Léopold Sédar Senghor

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Léopold Sédar Senghor
Léopold Sédar Senghor
Un leader illuminato dell’Africa, tra politica e poesia
Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Senghor, il cantore della negritudine, uno dei
grandi padri spirituali dell’Africa, scomparso nel 2001 all’età di 95 anni. I Paesi francofoni, a
cominciare dal suo Senegal, celebreranno la ricorrenza con grande nostalgia e gratitudine.
Di Pier Maria Mazzola «Negrità e politica africana». Fa sorridere, oggi, vedere in che modo fu tradotto, nel 1962, il
titolo del discorso pronunciato a Roma da Leopold Senghor, allora presidente del Senegal, in
visita ufficiale al Quirinale. “Negrità” ? La parola francese che Senghor usò quel giorno, così come faceva da trent’anni, era négritude,
tradotta in italiano “negritudine”. E alla negritudine, di cui egli fu un apostolo indefesso, rimane
per sempre legato il nome di Senghor, poeta fecondo, intellettuale raffinato e politico illuminato
dell’Africa.
Non siamo una tabula rasa
Nato “ufficialmente” il 9 ottobre 1906 (ma realmente il 15 agosto), Senghor è registrato
all’anagrafe (due anni dopo!) con il soprannome che si era velocemente meritato: Sédar, cioè
“colui che non può essere umiliato”.
Il padre era benestante, con quattro mogli; dell’educazione si occupava soprattutto lo zio
paterno: «Mi insegnava la struttura del parentado e, assieme al galateo, gli usi e i costumi della
mia etnia». Quelli dell’infanzia furono anni importanti, che sosterranno gran parte della sua
futura produzione poetica.
Senghor viene affidato alla scuola della missione, all’età di 8 anni. A differenza di molti
intellettuali africani che hanno vissuto l’esperienza della Chiesa come in contrasto con la propria
identità culturale, Senghor apprezza l’educazione impartita dai missionari, senza rinunciare per
questo a maturare un suo spirito critico, che emergerà negli anni dell’adolescenza. «A sedici
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anni cominciai a ribellarmi, a mettermi contro un certo tipo d’insegnamento. Mi ribellai
soprattutto alla pretesa dei padri che noi fossimo una tabula rasa sulla quale costruire una
solida struttura razionale; anzi, mi ribellai alla loro pretesa di riempire con valori spirituali
giudaico-cristiani ciò che loro reputavano un vuoto».
Un leader cristiano
Per Léopold, la fede fu ad ogni modo un caposaldo, una bussola che l’avrebbe accompagnato
per tutta la vita. «L’educazione cristiana mi ha fatto molto bene. Avevo un temperamento
collerico, ma la direzione spirituale e la confessione mi hanno insegnato a dominarmi, a
disciplinarmi». Non mancherà, durante gli studi a Parigi, un periodo di «eclissi» di fede – come lo definirà uno
dei suoi pochi biografi, il padre bianco Joseph Roger de Benoist. Una decina d’anni, ma ne
uscirà con una fede più matura, rimessa in gioco grazie soprattutto al contatto con personalità
come Emmanuel Mounier, suo coetaneo, che diventerà il filosofo del personalismo, e come
Teilhard de Chardin, il grande gesuita paleoantropologo e teologo. Costui lo guidò anche in una rilettura del marxismo, che all’epoca ovviamente affascinava i
futuri leader di popoli in cerca di riscatto, anche se non convinceva del tutto il giovane Senghor.
Caduto in politica
Non si riassume in poche righe una vita lunga e densa come quella di Senghor. Limitiamoci a
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elencarne le fasi principali. Dopo alcuni anni di insegnamento del francese in un paio di licei,
senza tralasciare i corsi universitari di linguistica neroafricana, scoppia la Seconda Guerra
Mondiale. Chiamato alle armi, viene in breve fatto prigioniero.
Ritrovata la libertà e viene poi riformato per motivi di salute. Il suo appartamento a Parigi diviene
un asilo per comunisti ed ebrei. Intanto, sul finire della guerra, la Francia andava delineando i
futuri destini delle sue colonie africane (Conferenza di Brazzaville del gennaio 1944).
Senghor nel 1945 ottiene una borsa di studio per una ricerca nel suo Paese per studiarvi la
poesia orale, mentre, nello stesso anno, esce la sua prima raccolta di poesie, Canti d’ombra.
Galeotto fu quel viaggio. Senghor, che già non era più uno sconosciuto, viene sollecitato a
entrare in politica. Non aveva mai coltivato un simile progetto, anzi aveva già declinato una
prima proposta, ad essere direttore generale dell’istruzione in Africa occidentale. Ma è pur vero
che cresceva in lui il desiderio di fare qualcosa per la sua gente, soprattutto per il mondo rurale,
l’eterno dimenticato. «Sono caduto in politica», dirà di questo suo passo. Viene eletto come
deputato del Senegal in parlamento, e poi sempre rieletto.
Si vede “costretto” a fondare un suo partito, il Blocco democratico senegalese, dopo essere
fuoriuscito dalla Sfio (la Sezione francese dell’Internazionale operaia), troppo coinvolta nella
dura politica coloniale ai danni di Indocina, Madagascar, Algeria. Nel 1956 è anche sindaco di
Thiès, la seconda città del paese. Nel 1960, eccolo primo presidente del Senegal indipendente
(Senghor non aveva tuttavia particolarmente caldeggiato l’indipendenza subito, ma piuttosto
una confederazione delle ex colonie con la Francia): un cristiano alla testa di un paese a
maggioranza musulmana. Un poeta nel groviglio della politica.
Come conciliare politica e poesia? «Sempre col timore che l’una danneggiasse l’altra», come
sintetizzò Marcella Glisenti, sua traduttrice, che lo interrogò a questo proposito. Ci sono cose, in
verità, che danneggiano la poesia ben più della politica. L’insincerità, ad esempio, l’inseguire le
“tendenze”, la demagogia… Senghor riconosce alla fine «che se non avesse avuto l’impegno
pubblico che gli è toccato in sorte, la sua poesia sarebbe stata meno impegnata, certamente più
gratuita».
L’addio di un saggio
Per la sua data di nascita e per il suo personale genio, Senghor si è ritrovato ad essere il primo,
o tra i primissimi, in molti campi: il primo africano (francofono) ad eccellere negli studi
universitari – tanto che nel 1983 sarà il primo membro “di colore” all’Académie française; uno
dei primi deputati africani all’Assemblea nazionale (e sottosegretario, per un anno, nel governo
Faure); il primo presidente africano a introdurre il multipartitismo (nel 1978, ben prima del Muro
di Berlino).
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Fatto ancor più straordinario, è stato anche il primo capo di stato africano a rinunciare
volontariamente alla sua carica, alla fine del 1980. «Nessuno ci credeva perché in Africa sono
molti i capi, specie militari, che hanno annunciato la loro dipartita e che invece sono ancora
aggrappati al timone con la scusa di obbedire alla “volontà del popolo”», commentava all’epoca
il settimanale Afrique Nouvelle di Dakar.
E per togliere il disturbo, si ritirò in Normandia, terra natia della moglie. È là, nel piccolo comune
di Verson che si onora di essere stato una sorta di sua seconda patria, che Senghor si è spento
a 95 anni, il 20 dicembre 2001. Ora riposa nel cimitero di Bel-Air, a Dakar, accanto alla tomba
del figlio perduto vent’anni prima, che aveva cantato in una delle sue Elegie: «…sopra il cimitero
marino, la dolcezza della Terra Nera e il rimpianto della tua assenza».
Le sue opere
Le edizioni italiane più recenti di componimenti di Senghorsono Notte d’Africa mia notte nera
(L’Harmattan Italia, 2004) e Canti d’ombra e altre poesie (Passigli, 2000). Bisogna altrimenti
retrocedere agli anni Ottanta, Settanta, Sessanta, per trovare una dozzina di titoli (ma invano
cerchereste l’Anthologie de la nouvelle poésie nègre et malgache), oltre a un paio di raccolte di
scritti politici. Oppure spigolare in antologie, riviste e affini. Tra le opere poetiche più importanti di Senghor, segnaliamo: Hosties noires (1948); Chants
pour Naëtt (1949); Ethiopiques (1956); Nocturnes (1961). Tra la saggistica, Ce que je crois
(1988) e i 5 volumi di Liberté, usciti tra il 1964 e il 1993.
Nero. O meticcio?
Joal, a sud di Dakar: là viene battezzato con il nome di Léopold il piccolo Senghor, nel Natale
del 1906. Joal è un luogo segnato dalla presenza portoghese fin dal XV secolo. «Benché neri,
gli abitanti si dicono portoghesi e danno ancora dei nomi portoghesi ad alcuni dei loro bambini»,
scriveva nel 1853 uno dei primissimi preti senegalesi. Ciò spiega anche il cognome Senghor,
variante del portoghese senhor, “signore”. «Mio padre – racconterà lo stesso Léopold – mi disse che i miei antenati venivano dal Gabu,
una regione dell’Alta Guinea portoghese». Era di etnia serer, di famiglia aristocratica, ma lui stesso affermava: «ho probabilmente una
goccia di sangue portoghese poiché sono di gruppo sanguigno A, frequente in Europa ma raro
nell’Africa nera». Forse la sua origine, di cui era ben cosciente, fornisce una prima spiegazione degli
atteggiamenti in apparenza contraddittori di Senghor, strenuo difensore della negritudine ma
senza astio nei confronti dell’Europa; appassionato della sua cultura africana, ma cristiano
sincero. Mentre accarezzava la rinascita del suo continente, sognava una «civiltà dell’universale». Sposò «per dovere» (parole sue) una donna di origine africana, una guianese figlia di un
prestigioso governatore dell’Africa francese, ma il matrimonio non resse e la sposa della sua
vita rimarrà una francese di Normandia, Colette Hubert.
La Negritudine
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Ma la negritudine cos’è?
Ascoltiamo la definizione che ne dà il poeta-presidente: «È l’insieme dei valori – economici e
politici, intellettuali e morali, artistici e sociali – non solo dei popoli dell’Africa nera, ma anche
delle minoranze nere delle Americhe… Ora, i militanti della negritudine assumono questi valori,
li fecondano anche con apporti esterni, per viverli in prima persona, dando così il loro contributo
di Negri nuovi alla Civiltà dell’Universale». Senghor e la sua negritudine (la paternità del neologismo viene in realtà attribuita ad Aimé
Césaire, scrittore impegnato della Martinica, compagno di Senghor durante gli anni di studi
parigini) sono stati anche molto bersagliati. Più da parte africana che europea. Sembrava troppo
moderato.
Oppure dava fastidio il suo apprezzamento per la cultura dei bianchi: celebre, e contestato, il
suo slogan «l’emozione è negra, la ragione è ellena». Celebre, di rimando – e male interpretata – la battuta di Wole Soyinka: «La tigre non proclama
la sua tigritudine, balza sulla preda». Oggi c’è ancora chi polemizza, soprattutto tra i più accesi afrocentristi, che hanno però l’aria di
non porsi in una prospettiva storica.
Sembra però allargarsi, nel complesso, il consenso sul ruolo unico che Senghor ha avuto nella
crescita dell’autocoscienza di milioni di neri, e anche nel rendere più sensibili alla dignità
africana (e alle proprie responsabilità) milioni di europei.
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