Leggi i primi capitoli

Transcript

Leggi i primi capitoli
IL ROMANZO
Firenze è caduta nelle mani di un regime totalitario. L’unica opposizione è una fazione
clandestina: un gruppo di ragazzi e ragazze impegnati in una lotta quotidiana per la
sopravvivenza sotto gli occhi di uno spettatore enigmatico e senza identità. Grazie a un
misterioso artefatto di vetro, il giovane spettatore può comunicare con i ribelli ed
evadere dalla sua deprimente realtà. Due storie parallele destinate a incontrarsi nella
sfida finale.
L’AUTORE
Sergio Oricci è nato nel 1982 e vive a Firenze. Diversi suoi racconti sono apparsi su
riviste e antologie. L’enigma del vetro è il suo quarto romanzo, dopo i due horror
Gioie e sapori e Fame e il surreale romanzo breve Bianco Shocking.
L’enigma del vetro
di
Sergio Oricci
© 2014 Libromania S.r.l.
Via Giovanni da Verrazzano 15, 28100 Novara (NO)
www.libromania.net
ISBN 978-88-98562-65-7
Prima edizione eBook novembre 2014
Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta,
memorizzata o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo elettronico, meccanico,
in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione
scritta dell’Editore.
Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o
commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere
effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta
Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web
www.clearedi.org
L’Editore dichiara la propria disponibilità a regolarizzare eventuali omissioni o errori
di attribuzione.
Progetto grafico di copertina e realizzazione digitale NetPhilo S.r.l.
Qualsiasi riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale e indipendente dalla
volontà dell’autore.
L’enigma del vetro
Capitolo 1
Uomini bassi ma di successo
“Insomma, quello che sto cercando di dirti è che l’altezza non è poi così
importante. Potrei iniziare a elencarti adesso i nomi di tutti gli uomini bassi che hanno
avuto successo e domani mattina non avrei ancora finito.”
“Inizia, allora. Ti ascolto.”
“Mozart per esempio, sai quanto era alto Mozart? Ma cosa ne vuoi sapere tu, è già
tanto se sai di chi sto parlando...”
La luce rossastra del tramonto incorniciava piazza Duomo, mentre Giuliano Nicchi
e Federico Croce discutevano della relazione tra altezza e successo senza curarsi di
quello che stava succedendo attorno a loro. I veicoli corazzati dell’esercito si
muovevano lenti e in modo circolare, come a voler delimitare in modo preciso la
zona di loro competenza. Intanto, da ogni punto sopraelevato, cupola della cattedrale
inclusa, i cecchini osservavano l’ambiente sottostante attraverso i mirini telescopici
dei loro fucili di precisione. A Federico Croce, alto un metro e sessanta scarso, la
faccenda di cui lui e Giuliano stavano discutendo stava molto a cuore. Aveva assunto
un tono a suo dire piuttosto convincente, e aveva iniziato a elencare nomi di
personalità più o meno famose, potenti o carismatiche, che spaziavano dal mondo
dello spettacolo – Tom Cruise, Danny De Vito , Al Pacino – a quello dello sport – Yuri
Chechi, quel fantino lì comesichiamava, i ciclisti scalatori tipo Marco Pantani – fino ad
arrivare alla musica, alla politica, e finendo per citare anche il ragazzetto bassotto che
ai tempi del liceo aveva fregato la ragazza a quella pertica della quinta B. Giuliano
Nicchi, un metro e ottantacinque abbondante, era molto meno sensibile alla
questione, e intervallava il monologo dell’amico con qualche breve intervento
accondiscendente.
“Ok Fede, ho capito. Non c’era un’altra strada per andare al club? Questa zona
della città mi dà i brividi” disse Giuliano interrompendo lo sproloquio. “Sì, certo che
c’era. Ma mi piace passare in mezzo a queste bestie. Guardali, e poi guarda per terra,
guarda i marciapiedi, le strade. Hai mai visto una città più pulita di questa? Hai mai
visto una città più sicura di questa?” chiese Federico sottolineando le parole per lui più
significative alzando la voce. “Questo è il museo, quelle sono le guardie.” Federico
indicò un veicolo blindato a poche decine di metri da loro. “È vietato fumare, è
vietato fermarsi per troppo tempo nello stesso punto, mangiare sui gradini, urlare. È
vietato il gioco d’azzardo, non ci sono puttane in giro, niente spacciatori, ladri, o
mendicanti. È vietata anche la musica. Poi arrivano i pullman dei turisti, due al
giorno, magari tre. E allora è tutto un fare moine, inchini, benvenuti nella città più
bella del mondo. E ci mettono pure un paio di attori a chiedere l’elemosina, quando
arrivano i pullman. Perché fa colore” disse, poi scrollò la testa.
“Già, questo fatto della zona chiusa sta diventando una vera rogna. Firenze ormai è
praticamente invivibile” disse Giuliano, poi lanciò uno sguardo verso Federico.
“Proprio così. Ma a noi in fondo che importa? Domani mattina filiamo” rispose
Federico Croce. Un attimo dopo, in modo meccanico, infilò una mano nel taschino
della camicia e tirò fuori un pacchetto di sigarette. Non fece neanche in tempo a
soffiare il fumo dopo aver respirato la prima boccata quando raffiche di proiettili
arrivarono da tutte le direzioni.
Il corpo crivellato giaceva ora in una pozza di sangue, davanti allo sguardo
immobile di Giuliano. Tre uomini vestiti con abiti che sembravano tute antiradiazioni
arrivarono pochi istanti dopo sul posto. Uno di loro si caricò il cadavere sulle spalle,
un altro iniziò a pulire il marciapiede di piazza Duomo. Utilizzava uno spazzolone
elettrico che sembrava molto funzionale allo scopo. Giuliano pensò che quello
strumento gli sarebbe stato utile per la sua nuova casa, sarebbe piaciuto molto a sua
moglie. Se avesse avuto una casa e una moglie. Il terzo uomo delle pulizie si avvicinò,
estrasse un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e lo appoggiò sul viso dell’uomo, per
poi strofinare con decisione. Quando ebbe finito mostrò il fazzoletto a Giuliano: era
pieno di sangue, il sangue di Federico.
Fino a pochi secondi fa quel sangue era sulla mia faccia. Fu tutto ciò che Giuliano
riuscì a pensare.
“Grazie...” pronunciò a fatica l’uomo.
Era stato un errore, un errore stupido. Una cazzata, veniale. Non si muore per una
cosa da niente come un momento di distrazione. In ogni altro luogo sarebbe stato così,
al massimo Federico si sarebbe beccato una multa. Non a Firenze. Che sfiga distrarsi
proprio lì, con tutte le città che ci sono nel mondo. Era un uomo basso, Federico
Croce. Niente gli avrebbe impedito di essere uno degli uomini bassi di successo che
tanto ammirava. Se soltanto non fosse morto in piazza Duomo, a Firenze, davanti agli
occhi di Giuliano Nicchi.
Capitolo 2
Periferia nord
Livia Peruzzi era chiamata dagli altri la leonessa, a causa dei suoi lunghi capelli
ricci che avevano l’aspetto di una vivace criniera. Poco importava ai ragazzi del club
Bloody River che le leonesse non avessero la criniera. Era stata la leonessa fin da
quando aveva appena quattordici anni, e quel nome le era rimasto incollato addosso,
così come gli occhi degli avventori del club le restavano appiccicati quando
oltrepassava la porta d’ingresso. La prima volta che era entrata nel locale, la città non
era ancora divisa in modo così netto e la militarizzazione del centro storico non era
ancora iniziata. Era stato tanto tempo fa, erano passati quindici anni.
“Ragazzina, dove credi di andare? Non si entra, qui. È un posto per gente adulta,
non per bambine.”
Erano state queste le prime parole che Livia aveva sentito sulla soglia del locale.
Ma lei aveva risposto che sapeva cosa si faceva là dentro e che era disposta a
dimostrare a tutti quanto quel posto fosse invece perfetto per una come lei. Là dentro
si giocava, si giocava pesante. Il poker andava per la maggiore. Livia alla fine aveva
convinto quel grassone del buttafuori mostrandogli i soldi. Si era seduta a un tavolo
con cinque uomini che non facevano altro che sghignazzare, ammiccare, fare battute
a sfondo sessuale e cercare di allungare le mani. Solo per le prima ora di gioco però,
perché dopo si erano ritrovati troppo impegnati a bestemmiare per fare qualsiasi altra
cosa. Livia li aveva ripuliti tutti. Con una montagna di soldi davanti, aveva deciso di
sciogliersi i capelli, come per allentare la tensione dopo una battaglia. E in quel
momento la chioma le era caduta sulle spalle, fino a sfiorare il tavolo. Il Varano, il
proprietario del locale, l’aveva guardata e aveva detto: “Ci ha sbranati tutti e adesso si
liscia la criniera, la leonessa.” Gli altri avevano riso, e da allora nessuno l’aveva più
chiamata con il suo nome. La cosa che aveva sorpreso di più Livia, però, era che
nessun cliente del club avesse provato a rubarle i soldi, a farle del male o a cercare
un modo per approfittarsi di lei. La leonessa era diventata in poco tempo una specie
di mascotte, e aveva guadagnato il rispetto di quegli uomini solo giocando al loro
stesso tavolo.
Adesso di anni ne aveva ventinove, ed era ancora lì, appoggiata al muretto esterno
del club. Una sigaretta in bocca, un mazzo di carte nella tasca posteriore dei jeans, e
una splendida criniera ancora lunga e lucente come quindici anni prima. Il Bloody
River era posizionato in una zona della periferia nord della città. Qui non c’era traccia
di forze armate, lo scenario rispetto al centro storico cambiava in modo radicale. Le
periferie fiorentine erano ormai da un paio d’anni abbandonate a se stesse, le bande
criminali proliferavano e la totale assenza di controllo aveva fatto in modo che
sporcizia e degrado riempissero ogni angolo. La gente che abitava in quelle zone si
teneva ben lontana dalla palla di vetro, come veniva chiamato il centro della città. La
palla di vetro era stretta, non ci si respirava bene. Per gente abituata a vivere nelle
zone vicine ai confini, andare in centro era un grosso rischio. L’eventualità di
infrangere una legge senza neanche conoscerne l’esistenza non era affatto remota. I
luoghi in cui si poteva starsene tranquilli a bere una cosa, a fumare, a prendere il sole
o a respirare a pieni polmoni un po’ di smog cittadino non erano molti. Uno di questi
era il Bloody River, a Firenze nord. Poi c’era il Vicolo cieco, locale situato nella zona
più a sud della città. E il supermercato. Non era u n supermercato, era il
supermercato. Molti lo consideravano un’appendice della palla di vetro, perché pur
essendo in periferia era l’unico posto controllato dalle forze di polizia ed era la sede di
tutte le favolose – più o meno – iniziative organizzate dal comune per far divertire i
residenti.
La leonessa gettò il mozzicone sul marciapiede e lo schiacciò con la punta dello
stivale. Entrò nel Bloody River e salutò il tizio che controllava l’ingresso. Raggiunse la
sala uno e notò che era aperto soltanto un tavolo. Il Varano e il Panda erano presenze
abituali, e la leonessa pensò che stessero spennando uno dei giocatori occasionali che
di tanto in tanto passavano di là. Ma la quantità di soldi davanti a loro suggeriva una
situazione ben diversa da quella che Livia aveva immaginato. Il Panda e il Varano
avevano pochi spiccioli, mentre lo sconosciuto faticava a guardare oltre il proprio
naso, a causa della montagna di monete che gli copriva la visuale.
“Per oggi ho chiuso” disse il Panda, e si alzò dalla sedia. “E io ti seguo” dichiarò a
sua volta il Varano. “Bella partita, ragazzi” rispose il terzo giocatore. “Bella per te,
senza dubbio” commentò il Varano, poi soffiò un bacio in direzione di Livia che stava
assistendo alla scena. L’uomo seduto al tavolo iniziò a raccogliere i soldi e a
metterseli nelle tasche, quando la leonessa sfoderò uno dei suoi sorrisi migliori e si
avvicinò a lui. “Ciao, mi chiamo Livia. Non ti ho mai visto da queste parti, sei
nuovo?”
L’uomo la squadrò dalla testa ai piedi, e Livia ebbe l’impressione che si stesse
soffermando un po’ troppo a lungo su di lei.
“Sì, si può dire così” rispose.
“Partitina?” chiese Livia. “Partitina con chi? Con te?” L’uomo sollevò un
sopracciglio e sorrise. “Certo, sicuro. Sono Massimo, piacere. Come la facciamo
questa partita?” “Giochiamo solo io e te, bui 2 - 4. Continuiamo fino a quando uno dei
due non resta a secco. Non possiamo ricaricare, giochiamo con quello che abbiamo
davanti.” La spiegazione di Livia convinse Massimo, e pochi minuti dopo i due erano
seduti a un tavolo, uno di fronte all’altra, con circa milleduecento euro di fronte. Sia la
leonessa sia Massimo avevano un approccio molto aggressivo al gioco, fatto di rilanci
e controrilanci prima del flop. Dopo un paio d’ore la leonessa aveva perso quasi metà
della sua posta. “Pensi di restare molto a Firenze?” chiese Livia tra una mano e
l’altra. “No, parto domani mattina. Sono solo di passaggio, mi sto spostando a nord”
rispose Massimo. “Non mi dispiace affatto che tu te ne vada domani, sai? Se non altro
sai tenere due carte in mano, cosa rara da queste parti.” Massimo non rispose e alzò
appena le due carte che la leonessa gli aveva appena distribuito. “Rilancio. Dieci
euro.” “Controrilancio fino a venticinque.” La mossa della leonessa era del tutto
normale, poteva avere qualsiasi coppia di carte in mano. Aveva controrilanciato
molto spesso, e sperava che Massimo stavolta non credesse alla legittimità della sua
mano. Aveva due nove, un’ottima starting hand. “Vedo.” Dopo aver bruciato una
carta Livia ne girò tre sul tavolo. Il flop recitava: 6-7-8, di tre semi diversi. Non
poteva esserci situazione migliore per lei. Aveva una coppia superiore alle carte
presenti sul board, e un progetto di scala bilaterale. Qualsiasi 5, 10 e presumibilmente
anche i 9 le avrebbero garantito la vittoria, e c’erano ottime probabilità che avesse la
mano migliore già in quel momento. Non ci volle molto prima che i due giocatori
finissero ai resti. La leonessa spinse avanti tutto ciò che le rimaneva, più o meno
seicento euro. Massimo decise di vedere la puntata senza pensarci troppo. Girò due
assi neri, e la leonessa fece un rapido calcolo delle sue probabilità di vittoria. Più di
una volta ogni tre avrebbe vinto quella mano. Non era messa troppo male. Turn: J. Le
sue chance erano scese di parecchio. Non le restava che sperare nell’ultima carta: il
river, che aveva dato il nome al club nel quale stavano giocando e che lei
considerava come casa. Pensò a tutte le volte che il Bloody River l’aveva tirata fuori
da situazioni spiacevoli, e intendeva sia la quinta carta comune di una mano di poker,
sia la gente del club, che l’aveva sempre protetta da quando l’aveva conosciuta.
Stavolta però il river non la salvò. Un inutile Re di cuori si palesò sul tavolo e
consegnò l’intera posta di Livia a Massimo, che senza accennare alcun tipo di
esultanza era già intento a trascinare i soldi verso di sé. Livia gli porse la mano, lui la
strinse. “Congratulazioni, drago. Mi hai ripulito” disse lei, battezzando così il suo
avversario per farlo entrare a far parte, almeno idealmente, dello zoo del Bloody
River.
Capitolo 3
Il supermercato
“Iiiiii ah!” urlò Graziano, e colpì l’uomo davanti a sé con un destro ben assestato
sulla mascella. Lo vide cadere, poi sentì una stretta attorno al collo. Qualcuno si era
aggrappato a lui e stava stringendo con tutta la forza che aveva. Graziano provò a
scrollarsi di dosso il tizio con una gomitata, ma non funzionò. Cercò di abbassarsi e
rialzarsi velocemente ma non riuscì a sorprendere colui che stava cercando di
strozzarlo. Vide infine un altro uomo, un signore grasso con pochi capelli rossicci in
testa, caricare da lontano con l’intenzione di schiacciarlo con il suo peso. Correva,
sbuffava, sudava, rantolava. Lo spettacolo era disgustoso. Quando fu a pochi passi da
lui, Graziano ruotò su un fianco, prese il gomito dell’uomo avvinghiato e lo portò
verso di sé. Si spostò quel tanto che bastava per fare in modo che il ciccione finisse a
sbattere non solo contro di lui, ma anche contro quello che gli stava dietro, che perse
per un attimo la presa. In quella frazione di secondo Graziano si divincolò, sferrò un
calcio nelle palle al grassone dai capelli rossi che si piegò sulle ginocchia, gemendo.
Quindi caricò a testa bassa l’altro uomo e lo fece cadere saltandogli alla vita e
afferrandogliela con entrambe le mani. Una volta a terra insieme, gli prese la testa,
la sollevò di qualche centimetro e poi la sbatté con forza sull’asfalto. Una macchia
rossa si allargò in pochi secondi sotto l’uomo steso. Graziano lo fissò negli occhi e li
vide vacui, persi. Della schiuma scendeva dalla bocca, per finire sul pomo d’Adamo,
ora immobile. Contemplò la scena ancora per qualche istante, soddisfatto, poi tornò a
concentrarsi di nuovo sul pel di carota. Era ancora piegato, con le mani sull’inguine e
gli occhi lucidi e arrossati. “Uiiii, uiiii, uiiii.” Le urla di quel coglione non erano
all’altezza della scena madre. Come cazzo aveva fatto a restare lì fino a quel
momento? Forse si era nascosto sperando di riuscire ad approfittarsi del lavoro degli
altri. Ma aveva fatto male i suoi conti, non aveva idea di quanto fosse cazzuto
Graziano. E adesso era lì che piangeva, massaggiandosi le palle con quelle mani
sudate e grasse, lo stronzo. Graziano gli si avvicinò, e si chinò per mettersi alla sua
altezza. Strinse la guancia paffuta del rosso con le dita, e portò la propria faccia a un
palmo dalla sua. “Ci hai provato, ma stavolta ti ha detto male” sussurrò, poi lasciò la
presa e fece partire un pugno che investì il volto paonazzo. A Graziano sembrò di
vedere la scena a rallentatore, con la bocca del ciccione che si apriva centimetro
dopo centimetro, le gocce di sudore che schizzavano via e i pochi capelli che
venivano mossi dallo spostamento d’aria. Poi un tonfo. E un boato. Le braccia al
cielo, le guardie che lo guardavano ammirato, le porte del supermercato che si
aprivano solo per lui. Un’ora di tempo per prendere tutto ciò che voleva. Un sacco di
belle cose gratis. Nel supermercato c’erano persino televisori ad alta definizione,
console per videogiochi, computer portatili e un mucchio di altra roba.
Graziano se l’era sempre immaginato così il giorno della sua vittoria. E anche
questa volta era lì, in fila con tutti gli altri, a sognare a occhi aperti il momento storico
in cui il suo nome sarebbe stato inciso a caratteri cubitali sulla lista dei vincitori, che
ogni mese si allungava di un’unità. Il supermercato indiceva concorsi a ripetizione, e
Graziano ne era entusiasta. Era sempre stato dipendente da qualsiasi forma di
raccolta punti, quiz con prenotazione telefonica e gioco televisivo. Prima di trasferirsi
a Firenze ogni tanto vinceva, ma adesso non era ancora riuscito a sbancare il
supermercato e la cosa lo infastidiva parecchio. Quel giorno era attivo il concorso
cliente fortunato. Una a caso tra le persone che entravano nel supermercato avrebbe
vinto la tanto desiderata ora di spesa gratuita. O almeno, quasi tutti pensavano che non
ci fosse possibilità di individuare l’attimo giusto per entrare. Ma Graziano era un vero
appassionato e un ottimo osservatore. Aveva notato un segnale che una delle guardie
lanciava ai colleghi, poco prima dell’istante fatidico. Un gesto della mano quasi
impercettibile, che non era stato notato dalle centinaia di persone che mese dopo
mese tentavano la fortuna. Non era sfuggito a lui. D’altra parte il suo unico desiderio
era vivere come un Gastone Paperone in carne e ossa. Non avendo il talento del
papero più fortunato di Paperopoli, doveva compensare con l’impegno. E qualora si
fosse trovato abbastanza vicino all’ingresso al momento del segnale, non avrebbe
esitato a farsi largo con la violenza, a mettere al tappeto i due o tre tizi davanti a lui
per passare dalla porta principale e sentire il boato che annunciava il vincitore.
Proprio come nei suoi sogni migliori, proprio come aveva appena immaginato,
guardando il cicciotto dai capelli rossi che lo precedeva nella fila, ordinata come
sempre. Le guardie non lo preoccupavano, una piccola rissa non li avrebbe smossi
dalle loro posizioni. Non erano nella palla di vetro, erano lì più per fare scena che per
altro, per dare una sorta di ufficialità al momento delle premiazioni.
C’era ancora molta strada da fare per riuscire a raggiungere le prime posizioni e
avere nel proprio campo visivo i sorveglianti che stazionavano davanti all’ingresso.
Graziano in un primo momento fece finta di non sentire, cercò di ignorare il suono
roboante dell’ennesimo fallimento. Il boato. Gli applausi. Stavolta non risuonavano
solo nella sua immaginazione. C’era un vincitore, e ancora una volta non era lui. Gli
passò per la testa l’idea di farsi largo tra la folla, raggiungere il vincitore e
massacrarlo, smembrarlo a poco a poco, in modo lento e doloroso. Aveva appena
centrato il jackpot che lui sognava da mesi. Non avrebbe avuto problemi a pedinarlo,
fargli la festa e derubarlo. Ma non avrebbe avuto senso, a lui interessava solo vincere
il gioco. I premi erano importanti, ma se li sarebbe potuti godere soltanto se li avesse
vinti in modo leale. Mentre osservava le guardie che sparavano verso il cielo, le
esplosioni colorate di coriandoli, i festoni e le braccia alzate in segno di vittoria, una
morsa gli strinse lo stomaco. Si voltò e si infilò in una stradina laterale per non dover
più assistere ai festeggiamenti.