Il mestiere del cinema
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Il mestiere del cinema
Saggine / 141 Mario Monicelli IL MESTIERE DEL CINEMA a cura di Steve Della Casa e Francesco Ranieri Martinotti Con dodici fotografie dal set di Le rose del deserto DONZELLI EDITORE Per le fotografie © Francesco Ranieri Martinotti © 2009 Donzelli editore, Roma via Mentana 2b www.donzelli.it [email protected] ISBN 978-88-6036-353-4 ISBN PDF 9788860366146 IL MESTIERE DEL CINEMA Introduzione di Steve Della Casa e Francesco Ranieri Martinotti 1. Esiste un metodo? Mario Monicelli ha attraversato da protagonista tutte le stagioni del cinema, e oggi è il solo regista, insieme a Manuel de Oliveira, che può dire di aver frequentato i tendoni del cinema muto, così simili a quelli dei circhi, che s’innalzavano ai margini delle città e dove venivano accesi i primi proiettori senza sonoro. Accadeva a Viareggio negli anni venti, quando il piccolo Monicelli s’intrufolava tra le gambe dei villeggianti che assistevano meravigliati ai sorprendenti spettacoli di immagini in movimento della «nuova arte», accompagnati in sala dalla musica di un solitario pianista. È stato lì che la sua vita ha cominciato a intrecciarsi con quella del cinema e ad avanzare insieme all’evoluzione delle sue tecniche. Dal muto al digitale, passando per il sonoro, il colore, il cinemascope, l’avid, il dolby surround… In tanti anni gli strumenti del mestiere sono cambiati, ma Monicelli è rimasto coerente al suo modo di lavorare da grande artigiano del cinema. La sua curiosità lo ha portato nell’arco di una lunghissima carriera a uscire anche fuori dagli ambiti della commedia, con memorabili incursioni nel drammatico e nel cinema politico, con i più recenti documentari sul G8 di Genova e sulla realtà della Palestina. 7 Steve Della Casa e Francesco Ranieri Martinotti Altrettanto fondamentale, grazie alla notevole quantità di interviste, dichiarazioni, ricordi, Monicelli lo è per la memoria collettiva del nostro cinema, che si basa anche e soprattutto sulla testimonianza di un autore come lui, da sempre molto attivo sul piano produttivo e attento a quanto gli altri facevano e fanno. L’incrocio delle sue testimonianze consente di ricostruire quanto è avvenuto nel cinema italiano dagli anni trenta ai nostri giorni, dai kolossal di Gustav Machatý fino alle commedie del suo ex assistente Carlo Vanzina, dai brillanti gioiellini di Giacomo Gentilomo alle trasgressioni di Ciprì e Maresco. E tutto questo passando attraverso i grandi nomi della recitazione, della sceneggiatura, del romanzo. Una specie di occhio vigile che non ha difficoltà a ricordare e a consegnare a chi glieli chiede i suoi ricordi. Mario Monicelli è un testimone attivo di questa grande, lunga stagione, ma, se ha raccontato molto del suo cinema e del cinema degli altri, tende, per una sorta di raro pudore professionale, a minimizzare molto il proprio lavoro. Ed è per questo che, conoscendolo da tanto tempo e avendo avuto con lui molti incontri e conversazioni, ci siamo domandati se esisteva un metodo Monicelli, un suo stile personale di lavorare, un suo modo particolare di affrontare i problemi che accompagnano la realizzazione di un film. La risposta rimanda a un altro punto interrogativo. Il metodo di Monicelli è uno stato d’animo, un ambiente culturale, un tessuto di conoscenze, non è una formula isolabile e applicabile. È un approccio intellettuale a una lavorazione artigianale. Ma come avviene nelle botteghe artistiche del nostro Rinascimento, è un approccio unico, non direttamente mutuabile. Il giovane cineasta che si chiede come Monicelli abbia lavorato in film così numerosi e tanto diversi tro8 Introduzione verà dei punti di riferimento generali, una visione del mondo, un approccio al rapporto con gli altri protagonisti di quella macchina collettiva che è la realizzazione di un film. Ma non troverà formule e ricette isolabili e immutabili. Troverà prototipi anche quando è evidente la volontà di ispirarsi a film precedenti che hanno avuto successo. E troverà schemi preordinati anche quando l’innovazione risulta evidente e clamorosa. 2. Una generazione del «fare». Mario Monicelli non è una persona modesta, non tende a nascondere il proprio ruolo nell’ideazione e nella realizzazione di un film. Ma al tempo stesso non cita un solo film senza dimenticare le persone con le quali lo ha realizzato. Anzi: le persone con le quali lo ha «fatto». Il verbo «fare» è quello che ricorre continuamente quando Monicelli racconta le storie dei suoi film. «Fare», per lui che ha cominciato il mestiere come assistente, vuol dire innanzitutto agire, muoversi, non stare fermo. E riferito a ogni nuovo film significa partire per un lungo «processo fattivo» che comincia assai prima di scrivere una sola parola di quello che sarà il soggetto, la storia. Esso consiste in un’intensa azione di approfondimento che si concreta nel parlarne, disegnarne i contorni. Parlarne con gli sceneggiatori, che il più delle volte sono anche i suoi più cari amici. L’amicizia, il piacere di stare insieme, la complicità nel lavoro vengono prima di tutto il resto. Racconta Monicelli (e confermano gli sceneggiatori che hanno lavorato con lui) che l’origine di ogni film, anche di quelli più piccoli o meno riusciti, è sempre il frutto della condivisione collet9 Steve Della Casa e Francesco Ranieri Martinotti tiva delle diverse esperienze. Nei primi tempi ci si trova al caffè, in trattoria. Otello alla Concordia, in via della Croce, dove c’è un oste illuminato che fa credito a «quelli» del cinema, è uno dei luoghi più amati, dove si parla, ci si confronta e dove, dopo aver pranzato, si resta per ore e ore seduti intorno a un tavolo a discutere. Anche perché la maggior parte di essi vive in camere in affitto spoglie e fredde che sono utilizzate soltanto per dormire, e l’ambiente di una trattoria si presta a diventare un’accogliente sala riunioni. Si parla a lungo del più e del meno, di quello che è successo il giorno prima, di grandi fatti pubblici e di piccole osservazioni private. Oggi lo si definirebbe un brainstorming a tutto campo. Ma una definizione così roboante si addice ben poco allo spirito con cui si ritrovavano insieme lui e i suoi amici. Un modo di lavorare intenso, che forse era anche frutto di quell’ansia di riscatto morale attraverso la ricostruzione che animava in generale un paese come l’Italia, uscito a pezzi da un conflitto sanguinoso e umiliato da una classe dirigente rivelatasi al tempo stesso sanguinaria e imbelle. L’uscita dal disonore del fascismo e del nazismo, e contemporaneamente l’affacciarsi della possibilità per l’Italia di diventare un paese normale, democratico, diede un grande impeto a tante persone che attraverso la voglia di esprimersi, di uscire dal silenzio realizzarono, non solo nel cinema, ma nei vari campi della cultura, opere importanti, piene di energia e vitalità, delle quali ancora oggi si parla. All’inizio, Monicelli lavorò con Steno, Metz, Marchesi, Maccari, che frequentavano le riviste satiriche, in particolare il «Marc’Aurelio». Una comunanza sotto il segno della frenesia realizzativa, come prova l’alto numero di sceneggiature firmate e di film realizzati. In una fase successi10 Introduzione va, quella che porta ai grandi capolavori nazional-popolari della commedia all’italiana, Monicelli frequenta soprattutto Age e Scarpelli. «Ogni volta che facevamo un film – dice Scarpelli – si parlava di questo “non-progetto” di questa “non-meta”, per settimane, mesi, addirittura, in alcuni casi anni. E cosa avveniva in quel periodo? Avvenivano chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere. Suggerimenti, riferimenti a letture, riferimenti a considerazioni, anche a sogni, insomma chiacchiere, chiacchiere e ancora chiacchiere che potevano durare per un periodo indeterminato. Questo lavoro, che qualche volta trovava soluzione in appunti, foglietti di carta, era tutto quello che riempiva questo periodo di chiacchiere. Tutte queste chiacchiere trovavano, poi, posto nella sceneggiatura? La risposta è no. Le sceneggiature non erano così lunghe, rispetto a tutto quello di cui si era parlato nel corso di tanti incontri. Il più restava fuori. Si era dibattuto del tema, lo avevamo approfondito, avevamo fatto proposte emozionanti, suggestive su quello che avremmo scritto successivamente in modo sintetico, perché la sceneggiatura è una sintesi, tra l’altro anche noiosa». Ma ciò che Scarpelli con grande leggerezza definisce «chiacchiere» era qualcosa di profondamente serio. Nelle conversazioni di chi aveva vissuto il clima di censura politica del ventennio c’era ora la libertà. Libertà di parlare, di criticare, ma soprattutto di incontrarsi anche ai tavolini di un caffè per dirsi liberamente tutto quello che a ciascuno passava per la testa. Era la speranza, era il sogno, era un ritrovato senso politico della vita sociale, erano anche i partiti presi, le avversioni, era l’analisi degli eventi che erano all’epoca fitti. Era la partecipazione, lo scambio culturale che creava fermento. Tutto questo era indispen11 Steve Della Casa e Francesco Ranieri Martinotti sabile per scrivere un soggetto, in questo modo la realtà, la vita, la passione, divenivano storie. Così avveniva la sintesi tra due diverse esigenze: la denuncia di un evento che stava accadendo in un determinato periodo storico e la narrazione. «Parlare a ruota libera produceva un’analisi che era il frutto del piacere di stare insieme, ma dava altresì la percezione inevitabile della sostanza con la quale si poteva fare anche una commedia, anche una farsa – ribadisce Scarpelli –. Io credo che all’epoca non venisse in mente a nessuno di dire: “Facciamo un film comico basato sulla gente che non sa dove andare a dormire: l’altro giorno hanno trovato una famiglia che dormiva dentro l’aula di una scuola. I ragazzini sono arrivati e quelli sono dovuti andare via”. E il film comico si faceva su questo. Anche oggi esistono delle famiglie intere che dormono così, ma si è persa la percezione della sostanza del fatto». In questo senso Monicelli, con il suo vivace spirito, l’innata curiosità, è stato ed è tuttora un modello. Anche quando la società italiana supera la fase della ricostruzione, la sua attività resta intensa, i titoli si diradano e si avvalgono di una scrittura più leggera, giocosa e forse meno «ponderata». Monicelli frequenta soprattutto Suso Cecchi D’Amico, Benvenuti, De Bernardi. Insieme fanno una decina di film. Cambia il luogo dove s’incontrano, adesso è la casa di Suso Cecchi a via Paisiello, in quello che si chiamava quartiere Bastiani, vicino a piazza Verdi. Anche se il gruppo dei nuovi sceneggiatori non s’incontra più nelle strade e nelle piazze del centro di Roma, l’approccio alle storie rimane lo stesso. Si parla di tutto e di niente per ore e poi, racconta Piero De Bernardi, «nell’ultima mezz’ora “la signora” si metteva con la macchina da scri12 Introduzione vere sulle ginocchia e finivamo per concentrarci più specificatamente sulla storia». Monicelli non trascura nemmeno Sonego e Pinelli. Ha lavorato con tutti, ha preso e ha dato qualcosa, ha riempito un numero interminabile di ore di colloquio. Colloqui tutti diversi, ma con qualcosa in comune. In comune c’è sicuramente l’idea di stare seduti e di parlare. C’è anche l’aspetto generazionale, perché tutti appartengono grosso modo alla stessa leva. Ma c’è soprattutto un’affinità culturale. Sono tutti antifascisti, hanno un proprio impegno politico, amano la satira, sono critici rispetto alla società italiana e alle sue ingiustizie. Con grande semplicità, ma anche con determinazione, si accorgono che il successo può essere coniugato con la coscienza critica e con la voglia di cambiare. Negli anni sessanta, per cultura e per generazione, sarebbero i perfetti esponenti di quel «cinema di papà» contro cui si chiamavano a raccolta i giovani leoni delle «nuove ondate» cinematografiche in tutto il mondo. C’era un nuovo cinema, critico verso la tradizione e verso la società, in Europa come in Sud America, negli Stati Uniti e in Giappone, nel mondo occidentale e nel blocco orientale. L’unico paese dove il cinema del cambiamento è quello proposto dai cinquantenni è l’Italia. E chissà se la spiegazione non stia proprio in quel loro frequentarsi metodico, in quelle chiacchierate apparentemente fuori tema, in quel modo curioso di usare la commedia per raccontare il paese. O anche per riscriverne la storia e per distruggere pregiudizi e false ricostruzioni che appartenevano ancora al senso comune. Fino a La grande guerra, il conflitto del ’1518 era considerato una sorta di lotta di liberazione contro lo straniero. In realtà è stata una carneficina programmata da politici senza scrupoli, industriali avidi e generali ottusi. 13 Steve Della Casa e Francesco Ranieri Martinotti Fino a L’armata Brancaleone il medioevo era l’epoca delle damigelle, dei cavalieri, dell’amor cortese; sarà quella commedia a restituirgli la dimensione di società misera, asfittica, violenta. Monicelli è il regista che con maggiore coerenza si applica a questi affreschi storici che sono frequentati anche dai suoi colleghi Risi e Comencini. E le chiacchierate preparatorie assumono la dimensione di vere e proprie istruttorie preliminari, con tanto di ricerche storiche e di approfondimenti di costume. La parola «film» era usata pochissimo, esclusivamente come premessa di ogni progetto, e poi veniva bandita dal lessico degli autori come anche la parola «cinema». Il regista che parlava di inquadrature, di obiettivi, di angolazioni veniva allontanato immediatamente. «Se un regista ci avesse detto: “Vedo che questa immagine può essere presa in questo modo” e se dicendolo avesse fatto anche il quadratino con le dita, lo avremmo cacciato – aggiunge Scarpelli –. Anche per un motivo di pudore, di vergogna certe parole non si usavano perché erano improprie rispetto alla creatività. Si diceva semmai: io l’altro giorno sono stato a Firenze, in treno c’erano degli emigranti che andavano a lavorare in Germania, uno c’aveva una valigia di fibra, l’ha aperta e dentro c’era una pagnotta così… e una forma di cacio così… e ha cominciato a mangiare. Poi s’è aperto lo sportello, è entrato un altro trucido e ha detto a quello con la pagnotta: “Quanto te piace il cacio, patriota mio!”. Abbiamo riso su questa cosa e abbiamo detto, ma cosa c’è dietro a questo, dietro a questa volgarità santificante? C’era il portarsi appresso, andando a lavorare in Germania o chissà dove, una parte dello spirito, dell’anima del proprio paese. Quello chiamava patriota l’altro, senza sapere cosa significasse, perché all’epoca era molto diffusa una grandissima 14 Introduzione ignoranza del linguaggio. Su questi aspetti noi allungavamo l’orecchio per coglierli, ma non li coglievamo soltanto per prendere in giro, soltanto per far ridere, ma per amore. Se non hai amore per la gente, per come parla, per come commette errori, per come spera inutilmente, se non hai amore non li puoi prendere in giro e non puoi fare commedia, ma neppure scrivere un articolo per un giornale». 3. Prima del primo ciak. Mario Monicelli attinge poco alle fonti letterarie, anche se nei suoi titoli figurano Moravia, Tobino, Ginzburg, Cerami e Berto (ma anche Viola, Malerba, persino Boccaccio). Insieme agli sceneggiatori prendono spunti piuttosto dal teatro e dai classici per idee, personaggi, situazioni e trame. È uno degli argomenti di Scarpelli, che ribadisce in ogni occasione: «Chi fa questo mestiere deve rubare, prima di tutto dalle arti che precedono, dal teatro, dalla letteratura narrativa, si deve rubare dalla musica, perché la cultura serve perché uno se ne appropri, sennò serve soltanto per parlarne nei salotti, non serve a nulla. La cultura pretende appropriazione. Quando si lavorava su una sceneggiatura, impunemente si diceva: “Io ho letto quel capitolo di Dickens, in cui accade questo e quest’altro…”. Monicelli molto lealmente diceva: “Rubiamo! Pigliamo!”. Age e io dicevamo, a nostra volta, altre cose da rubare, ma in modo che non si riconoscessero, ma tutto sommato aveva ragione lui, perché nessuno riconosce che l’ispirazione di un personaggio viene da Dickens, allo stesso modo in cui nessuno direbbe che Chaplin ha preso da Dickens. Consapevolmente? Inconsapevolmente? Mah? E poi che importanza ha». 15 Steve Della Casa e Francesco Ranieri Martinotti Il rapporto di Monicelli con la scrittura addirittura è quasi feticistico. Non solo sul piano creativo. Piero De Bernardi ricorda come Monicelli, una volta terminata la scrittura, ricopiasse a mano l’intera sceneggiatura come per poterla padroneggiare in maniera assoluta. Viene in mente quanto faceva Gian Maria Volonté quando gli si proponeva un copione: con matite colorate di diversa tinta sottolineava le sue battute e il colore era legato all’intensità della battuta stessa. Il feticismo del foglio di carta simboleggia in questo caso il desiderio di fissare definitivamente ogni idea, ogni battuta in fase di scrittura. Anche se, come vedremo dopo, in post-produzione Monicelli ha spesso cambiato parti importanti dei suoi film, la lavorazione è sempre stata segnata da una programmazione attenta, ferrea. Prima del primo ciak c’è anche la scelta dei posti dove girare. Mario Monicelli sostiene che è la parte più divertente del fare cinema. L’avventura. Si viaggia spesati, con collaboratori scelti che spesso sono amici. Si vedono posti, si conoscono persone, si studiano paesaggi. Può essere la Tuscia di Brancaleone, la Jugoslavia di I compagni e La grande guerra, la Francia di Temporale Rosy, la Tunisia di Le rose del deserto, l’Inghilterra di La ragazza con la pistola, la Cappadocia di Bertoldo… Ogni viaggio lo arricchisce. È vissuto con gioiosa frenesia, come una bella ouverture cui farà seguito un ritorno contrassegnato da tempi di lavoro scanditi e condizionanti, con poco o nulla lasciato allo svago. Ma le sue descrizioni dei viaggi di scouting ricordano i racconti di John Ford, che amava la Monument Valley ma scrisse un film, Donovan’s Reef (I tre della croce del Sud), apposta per fare un viaggio per i sopralluoghi con John Wayne e i suoi amici più fidati. 16 Introduzione E poi ci sono i provini, altro passaggio che Mario Monicelli personalizza in modo forse inatteso. Dai provini non si sfugge, se si è attori presi dalla strada ma anche se si è principi del teatro. I suoi provini sono in pellicola e riguardano anche attori già scelti. Monicelli vuole vederli e rivederli. Parlare con loro, scoprirne gli aspetti intimi, per capirne le potenzialità. Per questo li fa calare il più possibile nel personaggio, li mette nei panni del personaggio, pettinandoli, truccandoli e vestendoli con gli abiti di scena. Li stuzzica, fa loro domande private spesso imprevedibili per capire come reagiscono, ma soprattutto se sono muniti della qualità che lui predilige: l’ironia. Perché quello è il pane dei suoi film, e se l’attore ce ne ha molta è autorizzato a usarla liberamente. I risultati dei provini sono inappellabili per quanto riguarda la scelta. Un po’ meno per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi. È in questo ambito che Monicelli ha prodotto le sue invenzioni più sorprendenti. Quelle che vedono Vittorio Gassman e Monica Vitti diventare principi della commedia, dopo essere stati rispettivamente il villain numero uno degli anni cinquanta e il volto etereo dell’incomunicabilità antonioniana. Ma anche la trasformazione del caratterista napoletano Carlo Pisacane in emiliano doc, o del barista sardo Tiberio Murgia in volto caratteristico di autentico siciliano. Questo rimescolamento di ruoli, di certezze, di carriere è il tocco più personale con cui Monicelli espleta il suo ruolo di regista. I batuffoli di garza con i quali deforma il volto di uno zagagliante Vittorio Gassman, più recentemente la trasformazione dell’omaccione Haber al quale affida il ruolo di un gay sono la testimonianza tangibile che Monicelli chiederà agli attori di prestarsi al suo gioco. Perché Monicelli ama sperimentare, mettere in di17 Steve Della Casa e Francesco Ranieri Martinotti scussione i modelli acquisiti e consolidati, ribaltarli, stravolgerli: questa per lui è la caratteristica insita nell’essere autore. Insomma, inoltrarsi sempre verso nuovi orizzonti, non appoggiandosi mai all’esistente e fuggire sempre i conformismi. Raramente nel cinema il regista fa una lettura del copione a uso esclusivo della troupe, con il capo macchinista, il capo elettricista, lo scenografo, l’assistente scenografo, il direttore della luce, l’operatore, il costumista, l’attrezzista, il parrucchiere, il truccatore. Monicelli invece prima delle riprese vuole rendere partecipi i suoi collaboratori di tutti gli aspetti che li riguarderanno durante la lavorazione del film e chiunque abbia una funzione fattiva in esso deve condividere con gli altri una lettura accurata del copione. Stupisce invece che per la recitazione non sia quasi mai prevista alcuna lettura. Considerando l’approfondimento del testo un fatto preliminare specifico dell’interprete, il suo lavoro sull’attore Monicelli lo svolge esclusivamente sul set e lo sostanzia in una conversazione che farà al momento opportuno poco prima di girare. Poi sul set, in fase di prova, avviene il resto. Perché egli ritiene che le cose non possono nascere altro che sul set, quando l’attore indossa i panni del personaggio; è truccato, è pettinato come il personaggio; si muove nell’ambiente funzionale al personaggio e a una specifica scena; interagisce con altri attori che si trovano nelle sue stesse condizioni. Questo è il suo modo di lavorare con gli attori professionisti, ma lo stesso vale per quelli presi dalla strada. Sulle scenografie anche Monicelli osa in modo particolare, superando in audacia i suoi colleghi coetanei. Su tutte, naturalmente, le macchie di colore pop inventate da Gherardi per Brancaleone. Ma anche la villa da nuovi ric18 Introduzione chi di To’, è morta la nonna, che mescola un’abitazione di Stresa con un albergo di Tuscania. Oppure la cura filologica per gli ambienti operai di I compagni. O ancora le carrozze ferroviarie ricostruite per rendere possibili gli schiaffi di Amici miei. Anche nelle scelte più improbabili non rinuncia mai alla coerenza, tanto da spingersi, ultra novantenne, nel cuore del deserto tunisino per ambientarvi l’oasi di Sorman del libro di Tobino. Tutti esempi di lavori accuratamente preparati per dare personalità al film e al tempo stesso per girare il più velocemente possibile. Perché è poi questa, in fin dei conti, la preoccupazione maggiore di Monicelli. E, al tempo stesso, la carta vincente da giocare per non logorare troppo i rapporti con il produttore. Come dice Monicelli di Alberto Grimaldi, il produttore migliore è quello che discute prima e che poi sul set non si fa praticamente vedere. 4. Le riprese, croce e delizia del regista. Una volta iniziato a girare, il film si fa. E il regista adesso deve guadagnarsi il suo ruolo. Fin da quando era un giovane assistente, Monicelli predilige la concretezza di Giacomo Gentilomo alle complicazioni di Gustav Machatý, il «genio» del cinema ungherese per il quale fa da aiuto come premio per aver vinto il concorso giovani a Venezia. Machaty si atteggia a divo tra i divi. Gentilomo invece gira in modo attento e pratico, avendo già in testa (lui che viene dal montaggio) quale sarà la sequenza finale che unirà tra loro le varie riprese. Siamo negli anni trenta, ma quella lezione accompagnerà Mario Monicelli per tutta la sua carriera. Insieme alla frequentazio19 Steve Della Casa e Francesco Ranieri Martinotti ne del regista più amato dagli attori italiani, quel Mario Mattoli per cui Monicelli scriverà innumerevoli sceneggiature e assorbirà gli elementi essenziali dell’arte di approntare un set. Mario Mattoli, che ha lanciato alcuni dei più grandi attori brillanti italiani (De Sica, Melnati, Macario, Valli, Tognazzi, Billi, Riva, Chiari, Bramieri, Lisi, Franchi, Ingrassia, Buzzanca, senza dimenticare Totò che era il più grande di tutti), era famoso perché costruiva il set al servizio degli attori. E girava al loro servizio. Quando Monicelli sostiene che la commedia va realizzata per quadretti, in modo che gli attori applichino al massimo livello le loro capacità di intrattenimento, si riferisce proprio a quel modo di girare. Anche con la macchina ferma le sue inquadrature sono movimentate e dinamiche, perché Monicelli, proprio in virtù della gavetta che ha fatto come aiuto, è attentissimo ai fondi che cura con particolare attenzione, e anche quando il cuore della scena è un dialogo lungo e serrato, alle spalle degli attori tutto si muove e brulica di comparse. La tecnica di ripresa è ridotta all’osso, i movimenti di macchina si limitano quasi sempre a seguire gli attori nei loro spostamenti. Anche se ogni tanto qualche virtuosismo fa capolino in modo consistente. Su tutti, la scena della fucilazione dei prigionieri in La grande guerra, tenuta volutamente sullo sfondo di un arioso piano sequenza quasi a sottolineare come la loro fine sia marginale rispetto agli esiti del massacro collettivo del conflitto. Ma anche la battaglia iniziale di L’armata Brancaleone, con quel misto di crudeltà e humour macabro che scandirà poi tutto il film. In quest’ultima sequenza, Mario Monicelli utilizza la consulenza come maestro d’armi di Alfio Caltabiano, 20 Introduzione uno degli stuntmen-coreografi più ammirati e apprezzati del cinema italiano dell’epoca. Caltabiano nel film è anche il cavaliere nero che nella stessa sequenza è tramortito dagli straccioni, dando il via all’avventura dell’improvvisata armata, nonché la controfigura di Gassman e di Salerno per tutte le scene d’azione. Un uomo esperto proprio in scene di movimento, che aveva lavorato con Sergio Leone e con tutti i migliori registi di avventura. Ma l’imprimatur di tutta quest’ampia sequenza quasi muta (e dunque tutta visiva) è di Monicelli stesso, che di fatto esautora sul campo il maestro d’armi da lui stesso scelto e si occupa personalmente delle scene d’azione, dei duelli, dei figuranti. Il solo regista di commedie che abbia affrontato un compito del genere. Per arrivare in epoca più recente, Monicelli, come molti registi che hanno lavorato con la truka, detesta gli effetti digitali. Tutto deve essere realistico. Se scoppia una bomba, è una bomba che scoppia, se arrivano delle cannonate, devono essere davvero cannonate. Nelle Rose del deserto, il film sulla campagna d’Africa tratto da Il deserto della Libia di Mario Tobino, ha voluto che i bombardamenti aerei, i mitragliamenti, le esplosioni, gli incendi fossero realizzati dal vero. E per gran parte delle riprese un gruppo di fedeli scenotecnici ha lavorato al suo fianco per ricostruire la guerra esattamente come era nei desideri del maestro, che nel 1935, da assistente, aveva già partecipato alle riprese dello Squadrone bianco, un film di guerra girato nel vero deserto della Libia con un notevole utilizzo di uomini e mezzi. Chi è stato sul set de Le rose del deserto ancora si ricorda come Monicelli abbia effettuato una scrupolosa supervisione della messa in scena suggerendo persino la disposizione delle piccole cariche 21 Steve Della Casa e Francesco Ranieri Martinotti di dinamite da seppellire sotto la sabbia. Durante le riprese dell’attacco aereo all’oasi di Sorman, come un direttore d’orchestra dirigeva le operazioni, decideva quando fare esplodere le cariche impartendo ordini a tutti gli scenotecnici perché aumentassero l’erogazione del gas ai piedi di una palma, tre le casse della polveriera o all’interno di una tenda da campo in modo che le fiamme salissero e si abbassassero esattamente come lui voleva. La qualità del suo lavoro va dunque vista in senso molto più ampio. Mario Monicelli quando gira è molto più demiurgo di quanto ami farci sapere. A pensarci bene, non esiste nessun altro regista al mondo che abbia frequentato un così elevato numero di set e ne conosca così bene il funzionamento, ma anche le dinamiche nascoste. Infatti se si sommano i film che ha seguito come assistente e aiuto prima, come regista poi, si supera decisamente la cifra di duecento. Da qui la sua padronanza assoluta del set. Monicelli è in grado di capire, in maniera impressionante, se il set funziona, se tutti gli elementi che partecipano alla macchina operativa stanno lavorando in armonia, esclusivamente dal rumore che l’intero opificio produce. Se ne accorge da un nonnulla, da come un manovale attraversa il set con un’asse di legno, una sarta attacca il bottone di una camicia, l’assistente al trucco asciuga la fronte di un attore, l’addestratore di animali conduce un somaro, gli basta questo per rendersi conto se le cose vanno o non vanno. Perché Monicelli ha calpestato la polvere del set, ne ha respirato l’odore da sempre, e anche quando la luce del sole lo abbaglia e la vista non lo aiuta, dalle ombre che si muovono intorno a lui è in grado di capire se tutto sta andando nella giusta direzione. 22 Introduzione Nei film di Monicelli si possono citare scenografie importanti, costumi azzeccati e soprattutto un grande lavoro sui dialoghi e sulla recitazione. Non è invece un caso se raramente si citano i direttori della fotografia, anche se ne ha avuti di molto importanti, come Carlo Di Palma. La tecnica di ripresa è spartana, essenziale, ridotta all’osso. Abbiamo già detto che non ama i movimenti di macchina, eccezioni che si concede in alcuni film per significati ben precisi. Le inquadrature che ama sono semplici, frontali. Quando dice di conoscere sempre dove va messa la macchina da presa, ci indica anche la risposta: nel punto più semplice. In questo campo, il metodo di Monicelli esiste: è il metodo dell’essenzialità, il grado zero della semplicità. Ci sono registi che ricamano molto intorno alle immagini, Monicelli è molto diretto. E questo facilita il rapporto con il direttore della fotografia. Sapendo esattamente quello che vuole, Monicelli esprime la sua idea in tre parole e da queste tre parole si capisce tutto. Ha una capacità immediata di comunicazione. «A lui piacciono le inquadrature larghe con dentro tante persone che fanno tante cose – dice Guarna, il direttore della fotografia de Le rose del deserto –. Ci sono gli attori vicino alla macchina da presa che recitano le battute, ma dietro c’è sempre qualcosa che accade. E questo fa la ricchezza del suo cinema. Ma la prima cosa che mi ha detto quando ci siamo incontrati è stata: “Non voglio la cartolina del deserto”. Per la cartolina del deserto intendeva le dune calde, rassicuranti, il cielo azzurro, brillante. “Noi dobbiamo trasmettere delle sensazioni fastidiose, di sofferenza, di un luogo difficile”. Abbiamo fatto dei test nei quali, tramite dei procedimenti realizzati sulla pellicola, la sabbia non era più calda, gialla ocra, ma diventava quasi 23