà applicarsi questo beneficio o dovrà applicarsi la disposizione speciale di cui all’ultimo comma dell’art. 635 c.p.?
Sembra doversi optare per la prima ipotesi, sulla base della constatazione che quegli adempimenti chiamati ad arricchire il contenuto sanzionatorio della sospensione condizionale previsti dall’ultimo comma
dell’art. 635 c.p. non divergono da ciò cui il reo ha preventivamente e
spontaneamente adempiuto per poter essere ammesso al beneficio. Se,
dunque, le condizioni di ammissibilità alla sospensione breve implicano il previo conseguimento di tali risultati, non sarebbe logico imporli
nuovamente come condizione necessaria per ottenere la sospensione
della pena.