Scienza Arte Verità

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Scienza Arte Verità
Marco Bogliani
SCIENZA
ARTE
VERITÀ
Iniziazione rapida all'esperienza artistica
con la guida di
Giorgio Agamben
Maurice Merleau-Ponty
Jean-Luc Nancy
Scienza Arte Verità
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Copyright
Quest'opera è pubblicata con una licenza Creative Commons 3.0 che consente di riprodurla, distribuirla, comunicarla alle seguenti condizioni:
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nd/3.0/"><img alt="Licenza Creative Commons" style="border­width:0" src="http://i.creativecommons.org/l/by­nc­nd/3.0/88x31.png" /></a><br /><span xmlns:dct="http://purl.org/dc/terms/" href="http://purl.org/dc/dcmitype/Text" property="dct:title" rel="dct:type">Scienza. Arte. Verità.</span> by <a xmlns:cc="http://creativecommons.org/ns#" href="www.aporein.com" property="cc:attributionName" rel="cc:attributionURL">Marco Bogliani</a> is licensed under a <a rel="license" href="http://creativecommons.org/licenses/by­nc­nd/3.0/">Creative Commons Attribuzione ­ Non commerciale ­ Non opere derivate 3.0 Unported License</a>.
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Nota
Nella primavera del 2008 il Liceo Cantonale di Mendrisio (Svizzera) organizzò le Giornate Arti. Durante l'arco di tre giorni, le allieve e gli allievi di seconda classe, guidati dai docenti di arti visive, storia dell'arte e musica, si cimentarono in varie attività artistiche (dipingere grandi fogli bianchi con pochi tratti di colore, realizzare graffiti con la vernice spray, imprimere proprie tracce sulla sabbia provenendo dall'oscurità di un bunker, modellare la creta, ad esempio). Mi venne allora proposto di tenere una lezione sull'arte a margine dell'ultima giornata. Fu quella l'occasione per redarre il presente libretto. Scienza Arte Verità
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M A P P A
ISTRUZIONI PER...
la prima istruzione
perché... ?
come...?
chi...?
dove...?
quando...?
... LA TRAVERSATA
PRIMO VIAGGIO
TRAVERSATA DELL'ESPERIENZA
(Comandante: Giorgio Agamben)
Quale esperienza hai vissuto...?
Esperienza non è... stare a guardare
Esperienza non è... avere una rappresentazione
Esperienza non è... rappresentare un oggetto
Esperienza non è... fare esperimenti
Esperienza è... vivere
Esperienza è... una traversata
Conclusione. O morale della favola
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SECONDO VIAGGIO
TRAVERSATA DELLA VISIONE
(Comandante: Maurice Merleau-Ponty)
Primo tratto del secondo viaggio
Verità dove sei...?
Verità non è... la rappresentazione scientifica.
La scienza soffre... di machismo .
La scienza è nuda... e si mostra priva di fondamento...
…sia di un fondamento trascendente...
...basato sul principio di autorità...
…sia di un fondamento trascendentale...
...che si contraddice e...
... riduce l'esperienza a rappresentazione.
Però la scienza non ci sta a farsi mettere a nudo...
...e si rifugia nella tecnica.
Ma il machismo scientifico è un regime pericoloso: un incubo!
E allora, che possiamo fare?
Conclusione.
Secondo tratto del secondo viaggio
Il corpo dipinge
Il corpo vede e si muove e...
... non soffre di machismo.
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Terzo tratto del secondo viaggio
Lo sguardo svela il mondo
L'immagine pittorica non è... un'immagine.
Lo sguardo del pittore è... una conquista. E un dono.
Lo sguardo del pittore vede la magia del visibile.
Allora la visione del pittore è un'illusione?
No: la visione artistica abita e svela il mondo.
Conclusione.
Quarto tratto del secondo viaggio
Il colore
Quinto tratto del secondo viaggio
La visione
TERZO VIAGGIO
TRAVERSATA DELLO SGUARDO
(Comandante: Jean-Luc Nancy)
***
LE PAROLE DEI COMANDANTI
Testo 1 da: Giorgio Agamben, Infanzia e storia (1978).
Testo 2 da: Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito (1969)
Testo 3 da: Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo (2000)
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ISTRUZIONI PER...
La prima istruzione
La prima istruzione è: se vuoi, puoi saltare queste istruzioni e imbarcarti
subito per il Primo viaggio. Con un consiglio: se fai così, e incontri
problemi, ritorna a leggere queste Istruzioni. Sarebbe peccato...
Perché...?
Ti ho visto trascorrere gli ultimi giorni a indovinarti artista. Spray alla
mano ricercando il segno monocromatico di un ritmo che spero ti abbia
trovato, trovata, infine. A scocciare, scocciandoti forse, fogli neri e
bianchi e grigi che ti aprivano davanti al naso l'angoscia di un vuoto che ti
chiedevi come diavolo avresti colmato. Chiusi nel bunker (tanto fuori era
brutto) avvolti nell'intimità del buio che non sai se ti libera o ti imprigiona
o le due cose insieme, stranamente. Abbandonare le tue orme alla sabbia
che, prendendosi loro, pare riuscisse a sottrarti anche a te stesso. Ne
avete fatte di cose! A sazietà. Dunque a che serve ora starci a pensare
ancora su? Il che vuol dire poi: a che serve pensare a quello che avete
fatto? A quello che hai vissuto? Cioè, in breve: a che serve pensare?
Io non posso rispondere. Non che non voglia. Ma proprio non posso. Primo,
perché a questa domanda potrai rispondere solo tu, e nessun altro
(infatti, riguarda te, proprio te, e nessun altro). E poi perché potrai
comprendere questa domanda solo dopo averci pensato su... Che bello
scherzetto, eh?
Come dire che, per sapere perché uno mangia una mela, devi prima
mangiarla. Un bel rischio... Ma non è sempre così? Come se qualcuno, che
non conosce il mare, ti chiedesse com'è fare il bagno e a che serve.
Potresti aiutarlo a capire? Potresti solo invitarlo a provare. Di più non puoi
fare. La faccenda è tutta tra lui e il mare.
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Bene, così non posso che invitarti a seguire questa traversata nel grande
mare del pensiero, o meglio: di quel pensiero che si rivolge all'arte. Io
sono generoso. Ma tu, se vuoi seguirmi, devi lasciare in sospeso, per ora, la
domanda che ti chiede: perché?
Come...?
Hai già capito, perché sei di tempra sveglia (mica per caso ti trovi alla
fine della seconda liceo), hai già capito, dicevo, che ti invito a compiere
una traversata rischiosa. Il pericolo è perdersi nel labirinto delle parole.
Che è come un labirinto di specchi. Lo vedi? Prova a immaginarlo: tu
chiuso, chiusa in un labirinto di specchi. Ma immaginalo davvero. Prenditi
una pausa. Perché tutta 'sta fretta? Smetti di leggere. Chiudi gli occhi,
Guarda. Un labirinto di specchi. Lo vedi? Ti vedi riflesso, riflessa infinite
volte da tutte le pareti? E dal pavimento? E dal soffitto? Ti vedi cozzare
di naso, di fronte? Andare a testoni? Allungare le mani? E toccare sempre
e solo superfici nude, gelide, perfettamente lisce, che ti ingannano
promettendoti una profondità che non c'è, una prospettiva, un passaggio,
mille passaggi, una via, verso un'uscita, che non trovi ? Alla lunga rischi di
scambiare per immagine riflessa perfino te stesso, perfino te stessa, il
tuo corpo vivo, la tua carne che sente, palpita, trema, cerca, si dispera e
si muove, Finché esausto, esausta non crolli a terra. Pardon: non crolli su
un pavimento di specchi che riflette la tua caduta.
Bene, se ora sei qui vuol dire che sei tornato, che sei tornata a volgere gli
occhi a questa pagina, a queste cacchette di mosca, che sono le lettere
dell'alfabeto, le quali racchiudono una magia, però. Perché non sono
semplici segni, che so, come questi: fri dega fru ti craka qi ratù sakka yo.
Che differenza c'è? Che questi segni, quelli che stai guardando, che stai
leggendo ora, sono lettere per parole, e le parole hanno un senso.
Bene, se segui, se insegui il senso delle parole, allora il senso è come un
filo, una guida per uscire dal labirinto, Il «filo rosso» di un discorso, si
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dice. Mica per caso. Il filo rosso è il senso che si dispiega attraverso un
discorso. E tu, che attraverserai il discorso, troverai nel senso la guida
per entrarci. Per seguire il discorso. E per uscirci.
Non posso dirti che in un discorso, come in mare, nessuno annega.
Sarebbe mentirti. Posso rassicurarti, però, dicendoti: segui il senso del
discorso che stiamo per attraversare, per non perderti in un labirinto di
specchi. Come nel mare ti tuffi per poi uscire e asciugarti al sole, così in
un discorso ci entri per poi uscirne. In questo caso, per tornare all'arte.
Ma il discorso, come il mare, ti lascia le sue profondità, i suoi giochi e il
suo mistero. E ti cambia. Ti accresce. Crescendo in te. Qui tocchiamo di
nuovo la prima domanda – perché pensare, perché tessere discorsi? Come
detto, è bene lasciare in sospeso questa domanda visto che cercare di
risponderle è già pensare.
Seguire il filo rosso di un discorso non è come saltare di palo in frasca, ma
è come avvolgere un filo di seta. Devi tenerlo sempre in tensione. Senza
tirare troppo, altrimenti si rompe. Senza lasciarlo andare, altrimenti si
aggroviglia. (I fili sono fatti per ingarbugliarsi).
Ciò non significa però che si debba seguirlo tutto in una volta sola. Puoi
seguirne un tratto. E lasciarlo lì. A maturare. E quando l'hai compreso,
quando è diventato come parte di te, allora puoi affrontare un altro
tratto. Insomma, è come fare un puzzle. Sera per sera, se vuoi. E nei
mesi, negli anni magari, il discorso si ricompone, Così è pure per le pagine
che seguono. Non è detto che tu debba berle tutte di un fiato. Magari ti
capita, perché no?, ma non è necessario. Poco alla volta. Questa è una
protezione contro il rischio di perdersi nel labirinto delle parole. E questo
è un brutto rischio, perché quando ti ci perdi una volta, due volte, tre
volte, alla fine provi fastidio e diffidenza per tutti i discorsi. E a me
dispiacerebbe. Come mi dispiacerebbe invitare qualcuno al mare
promettendogli mare e monti, ops... perdonami la stupidera..., e poi al
primo tuffo vederlo bere e uscire impaurito dall'acqua. Mi dispiacerebbe.
Perché io so come è bello nuotare.
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Adagio dunque. Perché non è detto che tu capisca tutto e subito. Anzi, se
hai intenzioni serie con i discorsi, custodisci questi fogli con cura e coltiva
l'impagabile virtù dell'umiltà: non prendertela se capisci poco, per ora.
Questo poco è prezioso come un seme. E l'umiltà di fronte ai discorsi dei
saggi (non io, che saggio non sono, ma i filosofi, che sono raccolti nel
papiro che stai tenendo in mano), perché l'umiltà, dicevo, è una grande
difesa contro il pericolo di smarrirsi nei discorsi come dentro a labirinti
di specchi. In gioco ci sei tu, tu che pensi, che indaghi, che ti metti alla
prova, che cerchi. Che cerchi un senso.
Chi...?
Chi sono dunque i saggi di cui parlavo? Rispondono ai seguenti nomi:
Giorgio Agamben ci parlerà del senso dell'esperienza.
Merleau-Ponty ci trascinerà nel mistero della visione.
Jean-Luc Nancy farà il ritratto dello sguardo.
Si tratta di grandi filosofi, maestri nell'arte della navigazione attraverso
il pensiero. Come te, anche loro, volti alla ricerca di un senso.
Vuoi sapere chi sono? Puoi cercare tra i libri o in Internet – attenzione,
però: navigare in Internet è come navigare in un oceano dove a volte si
viene presi dai vortici e il video, inoltre, ti assorbe in immagini che, alla
lunga, ti privano del senso del tuo corpo vivo, della tua carne (vedremo...).
Un bel rischio, dunque.
Ma se segui il filo rosso della tua ricerca, puoi servirtene, assecondando
le tue antenne, che fiutano i pericoli. E vedrai che come puoi entrarci, così
puoi anche uscirci. Salute!.
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Dove...?
Puoi leggere dove vuoi. Purché ci sia luce. Dentro e fuori di te.
Quando...?
Puoi leggere quando vuoi, ora, domani, tra una settimana, tra un anno, tra
dieci anni, tra vent'anni. Te lo auguro. E vedrai che ogni volta sarà
diverso. Perché tu sarai diverso, sarai diversa. Te lo auguro.
E i nostri sono saggi perché parlano a tutte le età, a cominciare dalla tua.
E ogni volta dicono cose diverse. È un discorso che “permette diversi
livelli di lettura”, come dicono gli accademici. Insomma, un discorso fatto
come una cipolla, a strati. Ma non ha termine. Rinuncia a cercare un
risultato: il pensiero è puro processo, e se si arresta a un risultato puoi
star certo, puoi star certa che non è pensiero ma bla bla bla. Il pensiero è
come l'onda del mare. Quando si arena sulla spiaggia è solo per ritornare
indietro, in alto, in altro mare. Che poi è sempre lo stesso mare.
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... LA TRAVERSATA
Primo viaggio
Traversata dell'esperienza
(Comandante: Giorgio Agamben)
Quale esperienza hai vissuto...?
Giocando con i suoni e con la materia, hai vissuto davvero l' esperienza di
un gesto artistico?
Per rispondere a questa domanda, dovresti sapere che cosa significa fare
esperienza. E questo lo sai? Riusciresti a dire che cosa significa fare
un'esperienza, vivere un'esperienza?
Forse non capisci il senso di questa domanda. Forse pensi di sapere già
che cosa significa la parola esperienza, dal momento che vivi in
continuazione così tante e diverse esperienze. Forse ritieni pure che non
abbia alcun senso chiedersi che cosa sia l'esperienza, perché tutti sanno
che cosa significa, anche se poi non tutti sanno dirlo. E se ti dicessi,
invece, che forse non hai vissuto l' esperienza del gesto artistico, perché
oggi nessuno è capace di vivere un'esperienza? Diresti che sono matto?
Esperienza non è... stare a guardare
Giorgio Agamben, il primo dei filosofi che incontriamo lungo il nostro
viaggio, nel 1978 (quando in Italia lo scontro politico raggiunse l'apice
della tensione) scriveva che gli esseri umani non sono più in grado di vivere
un'esperienza. Ti invito a leggere le sue parole, tratte da Infanzia e
storia (vedi qui il Testo n. 1)
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...non so se mi stai leggendo dopo aver letto le pagine di Agamben che ti
ho consigliato di leggere. In ogni caso, stiamo partendo per il primo
viaggio attraverso il mondo dell'esperienza. Le pagine di Agamben ci
serviranno come spunto e come filo conduttore. Con loro dialogheremo
dunque in libertà.
Agamben sosteneva che la nostra è «un'umanità che ha perduto
l'esperienza». E continuava:
Il che non significa che oggi non vi siano più
esperienze. Ma esse si compiono fuori dell'uomo.
E, curiosamente, l'uomo le sta a guardare con
sollievo. Una visita a un museo o a un luogo di
pellegrinaggio turistico è... particolarmente
istruttiva. Messa di fronte alle più grandi
meraviglie della terra..., la schiacciante
maggioranza dell'umanità si rifiuta oggi di farne
l'esperienza:
preferisce
che,
a
farne
l'esperienza, sia la macchina fotografica.
Questo passo sollecita molte riflessioni. Limitiamoci all'essenziale. Che
cosa accade quando tra te e le cose interponi una macchina fotografica?
Accade che diventa più difficile vivere un'autentica esperienza. Perché?
Perché, come scrive Agamben, la macchina fotografica ti induce a
diventare uno spettatore. E uno spettatore non fa esperienze di quanto
accade. Non vede quel che guarda. Perché, come scrive Agamben, in
questo caso le esperienze «si compiono fuori dell'uomo. E l'uomo le sta a
guardare».
Ciò significa che l'esperienza non è stare a guardare quello che accade
fuori di te. Che cosa significa? Per rispondere a questa domanda, bisogna
vedere che cosa accade quando te ne stai a guardare quello che accade
come uno spettatore.
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Esperienza non è... avere una rappresentazione
Uno spettatore che non fa esperienza di quanto sta accadendo è uno
spettatore disinteressato, che non viene coinvolto dagli avvenimenti. Per
questo gli avvenimenti sono fuori di lui. Egli guarda le cose dall'esterno. E
guardandole dall'esterno se ne fa una rappresentazione. O, detto
altrimenti, se ne fa un'immagine. Un'immagine esteriore, s'intende. Una
rappresentazione che riproduce solo quel che è visibile, che è visibile
dall'esterno, appunto.
Trovi difficile quanto sto dicendo? Non penso. Pensaci: non vivi forse in un
mondo di immagini? Guardi la televisione, navighi in rete e salti da
un'immagine all'altra, da un video all'altro. Cammini per le strade e
incontri centinai di immagini pubblicitarie. Sfogli una rivista ed è come
camminare per strada: immagini su immagini. Ma non è questo il punto.
Il punto è che di fronte a quelle immagini ti abitui ad adottare quello
sguardo che tali immagini richiedono per essere usufruite nella loro
immediatezza e velocemente. Uno sguardo da spettatore. Uno sguardo
esterno. Uno sguardo che non penetra attraverso le cose viste ma si
ferma alla superficie. Alla rappresentazione. All'immagine visibile.
E così, ogni giorno della tua vita, ti sembra di fare milioni di esperienze
senza fare mai un'autentica esperienza. Cominci a capire che cosa vuol
dire interporre tra te e le cose una rappresentazione? Vuol dire che non
fai esperienza della cosa, ma della sua rappresentazione, della sua
immagine. Che rimani all'esterno. Che la tua esperienza non entra nella
cosa ma resta fuori. Ma facciamo ancora un passo.
Esperienza non è... rappresentare un oggetto
Dicevo che uno spettatore che non fa esperienza di quanto sta accadendo
davanti ai suoi occhi è uno spettatore disinteressato, Ma essere uno
spettatore disinteressato non è proprio quello che ti hanno insegnato a
scuola?
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Pensaci: non ti hanno forse insegnato che conoscere significa porsi di
fronte alle cose con spirito oggettivo? E avere uno spirito oggettivo non
significa forse porsi di fronte alle cose come spettatori disinteressati?
Diventare spettatori disinteressati significa non lasciarsi coinvolgere
emotivamente dalle cose, mantenersi lucidi e freddi e distaccati di fronte
alle cose. Questa, si dice, sarebbe l'esperienza scientifica: eliminare tutti
i “fattori soggettivi”, per conservare solo quello che è visibile,
sperimentabile, misurabile, quantificabile. Scienza è misurazione.
Così, eliminando i fattori soggettivi, la scienza insegna a costruire la
rappresentazione oggettiva del mondo. Così la scienza costruisce un il
mondo come un oggetto.
Un oggetto. Sai come si dice “oggetto” in tedesco? Si dice Gegenstand.
Che vuol dire ciò “che sta” ( stand) “contro” (gegen). Contro che cosa?
Contro lo spettatore disinteressato. Ecco, ci siamo: la scienza ti ha
insegnato a porti di fronte, contro il mondo e, inavvertitamente, anche
fuori dal mondo. Ti ha insegnato a credere nella rappresentazione
oggettiva delle cose. O, in breve: a credere nella rappresentazione.
Ma allora, tutto quello che abbiamo detto sulla rappresentazione va detto
anche a proposito della scienza. E cioè, che la scienza ti preclude
l'accesso alle cose, ti limita a gettare uno sguardo contro le cose, ma ti
impedisce di accedere al senso intimo delle cose, di vedere attraverso le
cose.
In breve: la scienza ti impedisce l'esperienza del mondo, e alla lunga ti
espropria del senso stesso del vivere l'esperienza.
Concludendo: l'esperienza scientifica non è un'esperienza.
(È proprio questo il tema, apparentemente paradossale, che Agamben
sviluppa nel suo libro. “Apparentemente paradossale”, perché la scienza si
ritiene la sola vera esperienza del mondo).
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Esperienza non è... fare esperimenti
L'educazione scientifica, come vedi, rischia di essere diseducativa. Ti
induce a credere che solo con un atteggiamento oggettivo è possibile fare
un'autentica esperienza del mondo, mentre in realtà ti espropria del senso
stesso dell'esperienza. Essa riduce il senso dell'esperienza all'avere
esperienze, cioè allo sperimentare.
È con questo atteggiamento – l'atteggiamento di uno spettatore
disinteressato – che forse hai cercato di avere tante esperienze, senza in
realtà fare esperienza di nulla. Ora, questa credenza – la credenza, cioè,
che l'esperienza sia fare esperimenti – cela un grande pericolo. Il pericolo
di perdere te stesso, te stessa. Vediamo.
L'idea che l'esperienza sia sperimentare induce a credere che sia
possibile sperimentare di tutto senza alcun rischio. L'esperimento,
infatti, ha un inizio e una fine, è gestibile, controllabile, non penetra nelle
profondità del tuo essere, non ti modifica, non ti rapisce... Proprio perché
l'esperimento è l'esperienza (fasulla) di un soggetto disinteressato,
distaccato, che guarda le cose da fuori, e non si lascia catturare, diventa
possibile pensare che si possa sperimentare qualcosa senza mettere in
gioco se stessi, Invece...
Invece le cose che vivi non sono esperimenti, ma esperienze. Esse lasciano
profonde tracce nella tua memoria, trasformano il tuo sentire, il tuo
pensare, e pure il tuo corpo. Qualsiasi situazione, qualsiasi esperimento è
un'esperienza vissuta: anche quando credi di poterla controllare stando
fuori, essa entra dentro di te. Gli esperimenti a volte rischiosi che la tua
curiosità forse ti induce a fare – con il sesso o con le droghe, ad esempio –
non sono esperimenti come l'atteggiamento scientifico induce a credere,
ma sono autentiche esperienze: ne esci con un carico affettivo non
sempre facile da risolvere, con ricordi che si intrufolano nei tuoi sogni,
che colorano il tuo stato emotivo, che incidono perfino sulla tua
percezione delle cose e degli altri, e a lungo...
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Comici ora a capire la differenza che passa tra l'esperienza vissuta e il
fare esperimenti? tra l'accedere al senso intimo delle cose e il restarne
fuori? tra l'essere vivi ed essere spettatori?
Esperienza è... vivere
Siamo quasi arrivati in porto. Se mi hai seguito fin qua, allora hai
certamente capito che l'esperienza si svela grazie a un gesto di
liberazione dal concetto scientifico di esperienza, che è un concetto che
intende l'esperienza come una rappresentazione, come costruzione di un
oggetto, come esperimento di un soggetto disinteressato, il quale resta al
di fuori e non rischia nulla.
Il gesto di liberazione dalla mentalità scientifica è dunque il gesto con cui
possibile riconquistare l'esperienza rubata dalla mentalità tecnicoscientifica, che riduce tutto a rappresentazione.
Invece, il soggetto (io, e tu, e noi) rischia sempre se stesso in ogni
esperienza, perché l'esperienza è vivere. E come non diresti mai di avere
una vita, così non puoi dire di avere un'esperienza. Io non ho, e tu non hai,
una vita: io sono, e tu sei, vita. Per questo non ho, e non hai, un'esperienza,
ma sono la mia, e tu sei la tua, esperienza. Ma allora cosa significa
“esperienza”?
Esperienza è... una traversata
Il senso dell'esperienza è stato riconquistato progressivamente dal
pensiero filosofico nel corso del Novecento. E non senza duri scontri con
il pensiero scientifico.
Recentemente, alcuni filosofi francesi hanno percorso quel cammino che
ho cercato di ripercorrere anch'io con te nelle pagine precedenti. Un
filosofo parigino, Claude Romano, ha espresso il senso ritrovato
dell'esperienza con le seguenti parole:
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L’esperienza è questa traversata di sé, a rischio
di sé, in quanto esposizione all’altro:
all’avvenimento.1
E un altro filosofo francese, Henry Maldiney, ha scritto:
Il mondo che si annuncia nella radice “per” è
quello dell’esperienza. Emperia, experientia,
Erfharung. La prova nella quale noi incontriamo e
apprendiamo le cose è una traversata.2
Il percorso che abbiamo compiuto finora, come ti annunciavo, è stato una
traversata nel mondo dell'esperienza.
Ora siamo giunti in porto definendo l'esperienza come vita e traversata.
Abbiamo dunque attraversato la traversata. Come dire che abbiamo
vissuto un'esperienza dell'esperienza.
Esperienza è... vedere attraverso
Ancora un'osservazione. Ricordi che parlando dell'oggetto abbiamo notato
come la parola tedesca “ Gegenstand” manifesta molto bene la riduzione
che l'esperienza subisce dalla prospettiva scientifica?
Inseguendo l'ideale dell'oggettività, la scienza guarda le cose solo dalla
prospettiva frontale, le considera solo come oggetti, come cose che
stanno di fronte allo sguardo, contro a uno spettatore disinteressato a
coglierle internamente, ma volto solo a descrivere e a misurare quello che
appare visibile da fuori. Bene, possiamo completare il quadro, ora.
1. Cl. Romano, L’événement et le temps, PUF, Paris 1999, p. 198 (« L’expérience est cette traversée de soi, au risque de soi, en tant qu’exposition au tout autre : à l’événement »). 2. H. Maldiney, L’art, l’éclair de l’être, Comp’act, Paris 1993, p. 275 (« Le monde qui s’annonce dans la racine per est celui de l’expérience. Emperia, experientia, Erfahurung. L’épreuve dans laquelle nous rencontrons et apprenons les choses est une traversée »). Scienza Arte Verità
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Liberare lo sguardo dai paraocchi scientifici significa liberare lo sguardo
dalla prospettiva frontale per abbandonarsi a un'autentica esperienza,
che non guarderà più in modo frontale ma cercherà di attraversale, di
passarci attraverso. Non più uno sguardo contro ( gegen) le cose, bensì uno
sguardo attraverso (durch) le cose.
Se, dunque, guardare vuol dire guardare il mondo dal di fuori, facendo del
mondo l'oggetto (Gegenstand) che sta di fronte, vedere vorrà dire
passare attraverso le cose per svelarne il senso autentico e profondo, e
misterioso, per aprire la vita nascosta nelle cose.
Conclusione. O morale della favola
Ritorniamo alla questione di partenza, che ti chiedeva: giocando con i
suoni e la materia, hai vissuto l'esperienza del gesto artistico. Ma è vero?
Cioè: hai vissuto davvero l'esperienza di un gesto artistico?
Ora, io non posso certo rispondere a questa domanda, alla quale puoi
rispondere solo tu. Ma posso aiutarti a riformulare la questione tenendo
per buono tutto quello che abbiamo finora percorso o traversato.
Riprendendo la definizione di esperienza data da Claude Romano, la
questione suona allora così:
Hai vissuto l’esperienza artistica,
hai compiuto quella traversata di te stesso, di te stessa,
a rischio di te,
in quanto esposizione all’altro,
all’avvenimento, cioè, qui,
al gesto artistico?
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Secondo viaggio
Traversata della visione
(Comandante: Maurice Merleau-Ponty)
Le pagine che cercheremo di traversare sono state scritte dal filosofo
francese Maurice Merleau-Ponty (Maurice, per gli amici) nell'estate
dell'anno 1960, che doveva essere quello delle sue ultime vacanze.
Stabilitosi per due o tre mesi nella campagna provenzale, Maurice
interroga la visione, e al tempo stesso la pittura. Ne esce un agile saggio,
che non supera le sessanta pagine. Che un giorno, forse, leggerai per
intero. Qui trovi la traversata di alcuni tratti, che sono:
l'idea di verità (in riferimento al Testo 2.1)
il corpo del pittore (in riferimento al Testo 2.2)
lo sguardo del pittore (in riferimento al Testo 2.3)
il colore (in riferimento al Testo 2.4)
il vedere (in riferimento al Testo 2.5)
Non è mio compito sostituirmi alle parole del saggio. Mio compito è quello
di chiarire alcuni luoghi del testo che, immagino, possano apparirti
alquanto nebulosi, ma che, ti assicuro, si possono decifrare senza
diventarci matti. Fatte salve le istruzioni di cui sopra, s'intende.
Bene, cominciamo dall'inizio. Cioè dall'idea di verità.
***
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Primo tratto del secondo viaggio
Verità dove sei...?
(→ Testo 2.1)
Verità non è... la rappresentazione scientifica
E ci risiamo. Anche Maurice, come Giorgio (l'Agamben, intendo), non
mostra alcuna riverenza nei confronti della scienza. Possiamo indovinare
perché. Maurice, come Giorgio, e come molti altri saggi del Novecento,
svela il trucco nascosto nell'ideale scientifico dell'oggettività. Con la sua
sicumera, lo scienziato va riducendo il mondo a oggetto e l'esperienza del
mondo a rappresentazione del mondo, finendo così per espropriare se
stesso, e l'umanità intera, del senso autentico dell'esperienza e del
mondo. Così egli perde se stesso. Perde, cioè, il senso di esistere, e con
ciò anche il senso del mondo, della vita, dell'essere. Illudendosi di cogliere
la verità nell'oggettività scientifica, egli perde il senso autentico della
verità. Seguiamo dunque il comandante Maurice in questo nuovo viaggio
La scienza soffre... di machismo
Maurice esordisce con poche frasi che racchiudono la sapienza di un
lunghissimo discorso, intessuto insieme a tutti i saggi che, nel corso del
Novecento, hanno lottato per liberare l'accesso alla verità dal macigno,
dal tabù, della rappresentazione scientifica del mondo. Le poche frasi
sono le seguenti:
La scienza manipola le cose e rinuncia ad
abitarle. Se ne costruisce dei modelli interni e,
operando su questi indici o variabili le
trasformazioni consentite dalla loro definizione,
si confronta solo di quando in quando con il
mondo effettuale. Essa è, ed è sempre stata,
quel pensiero mirabilmente attivo, ingegnoso,
Scienza Arte Verità
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disinvolto, quel partito preso di trattare ogni
essere come “oggetto in generale”, cioè come se
non fosse niente per noi e tuttavia si trovasse
predestinato ai nostri artifici.
Che la «scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle» significa che se ne
fa una rappresentazione guardando dal di fuori la superficie visibile,
misurabile, quantificabile, al fine di trasformare le cose, costruendo delle
macchine che consentano di dominare la natura, uomini compresi. Così, ad
esempio, il calcolo differenziale e lo studio fisico-matematico delle
parabole ebbero successo perché consentivano di calcolare il gettito delle
palle di cannone...
«La scienza rinuncia ad abitare» le cose: rinuncia, cioè, a vedere
attraverso le cose, perché non le interessa svelare il senso misterioso che
costituisce l'esserci delle cose e che ne anima la vita. Le interessa altro,
le interessa usufruire delle cose come si usufruisce di oggetti. In breve:
la scienza è macha. È malata di machismo. Soffre di bullismo. Non è forse
così che il macho tratta le donne? «come se non fossero niente per lui e
tuttavia si trovassero predestinate ai suoi artifici»?
Come oggetti, dunque.
La scienza è nuda... e si mostra priva di fondamento...
Maurice continua con un passo che ti sembrerà davvero difficile capire.
Scrive, infatti:
Ma la scienza classica conservava il senso
dell'opacità del mondo, ed era il mondo che
intendeva raggiungere con le sue costruzioni:
ecco perché si riteneva in obbligo di cercare per
le sue operazioni un fondamento trascendente o
trascendentale.
Scienza Arte Verità
22
Per quanto difficile, questo passaggio è inevitabile. È il cuore dell'intera
faccenda. Solo passando di qui ci sarà permesso, dunque, evitare il solito
bla bla bla e procedere oltre, assecondando la corrente, seguendo il filo
del senso che stiamo traversando. Mettiti comodo, mettiti comoda.
Sveliamo cosa dice il comandante.
La scienza classica – per capirci, quella che viene creata nel Cinquecento e
nel Seicento, con l'opera dei primi astronomi (Copernico, Keplero, Galilei)
e poi dei fisici (Newton), insomma: quella creazione dello spirito umano
che si fa protagonista della cosiddetta Rivoluzione scientifica – la scienza
classica, dicevo, ambiva a conoscere la realtà: “era il mondo che intendeva
raggiungere con le sue costruzioni”. Ma allora perché “conservava il senso
dell'opacità del mondo”?
Se provi a dedurre la risposta da quel che abbiamo traversato finora, non
sbagli. Puoi riuscirci. Dato il percorso finora compiuto, questa sarebbe una
bella domanda da Compito in classe. Dunque: perché la scienza classica
conservava il senso dell'opacità del mondo?
Deduzione: poiché, come visto, la scienza sostituisce all'esperienza del
mondo una rappresentazione del mondo, essa in qualche modo avverte,
deve avvertire, che le sue costruzioni, invece di raggiungere il mondo,
potrebbero mancarlo, La scienza classica conserva l'opacità del mondo
perché l'esperienza del mondo, che gli scienziati vivevano (non come noi,
che ce ne siamo dimenticati) opponeva resistenza alla costruzione della
rappresentazione scientifica del mondo. L'esperienza non ci stava a farsi
trattare come un oggetto.
Così, di fronte all'opacità del mondo, lo scienziato si trovava alle prese
con il problema di giustificare la sua riduzione del mondo a oggetto
scientifico, a rappresentazione del visibile-misurabile.
«Ecco perché la scienza si riteneva in obbligo di cercare per le sue
operazioni un fondamento», scrive Maurice. E cioè: la percezione
Scienza Arte Verità
23
dell'opacità del mondo – ossia: il sentore che il mondo dell'esperienza non
si lasciasse risolvere nel mondo dell'esperimento - conduceva gli scienziati
e i filosofi al problema del fondamento della scienza: che cosa ci assicura
che le rappresentazioni scientifiche sono vere? Che cosa assicura che le
costruzioni scientifiche riflettono veramente il mondo?
Per secoli, l'umanità europea si è arrovellata su tale domanda. E ha
trovato due grandi risposte, quelle che Maurice, e tutti gli altri filosofi
prima di lui, hanno battezzato “fondamento trascendente” e quella
chiamata, invece, “fondamento trascendentale”. Non farti impaurire da
questi paroloni. Le cose sono molto più semplici di quanto pensi.
Sei stanco? Sei stanca? Riposa un po'. Fatti un bagno, immergiti nel senso
dell'opacità del mondo e del suo effetto sul pensiero degli scienziati. Un
effetto che insinua un dubbio, un dubbio che non lascerà più dormire sonni
tranquilli a nessuno, per secoli: a che titolo le rappresentazioni
scientifiche del mondo possono pretendere di essere vere?
...sia di un fondamento trascendente...
...fatto il bagno? Bene, rieccoci qua. Alle prese con i paroloni. Iniziamo dal
primo. “Trascendente”. Anzi, “fondamento trascendente”. Comincio col
darti una rappresentazione della faccenda. E tu lo sai, che da una
rappresentazione non ti puoi aspettare la cosa stessa, ma solo una
rappresentazione della cosa (ma guarda un po'...). È solo un fermo
immagine. Gessato. Ma può esserti utile, una volta prese le debite
precauzioni. Bene. la rappresentazione della faccenda, è data da questo
schema:
uomo → (rapp. razionale)
=
(mondo) ←
dio
Lo schema rappresenta anzitutto questo discorso: Dio crea il mondo,
mentre l'essere umano crea le rappresentazioni del mondo. Ma non solo:
Scienza Arte Verità
24
Dio è un Grande Architetto, che crea un mondo logico e razionale; e tra gli
esseri viventi, ne ha creato uno soltanto a sua immagine e somiglianza,
ossia l'essere umano. Ora, come Dio crea un mondo razionale, così
l'essere umano crea rappresentazioni razionali del mondo.
Che cosa assicura, dunque, che la rappresentazione costruita dallo
scienziato sia vera? Cioè: quale è il fondamento della validità della
rappresentazione scientifica del mondo?
Il (presunto) fondamento è la ragione infinita di Dio, che crea un mondo
che non può non essere anch'esso razionale; e Dio crea l'essere umano a
sua immagine e somiglianza, lo crea, cioè, razionale e capace di creare
mondi di pensiero. L'essere umano, dunque, crea le teorie razionali, le
quali dunque non sono solo possibili (= logiche = non contraddittorie) ma
anche vere, nel senso che corrispondono al mondo, visto che il mondo è
posto come razionale.
Così possiamo completare il nostro schema nel modo seguente:
(uomo=ragione finita) → (rapp. raz.) = (mondo raz.) ← (dio=ragione infinita)
A sorreggere la pretesa di conoscere la realtà mediante la
rappresentazione scientifica del mondo era, dunque, tutta una serie di
presupposti teologici. Quali? Quelli che trovi nello schema, e cioè:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
Dio esiste.
Dio è razionale.
Dio crea il mondo.
Dio crea un mondo razionale.
Dio crea anche l'essere umano.
L'essere umano è un animale razionale.
L'essere umano crea rappresentazioni razionali.
Scienza Arte Verità
25
Dati tali presupposti, le rappresentazioni razionali o scientifiche possono
corrispondere al mondo, riflettere la realtà, possono, cioè, essere vere.
Le rappresentazioni razionali sarebbero, dunque, uno specchio in cui si
riflette la realtà. Magari non tutta la realtà, magari solo una porzione di
realtà, ma questa porzione si rifletterebbe comunque in modo preciso,
cioè vero.
Possiamo comprendere allora che cosa
trascendente” della scienza classica. Esso:
•
•
significa
“fondamento
è un fondamento, perché assicura (dovrebbe assicurare) la
possibilità di conoscere la realtà con la ragione;
è trascendente perché tale fondamento è Dio (o meglio: la ragione
infinita di Dio), il quale sta al di là del mondo e lo genera, lo crea
(questo “stare al di là di qualcosa e costituire la sua origine”, è il
significato del termine “trascendente”).
Questo discorso ha (dovrebbe avere) lo scopo di garantire o, come si dice,
di fondare la verità della conoscenza razionale. Esso è stato pensato da
Platone e poi riproposto, in chiave cristiana, da S. Tommaso d'Acquino
(XIII secolo) e da Nicola Cusano (XV secolo) Esso viene ereditato, anche
in forma implicita, da quei filosofi e scienziati che, nei secoli successivi,
credevano nella possibilità di conoscere la realtà mediante la ragione. In
questo modo, dogmatico e teologico, essi speravano di risolvere il dubbio
che l'opacità del mondo suggeriva all'orecchio dell'esperienza.
...basato sul principio di autorità...
Bene. Prima di passare al secondo parolone - fondamento trascendentale occorre vedere cosa è capitato nel corso del Settecento a questo bel
modo di pensare classico. Ma non avere fretta. Dopo il bagno, ti consiglio
una passeggiata, magari in campagna, lontano dal devasto urbano, là dove
puoi ammirare il cielo azzurro sospeso tra gli aromi dei fiori, e lasciare lo
sguardo vagare, così che sia più facile vedere il mondo dal punto di vista
Scienza Arte Verità
26
teologico che abbiamo dipanato. Perché questa visione classica sta per
crollare. E per comprendere il vuoto che tale crollo ha lasciato, occorre
prima avere abitato tale visione. Cioè: vivere l'esperienza della visione
teologica e scientifica, insieme, del mondo. A dopo, dunque. E buona
passeggiata.
...già di ritorno? Bene, ora che sei passato traverso l'esperienza religiosa
puoi capire che cosa ha significato il suo crollo. Crollo che passo ora a
descriverti nelle sue ragioni intime. Il problema è di una semplicità
disarmante. In breve potrei dirti che, cercando il fondamento della
validità della rappresentazione scientifica del mondo, il filosofo del
Seicento e del Settecento introduceva più problemi di quelli che cercava
di risolvere. Prima il dubbio lo colpiva in merito alla validità delle sue
rappresentazioni scientifiche. Ora, invece, il dubbio va a toccare i
fondamenti ultimi della sua rappresentazione complessiva del mondo. E se
Dio non esistesse? E, ammessa pure l'esistenza di Dio, se Dio non fosse
anzitutto ragione? Se fosse un essere capace di creare un mondo non
razionale? Se fosse anzitutto volontà onnipotente? E se, invece di essere
un Grande Architetto, Dio fosse un Grande Artista?
Questa libertà di pensiero dai dogmi e dai limiti circoscritti dal
(presunto) sapere teologico cominciò con gli umanisti del Quattrocento.
Filosofi della natura, maghi, alchimisti, poeti, letterati di lusso come
Erasmo, il baldo giovane che scrisse l'Elogia della follia (1508). Questi
inquieti, e inquietanti, figuri cominciarono a prendersela con il Principio di
autorità. Sai cos'è? In breve, è l'idea che una rappresentazione è vera
perché sacra, cioè perché proviene dall'alto ( ab alto, dicevano i nostri
nonni in latino) e dal di fuori (ab extrinseco), cioè da Dio. O dai suoi
rappresentanti in terra, gli uomini di Chiesa.
Questo principio regolava allora l'intero sapere. Era implicito in quell'idea
di verità come corrispondenza delle teorie razionali al mondo, che
abbiamo visto prima anche sotto forma di schema. Eh già, perché senza
principio di autorità tutti quei presupposti teologici che fondano la
Scienza Arte Verità
27
validità del conoscere razionale, non stanno in piedi. Il principio di
autorità, dunque, è il Grande presupposto di tutti quei grandi presupposti.
Il Grande presupposto, in concreto, era poi questo: che le Sacre
Scritture (la Bibbia, che comprende il Vecchio Testamento i Vangeli, le
Lettere di Paolo, gli Atti degli apostoli, l'Apocalisse di Giovanni) sono vere
perché è voce di Dio: Dio ha parlato ai profeti, ispirati dallo Spirito
Santo, che è Dio stesso, stando al dogma della Trinità di Dio (che è Padre,
Figlio, Spirito Santo).
In breve, dunque, il Principio di autorità fonda la verità dei dogmi
teologici. E gli umanisti se la presero appunto con questa usanza di
credere ai dogmi. E allora? Una volta che il Principio di autorità comincia a
indebolirsi, che cosa accadde?
Accadde che molti filosofi e scienziati liberarono la filosofia dal principio
di autorità. Volevano essere veramente, radicalmente razionali, e quindi
non ammettevano nessun dogma, ma solo rappresentazioni assolutamente
evidenti. Essi costruirono grandi metafisiche, cioè grandi discorsi sulla
Natura, su Dio e sul Mondo, usando solo la ragione e badando a restare
entro i confini dell'evidenza razionale.
Questi personaggi hanno fatto la storia europea del Seicento e del
Settecento, Ne ricordiamo alcuni, almeno tre, che si stagliano
nell'orizzonte culturale dell'epoca e della storia universale dell'umanità
come possenti montagne: sono Descartes, (Cartesio), Spinoza, Leibniz.
Questi filosofi hanno accompagnano la nascita della scienza classica,
fornendo agli scienziati il quadro generale, la Grande rappresentazione di
un universo e di un mondo razionali. Ed è in questa grande
rappresentazione che gli scienziati andavano imbastendo le loro teorie: la
fisica meccanica, anzitutto, cioè la grande rappresentazione di un
universo come una sola e unica grande macchina, un grande orologio,
regolato da nessi di causa-effetti.
Ma poco dopo, nel corso del Settecento, altri filosofi andarono ancora
Scienza Arte Verità
28
oltre. E scoprirono che la Grande rappresentazione scientifica del mondo,
la scienza classica, non aveva veramente rinunciato ai dogmi. Ma come?
Fu un filosofo scozzese a suonare l'allarme. Si chiamava David Hume. Era
grassoccio e pacifico, e in fondo si concentrò su di un unico concetto,
quello di causa. U n concetto che era la chiave di volta dell'intero edificio,
della grande costruzione della rappresentazione scientifica del mondo.
Egli scrisse che le teorie scientifiche pretendevano di rappresentare la
realtà spiegando tutti i fenomeni secondo il principio di causa. E questo
era indubbiamente vero per tutti.
Ma, aggiunse, causa ed effetto non sono che un'abitudine umana di
interpretare i fenomeni. Nient'altro che un modo di comprendere gli
eventi dovuto a un'errore, quello d'intendere gli eventi che si susseguono
nel tempo come se fossero legati da un nesso di causa-effetto.
Così nulla può assicurare che la nostra rappresentazione scientifica di un
universo fatto come un grande orologio corrisponda veramente alla realtà.
Anzi, più in generale, David affermava che non si può conoscere proprio
nulla, perché niente ci assicura che le nostre rappresentazioni
corrispondano veramente alla realtà. Per questo passò alla storia come il
grande scettico (lo scetticismo è proprio questa posizione che dice che
non è possibile conoscere la realtà).
Il nostro scettico, dunque, rivelava che nel cuore della scienza e della
metafisica (= teologia puramente razionale, non fondata su dogmi ma su
(presunte) evidenze) si nascondeva ancora tutto il vecchio mondo
teologico e dogmatico: nulla, diceva, assicura che le teorie (razionali)
corrispondono a un mondo (razionale) se non quella serie di presupposti
teologici che abbiamo appena visto. Presupposti che non sono affatto
evidenti, ma possono essere tenuti per veri solo per fede.
Bene. Se hai seguito il filo del discorso, e sei giunto fin qui, allora sei
pronto, sei pronta a comprendere il senso del secondo grande parolone
Scienza Arte Verità
29
che ci attende, il “fondamento
Meriteresti un premio.
trascendentale”.
E
complimenti.
...sia di un fondamento trascendentale...
«A svegliarmi dal sonno dogmatico fu David Hume», scriveva un filosofo
tedesco del Settecento, che ha terrorizzato generazioni di studenti.
Immanuel Kant. Non avere paura anche tu. Vedrai che la cosa è molto
semplice, se la si guarda con semplicità.
Immanuel dava ragione a David. Nulla ci assicura che le nostre
rappresentazioni (scientifiche e razionali) corrispondono alla realtà. Di
più: nulla può assicurarci di tale corrispondenza. Perché? È semplice.
Vediamo.
Io ho le rappresentazioni. Che pretendono di corrispondere alla realtà.
Ora, per vedere se davvero tali rappresentazioni corrispondono alla realtà
dovrei confrontarle con la realtà. Ma non ho la realtà. Ho solo
rappresentazioni della realtà. Quello che posso sperare di fare, dunque, è
solo confrontare rappresentazioni con altre rappresentazioni. Fine della
storia. Avendo solo rappresentazioni non posso misurare la loro
corrispondenza con la realtà.
Ora ripetiamo tutto con altre parole. Parole più tecniche, che
appartengono al linguaggio tradizionale (e accademico) della filosofia.
Sono le parole “soggetto” e “oggetto”. Il soggetto sono io. Sei tu, che dici,
come me: «il soggetto sono io». L'oggetto è il mondo, o una parte del
mondo. Bene, il soggetto pretende che le sue rappresentazioni
corrispondono all'oggetto. Per vedere se tale corrispondenza è vera, il
soggetto deve confrontare le sue rappresentazioni con l'oggetto. Ma il
soggetto non ha l'oggetto, ma solo rappresentazioni dell'oggetto.
Quindi quel che può fare è solo confrontare le sue rappresentazioni con
altre rappresentazioni. Fine della storia. Il soggetto è chiuso nelle sue
rappresentazioni e, per quanto queste siano razionali e scientifiche,
Scienza Arte Verità
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niente e nessuno può assicurarlo che tali rappresentazioni corrispondano
all'oggetto. In breve: lo scettico ha ragione. Però...
Però Immanuel era convinto che si poteva pensare la verità in un altro
modo. Non più come corrispondenza delle rappresentazioni alla realtà.
Questo modo di intendere la verità, che si basava su nascosti presupposti
dogmatici, doveva finire per sempre. Ma come ripensare dall'inizio la
verità, dunque?
Immanuel ci restò su a pensare per un po'. Dodici anni, Mentre i dotti di
tutta Europa scrivevano al giovane uomo, professore di Logica e
Metafisica dell'Università di Königsberg chiedendogli: ma perché la sua
illustrissima persona non regala all'umanità i frutti del suo genio? perché
se ne sta tutta sola in silenzio, lassù? (Königsberg, si trova nella Prussia
orientale, all'estremo limbo nordico dell'Europa ).
Ma Immanuel taceva. Taceva e pensava. Taceva e ruminava. Scriveva e
scriveva. Ed ecco che un bel giorno del 1781 dava alle stampe un'opera
destinata a cambiare la storia. Già il titolo è un parolone: Critica della
ragion pura. Ma la sostanza, ripeto, è semplice. Vediamo.
Bene, pensava il nostro Immanuel, David ha mostrato che lo scienziato non
fa che giocare con le sue rappresentazioni. Lo scienziato sostiene che
tutto accade secondo leggi di causa ed effetto, ma in realtà non sappiamo.
Di più: non possiamo sapere se tali leggi corrispondono veramente alla
realtà, o non siano, invece, costruzioni della nostra intelligenza. Però...
...se la smettessimo di giudicare le costruzioni della nostra intelligenza a
partire dalla loro presunta (e impossibile da giudicare) corrispondenza alla
realtà? Se lasciassimo cadere tutto questo vecchio discorso della verità
come corrispondenza? E giudicassimo la validità delle nostre
rappresentazioni solo come rappresentazioni? Allora – e questa è la
conclusione del nostro – le rappresentazioni potrebbero venire
considerate vere quando sono rappresentazioni coerenti, razionali,
Scienza Arte Verità
31
logiche.
Con un aggiunta particolarmente importante: se la conoscenza è un gioco
razionale, logico, di rappresentazioni, allora sono possibili tante e diverse
rappresentazioni di Dio e della Natura. Nessuna può pretendere di essere
quella vera a dispetto delle altre. Le metafisiche e le teologie, che si
contendono il sapere di Dio, della realtà invisibile, e della Natura visibile
non sono che giochi dell'intelligenza e della ragione. Nessuna può essere
presa per vera a dispetto delle altre. Ma non è così per la scienza, (che al
tempo era rappresentata dalla fisica di Newton). Qui il gioco razionale
delle rappresentazioni non è libero di giocare come vuole. Qui, gioca che ti
gioca, alla fine occorre rispettare l'esperienza evidente. Qui le nostre
rappresentazioni possono ancora corrispondere all'oggetto. Certo, non
all'oggetto che si sottrae all'esperienza, non a Dio, ma a quell'oggetto che
ci è dato di sperimentare, di vedere, toccare, misurare, quantificare.
Allora, la scienza trova il suo fondamento. Ma dove lo trova?
Non lo trova più in Dio, cioè nell'oggetto, ma lo trova nella ragione umana,
che costruisce la rappresentazione scientifica del mondo. Lo trova, cioè,
nel soggetto. Il problema, allora, sarà quello di vedere come il soggetto
deve procedere per costruire una rappresentazione razionale
dell'esperienza sensibile.
Attenzione: Immanuel non voleva studiare quel che il soggetto fa quando
costruisce le sue rappresentazioni. Ma voleva chiarire quello che, a
prescindere dalle abitudini, il soggetto deve fare per costruire una
rappresentazione vera. Vera, cioè: logica e verificata dall'esperienza.
Verità qui non significa più corrispondenza delle rappresentazioni alla
realtà, ma costruzione di rappresentazioni razionali e verificabili dei
fenomeni, cioè della realtà come appare, della realtà spaziotemporale..
Queste rappresentazioni non ci dicono nulla circa la realtà ultima che si
presume al di là dei fenomeni (cioè Dio). La conoscenza non può
pretendere di raggiungere oggetti trascendenti, che stanno, cioè, al di là
del mondo visibile e sperimentabile, La conoscenza è possibile solo nei
Scienza Arte Verità
32
confronti di quel che appare. Ed è vera quando costruisce una
rappresentazione razionale di quel che appare ai cinque sensi, rinunciando
alla pretesa di raggiungere il senso ultimo delle cose, che sarebbe
invisibile e nascosto dentro, o dietro, le cose.
Come vedi, il buon Immanuel ha cambiato il senso del conoscere.
Conoscere, lo ripetiamo, non è più conoscere il mondo così come il mondo è
in sé. Il mondo in sé non lo abbiamo mai, abbiamo solo rappresentazioni del
mondo. E quindi non possiamo giudicare se le nostre rappresentazioni
corrispondono al mondo in sé. Quello che possiamo fare è costruire
rappresentazioni razionali del mondo come esso si manifesta, come è per
noi, che lo guardiamo, misuriamo, sperimentiamo. E conoscere sarà allora
costruire una rappresentazione razionale del mondo sensibile.
In breve: conoscere è costruire un oggetto a partire dal materiale
sensibile mantenendo le nostre costruzioni in questo mondo, senza
speculare sul mondo in sé, del quale non possiamo fare esperienza.
Bene, ci siamo, Il fondamento di quest'opera di messa in forma
dell'esperienza, di questa costruzione dell'oggetto scientifico, è l'essere
umano, con la sua ragione e i suoi cinque sensi, il suo corpo. Questo
fondamento non è trascendente, non è Dio. Non si regge su presupposti
teologici. Non usa il Grande presupposto, il principio di autorità che
reggeva quei presupposti teologici.
Il nuovo fondamento è l'essere umano che costruisce l'oggetto, che è
vero non perché corrisponde alla realtà, che non possiamo raggiungere,
perché siamo rinchiusi nelle nostre rappresentazioni; ma che è vero
perché corrisponde al modo logico e razionale di mettere in forma
l'esperienza sensibile del mondo.
Questo fondamento, che è il soggetto, Immanuel lo chiamò
“trascendentale”. (Lasciamo stare perché il nostro abbia scelto questo
parolone). Siamo arrivati in porto. Pausa caffè.
Scienza Arte Verità
33
...che si contraddice e...
E allora? Cosa c'è che non va nella nuova prospettiva trascendentale?
La prospettiva, cioè, che pensa la verità della rappresentazione non più
come corrispondenza alla realtà ma come costruzione logica e razionale
dell'esperienza sensibile umana?
Se non hai dimenticato la nostra prima traversata, la risposta non è
difficile. Mettiamola così. Se “conoscere” significa costruire un oggetto
senza più pretendere di andare al di là dell'esperienza sensibile per
raggiungere una realtà che esisterebbe prima e fuori dalle nostre
rappresentazioni, che cosa assicura che la costruzione scientifica sia
quella vera? Ripetiamolo ancora: “vero” qui non significa più
corrispondente alla (presunta) realtà razionale del mondo, ma
corrispondente, da un lato, alla ragione umana, dall'altro, all'esperienza
dell'uomo. La domanda suona allora così: a che titolo possiamo affermare
che la costruzione scientifica dell'oggetto è quella vera?
La risposta di Immanuel è: perché la costruzione scientifica corrisponde
alla natura del soggetto. Ma questa risposta – che è la cosiddetta
fondazione trascendentale – fa acqua da tutte le parti. O per lo meno da
due falle decisive.
La prima: la rappresentazione scientifica è solo una costruzione
dell'oggetto, una messa in forma dell'esperienza, accanto ad altre
costruzioni ugualmente possibili, ad esempio a quella artistica. Perché,
dunque, la rappresentazione scientifica dovrebbe avere il privilegio di
essere considerata vera, mentre le altre rappresentazioni, come quella
artistica, non sarebbero né vere né false, ma semplici giochi dello spirito
umano?
La risposta di Immanuel è: perché l'essere umano è essenzialmente un
essere razionale, e per questo le rappresentazioni razionali sono vere,
perché queste rappresentazioni corrispondono alla natura e alla dignità
dell'essere umano. Sono conformi alla sua intelligenza logica, che mette in
Scienza Arte Verità
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forma il materiale offerto dai suoi cinque sensi, costruendo così l'oggetto
scientifico.
Bene. Ma allora si pone il secondo problema, decisivo e risolutivo: è
possibile affermare che la natura dell'essere umano è essenzialmente la
ragione?
Affermare che l'essere umano è ragione significa affermare qualcosa
circa la natura dell'essere umano come l'essere umano è in sé. Ma questa
affermazione, stando alla nuova idea di conoscenza ideata da Immanuel,
non è possibile: noi abbiamo solo rappresentazioni della realtà e non
abbiamo mai la realtà come essa è in sé; e quindi non possiamo dire
neppure che l'essere umano è in sé razionale.
Quindi Immanuel si contraddice. Parte con il constatare che non è
possibile raggiungere il mondo, e che quindi conoscere significa costruire
una rappresentazione del mondo, ma poi dice anche che tale
rappresentazione va considerata come vera se rispetta la natura razionale
dell'essere umano. Tutta la faccenda si fonda quindi sulla natura razionale
dell'essere umano (è questo il “fondamento trascendentale”). Ma dire che
l'essere umano è razionale significa pretendere di raggiungere la realtà
ultima dell'essere umano. E con ciò il nostro si contraddice. Buona notte,
dunque. Fine del discorso:
il fondamento trascendentale non fonda un bel nulla: anch'esso si basa su
un dogma, ben nascosto, quello secondo cui l'essere umano è in sé un
essere essenzialmente razionale.
... e riduce l'esperienza a rappresentazione
I filosofi non ci hanno messo molto a scoprire l'inganno, e la
contraddizione, celata nel grande disegno di Immanuel. Ma prima di
rielaborare un nuovo modo di intendere la verità – che è quello che
vedremo attraversando la visione artistica – trascorsero due secoli. Fino a
Scienza Arte Verità
35
quando, cioè, nel corso del Novecento, progressivamente, si è fatto luce
sul fatto che la costruzione scientifica priva l'essere umano della sua
esperienza del mondo, che viene ridotta a esperimento e a
rappresentazione.
Che cosa significa che la scienza espropria l'umanità della capacità di
vivere l'esperienza? A questa domanda abbiamo già risposto, almeno un
po', lungo la nostra prima traversata, che abbiamo condotto grazie alla
guida di Giorgio (l'Agamben, sempre lui). Ti ricordi?
Non mi resta che invitarti nuovamente a compiere quella prima traversata,
cioè a rileggere quelle pagine. Questo movimento di lettura e di rilettura
è il movimento dello studio. Non ti sorprendere. Procederai in questo
modo quando studierai seriamente qualcosa. Al liceo, nei prossimi anni. Ma
soprattutto se continuerai gli studi, ad esempio all'università o altrove.
Magari per conto tuo. È un movimento che procede guadagnando qualcosa
e ripercorre poi l'intero percorso alla luce delle nuove conoscenze
guadagnate. È un movimento che ritorna sui suoi passi, sempre, Percorre e
ripercorre. È un movimento circolare, spiraliforme. Un vortice.
Ma la scienza non ci sta a farsi mettere a nudo...
Bene. Torniamo a Maurice (Merleau-Ponty). Siamo partiti dal seguente
passo, ricordi?
La scienza manipola le cose e rinuncia ad
abitarle. Se ne costruisce dei modelli interni e,
operando su questi indici o variabili le
trasformazioni consentite dalla loro definizione,
si confronta solo di quando in quando con il
mondo effettuale. Essa è, ed è sempre stata,
quel pensiero mirabilmente attivo, ingegnoso,
disinvolto, quel partito preso di trattare ogni
essere come “oggetto in generale”, cioè come se
Scienza Arte Verità
36
non fosse niente per noi e tuttavia si trovasse
predestinato ai nostri artifici.
Ora che lo abbiamo chiarito, possiamo capire la continuazione di questo
passo:
Oggi si verifica – non nella scienza ma in una
filosofia delle scienze abbastanza diffusa – un
fenomeno completamente nuovo: la pratica
costruttiva si considera autonoma e si dà come
tale, e il pensiero si riduce deliberatamente
all'insieme delle tecniche di presa o di
captazione che esso inventa. Pensare significa
sperimentare, operare, trasformare, con l'unica
riserva di un controllo sperimentale in cui
intervengono
solo
fenomeni
altamente
“elaborati”, che i nostri apparecchi, più che
registrare, producono.
Che cosa significa? Significa anzitutto, come visto, che la scienza soffre
di machismo. Ma ora possiamo aggiungere: l'interpretazione filosofica
delle scienze oggi se ne frega della vecchia pretesa della scienza classica
che intendeva raggiungere il mondo, conoscere la realtà. Per questo non
cerca più nessun fondamento, trascendente o trascendentale che sia.
Per questo non avverte più l'opacità del mondo. L'unico suo criterio di
verità è dato dal successo che essa riesce ad ottenere costruendo il suo
oggetto, le sue rappresentazioni. Se queste rappresentazioni hanno
successo, se consentono di trasformare la materia, se permettono di
fabbricare macchine utili (utili a chi, e per cosa...?), la scienza è
soddisfatta.
La tecnica diventa la misura della validità della scienza. Verità significa
allora: successo della tecnica.
Scienza Arte Verità
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...e si rifugia nella tecnica
Ciò significa che la scienza ha rinunciato a chiarire il senso del mondo. Le
interessa solo trasformare liberamente il mondo. E il mondo che cosa
diviene? Il mondo diviene l'oggetto delle sue manipolazioni, E il pensiero?
Diviene pensiero operativo, tecnico. Ascoltiamo il comandante Maurice
che poco oltre, a pagina 14 di L'occhio e lo spirito, (che trovi qui in
fotocopia), scrive:
Dire che il mondo è per definizione nominale
l'oggetto X delle nostre operazioni, significa
assolutizzare la situazione conoscitiva dello
scienziato, come se tutto ciò che fu o è non
fosse
mai esistito se non per entrare in
laboratorio. Il pensiero “operatorio” diviene una
sorta di artificialismo assoluto...
Ma il machismo scientifico è un regime pericoloso: un
incubo!
Se l'umanità si lascia espropriare dell'esperienza, essa rischia di perdere
se stessa e finirà per lasciarsi distruggere dal suo stesso mirabile
successo tecnico. Il machismo scientifico – il pensiero operativo - rischia
così di portare l'umanità all'autodistruzione fisica e spirituale. Questa è
la morale della favola. È quel che dice tra le righe il nostro vecchio saggio
Maurice nella sua ultima estate sulla terra:
Se un pensiero di questo genere si fa carico
dell'uomo e della storia, e se, fingendo di
ignorare ciò che ne sappiamo per contatto e per
posizione (cioè: per esperienza) inizia a
costruirli a partire da qualche indice astratto...,
allora diviene realmente il manipulandum (= colui
che manipola, il soggetto) che pensa di essere, e
si entra in un regime di cultura in cui non
Scienza Arte Verità
38
esistono più né vero né falso riguardanti l'uomo
e la storia, in un sonno o incubo da cui non esiste
risveglio.
(pagina 15 de L'occhio e lo spirito)
Era il 1960. Le cose nel frattempo sono peggiorate. La mentalità tecnica,
il pensiero operativo sono ovunque. Noi viviamo in questo regime, in questo
sonno, in questo incubo. Forse ti riesce difficile accorgertene. Forse il
risveglio ti è quasi impossibile. Perché tu, in questo incubo, pochi anni fa,
ci sei nato, ci sei nata.
E allora che fare?
Il saggio non sarebbe saggio se alla diagnosi del male non offrisse una
terapia. Così anche Maurice. La sua cura prevede due misure. La prima si
rivolge alla scienza. Alla scienza, o meglio agli scienziati e ai filosofi, e a
noi tutti, lancia un appello: smettetela di considerare il mondo come un
oggetto da manipolare e trasformare. Fatela finita con il machismo del
pensiero operativo, con questa barbarie in cui termina il progetto
scientifico dell'umanità europea. Il che significa: prendete atto che il
mondo c'è prima delle operazioni e delle costruzioni di rappresentazioni e
oggetti e macchine:
È necessario che il pensiero scientifico... si
ricollochi in un “ c'è ” preliminare, nel luogo, sul
terreno del mondo sensibile e del mondo
lavorato così come sono nella nostra vita, per il
nostro corpo, non quel corpo possibile che è
lecito definire una macchina dell'informazione,
ma questo corpo effettuale che chiamo mio, la
sentinella che vigila silenziosa sotto le mie
parole e sotto le mie azioni.
(pagina 15 de L'occhio e lo spirito)
Scienza Arte Verità
39
La seconda misura di cura si occupa di risvegliare la sentinella che dorme,
il corpo che vigila sotto le mie, sotto le tue, parole e azioni. Il corpo che
dipinge, Perché è questo corpo, quello dell'artista, l'unico ad avere ancora
la possibilità di risvegliarsi alla vita. Al mondo, Che c'è. E che non è una
rappresentazione.
È quanto vedremo nella prossima traversata. Che è una traversata del
corpo del pittore.
Conclusione del primo tratto del secondo viaggio
La domanda di partenza era, se ben ricordo:
Hai vissuto l’esperienza artistica,
hai compiuto quella traversata di te stesso, di te stessa,
a rischio di te,
in quanto esposizione all’altro,
all’avvenimento,
qui: al gesto artistico?
Non possiamo ancora rispondere. Io non potrò mai rispondere al posto tuo,
e tu non puoi ancora rispondere, perché cominci solo ora a comprendere
(forse, io ci spero) il senso della domanda. Che ora suona così:
Hai vissuto il risveglio del corpo vivo?
Hai messo a rischio te stesso, te stessa, incrinando il pensiero
operativo, indebolendo il machismo scientifico che permea le tue
parole e le tue azioni?
Hai lasciato al tuo corpo la possibilità di un gesto artistico?
Hai ritrovato nell'avvenimento di questo gesto il mondo che c'è?
Che c'è prima di qualsiasi rappresentazione?
Scienza Arte Verità
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Secondo tratto del secondo viaggio
Il corpo dipinge
(→ Testo 2.2)
Il corpo vede e si muove e...
Ricorda quello che hai vissuto giocando con il gesto e la materia.: ti sei
dato, ti sei data con il tuo corpo. È quanto dice Maurice ripetendo le
parole di un altro audace saggio del Novecento, che si chiamava Paul
Valéry:
Il pittore «si dà con il suo corpo» dice Valéry...
È prestando il suo corpo al mondo che il pittore
trasforma il mondo in pittura.
(p. 17 de L'occhio e lo spirito)
Per capire questa trasformazione del mondo in pittura, dalla quale
dipende il risveglio dell'umanità dal regime del machismo tecnicoscientifico, occorre “ritrovare il corpo operante ed effettuale” (ancora a
pagina 17).
Questo corpo non è un corpo nello spazio. Come un tavolino, un missile, o
un lecca lecca. E non è neppure un robot, un semplice fascio di funzioni,
una macchina. Questo corpo è un «intreccio di visione e di movimento»
(idem). Che cosa vuol dire? C'è forse un enigma in questo esserci del
corpo, del corpo che c'è, del corpo che io sono, che tu sei, che noi siamo?
Il mio corpo, come il tuo corpo, vede e si muove all'unisono. O, come dice
in un linguaggio preciso il nostro Maurice: «Il mondo visibile e quello dei
miei progetti motori sono parti totali del medesimo Essere» (sempre
idem). Bene. Io mi muovo e vedo, vedo e mi muovo all'unisono. E allora?
Scienza Arte Verità
41
Allora c'è ancora una cosa: che vedendo e muovendosi, il corpo si vede. E
si tocca: il corpo «si vede vedente, si tocca toccante, è visibile e sensibile
per se stesso» (a pagina 18).
Non capisci bene cosa vuol dire? Guardati allora. E toccati: incrocia le
mani: quale mano è quella che tocca, quale mano è quella che viene
toccata?
Non puoi pensare la risposta. Non puoi decidere tu la risposta. Tu sei
insieme chi tocca e chi viene toccato. E lo sei prima di ogni pensiero.
Cioè: lo sei, sei corpo che c'è, prima della distinzione tra un soggetto, che
tocca, e un oggetto, che viene toccato. Questo pensiero, quello della
distinzione tra il soggetto e l'oggetto, è pensiero, appunto. È
rappresentazione. È costruzione dell'oggetto, Da un lato, l'oggetto “chi
tocca”, che chiamiamo il soggetto dell'azione; dall'altro, l'oggetto “che
cosa viene toccato”, che chiamiamo l'oggetto dell'azione.
Ma prima di questo pensiero c'è il corpo che si tocca. E solo perché c'è
prima un corpo vivo, che si tocca, che poi è possibile pensare e distinguere
tra soggetto e oggetto. Il corpo che c'è non conosce ancora questa
distinzione del pensiero.
Per questa ragione, cioè per esprimere il fatto che il corpo è vivo, sente e
si muove, si muove, e si sente, i francesi hanno una bella parola: la chair,
che traduciamo in italiano con la parola carne. Ma carne, in italiano, ci fa
pensare alle macellerie, dove non troviamo affatto la chair ma carne fatta
a pezzi, carne che non è più viva, che non sente, non si muove, non si vede
e non si tocca. Carne morta. Cadavere.
Il corpo vivo, invece, la chair si muove all'unisono della visione. «Il mio
movimento è il proseguimento naturale e la maturazione di una visione»
(a pagina 18).
Scienza Arte Verità
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In fondo è questa esperienza della chair, del corpo vivo, che i tuoi maestri
di arti visive hanno cercato di farti vivere. Esporti al gesto pittorico, era
esporti all'avvenimento del corpo che si muove avendo maturato una
visione. Non eri tu a decidere di muoverti: tu assistevi al compiersi di una
visione che si traduceva immediatamente, e ripeto: immediatamente, nel
corpo che si muoveva.
Allora non c'è un soggetto che guarda e poi decide di fare un gesto, ma
c'è un corpo, una chair che si muove, che irradia visione e movimento da
sé:
Io dico che una cosa è mossa, ma il mio corpo si
muove, il mio movimento si dispiega; non avviene
nell'ignoranza di sé, non è cieco a se stesso,
s'irradia da un sé..
(toujours a pagina 18)
Il corpo vivo non è una cosa. Dipingendo tu non eri più soggetto di fronte
(gegen, ricordi il primo viaggio?) a un oggetto. Tu ti scoprivi nel gesto
pittorico come un corpo, una chair che c'è, che irradia visioni e movimenti.
Forse così hai scoperto di esserci prima del pensiero, prima della
distinzione tra il soggetto, che decide, e l'oggetto che viene deciso, e
costruito.
... non soffre di machismo
Ti sei esposto, ti sei esposta al rischio, dunque. Hai mollato la presa. Ti sei
concesso, ti sei concessa un'autentica esperienza. Perché l'esperienza è
questo esserci prima del pensiero, del pensiero che distingue tra il
soggetto e l'oggetto; prima del pensiero con cui costruisci (anche) quella
rappresentazione di te stesso, di te stessa che chiami soggetto. Ti sei
esposto, ti sei esposta all'avvenimento di esserci, di essere un corpo, una
chair, che c'è prima del pensiero e della differenza di soggetto e oggetto.
Scienza Arte Verità
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Ti sei vissuto, ti sei vissuta come vita originaria. Nel mondo che c'è. Ti sei
scoperto, ti sei scoperta come chair, che non è soggetto (perché non
decide e non pensa), e non è un oggetto (perché vive: vede, si vede e si
muove), ma è un sé:
È un sé, non per trasparenza come il pensiero,
che può pensare una cosa solo assimilandola,
costituendola, trasformandola in pensiero –
bensì un sé per confusione, narcisismo, inerenza
di colui che vede a ciò che vede, di colui che
tocca a ciò che tocca, del senziente ( = chi
sente) al sentito – dunque un sé che è preso
nelle cose, che ha una faccia e un dorso, un
passato e un avvenire...
(pag. 18).
Un sé “che è preso nelle cose” e cioè: che non sta di fronte ( gegen) alle
cose e non costruisce oggetti ( Gegenstand) e per questo non si riduce a
soggetto. Non costruendo oggetti, il corpo, la chair, il sé rinuncia anche a
possedere oggetti.
Rinunciare a possedere oggetti significa anzi tutto rinunciare a pensare
come fa il pensiero, che concepisce, che manipola oggetti e concetti, che
pensa per concetti.
Sai come si dice il concetto in tedesco? Si dice das Begriff. E sai da dove
viene Begriff? Da begreifen, che vuol dire afferrare. Cioè: possedere.
Eccola qui la faccia del pensiero, che costruisce rappresentazioni, o
concetti, della cose, rinunciando ad abitarle: esso vuole possedere,
begreifen, le cose trasformandole in Begriff, in concetti.
E il pittore, invece?
Scienza Arte Verità
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Immerso nel visibile mediante il suo corpo,
anch'esso visibile, il vedente non si appropria di
ciò che vede: l'accosta soltanto con lo sguardo,
apre sul mondo.
(pag 18).
Il sé, il corpo, la chair – non soffre di machismo. Da questa malattia il
pittore è risparmiato, O si è liberato. Per questo può risvegliare l'umanità
intera al senso originario del sé. All'apertura al mondo.
Scienza Arte Verità
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Terzo tratto del secondo viaggio
Lo sguardo svela il mondo
(→ Testo 2.3)
L'immagine pittorica non è... un'immagine
Immagine di solito è sinonimo di rappresentazione. Se, dunque, il viaggio
finora percorso ha avuto un senso, non è difficile capire che l'immagine
come rappresentazione non può essere l'immagine pittorica, cioè
quell'immagine che il pittore dipinge.. ops, che gaffe... quell'immagine che
«s'irradia» dalla chair, dal corpo vivo, dal sé del pittore. (...perché il
pittore, propriamente, non dipinge, visto che non è un soggetto che
decide, che sta contro, gegen, al visibile e non costruisce immagini,,, se
non ti è chiaro, ritorna a traversare il tratto precedente, al quale arrivi
traversando il primo tratto, al quale arrivi al termine del primo viaggio...).
La mia è una gaffe, perché dopo tanto chiarire il senso del sé, sono
ricaduto nell'abitudine di attribuire al pittore un soggetto.
Maurice sa il pericolo di ricadere, in forza dell'abitudine, nel pensiero
scientifico, nel suo linguaggio manipolatore, e avverte:
La parola immagine ha una cattiva fama perché
si è creduto sconsideratamente che un disegno
fosse un ricalco, una copia, una seconda cosa, e
che l'immagine mentale fosse un disegno di
questo genere nel nostro bazar privato
(p. 21 de L'occhio e lo spirito)
L'immagine pittorica non è una “copia” della realtà, non è una
rappresentazione. Lo sguardo del pittore non riproduce la realtà. La realtà
è costruzione del pensiero. Il quadro non corrisponde alla realtà, perché
Scienza Arte Verità
46
non corrisponde a una costruzione del pensiero: «Il quadro, la mimica
dell'attore non sono strumenti ausiliari presi in prestito dal mondo vero,
per indicare attraverso di essi, cose prosaiche assenti», scrive Maurice
sempre a pagina 21.
Ma allora che cosa è l'immagine del pittore?
Lo sguardo del pittore è... una conquista. E un dono
Lo sguardo del pittore è una conquista e un dono, un premio anche, che
passa attraverso la liberazione dallo sguardo frontale del pensiero
razionale e scientifico, il quale costruisce rappresentazioni, immagini,
oggetti:
...tutta la questione consiste nel comprendere
che i nostri occhi di carne sono già molto più che
ricettori dei raggi luminosi, dei colori e delle
linee: sono computer del mondo, che hanno il
dono del visibile così come si dice che l'uomo
ispirato ha il dono delle lingue. Naturalmente
questo dono si conquista con l'esercizio, e non è
in qualche mese, e neppure nella solitudine, che
il pittore entra in possesso della sua visione. Ma
non è questo il problema: precoce o tardiva,
spontanea o coltivata nei musei, la visione del
pittore impara solo vedendo, impara solo da se
stessa.
(p. 22 de L'occhio e lo spirito).
Ma non abbiamo ancora risposto: cosa vede il pittore?
Lo sguardo del pittore vede il senso (invisibile) del visibile
Il mondo visibile ci sta davanti al naso, O meglio davanti agli occhi. Che
Scienza Arte Verità
47
cosa vede allora il pittore che noi non vediamo? Non vede forse anche lui
quel mondo visibile che noi vediamo? Si e no. Il pittore vede il visibile ma
non pensa. Non pensa che il visibile sia quel che gli sta davanti agli occhi.
Davanti... contro... di fronte... gegen... non vede il mondo come una
rappresentazione. Non vede immagini. Non vede oggetti. Il pittore
vede...visioni. Cioè?
Il pittore vede il mondo ma non lo vede come mondo semplicemente
presente. Vede il mondo e vede una mancanza: «vede ciò che manca al
mondo per essere quadro, e ciò che manca al quadro per essere se
stesso», dice il saggio (a fondo della pagina 22).
Per questo lo sguardo del pittore è chiaroveggente: perché vede nel
mondo presente ciò che manca affinché il mondo sia quadro e il quadro
visione che apre, svela, ciò che si cela nel visibile.
Allora la visione del pittore è un'illusione?
No. Perché dire che la visione del pittore è un'illusione, o dire che il
quadro è perciò falso, significherebbe presupporre che la nostra visione,
che vede solo ciò che è visibile, è la visione vera. Ma noi, quando
guardiamo, anche pensiamo: siamo (stati educati ad essere) soggetti. Noi
costruiamo il visibile come oggetto, come rappresentazione di una
presunta realtà che crediamo di afferrare ( begreifen) con i concetti
(Begriff), con il pensiero che sta contro ( gegen), o di fronte al mondo. Noi
non vediamo il mondo che c'è, ma l'oggettività del mondo. La nostra è una
visione “profana”. Che vede tutto. E non vede niente:
Il visibile in senso profano dimentica le sue
premesse, riposa su una visibilità totale che va
ricercata, e che libera i fantasmi che in esso
sono prigionieri
(dice il nostro a p. 24).
Scienza Arte Verità
48
Le “premesse” della visione profana è il pensiero scientifico, oggettivante,
che guarda al mondo come si guarda a un oggetto. I suoi fantasmi sono
l'assoluta mancanza di fondamento di tale pensiero, il quale costruisce
intimamente, in modo implicito e silenzioso, il nostro sguardo profano.
No: la visione artistica abita e svela il mondo
Il pittore, nel suo lungo o breve apprendistato alla scuola della visione, ha
disinnescato la potenza del pensiero che costruisce in modo inconsapevole
anche la nostra visione profana.
Egli non vive più come un soggetto, che si sa, si vuole, si sente davanti al
mondo, posto di fronte al visibile. Egli vive come un sé: egli lascia che si
irradi dal corpo, dalla chair, dai suoi «occhi di chair», «ciò che è stato
toccato da un certo impatto con il mondo, e lo restituisce al visibile
mediante i segni tracciati dalla mano» (pag. 24).
Così, in questa immediatezza, che è il risultato di un'esperienza
liberatoria dal pensiero, il pittore assiste alla traduzione del visibile in
visione: «la visione è uno specchio o concentrazione dell'universo».
Così lo sguardo del pittore ci fa «vedere il visibile» che il pensiero
nasconde. La visione pittorica ci apre al mondo che c'è, svela il mondo che
c'è per noi, che siamo corpo, chair, prima dell'intervento del pensiero, il
quale ci separa dal mondo, ponendoci al cospetto del mondo come di
fronte, contro, un oggetto.
La visione ci riconcilia con noi stessi e ci unisce al mondo che c'è.
Il pittore, dunque, non è macho: non tratta il mondo «come se non fosse
niente per lui e tuttavia si trovasse predestinato ai suoi artifici». Il
pittore non rinuncia ad abitare il mondo che c'è. Ma lo apre e lo svela. E
così non rinuncia al sé. Non rinuncia a se stesso.
Scienza Arte Verità
49
Conclusione.
Giunti fin qui, siamo in prossimità dell'uscita da questo discorso
sull'esperienza artistica. Un discorso che riceve il suo senso solo
dall'esperienza artistica. Dallo sguardo pittorico. Dal gesto pittorico.
Affinché il discorso fatto finora possa raggiungerti, devi uscire dal
discorso. E dipingere. Diventare chiaroveggente. Alla scuola della visione.
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Quarto tratto del secondo viaggio
Il colore
(→ Testo2.4)
Da qui puoi procedere da sola, da solo, alla lettura delle pagine 48 e 49 e
50 de L'occhio e lo spirito, che trovi ricopiate in questo papiro. Perché
non ci sono più luoghi nebulosi che io possa chiarirti meglio di quanto puoi
fare da solo, da sola anche tu.
***
Quinto tratto del secondo viaggio
La visione
(→ Testo 2.5)
Stesso discorso anche per le pagine 57 e 58 e 59 e 60 de L'occhio e lo
spirito, dedicate ad approfondire il senso conoscitivo della visione, che
trovi sempre nel papiro che tieni davanti agli occhi, se è ancora integro, e
non si è sfogliato col tempo.
Queste sono pagine che possono accompagnarti per la vita intera. Il loro
senso crescerà insieme a te. Col tempo.
Scienza Arte Verità
51
Terzo viaggio
Traversata dello sguardo
(Comandante: Jean-Luc Nancy)
(→ Testo 3)
Il libro di Jean-Luc conta poche pagine. Ma molto belle. Te ne lascio
qualcuna. E ti lascio vivere l'esperienza della lettura nella tua cella
monastica. Cioè in solitudine (monaco viene dal greco monachós, cioè unico,
poi mónos, cioè solo).
Perché un commento, a questo punto, sarebbe probabilmente superfluo e
fuorviante.
***
Bene. Dobbiamo salutarci.
Ti auguro di cuore una buona continuazione di viaggio.
Ciao
Peace
Love
Lugano, dal primo al tre maggio 2008
Scienza Arte Verità
52
LE PAROLE DEI COMANDANTI
I testi seguenti sono tratti da:
Giorgio Agamben, Infanzia e storia, Einaudi 2001,
1978).
(prima ed.
Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, SE, Milano 1989,
(ed. originale francese: L'Oeil e l'Esprit, Éditions Gallimard,
1964).
Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, Raffaello Cortina
Editore, Milano, 2002, (ed. originale francese: Le Regard du
portrait, Éditions Galilée, 2000).
Scienza Arte Verità
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Testo 1
(← Primo viaggio. Traversata dell'esperienza)
Il seguente brano è tratto da: Giorgio Agamben, Infanzia e storia.
Distruzione dell'esperienza e origine della storia, cit., pp. 5-7.
Ogni discorso sull'esperienza deve oggi
partire dalla costatazione che essa non è più
qualcosa che ci sia ancora dato di fare. Poiché ,
così come è stato privato della sua biografia,
l'uomo contemporaneo è stato espropriato della
sua esperienza; anzi, l'incapacità di fare e
trasmettere esperienze è, forse, uno dei pochi
dati certi di cui egli disponga su se stesso.
Benjamin, che già nel 1933, aveva diagnosticato
con precisione questa «povertà d'esperienza»
dell'epoca moderna, ne indicava le cause nella
catastrofe della guerra mondiale, dai cui campi
di battaglia «la gente tornava ammutolita... non
più ricca, ma più povera di esperienze
partecipabili... Poiché mai le esperienze hanno
ricevuto una smentita così radicale come le
esperienze strategiche durante la guerra di
posizione, le esperienze economiche attraverso
l'inflazione , le esperienze corporee attraverso
la fame, le esperienze morali attraverso il
dispotismo. Una generazione, che era andata a
scuola col tram a cavalli, stava in piedi sotto il
cielo in un paesaggio in cui nulla era rimasto
immutato tranne le nuvole e, al centro, in un
campo di forza di correnti distruttive e
esplosioni, il fragile, minuscolo corpo umano».
Scienza Arte Verità
54
Noi sappiamo però oggi che, per la distruzione
dell'esperienza, una catastrofe non è in alcun
modo necessaria e che la pacifica esistenza
quotidiana in una grande città è, a questo fine,
perfettamente sufficiente. Poiché la giornata
dell'uomo contemporaneo non contiene quasi più
nulla che sia ancora traducibile in esperienza:
non la lettura del giornale, così ricca di notizie
che lo riguardano da un'incolmabile lontananza,
né i minuti trascorsi al volante dell'automobile
in un ingorgo, non il viaggio agli inferi nelle
vetture della metropolitana né la manifestazione
che blocca improvvisamente la strada, non la
nebbia dei lacrimogeni che si disfa lenta fra i
palazzi del centro e nemmeno i rapidi botti di
pistola non si sa dove, non la coda davanti agli
sportelli di un ufficio o la visita al paese di
Cuccagna del supermercato, né i momenti eterni
di muta promiscuità con degli sconosciuti in
ascensore o nell'autobus. L'uomo moderno torna
a casa alla sera sfinito da una farragine di
eventi – divertenti o noiosi, insoliti o comuni,
atroci o piacevoli – nessuno dei quali è però
diventato esperienza.
È questa incapacità di tradursi in esperienza
che rende oggi insopportabile – come mai in
passato – l'esistenza quotidiana, e non una
pretesa cattiva qualità o insignificanza della vita
contemporanea rispetto a quella del passato
(anzi, forse mai come oggi l'esistenza quotidiana
è stata tanto ricca di eventi significativi). Se
bisogna aspettare il secolo XIX per incontrare
le prime manifestazioni letterarie di questa
oppressione del quotidiano e se alcune celebri
Scienza Arte Verità
55
pagine di Sein und Zeit «sulla banalità» del
quotidiano – in cui la società europea fra le due
guerre fu fin troppo incline a riconoscersi – non
avrebbero avuto semplicemente senso anche
solo un secolo prima, ciò è precisamente perché
il quotidiano – e non lo straordinario – costituiva
la materia prima dell'esperienza che ogni
generazione trasmetteva alla successiva (di qui
l'inattendibilità dei racconti di viaggio e dei
bestiari medioevali, che non hanno nulla di
fantastico», ma mostrano semplicemente come
lo straordinario non potesse essere in nessun
caso tradotto in esperienza). Ogni evento, per
quanto comune e insignificante, diventava così la
particella d'impurità intorno alla quale
l'esperienza addensava, come una perla, la
propria autorità. Perché l'esperienza ha il suo
necessario correlato non nella conoscenza, ma
nell'autorità, cioè nella parola e nel racconto, e
oggi nessuno sembra più disporre di autorità
sufficiente a garantire un'esperienza e, se ne
dispone, non è nemmeno sfiorato dall'idea di
allegare in un'esperienza il fondamento della
propria autorità. Al contrario, ciò che
caratterizza a il tempo presente è che ogni
autorità ha il suo fondamento nell'inesprimibile
e nessuno si sentirebbe di accettare come
valida un'autorità il cui unico titolo di
legittimazione fosse un'esperienza. (Il rifiuto
delle ragioni dell'esperienza da parte dei
movimenti giovanili ne è una prova eloquente).
Di qui la scompara della massima e del
proverbio, che erano le forme in cui l'esperienza
si poneva come autorità. Lo slogan, che li ha
Scienza Arte Verità
56
sostituiti, è il proverbio di un'umanità che ha
perduto l'esperienza. Il che non significa che
oggi non vi siano più esperienze. Ma esse si
compiono fuori dell'uomo. E, curiosamente,
l'uomo le sta a guardare con sollievo. Una visita
a un museo o a un luogo di pellegrinaggio
turistico è, da questo punto di vista,
particolarmente istruttiva. Messo di fronte alle
più grandi meraviglie della terra (poniamo, il
patio de los leones nell'Alhambra), la
schiacciante maggioranza dell'umanità si rifiuta
oggi di farne esperienza: preferisce che, a
farne l'esperienza, sia la macchina fotografica.
Scienza Arte Verità
57
Testo 2.1
(← Primo tratto del Secondo viaggio. Verità dove sei...?)
Il brano seguente è tratto da: Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo
spirito, cit., pp. 13-16.
La scienza manipola le cose e rinuncia ad
abitarle. Se ne costruisce dei modelli interni e,
operando su questi indici o variabili le
trasformazioni consentite dalla loro definizione,
si confronta solo di quando in quando con il
mondo effettuale. Essa è, ed è sempre stata,
quel pensiero mirabilmente attivo, ingegnoso,
disinvolto, quel partito preso di trattare ogni
essere come «oggetto in generale», cioè come
se non fosse niente per noi e tuttavia si
trovasse predestinato ai nostri artifici.
Ma la scienza classica conservava il senso
dell'opacità del mondo, ed era il mondo che
intendeva raggiungere con le sue costruzioni:
ecco perché si riteneva in obbligo di cercare per
le sue operazioni un fondamento trascendente o
trascendentale. Oggi si verifica – non nella
scienza, ma in una filosofia delle scienze
abbastanza
diffusa
–
un
fenomeno
completamente nuovo: la pratica costruttiva si
considera autonoma e si dà come tale, e il
pensiero si riduce deliberatamente all'insieme
delle tecniche di presa o di captazione che esso
inventa.
Pensare
significa
sperimentare,
operare, trasformare, con l'unica riserva di un
Scienza Arte Verità
58
controllo sperimentale in cui intervengano solo
fenomeni altamente «elaborati», che i nostri
apparecchi, più che registrare, producono. Di
qui, tentativi peregrini di ogni sorta. Mai come
oggi la scienza è stata sensibile alle mode
intellettuali. Quando un modello ha dato buoni
risultati in un certo ordine di problemi, essa
tenta di applicarlo ovunque. La nostra
embriologia, la nostra biologia sono attualmente
tutte piene piene di gradienti,3 e non si vede
esattamente in cosa essi si distinguano da ciò
che i classici chiamavano ordine o totalità, ma la
questione non viene formulata, né deve esserlo.
Il gradiente è una rete che si getta in mare
senza sapere quel che riporterà. Oppure, è
l'esile ramoscello su cui si formeranno
imprevedibili cristallizzazioni. Questa libertà di
operazione certamente è in procinto di superare
molti vani dilemmi, purché di tanto in tanto si
faccia il punto, ci si domandi come mai lo
strumento funzioni qui, fallisca altrove, in
breve, purché questa scienza fluente comprenda
se stessa, si veda come una costruzione basata
su un mondo grezzo ossia esistente, e non voglia
attribuire a operazioni cieche quel valore
costituente che i «concetti della natura»
potevano avere in una filosofia idealista. Dire
che il mondo è per definizione nominale e
3. Gradiente: termine scientifico che significa
rapporto, grado di progressione. Nato nell'ambito della
meccanica, il concetto ha trovato applicazione in altri
rami della scienza, ad esempio in biologia (gradiente
assiale) e in meteorologia (gradiente barico, gradiente
termico). (N.d.T.).
Scienza Arte Verità
59
l'oggetto X delle nostre operazioni, significa
assolutizzare la situazione conoscitiva dello
scienziato, come se tutto ciò che fu o è non
fosse mai esistito se non per entrare in
laboratorio. Il pensiero «operatorio» diviene una
sorta di artificialismo assoluto, come si vede
nell'ideologia cibernetica, in cui le creazioni
umane vengono fatte derivare da un processo
naturale di informazione, ma a sua volta
concepito sul modello delle macchine umane. Se
un pensiero di questo genere si fa carico
dell'uomo e della storia, e se, fingendo di
ignorare ciò che ne sappiamo per contatto e per
posizione, inizia a costruirli a partire da qualche
indice astratto, come hanno fatto negli Stati
Uniti una psicanalisi ed un culturalismo
decadenti, allora l'uomo diviene realmente il
manipulandum che pensa di essere, e si entra in
un regime di cultura in cui non più non esistono
né vero né falso riguardanti l'uomo e la storia, in
un sonno o incubo da cui non esiste
risveglio.
È necessario che il pensiero scientifico –
pensiero di sorvolo, pensiero dell'oggetto in
generale - si ricollochi in un «c'è» preliminare,
nel luogo, sul terreno del mondo sensibile
sensibile e del mondo lavorato così come sono
nella nostra vita, per il nostro corpo, non quel
corpo possibile che è lecito definire una
macchina dell'informazione, ma questo corpo
effettuale che chiamo mio, la sentinella che
vigila silenziosa sotto le mie parole e sotto le
mie azioni. Bisogna che insieme al mio corpo si
risveglino i corpi associati, gli «altri», che non
Scienza Arte Verità
60
sono semplicemente miei congeneri, come dice la
zoologia, ma che mi abitano, che io abito,
insieme ai quali abito un solo Essere effettuale
presente, come mai animale ha abitato gli
animali della sua specie, il suo territorio o il suo
ambiente. In questa storicità primordiale, il
pensiero allegro e improvvisatore della scienza
imparerà a riancorarsi alle cose stesse e a se
stesso, ridiventerà filosofia...
L'arte invece, e la pittura in particolare,
attingono a questo strato di senso bruto che
l'attivismo preferisce ignorare e son le sole a
farlo in tutta innocenza. Allo scrittore, al
filosofo, domandiamo un consiglio o un parere,
non ammettiamo che tengano gli altri in sospeso,
esigiamo che prendano posizione, non possono
declinare le responsabilità dell'uomo che parla.
La musica, al contrario, è troppo al di qua del
mondo e del designabile per poter raffigurare
altro che intelaiature dell'Essere, il suo flusso e
il suo riflusso, la sua crescita, le sue esplosioni, i
suoi vortici. Il pittore è l'unico ad aver diritto
di guardare tutte le cose senza alcun obbligo di
valutarle. Si direbbe che davanti a lui le parole
d'ordine «conoscenza» e «azione» perdano il
loro potere. I regimi politici che tuonano contro
la pittura «degenerata» raramente distruggono
i quadri: li nascondono, e in questo è implicito un
«non si sa mai» che è quasi un riconoscimento;
raramente si rivolge al pittore il rimprovero di
evadere dalla realtà. Non si serba rancore a
Cézanne per aver vissuto nascosto all'Estaque
durante la guerra del 1870, tutti citano con
rispetto il suo «è spaventosa, la vita», mentre
Scienza Arte Verità
61
anche lo studente più modesto, dopo Nietzsche,
rinnegherebbe con decisione la filosofia se gli si
dicesse che non ci insegna a vivere in modo
grande. È come se ci fosse nell'attività del
pittore un'urgenza che supera tutte le altre.
Egli è là, forte o debole nella vita, ma sovrano
incontestato nella sua ruminazione del mondo,
senz'altra «tecnica» tranne quella che i suoi
occhi e le sue mani conquistano a forza di
vedere, a forza di dipingere, accanendosi a
trarre da questo mondo, in cui risuonano gli
scandali e le glorie della storia, delle tele, che
aggiungeranno ben poco alle collere e alle
speranze degli uomini, e nessuno trova niente da
ridire. Qual è dunque la scienza segreta che il
pittore possiede o che cerca? Questa
dimensione secondo la quale Van Gogh vuole
andare «più lontano»? Questo fondamento della
pittura, e forse di tutta la cultura?
Scienza Arte Verità
62
Testo 2.2
(← Secondo tratto del Secondo viaggio. Il corpo dipinge)
Il brano seguente è tratto da: Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo
spirito, cit., pp. 17-18.
Il pittore «si dà con il suo corpo» dice Valéry.
E, in effetti, non si vede come uno Spirito
potrebbe dipingere. È prestando il suo corpo al
mondo che il pittore trasforma il mondo in
pittura.
Per
comprendere
tali
transustanziazioni, bisogna ritrovate il corpo
operante ed effettuale, che non è una porzione
di spazio, un fascio di funzioni, che è un
intreccio di visione e di movimento.
Basta che io veda qualcosa per saperla
raggiungere ed afferrare, anche se non so come
ciò avvenga nella macchina nervosa. Il mio corpo
mobile rientra nel mondo visibile, ne fa parte,
ecco perché posso dirigerlo nel visibile. D'altra
parte è vero anche che la visione è sospesa al
movimento. Vediamo solamente quel che
guardiamo. Che cosa sarebbe la visione senza il
movimento degli occhi, e come potrebbe questo
movimento non confondere le cose, se fosse lui
stesso riflesso o cieco, se non avesse le sue
antenne, la sua chiaroveggenza, se la visione non
fosse già prefigurata in lui? Per principio, tutti
i miei spostamenti figurano in un angolo del mio
paesaggio, sono riportati sulla mappa del visibile.
Tutto ciò che vedo è per principio alla mia
Scienza Arte Verità
63
portata, per lo meno a|la portata del mio
sguardo, segnato sulla mappa dell'«io posso».
Ognuna delle due mappe è completa. Il mondo
visibile e quello dei miei progetti motori sono
parti totali del medesimo Essere.
Questo straordinario sconfinamento, al quale
non si presta abbastanza attenzione, impedisce
di concepire la visione come un'operazione del
pensiero che innalzerebbe davanti allo spirito un
quadro o una rappresentazione del mondo, un
mondo dell'immanenza e dell'idealità. Immerso
nel visibile mediante il suo corpo, anch'esso
visibile, il vedente non si appropria ciò che vede:
l'accosta soltanto con lo sguardo, apre sul
mondo. E dal canto suo questo mondo, di cui il
vedente fu parte, non è in sé o materia. Il mio
movimento non è una decisione dello spirito, un
fare assoluto che stabilirebbe, dal fondo di una
soggettività ritiratasi in se stessa, qualche
mutamento di luogo miracolosamente realizzato
nell'estensione. Il mio movimento è il
proseguimento naturale e la maturazione di una
visione. Io dico che una cosa è mossa, ma il mio
corpo si muove, il mio movimento si dispiega; non
avviene nell'ignoranza di sé, non è cieco a se
stesso, s'irradia da un sé...
L'enigma sta nel fatto che il mio corpo è
insieme vedente e visibile. Guarda ogni cosa, ma
può anche guardarsi, e riconoscere in ciò che
allora vede «l'altra faccia» della sua potenza
visiva. Si vede vedente, si tocca toccante, [...] è
visibile e sensibile per se stesso. È un sé, non
per trasparenza come il pensiero, che può
pensare
una
cosa
solo
assimilandola,
Scienza Arte Verità
64
costituendola, trasformandola in pensiero –
bensì un sé per confusione, narcisismo, inerenza
di colui che vede a ciò che vede, di colui che
tocca a ciò che tocca, del senziente al sentito –
dunque un sé che è preso nelle cose, che ha una
faccia e un dorso, un passato e un avvenire..
Scienza Arte Verità
65
Testo 2.3
(← Terzo tratto del Secondo viaggio. Lo sguardo svela il mondo)
Il brano seguente è tratto da: Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo
spirito, cit., pp. 21-25.
La parola immagine ha una cattiva fama
perché si è creduto sconsideratamente che un
disegno fosse un ricalco, una copia, una seconda
cosa, e che l'immagine mentale fosse un disegno
di questo genere nel nostro bazar privato. Ma se
in effetti l'immagine mentale non è niente di
simile, allora il disegno e il quadro non
appartengono più di essa all'in sé. Essi sono
l'interno dell'esterno e l'esterno dell'interno,
che la duplicità del sentire rende possibili, e
senza i quali non si comprenderanno mai la quasipresenza e la visibilità imminente che
costituiscono tutto il problema dell'immaginario.
Il quadro, la mimica dell'attore non sono
strumenti ausiliari presi in prestito dal mondo
vero per indicare, attraverso di essi, cose
prosaiche assenti. L'immaginario è molto più
vicino e insieme molto più lontano dal fattuale:
più vicino poiché è il diagramma della sua vita nel
mio corpo, la sua polpa, il suo risvolto carnale
per la prima volta esposto agli sguardi, e in tal
senso, come dice efficacemente Giacometti: 4
«Ciò che mi interessa in tutti i dipinti è la
rassomiglianza; vale a dire quel che per me è la
4. G. Charbonnier, Le monologue du peintre, Paris 1959,
p. 172.
Scienza Arte Verità
66
rassomiglianza; ciò che mi fa scoprire un poco il
mondo esterno». Molto più lontano, perché il
quadro è un analogo solo secondo il corpo, non
offre allo spirito un'occasione di ripensare i
rapporti costitutivi delle cose, ma offre
piuttosto allo sguardo, affinché esso le sposi, le
tracce della visione dell'interno, e alla visione
ciò che la fodera interiormente, la struttura
immaginaria del reale.
Diremo allora che c'è uno sguardo
dell'interno, un terzo occhio che vede i quadri
ed anche le immagini mentali, così come si è
parlato di un terzo orecchio che coglie i
messaggi dell'esterno attraverso il rumore che
sollevano in noi? Ipotesi inutile, poiché tuttala
questione consiste nel comprendere che i nostri
occhi di carne sono, già molto più che ricettori
dei raggi luminosi, dei colori e delle linee: sono
computer del mondo, che hanno il dono del
visibile così come si dice che l'uomo ispirato ha
il dono delle lingue. Naturalmente questo dono si
conquista con l'esercizio, e non è in qualche
mese, e neppure nella solitudine, che il pittore
entra in possesso della sua visione. Ma non è
questo il problema: precoce o tardiva, spontanea
o coltivata nei musei , la visione del pittore
impara solo vedendo, impara solo da se stessa.
L'occhio vede il mondo, ciò che manca al mondo
per esser quadro, e ciò che manca al quadro per
essere se stesso; vede sulla tavolozza il colore
che il quadro attende, vede, una volta compiuto,
il quadro che risponde a tutte queste mancanze
e vede infine i quadri degli altri, altre risposte
ad altre mancanze. Non si può fare un inventario
Scienza Arte Verità
67
limitativo del visibile, così come non si possono
catalogare gli usi possibili di una lingua, o anche
solo il suo vocabolario e le sue costruzioni.
Strumento che si muove da sé, mezzo che
s'inventa i suoi fini, l'occhio è ciò che è stato
toccato da un certo impatto con il mondo, e lo
restituisce al visibile mediante i segni tracciati
dalla mano. Da Lascaux ai giorni nostri, in
qualsiasi civiltà nasca, di qualsiasi credenza, di
qualsiasi motivazione, di qualsiasi pensiero, di
qualsiasi cerimonia si circondi, pura o impura,
figurativa o no, la pittura, anche quando sembra
destinata ad altri scopi, non celebra mai altro
enigma che quello della visibilità.
Ciò che ho appena detto si risolve in un
truismo: il mondo del pittore è un mondo visibile,
nient'altro che visibile, un mondo quasi folle,
perché è completo e parziale nello stesso tempo.
La pittura risveglia, porta alla sua estrema
potenza un delirio che è la visione stessa,
perché vedere è avere a distanza, e la pittura
estende questo bizzarro possesso a tutti gli
aspetti dell'Essere, che devono in qualche modo
farsi visibili per entrare in lei. Quando il giovane
Berenson parlava, a proposito della pittura
italiana, di un'evocazione dei valori tattili, non
poteva sbagliarsi di più: la pittura non evoca
niente, e meno che mai il tattile. Fa tutt'altra
cosa, quasi il contrario: dona esistenza visibile a
ciò che la visione profana crede invisibile, fa in
modo che non ci occorra un «senso muscolare»
per avere la voluminosità del mondo. Questa
visione divorante, spingendosi al di là dei «dati
visuali», si apre su una trama dell'Essere di cui i
Scienza Arte Verità
68
messaggi sensoriali discreti sono solo le
interpunzioni o le cesure, e che l'occhio abita,
come l'uomo la sua casa.
Restiamo nell'ambito del visibile in senso
stretto e prosaico: il pittore, chiunque egli sia,
mentre dipinge, pratica una teoria magica della
visione. E poiché non smette mai di regolare
sulle cose la sua chiaroveggenza, il pittore deve
ben ammettere che, secondo il sarcastico
dilemma di Malebranche, o le cose passano
dentro di lui, oppure lo spirito esce dagli occhi e
va a passeggiare fra le cose. (Niente cambia se
non dipinge dal vivo: dipinge comunque perché ha
visto, perché il mondo ha inciso in lui, una volta
almeno, le cifre del visibile.) Egli deve ben
riconoscere che la visione è specchio o
concentrazione dell'universo, come dice un
filosofo, o che, come dice un altro filosofo, l'
їδιος κόσμος si apre, attraverso la visione, su un
κοĩνος κόσμος, insomma che la medesima cosa è
laggiù, nel cuore del mondo, e qui, nel cuore della
visione; la medesima o, se si vuole, una cosa
simile, ma secondo una similitudine efficace, che
è genitrice, genesi, metamorfosi dell'Essere
nella visione del pittore. È la montagna stessa
che, di laggiù, si fa vedere da lui, è lei che il
pittore interroga a partire dal proprio sguardo.
Che cosa le chiede precisamente? Di rivelare
i mezzi, i mezzi visibili e nient'altro, con i quali
essa si fa montagna sotto i nostri occhi. Luce,
illuminazione, ombre, riflessi, colore, tutti
questi oggetti della ricerca non sono esseri
propriamente reali; hanno solo un'esistenza
visiva, come i fantasmi. Stanno sulla soglia della
Scienza Arte Verità
69
visione profana: generalmente non vengono visti.
Lo sguardo del pittore li interroga per sapere
come possano far sì che esista all'improvviso
qualcosa e proprio quella cosa, per comporre
questo talismano del mondo, per farci vedere il
visibile. La mano che accenna verso di noi nella
Ronda di notte è veramente là solo quando la sua
ombra sul corpo del capitano ce la presenta
contemporaneamente di profilo. La spazialità del
capitano si colloca nel punto d'incontro delle due
prospettive incompossibili, e che pure si trovano
insieme. Tutti gli uomini provvisti di occhi sono
stati qualche volta testimoni di questo gioco di
ombre o di altri simili, e grazie ad esso hanno
potuto vedere delle cose e uno spazio. Ma tale
gioco d'ombre operava in loro senza di loro, si
dissimulava per mostrare la cosa. Per vedere la
cosa, era necessario non vedere il gioco
d'ombre. Il visibile in senso profano dimentica
le sue premesse, riposa su una visibilità totale
che va ricreata, e che libera i fantasmi in esso
prigionieri. I moderni, come è noto, ne hanno
liberati molti altri, hanno aggiunto molte note
sorde alla gamma ufficiale dei nostri mezzi
visivi. Ma l'interrogazione della pittura mira
comunque a questa genesi segreta e febbrile
delle cose nel nostro corpo.
Scienza Arte Verità
70
Testo 2.4
(← Quarto tratto del Secondo viaggio. Il colore)
Il brano seguente è tratto da: Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo
spirito, cit., pp. 48-50.
Il colore è «il luogo dove s'incontrano il
nostro cervello e l'universo» dice Cézanne in
quell'ammirevole
linguaggio
da
artigiano
delI'Essere che Klee amava citare.5 È a
vantaggio del colore che bisogna mandare in
pezzi la forma-spettacolo. Non si tratta dunque
dei colori, «simulacri dei colori della natura»,6 si
tratta della dimensione del colore, che crea da
se stessa a se stessa delle identità, delle
differenze, una struttura, una materialità, un
qualche cosa... Tuttavia, una chiave segreta del
visibile senza dubbio non esiste: non è certo il
solo colore, così come non lo è lo spazio. Il
ritorno al colore ha il merito di condurre un po'
più vicino al «cuore delle cose»:7 ma questo è al
di là del colore-involucro, così come dello spazioinvolucro. Il Portrait de Vallier colloca fra i
colori dei bianchi, che avranno d'ora in poi la
funzione di plasmare, di ritagliare un essere più
generale dell'essere-giallo o dell'essere-verde o
dell'essere-blu – come negli acquarelli degli
5. W. Grohmann, Paul Klee, trad. fr., Paris 1954, p. 141.
6. R. Delaunay, Du cubisme à l'art abstrait , fascicoli
pubblicati da Pierre Francastel, Paris 1957.
7. P. Klee, cfr. il suo Journal, trad. fr. di P. Klossowski,
Paris 1959 [ed. it. Diari 1898­1918, trad. di A. Foelkel, prefazione di G.C. Argan, Il Saggiatore, Milano 1960].
Scienza Arte Verità
71
ultimi anni, lo spazio, che si credeva l'evidenza
stessa, e aI cui riguardo almeno il problema dove
non si pone, s'irraggia intorno a piani che non
sono in alcun luogo assegnabile, «sovrapposizione
di
superfici
trasparenti»,
«movimento
fluttuante di piani di colore che si ricoprono,
avanzano e indietreggiano».8
Come si vede, non si tratta più di aggiungere
una dimensione alle due dimensioni della tela, di
organizzare un'illusione o una percezione senza
oggetto la cui perfezione consisterebbe nel
rassomigliare il più possibile alla visione
empirica. La profondità pittorica (come anche
l'altezza e la larghezza dipinte) viene da non si
sa dove a posarsi, a germogliare sul supporto. La
visione del pittore non è più sguardo su un di
fuori, relazione meramente «fisico-ottica»9 col
mondo. Il mondo non è più davanti a lui per
rappresentazione: è piuttosto il pittore che
nasce nelle cose come per concentrazione e
venuta a sé del visibile, e il quadro, infine, può
rapportarsi a una qualsiasi cosa empirica solo a
condizione
di
essere
innanzitutto
«autofigurativo»; può essere spettacolo di
qualche cosa solo essendo
«spettacolo di
10
niente», perforando la «pelle delle cose»11 per
mostrare come le cose si fanno cose, e il mondo
8. Georg Schmidt, Les acquarelles de Cézanne, p. 21
[ed. it. Acquarelli di Paul Cézanne – Testo di G. Schmidt, A. Martello, Milano 1953].
9. P. Klee, op. cit.
10. Ch. P. Bru, Esthétique de l'abstraction, Paris 1959,
p. 86 e 99.
11. Henri Michaux, Aventures de lignes.
Scienza Arte Verità
72
mondo. Apollinaire diceva che in un poema ci
sono frasi che sembrano non essere state
create, ma essersi formate. Ed Henri Michaux
diceva che a volte i colori di Klee sembrano nati
lentamente sulla tela, emanati da un fondo
primordiale, «esalati al posto giusto»12 come una
patina o una muffa. L'arte non è costruzione,
artificio, rapporto industrioso con uno spazio e
un mondo esterni. È davvero il «grido
inarticolato che sembrava la voce della luce» di
cui parla Ermete Trismegisto. E, una volta là,
risveglia nella visione comune potenzialità
dormienti, un segreto di preesistenza. Quando
vedo attraverso lo spessore dell'acqua le
piastrelle sul fondo della piscina, non le vedo
malgrado l'acqua e i riflessi, le vedo proprio
attraverso essi, mediante essi. Se non ci
fossero queste distorsioni, queste zebrature di
sole, se vedessi senza questa carne la geometria
del fondo piastrellato, proprio allora cesserei di
vederla quale è, dove è, vale a dire più lontano di
ogni luogo identico . L'acqua stessa, la potenza
della massa acquosa, l'elemento sciropposo e
luccicante, non posso dire che sia nello spazio;
non è altrove, ma non è nella piscina. L'acqua
abita la piscina, vi si materializza, ma non vi è
contenuta, e se alzo gli occhi verso lo schermo
dei cipressi dove gioca il reticolo dei riflessi,
non posso negare che l'acqua visiti anch'esso, o
almeno vi riverberi la propria essenza attiva e
vivente. È questa animazione interna, questo
irraggiarsi del visibile, che il pittore cerca sotto
i nomi di profondità, spazio, colore.
12. Heni Michaux, ibidem.
Scienza Arte Verità
73
Testo 2.5
(← Quinto tratto del secondo viaggio. La visione)
Il brano seguente è tratto da: Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo
spirito, cit., pp. 56-60.
Forse ora ci rendiamo meglio conto di tutto
ciò che contiene questa piccola parola:
«vedere». La visione non è una certa modalità
del pensiero, o presenza a sé: è il mezzo che mi
è dato per essere assente da me stesso, per
assistere dall'interno alla fissione dell'Essere,
al termine della quale soltanto mi richiudo su di
me. «»
I pittori l'hanno sempre saputo. Leonardo 13
invoca invoca una «scienza pittorica» che non si
esprima con parole (e ancor meno con numeri)
ma con opere che esistono nel visibile alla
maniera delle cose naturali, e che tuttavia si
comunica attraverso di esse «a tutte le
generazioni dell'universo». Questa scienza
silenziosa che, come dirà Rilke a proposito di
Rodin, fa passare nell'opera le forme delle cose
«non disvelate»,14 viene dall'occhio e s'indirizza
all'occhio. L'occhio va inteso come «la finestra
dell'anima». «L'occhio... attraverso il quale la
bellezza dell'universo è rivelata alla nostra
contemplazione, è organo di tale eccellenza che
chiunque si rassegnasse a perderlo si priverebbe
13. Citato da Robert Delaunay, op. cit., p. 175.
14. Rilke, Auguste Rodin, Paris 1928, p. 150 [ed. it. Rodin, SE, Milano 1985].
Scienza Arte Verità
74
della conoscenza di tutte le opere della natura
la cui vista fa dimorare felicemente l'anima
nella prigione del corpo, grazie agli occhi che le
mostrano l'infinita varietà della creazione: chi li
perde abbandona quest'anima in un'oscura
prigione dove cessa ogni speranza di rivedere il
sole, luce dell'universo». L'occhio compie il
prodigio di aprire all'anima ciò che non è anima:
il gaio dominio delle cose, e il loro dio, il sole. [...]
Dobbiamo prendere alla lettera quello che ci
insegna la visione: che per suo mezzo tocchiamo
il sole, le stelle, che siamo contemporaneamente
ovunque, accanto alle cose lontane come a quelle
vicine, e che perfino la nostra facoltà di
immaginarci altrove – «Sono a Pietroburgo nel
mio letto; a Parigi, i miei occhi vedono il sole» 15
–, di mirare liberamente a esseri reali, dovunque
essi si trovino, attinge anch'essa alla visione,
riutilizza mezzi che ci vengono da essa.
Unicamente la visione ci insegna che esseri
differenti, «esterni», estranei l'uno all'altro
sono tuttavia assolutamente insieme, ci insegna
cioè la «simultaneità» – mistero che gli psicologi
maneggiano come un bambino tratterebbe degli
esplosivi. Dice brevemente Robert Delaunay:
«La ferrovia, con la parità delle rotaie, è
l'immagine del successivo che si avvicina al
parallelo».16 Le rotaie che convergono e non
convergono, convergono per rimanere laggiù
equidistanti, il mondo che è conforme alla mia
prospettiva per essere indipendente da me, che
è per me al fine di essere senza di me, di essere
15. Robert Delaunay, op. cit., p. 110 e 115.
16. Ibidem.
Scienza Arte Verità
75
mondo. Il «quale visivo»,17 mi dona, esso solo, la
presenza di ciò che non sono io, di ciò che è
semplicemente e pienamente. Può farlo perché,
come struttura, è la concrezione di una visibilità
universale, di un unico Spazio che separa e
riunisce, che sostiene ogni coesione (compresa
quella del passato e dell'avvenire, poiché tale
coesione non esisterebbe se passato e avvenire
non facessero parte del medesimo Spazio). Ogni
entità visiva, per quanto individuale sia, funziona
anche come dimensione, poiché si presenta come
risultato di una deiscenza dell'Essere. Tutto ciò
significa infine che l'essenza propria del visibile
è di avere un doppio di invisibile in senso
stretto, che il visibile manifesta sotto forma di
una certa assenza. «I nostri antipodi di ieri, gli
impressionisti, avevano perfettamente ragione,
all'epoca loro, di stabilire la loro dimora fra i
rifiuti e i rovi dello spettacolo quotidiano.
Quanto a noi, il nostro cuore batte per condurci
verso le profondità... Queste stranezze
diventeranno... realtà... Perché invece di
limitarsi alla riproduzione più o meno intensa del
visibile, esse vi annettono anche il versante
dell'invisibile, percepito occultamente».18 C'è
quello che raggiunge l'occhio di fronte, le
proprietà frontali del visibile – ma c'è anche
quello che lo raggiunge dal basso, la profonda
latenza posturale dove il corpo si innalza per
vedere - e c'è poi quello che colpisce la visione
dall'alto, tutti i fenomeni del volo, del nuoto, del
17. Ibidem.
18. Klee, Conférence d'Iena, 1924, da W. Grohmann, op.
cit., p. 365.
Scienza Arte Verità
76
movimento, in cui essa non partecipa più alla
pesantezza delle origini, ma a libere
realizzazioni.19 Attraverso la visione, il pittore
tocca dunque i due estremi. Nel fondo
immemorabile del visibile si è mosso, si è acceso
qualcosa che invade il suo corpo, e tutto ciò che
egli dipinge è una risposta a questo stimolo la
sua mano «nient'altro che lo strumento di una
lontana volontà». La visione è l'incontro di tutti
gli aspetti dell'Essere, come a un crocevia. «Un
fuoco vuol vivere, Si sveglia; trova la sua strada
lungo la mano conduttrice, raggiunge il supporto
e l'invade, poi chiude, favilla saltellante, il
cerchio che doveva tracciare: ritorno all'occhio,
e al di là».20 In questo circuito non esiste
rottura, è impossibile dire che qui finisce la
natura e incomincia l'uomo o l'espressione. È
dunque l'Essere muto che viene, egli stesso a
manifestare il su significato. Ecco perché il
dilemma tra figurativo e non figurativo è mal
posto: è vero e non contraddittorio che nessuna
uva è mai stata ciò che è in pittura, anche in
quella più figurativa, ed è vero che nessuna
pittura, sia pur astratta, può mai eludere
l'Essere, e che l'uva del Caravaggio è l'uva
stessa.21 Fra le due affermazioni non vi è
contraddizione. Questa precessione di ciò che è
su ciò che viene visto è mostrato, di ciò che è
19. Klee, Wege des Naturstudiums, 1923, da G. di San
Lazzaro, Klee.
20. Klee, citato da W. Grohmann, op. cit., p. 99.
21. A. Berne-Joffroy, Le dossier Caravage, Paris 1959,
e Michel Butor, La Corbeille de l'Ambroisienne, in
«Nouvelle Revue Française», 1960.
Scienza Arte Verità
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visto e mostrato su ciò che è, è la visione stessa.
E, per dare la formula ontologica della pittura,
non occorre quasi forzare le parole del pittore:
Klee scriveva a trentasette anni queste parole,
poi incise sulla sua tomba: «Io sono
inafferrabile nell'immanenza...».22
22. Klee, Journal, cit.
Scienza Arte Verità
78
Testo 3
(← Terzo viaggio. Traversata dello sguardo)
Il seguente brano è estratto da: Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo
sguardo, cit., p. 7 e pp. 55-66.
Qual è il soggetto del ritratto? Nessun altro
che il soggetto stesso, assolutamente.
Dov'è che il soggetto stesso ha la sua verità
e la sua effettività? In nessun altro luogo che
non sia il ritratto.
C'è dunque soggetto solo in pittura, come se
ci fosse solo pittura del soggetto.
Nella pittura, il soggetto scompare nel fondo
("ritorna a sé"); nel soggetto, la pittura fa
superficie (eccede la faccia).
Sorge allora d'un tratto, né soggetto né
oggetto, l'arte o il mondo.
Scienza Arte Verità
79
Sguardo
23
Questo "sguardo" esprime che cosa?
Il suo esercizio: una sua regolarità,
una specie di costanza. [...] Il fondo
non maschera più il personaggio al
quale prestava l'alibi di una storia, di
una finzione, cioè al contempo di un
senso lontano e di un ruolo. È ciò che
sembrano ripetere instancabilmente
i ritratti: non c'è più un senso
attestato od organizzato, ma,
soprattutto, non c'è più un'
attribuzione di senso.24
La luce del ritratto risplende dal suo fondo
oscuro. Emana dall'astro eclissato per sé che
definisce un soggetto. Ciò che visibilmente
scompare nel ritratto, ciò che in esso riesce a
sottrarsi ai nostri occhi sotto i nostri occhi,
sprofondando nei nostri occhi come all'infinito,
è lo sguardo del ritratto.
Prima di ogni altra cosa, il ritratto guarda:
non fa che questo, vi si concentra, vi si invia e vi
si perde. La sua "autonomia" riunisce e richiude
23. Si veda la nota 28, a p. 28, del curatore
dell'edizione italiana R. Kirchmayr:
«Regarder,
“riguardare”, è usato costantemente nel testo da Nancy
tanto nel senso che il ritratto “guarda” e “mi guarda”,
quanto nel senso che esso “mi riguarda”, cioè che in
esso ne va del soggetto, di un “io” con cui il ritratto
istituisce il “rapporto a sé”». (nota di M. Bogliani).
24. Jean-Louis Schefer, Figures peintes, POL, Paris
1998, p. 253.
Scienza Arte Verità
80
il quadro, lo stesso volto tutt'intero, nello
sguardo: è il fine e il luogo di questa autonomia.25
La pittura dello sguardo non può esserne
soltanto l'imitazione: o piuttosto nello sguardo
dipinto la pittura diventa sguardo, e se ogni
pittura diventa, in fin dei conti, ciò che essa
dipinge , è sempre senza dubbio a partire dallo
sguardo che ciò accade - il che vuol dire, con uno
stesso movimento, a partire dallo sguardo da cui
esce la pittura e a partire da quello che essa
diventa dipingendolo.26
25. Recentemente si è mostrato con delle statistiche
ricavate da migliaia di ritratti che l'asse mediano
verticale del ritratto passa molto spesso per uno dei
due occhi. Tuttavia, lo sguardo non esce soltanto dagli
occhi, ma almeno dalla bocca (spesso centrale), dalle
narici e dalle orecchie, infine da tutti i pori e da tutte
le pennellate del quadro. Giacometti: "Se ho la curva
dell'occhio, avrò anche l'orbita; se ho l'orbita, ho la
radice del naso, ho la punta del naso, ho i fori del naso,
ho la bocca. Dunque il tutto potrebbe alla fine dare
comunque uno sguardo, senza che ci si fissi sull'occhio
stesso". Conversazione con Jacques Dupin nel film
Alberto Giacometti, di Ernst Scheidegger e Peter
Münger (1965), in Face to Face to Cyberspace,
catalogo della mostra omonima, Fondazione Beyeler,
Basel, 1999.
26. Occorre analizzare da vicino l'ingegno tecnico
impiegato per captare la somiglianza dello sguardo, la
luminosità dell'occhio e la luce che vi si riflette in
modo che questa emani da quello. Leonardo inventò un
terzo punto luminoso per completare il dispositivo a
due punti adottato prima di lui per restituire la luce
dell'occhio. Ma occorre anche, ogni volta, considerare
come lo sguardo guardi solo con il concorso dell'intero
volto, della bocca e delle guance, delle narici, delle orecchie... Lo sguardo mette in gioco, con il volto e con
Scienza Arte Verità
81
Ora, questo sguardo non guarda nessun
oggetto. Esso è sempre rivolto sia verso il
pittore/spettatore,27 sia verso un di fuori
indeterminato. (Il giovane di Lotto, con un
leggerissimo strabismo, fu una cosa con l'occhio
sinistro, un'altra con l'occhio destro.) Talvolta è
piuttosto perso o raccolto in se stesso (come si
dice), altro e stesso modo dell'infinito.28
Lo sguardo del ritratto non guarda nulla, e
guarda il nulla. Non prende di mira nessun
oggetto e sprofonda nell'assenza del soggetto
(la mia, la sua: la nostra nello stesso tempo, per
definizione, comune e divisa). Guardare nulla è in
primo luogo la contraddizione intima del
soggetto (la contrarietà in cui ha luogo
un'intimità). Ma la contraddizione si dissolve
tutto il suo tendersi in avanti, l'insieme del senso, della
capacità di essere colpito e di lasciarsi toccare. Con la
modernità, saranno sempre di più la beanza dell'occhio,
un'opacità nera o uno svuotamento a guidare la
(ras)somiglianza dello sguardo. Che lo sguardo sia ciò
che vi è di più proprio, il soggetto, della pittura, è
quanto illustrerebbe la tecnica del Bernini, che per
realizzare il busto del re prepara con uno schizzo sulla
pietra il dettaglio dell'occhio da scolpire (precisazione
di Stefano Chiodi).
27. […].
28. Tra molti esempi, Rogier van de Weyden, Ritratto
di donna (1460 ca., Washington) Renato Guttuso ,
Mimise col cappello rosso (1940, Verona). Più
raramente lo sguardo è quasi chiuso, o assente o vuoto
(riducendosi a un buco nero): Holbein il giovane, Erasmo
di profilo (1523, Louvre), Picasso, Autoritratto (1906),
Hockney, Autoritratto (1983, collezione privata),
Monet, Camille sulla spiaggia (1870, Parigi), Modigliani,
Ritratto di Jeanne Habutène ecc.
Scienza Arte Verità
82
oppure si sospende se si comprende che lo
sguardo non è in fondo un rapporto con
l'oggetto. Forse il “vedere” è un tale rapporto e in questo senso il ritratto non vede nulla e non
è qui per vedere (né visione, né intenzione, né
veggenza) . Il vedere si conforma al campo degli
oggetti . Il guardare porta il soggetto in
evidenza. “Guardare” significa anzitutto badare
[garder], warden o warten, sorvegliare,
custodire, [prendre en garde], e fare attenzione
[prendre garde]. Avere cura e preoccuparsi.
Guardando veglio e (mi) sorveglio: sono in
rapporto con il mondo, non con l'oggetto. Ed è
così che io "sono": nel vedere mi vedo, a causa
dell'ottica; nello sguardo sono messo in gioco.
Non posso guardare senza che ciò mi riguardi
[ça me regarde].29 Ciò il ritratto presenta è
sempre questa custodia di sé e con essa il modo
in cui il sé si custodisce dal momento che si
perde. Il modo in cui il suo essere-a-sé ha luogo
solo in questo fuori-di-sé, di fronte a sé, in cui il
volto sconosciuto a se stesso prende il mondo in
piena faccia. Qui non c'è nulla che si riferisca al
fenomeno né a una fenomenologia. Non c'è
intenzione [visé]. Al contrario, c'è un venir meno
dell'intenzione e infine della visione. Neppure il
nulla risponde all'apparire: lo sguardo del
ritratto non vedrà mai apparire nulla, se non il
nulla, la cosa stessa che non appare. Nulla sorge
dalla profondità: è il fondo che è presente, in
piena superficie. Non fa superficie: è superficie,
come la toga e il vestito nero del giovane uomo,
29. Si rivolge a me, mi fissa e mi chiama in causa, è
affare mio e, come si dice, "non riguarda che me".
Scienza Arte Verità
83
come quelli di Gumpp o di Pellerin, sono sempre il
fondo mentre è di fronte [faire face] e diventa
faccia [se faire face] .
Il ritratto estrae ed espone la presenza
mobile, immutabile e muta, eterna e istantanea
del fondo. Il fondo è uno sguardo. Così tutto il
volto diventa un occhio, come accade dell'intero
volto del giovane incastonato nella stoffa scura.
Non si tratta più dell'organo della visione: si
tratta di una presenza in custodia, in agguato di
se stessa e dell'altro. Tutti i ritratti
custodiscono e si custodiscono: si sorvegliano (il
loro contegno, il loro riserbo) e si vegliano (il
loro trapasso, il loro passaggio e il loro
abbandono).
Ma ciò che apre questo sguardo e la sua
custodia, il ritratto stesso, non è altro che il
quadro tutto intero, che tutto intero guarda:
per esempio quest'occhio che una lampada
illumina nel fondo della tela. La pittura guarda
da tutto il suo essere pittura.
Ogni ritratto - gradatamente, ogni quadro – si
apre dal suo fondo alla sua superficie, va avanti
a se stesso, esce dal davanti: assieme
all'incontro di sé e in lontananza. Questo
sguardo del quadro raddoppia lo sguardo del
ritratto (ma ogni sguardo è doppio, un occhio
per sé, un occhio per l'altro). Prende forme
innumerevoli per moltiplicare o per intensificare
lo sguardo del personaggio, spostandolo o
trasponendolo nello sguardo della pittura
stessa: la lampada in questo Lotto, ma in
Auguste Pellerin il quadro affisso al muro o
anche la pennellata rossa della decorazione sul
Scienza Arte Verità
84
rovescio della giacca, altrove sarà una perla, un
anello, l'occhio di un animale, uno specchio, la
punta di un seno, una lente, un riflesso di un
oggetto in rame, la bocca rossa o ancora la
messa in evidenza di un altro disegno,
addirittura di un altro ritratto nel ritratto,
addirittura dello sguardo stesso della Pittura in
allegoria, come in uno degli autoritratti di
Poussin: modi molteplici di dipingere lo sguardo
dello sguardo, la sua custodia, il suo mettere in
vista e il suo contrario.30 Modi di tendere
30. Oppure l'Autoritratto in Allegoria della Pittura di
Artemisia Gentileschi, dove lo sguardo del personaggio
sta tutto nella pittura che essa esegue, distolto dallo
spettatore, ma in modo da fargli vedere questo
sguardo guardando il pittore mentre la dipinge, o la
pittrice lo dipinge, proprio questo sguardo del quadro
mentre diventa la pelle luminosa di una fronte e di un
collo. In un altro modo Vuillard fa un autoritratto che
consiste anzitutto nel distribuire il suo volto in larghe
superfici dal colore intenso, trasformandolo in
tavolozza (1891, "collezione privata). Si devono
certamente ricordare tutti gli sguardi privati di pupilla,
come in Matisse o Modigliani e in molti altri ancora,
dove gli occhi si bucano, si scavano, si inabissano nel
fondo e non diventano altro che gli occhi del quadro.
Oppure l'associazione fatta con questo titolo da
Pollock: Portrait and a dream (New York), sguardo al di
fuori e sguardo al di dentro affiancati come i due occhi
del quadro. O Der rote Blick di Schönberg (New York),
dove il volto così come tutto il quadro si riduce a un
occhio in mezzo alla pelle come un ombelico in mezzo al
ventre, una nascita dello sguardo. Poi le aperture nel
quadro, le finestre o le logge ( Monna Lisa), gli specchi
in cui il modello appare di spalle, in Ingres o in Bar alle
Folies-Bergères di Manet, dove lo sguardo della
cameriera vede dietro a noi tutta la scena che noi
Scienza Arte Verità
85
l'occhio – di tenderlo a sé fuori di sé.
Nel 1994, Miquel Barcelo dipinge il suo Doppio
ritratto.31 Egli riprende o cita in questo modo un
genere tradizionale del ritratto doppio o triplo,
che risale almeno fino a Giorgione e a Raffaello
(poi a Rigaud e a molti altri). Ciò che si deve
vedere subito è la metamorfosi del quadro,
lanciato davanti a noi in un piano avvicinato allo
sguardo, in una specie di altro-ritratto unico in
cui le due teste sarebbero i due occhi.
vediamo dietro a lei nell'immenso specchio, e gli
innumerevoli frammenti di vetro, per non dire nulla
dello sguardo del re in Las Meninas, né dei dispositivi
ottici in Bacon, e così per gradi, al di fuori della
ritrattistica, tutti gli sguardi che sorgono e vengono
verso di noi in certe scene di "storia" o in certi
paesaggi, fino al Paesaggio che guarda (1957) di
Alechinsky.
31. Vedi riproduzione.
Scienza Arte Verità
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Questi occhi divorano i ritratti propriamente
detti, che all'inizio soltanto il titolo,
opportunamente, identifica come ritratti.
Soltanto al limite è possibile discernere di
ciascuna delle masse rotonde e scure 32 alcuni
tratti o alcuni tocchi evanescenti di un volto naso e bocca più che occhi -, al punto che allo
stesso modo diventa possibile stimare con
vaghezza che il ritratto di destra guarda verso
destra e quello di sinistra di fronte a sé. Ma
queste vestigi a di volti non sono altro che
masse di due occhi, addirittura due pupille
aperte, poiché non hanno più aperture al loro
centro e sono esse stesse l'apertura del quadro.
Delle masse d'occhi, uno sguardo ammassato,
gettato, strappato e anche esploso, che lascia
colare un sangue nero. Può e deve essere visto
come uno sguardo di morte, come la morte dello
sguardo e come la morte nello sguardo. Ma può e
deve allo stesso modo - e senza la minima
contraddizione – essere visto nel modo in cui
invita a fare il suo titolo: come la pienezza di un
doppio sguardo il cui fondo viene tutto intero in
superficie, come due soggetti assieme e come la
loro società nella quale noi stessi fissiamo gli
occhi perché essa ci attrae con loro,
nell'associazione degli sguardi rivolti in senso
diverso.
La loro profondità oscura non è altro che il
debordamento dello sguardo dalla sua stessa
superficie: il colore spesso dei due ritratti cola
fuori dagli occhi, si allarga sul fondo e va a
32. La pittura deriva da un viaggio in Africa (sul verso
l'artista ha dipinto "Due papaie").
Scienza Arte Verità
87
mischiarsi a esso. Il soggetto finisce nella scena
[décor], diventa scena esso stesso o la scena
diventa soggetto. Ma che cos'è una scena? È ciò
che predispone un luogo per uno sguardo, a uno
sguardo. È il consenso33 alla venuta e alla
presenza di un soggetto, è un accogliere e un
raccogliere affinché esso venga al mondo.
Nello stesso momento in cui il soggetto si
compie integralmente come opera - se l'opera è
il luogo unico ed esclusivo in cui un soggetto
ritorna integralmente a sé, in cui una sostanza
aderisce a se stessa - sotto se stessa - come
l'impasto colorato aderisce alla tela che
impregna -, nello stesso momento l'operasoggetto non fa altro che aprirsi e debordare in
uno sguardo che non è più una sostanza ma
un'apertura, che non è più un ritorno a sé ma
un'esposizione di sé.
Wittgenstein scrive: "Noi non vediamo
l'occhio umano come un ricettore. Quando vedi
l'occhio, vedi qualcosa uscirne. Vedi lo sguardo
dell'occhio".34
Lo sguardo è la cosa che esce, la cosa
dell'uscita - e per essere più precisi: lo sguardo
non è niente di fenomenico, al contrario è la cosa
in sé di un'uscita da sé, solo con la quale un
soggetto diventa soggetto, e la cosa in sé
dell'uscita o dell'apertura non è uno sguardo su
un oggetto ma l'apertura verso un mondo. In
33. Decet, decorum.
34. Ludwig Wiittgenstein, Osservazioni sulla filosofia
della psicologia, tr. it. Adelphi, Milano 1990, § 1100, pp.
306-307 [la trad. è condotta dal testo francese. Nancy
cita solo una parte dell'intero brano].
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verità, non è più affatto uno sguardo-su, è uno
sguardo tout court, aperto non su dall'evidenza
del mondo.
Nello sguardo del ritratto , la chiusura su di
sé dell'opera coincide in modo lampante
(evidente, luminoso) con un eccesso infinito
rispetto a questa chiusura. Non è più la
rappresentazione di un un soggetto posto
davanti al mondo: è niente di meno che la
presentazione di un mondo che sorge per la sua
stessa visione, per la sua stessa evidenza.
Soluzione del soggetto o dell'auto-: la sua
dissoluzione e la sua risoluzione. Il problema del
rapporto a sé si espone e si snoda in uno sguardo
senza rapporto, che guarda se stesso solo
nell'esatta misura in cui si dipinge e così esce da
se stesso.
Il ritratto avrà reso effettiva la
problematica del soggetto in tutta l'ampiezza
della sua estensione costitutiva e in tutta la
tensione della sua ambivalenza. Da una parte –
presenza in sé - chiusura nell'opera, figura
sovrana e murata, glorificazione del volto e della
visione; dall'altra parte - uscita da sé - gesto e
pennellata del dipingere, figura smarrita,
sguardo che si perde al ritmo della sua stessa
cattura. Ma i due lati sono le due facce della
stessa tela: non un faccia a faccia, ma al
contrario la partizione interna di una stessa
faccia schiena contro schiena. Soltanto la
pittura formula in questo modo, rigorosamente,
l'intera struttura e l'intera genesi del soggetto,
l'intimità nera della superficie figurata e
colorata, l'ombra proiettata nel quadro dal
Scienza Arte Verità
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ritratto. Soltanto la pittura dà così al soggetto
la parola propria, senza voce e senza linguaggio,
che nessun discorso gli può restituire, neppure il
nome di "soggetto". Ciò che esso designa o
chiama, qui si mostra come un solo tratto: non
un rapporto a sé, né apparenza né richiamo di
sé, ma il tratto che lo porta davanti mentre lo
ripiega nel di dentro: il tratto unico di una
disunione intima, il piano d'eclisse di un incontro
mancato in anticipo, perché esso vira
istantaneamente, con lo stesso tratto, con la
stessa pennellata del dipingere, in spaziatura di
un mondo, con il suo fascino e la sua
inquietudine. "Arte" è il nome fragile di
quest'altro incontro.35 Un ritratto non è
anzitutto, e alla fine, un incontro?
E risponde a questa domanda l'età
contemporanea, che simultaneamente scava e
fora lo sguardo del ritratto, ma anche (e così) lo
esacerba o lo esorbita, lo spalanca e lo fa uscire
dal volto (Picasso), lo fa venire come da solo dal
punto più lontano all'interno della tela
(Giacometti), lo tormenta (Bacon) o lo porta in
evidenza, iperrealizzato in un'acida chiarezza
acrilica,lo scarabocchia e lo imbratta,lo
trasforma anche in blocco bianco, e così diventa
sempre più vertiginosamente lo sguardo che
sprofonda nello scorcio dello sguardo stesso,
quello del pittore come quello di un altro – l'uno
sprofondato nell'altro, nella custodia della fuga
35. Bisognerebbe qui riprendere l'analisi dell'
“incontro” nel ready-made di Duchamp. Rimando alle
analisi di Thierry de Duve e ai lavori in corso di Tomàs
Maïa.
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stessa:36 incontro in un lampo del sub e del getto
(del supporto e della pittura).
***
Il soggetto, qui, non è più l'evidenza a sé di
un'interiorità trattenuta in sé da una
sospensione del mondo, così com'è o sembra che
esso sia nel modello cartesiano e filosofico in
generale. Così esso si spoglia sempre di più
prima della somiglianza e del richiamo intesi nei
termini dell'umanismo, dell'intenzionalità, e
della rappresentazione (ai quali tuttavia, lo si è
capito,la ritrattistica non smette di sottrarsi).
Ma scavando 1o sguardo, svuotandolo o
esasperandolo, nel momento stesso in cui fruga
in se stessa e nei suoi stessi occhi, la pittura
intensifica questo stesso sguardo, fino ad
esasperarlo, se è necessario. Ecco come essa
ritrae al di là del ritratto stesso.
In un certo senso non smette mai di fare
quello che Hegel, parlando della vita dello
spirito, dice che essa fa e tutti i ritrattisti, a
questo proposito, sono hegeliani fino all'estrema
conseguenza della demolizione stessa del
ritratto (così come lo erano molto prima di
Hegel). Il punto è di sapere come “la vita dello
spirito” si raffiguri e si sfiguri: come il ritorno a
sé si smarrisca nel suo sguardo.
36. [...]
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Smarrirsi nel suo sguardo non è forse
dipingere? Ma tratto così fuori di sé dal
dipingere, lo sguardo diventa l'evidenza del
mondo che si espone non tanto davanti a me
come uno spettacolo quanto attraverso di me
come quella forza che apre i miei occhi negli
occhi del quadro, nello spalancamento e
nell'accecamento che di certo la pittura non
rappresenta, ma che essa è o che essa dipinge,
poiché dipingere o ritrarre non hanno, in quella
che viene chiamata “arte”, nessun altro senso se
non quello di essere, dunque di essere al mondo.
Lo sguardo dipinto sprofonda in questo al.
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