Nutrizionistidoczuccheri - Nutrition Foundation of Italy

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IL CONSUMO DI ZUCCHERI SEMPLICI E IL PROBLEMA DELL’OBESITÀ Questo documento è stato elaborato e sottoscritto da: Eugenio Del Toma, Primario Emerito Dietologia e Diabetologia Specialista in Scienza dell’Alimentazione e in Gastroenterologia; Presidente Onorario ADI – Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica Michelangelo Giampietro, Docente di Dietistica applicata alle attività sportive, Scuole di Specializzazione in Medicina dello Sport dell’Università degli Studi di “Modena e Reggio Emilia” e “La Sapienza” di Roma; Docente di Scienza dell’Alimentazione della Scuola dello Sport di Roma. Comitato Olimpico Nazionale Italiano – CONI S.p.A. Andrea Ghiselli, Dirigente di Ricerca CRA, Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura Claudio Maffeis, Professore Associato di Scienze della Vita e della Riproduzione -­‐ Sez. Pediatria, Medicina e Chirurgia Università degli Studi Di Verona; Presidente Comitato Scientifico del Master Universitario in Management del diabete e delle turbe metaboliche correlate in età evolutiva Pietro Antonio Migliaccio, Presidente della Società Italiana di Scienze dell’Alimentazione Marcello Ticca, Vice Presidente della Società Italiana di Scienze dell’Alimentazione Roma, marzo 2014 L’obesità è considerata oggi il disturbo metabolico più diffuso nei Paesi industrializzati occidentali, tanto da indurre l’American Medical Association a classificarla definitivamente quale vera e propria patologia. Ma già nel 2007 l’OMS, nel suo report intitolato “the challenge of obesity in the WHO European Region and the strategies for response” non esitò a qualificarla come tale e come una delle più serie sfide in tema di salute pubblica che l’Europa si sarebbe trovata ad affrontare nel 21° secolo. Nel nostro Paese l’eccesso ponderale nell’adulto è andato continuamente aumentando negli anni per stabilizzarsi solo recentemente, ma sempre su valori ragguardevoli: secondo dati ISTAT 2010 un italiano adulto su due (che diventano due su tre se restringiamo il campione ai maschi dai 55 ai 70 di età) ha un peso eccessivo. Si tratta di valori pericolosamente vicini a quelli degli USA, ossia a quelli di un Paese giustamente considerato la pecora nera per quanto concerne la qualità e la quantità della alimentazione abituale. La valutazione dei Centers for Disease Control and Prevention è (2013) che circa un terzo dei bambini e circa due terzi degli adulti statunitensi siano sovrappeso od obesi. Ma, tornando all’Italia, ancora più preoccupante è l’eccesso ponderale in età infantile, che vede i nostri bambini ai primi posti nel mondo: tre bambini su 10 sono sovrappeso e di questi uno è francamente obeso. Anche qui il paragone con gli USA è preoccupante. L’obesità comporta non solo una condizione di disagio psicologico ma, fatto ben più importante, un aumento del rischio di morte prematura e di disabilità, aumento legato alle patologie che alla obesità si associano e ad essa conseguono con allarmante frequenza: osteoartropatie, insufficienza respiratoria, diabete mellito, iperuricemia, iper-­‐dislipidemia e ipertensione arteriosa con possibili conseguenze di cardio-­‐cerebro-­‐vasculopatie, alcune forme di tumore, ecc. Il problema è che troppo spesso abbiamo il vizio o la cattiva abitudine di attribuire la responsabilità del sovrappeso e delle sue complicanze a cause esterne, indipendenti dalla nostra volontà, così da metterci al riparo da responsabilità personali o da rimorsi. Siamo riusciti ad attribuire la nostra 2 facilità ad accumulare grasso superfluo perfino a qualche virus, al microbiota intestinale o agli alimenti raffinati dall’industria, pur di crearci degli alibi e sviare i sospetti dal nostro stile di vita troppo sedentario che quasi sempre rappresenta, invece, il primo responsabile. La realtà è che l’obesità è provocata e facilitata da tutto un insieme di fattori genetici, ambientali e comportamentali che vanno ben oltre le responsabilità degli alimenti “raffinati”, del fast food o delle merendine, dei grassi, degli zuccheri o degli alimenti ad alto indice glicemico. E sono proprio i fattori ambientali e comportamentali (fra i quali l’alimentazione è uno dei più importanti) quelli “modificabili”, ossia quelli sui quali possiamo agire sia per la prevenzione che per la cura del sovrappeso e della obesità. A proposito di fattori comportamentali, non c’è alcun dubbio che gli uomini dell’era attuale, e in particolare coloro che vivono nelle grandi metropoli, si stiano “ammalando di sedentarietà”. I contadini cretesi della prima metà del ventesimo secolo svolgevano una attività lavorativa di grande impegno fisico, e, nonostante che la loro dieta comprendesse ben un 40% di calorie da grassi (peraltro, olio di oliva) non avevano problemi di ipercolesterolemia e presentavano una incidenza bassissima di morbosità e mortalità da malattie cardiovascolari. A Cuba, ai tempi di Batista, i tagliatori di canna da zucchero lavoravano tutta la giornata nelle piantagioni e venivano sottopagati in danaro e in parte con lo zucchero con il quale si alimentavano, ma nessuno di loro diventava obeso o diabetico. La nostra principale scusante è sempre quella: “mi manca il tempo” per camminare o per praticare uno sport di movimento. Si tratta purtroppo, in termini di comportamento, della premessa di un progressivo squilibrio energetico che porta inesorabilmente al manifestarsi di un sovrappeso e magari in seguito anche di una vera obesità, anche con diete apparentemente adeguate e basate su porzioni di ridotte dimensioni. Ma il fatto è che quando ci rifugiamo dietro l’alibi del “mi manca il tempo” non facciamo che dirottare altrove le cause della nostra ridotta attività fisica e legittimare come attuabile solo quella parte delle raccomandazioni mediche che riguarda l’esclusione o la severa 3 limitazione di una serie di cibi presunti colpevoli. E’ interessante notare che col passare del tempo i fattori alimentari accusati di essere causa di obesità sono cambiati: ogni epoca sembra avere i suoi sospettati di turno! All’inizio dell’epidemia di obesità, gran parte della colpa veniva attribuita agli eccessi calorici in generale e in particolare al consumo elevato di grassi, mentre oggi ci si accanisce contro zucchero, dolci e alimenti ad alto indice glicemico. Alcuni arrivano addirittura a definire “tossico” o “velenoso” un elemento naturale come lo zucchero. Contro lo zucchero è stato riesumato anche il titolo (“Puro, bianco e mortale”) di un vecchio libro del fisiologo Yudkin, le cui precipitose conclusioni sono state ampiamente ridimensionate dalle ricerche sperimentali ed epidemiologiche compiute negli anni successivi, ed anche dalle evidenze raccolte negli anni ’50 da Ancel Keys sui pregi della dieta mediterranea, ricchissima di carboidrati ma povera di proteine e grassi animali. Del resto, i responsabili delle Società Scientifiche erano così consapevoli del ruolo marginale dello zucchero nella catena causale che porta al sovrappeso e alla obesità da affermare, fin dagli anni 80’-­‐90’, che il 7-­‐10% della quota giornaliera di carboidrati può derivare, anche nei diabetici, dagli zuccheri semplici come il saccarosio o il fruttosio e il glucosio della frutta, soprattutto quando nella dieta figura una giusta quota di fibra prevalentemente solubile. Eppure, il catastrofismo che caratterizza così spesso l’informazione dei mass media ama rispolverare in continuazione le responsabilità di singoli alimenti, sottovalutando invece il ruolo svolto dalla maggiore o minore appropriatezza delle scelte alimentari complessive messe a confronto con lo stile di vita di ciascuno di noi. Perfino la vecchia concezione che gli zuccheri fossero assorbiti più velocemente dell’amido è in parte superata, dato che alcuni zuccheri, come il fruttosio, hanno un indice glicemico che è un terzo di quello del pane bianco e che perfino l’indice glicemico del saccarosio é inferiore, sia pure di poco, a quello del pane. Il legame tra zucchero e obesità vede l’insulina al centro del meccanismo. Un elevato consumo di carboidrati (soprattutto se ad alto indice glicemico) comporta un rapido aumento della glicemia con la conseguente 4 iperstimolazione insulinica, necessaria per la metabolizzazione del glucosio. Se l’elevato consumo di alimenti ad alto indice glicemico perdura nel tempo, l’eccesso di insulina circolante favorisce l’aumento delle riserve adipose a cui si accompagna uno stato di insulino-­‐resistenza e di infiammazione subclinica responsabili del danno endoteliale e dell’aumentato rischio di aterosclerosi, diabete e cancro. E’ senz’altro plausibile che un elevato consumo di carboidrati e di zuccheri, che spesso è il tipico marker di una dieta eccessiva e poco equilibrata, possa “contribuire” al determinarsi di una obesità. Teniamo però anche nella giusta considerazione altre evidenze, provenienti dall’epidemiologia e dalla fisiologia, che innegabilmente attenuano, almeno in parte, la forza di questo legame e lo rendono meno diretto. Ad esempio, è utile sapere che i nostri bambini sono tra gli europei che consumano meno zucchero, nonostante che, come già detto in precedenza, questa fascia di età faccia registrare nel nostro Paese uno dei tassi più alti di eccesso ponderale. Al contrario altri Paesi, pur con consumi di zucchero superiori (anche di tre volte!), presentano tassi di obesità nettamente inferiori. Sembra quindi proprio che non sia il consumo di zucchero di per sé il responsabile, o quantomeno il solo responsabile, dell’eccesso ponderale. In generale, l’errore che più comunemente si commette è quello di considerare gli apporti di alimenti in termini assoluti senza confrontarli con i fabbisogni reali. Ad esempio, sapere che una persona assume 2000 kcal alimentari al giorno di per sé non è utile se non si paragona questo dato al fabbisogno medio di energia che caratterizza quella stessa persona. Infatti 2000 kcal potrebbero essere troppe o troppo poche a seconda dei casi. Lo stesso vale per i nutrienti: la semplice constatazione che una persona assume 1000 kcal al giorno da carboidrati non è particolarmente utile se non è nota quale è la assunzione media di nutrienti e di calorie di quella persona nella giornata, e come il tutto venga distribuito nell’arco delle 24 ore. In conclusione, la valutazione degli apporti in nutrienti di una singola classe di alimenti non dovrebbe essere fatta senza tenere conto dell’alimentazione 5 giornaliera nella sua interezza e, forse ancora più importante, dello stile di vita della persona. In Italia, come detto, più della metà della popolazione ha un alto indice di sedentarietà (tra i più alti), contrariamente ad altri Paesi, nei quali un basso indice di sedentarietà si accompagna ad una bassa prevalenza di sovrappeso e di obesità (Paesi nordici per esempio). Affinché il consumo di zucchero, o comunque di alimenti ad alto indice glicemico, possa definirsi troppo elevato, bisogna quindi definire il termine di paragone. E il termine di paragone non può essere che il fabbisogno energetico reale. Insomma, dobbiamo esprimere i consumi in termini di percentuale rispetto ai fabbisogni e non di semplice consumo in grammi al giorno. E’ essenziale ricordare che l’indice e il carico glicemico di un alimento incidono in maniera nettamente differente in un individuo sedentario rispetto ad una persona attiva. Una muscolatura attiva e ben allenata, rimuove lo zucchero (il glucosio) dal flusso sanguigno in maniera molto efficiente, facilitando così il mantenimento della glicemia entro livelli di normalità e diminuendo l’insulinoresistenza. Quando invece non si compie una sufficiente attività motoria, anche modeste quantità di zucchero hanno estrema difficoltà ad essere accumulate nel muscolo (e nel fegato) e devono necessariamente essere trasformate in grasso. Ad esempio, è stato dimostrato che il camminare a passo spedito è già in grado di promuovere un miglioramento dei livelli glicemici nei soggetti diabetici e quindi di contenere la richiesta insulinemica e la terapia specifica. Inoltre, il miglioramento è direttamente proporzionale alla durata dell’esercizio: più a lungo si cammina, migliore è il controllo glicemico! L’esercizio fisico, praticato metodicamente, promuove inoltre un incremento del dispendio energetico anche a riposo, una riduzione della massa adiposa intra addominale oltre che di quella totale, nonché una riduzione della pressione arteriosa e dei livelli ematici dei trigliceridi e del colesterolo. Non dimentichiamo che il maggior serbatoio di accumulo del glucosio è il muscolo scheletrico e che l’attività muscolare promuove ed esalta il consumo di questo glucosio accumulato, e rende così disponibile il muscolo stesso ad accumularne di nuovo, riducendo il flusso di glucosio al fegato. Un aspetto, questo, molto importante, 6 perché il fegato, una volta esaurite le proprie capacità di accumulo, prima converte il glucosio in acidi grassi e poi libera questi acidi grassi nel flusso sanguigno, provocandone il successivo accumulo nel tessuto adiposo. In una società sedentaria il problema collegato al consumo di zuccheri semplici consiste nel fatto che con fabbisogni energetici estremamente bassi come quelli cui siamo abituati, dovuti alla ridotta attività muscolare, si utilizzano meno carboidrati per il metabolismo muscolare e si stenta quindi a raggiungere sia l’equilibrio metabolico sia un corretto stato di nutrizione. Di conseguenza diventa più difficile trovare, nel complesso della alimentazione di tutti i giorni, un po’ di spazio disponibile per un apporto calorico che sia prevalentemente gratificante, dato che bisogna innanzitutto fare posto ad alimenti meno densi in calorie ma più ricchi in nutrienti indispensabili. Al contrario più aumenta il livello di attività fisica più aumenta il fabbisogno energetico, e di conseguenza diventa maggiore lo spazio che potremo concedere alle calorie extra. Un aspetto, questo, di grande importanza pratica, perché la gratificazione è una componente essenziale della sazietà e dell’equilibrio nutrizionale e la sua mancanza (così come l’essere costretti a continue rinunce) è uno dei motivi fondamentali del fallimento di molte diete dimagranti nonché della compulsività di alcuni comportamenti alimentari. Va anche notato che, in accordo con quanto detto finora, le Linee Guida per una sana alimentazione, così come i LARN, esprimono le raccomandazioni in termini percentuali sui fabbisogni. E’ perfettamente compatibile con l’equilibrio nutrizionale una quota di energia proveniente dagli zuccheri semplici dell’ordine del 15% dell’energia totale, mentre la quota spettante ai carboidrati totali dovrebbe essere compresa tra il 45 e il 60% dell’energia globale. Ebbene, se si esaminano i consumi medi della popolazione italiana, si scopre che essi sono in linea con le raccomandazioni, almeno per quanto riguarda gli zuccheri semplici, i quali infatti rimangono, se pur di poco, al di sotto del 15% della assunzione complessiva di energia alimentare. Anche i consumi di carboidrati totali vanno ancora bene, anche se sono in continua discesa dagli anni ’50 ad oggi, tanto da risultare ormai pericolosamente vicini al limite inferiore della forchetta (47% 7 dell’energia totale). Al contrario è alto, anche se non di molto, il consumo dei grassi (37%), che travalica il limite raccomandato (25-­‐35%). In sintesi, in Italia siamo per fortuna ancora lontani dal modello alimentare di oltre oceano, anche se il trend desta qualche allarme e impone di fare molta attenzione. La quota di energia rappresentata dallo zucchero consumato come tale è tuttora molto bassa ed assolutamente in linea con le raccomandazioni nutrizionali italiane, dato che mediamente non superiamo il 2-­‐3 % dell’energia complessiva, vale a dire non più di una sessantina di kcal in una dieta media di 2000 kcal. E pur volendo sommare allo zucchero consumato come tale anche quello contenuto negli alimenti dolci ci si accorge che il totale rimane abbastanza limitato. Infatti il consumo globale di gelati, cioccolata, marmellate, biscotti, creme spalmabili, ecc., contribuisce ad aumentare soltanto di poco il valore precedente, portando l’assunzione di zuccheri semplici ad un valore complessivo che non supera il 5% dell’energia totale. A questo dato vanno poi naturalmente sommati gli zuccheri semplici contenuti in altre tipologie di alimenti-­‐ soprattutto nel latte, nella frutta, negli ortaggi, e nei legumi-­‐ i quali ultimi portano ad un totale che, come già detto in precedenza, rimane al di sotto della percentuale dell’assunzione complessiva di energia proveniente dagli zuccheri semplici consigliata dalla Linee guida. E’ tuttavia importante ricordare che il glucosio è la forma di energia praticamente indispensabile per il funzionamento delle cellule nervose e dei globuli rossi (eritrociti). In conclusione, a parte i grassi che eccedono di poco le raccomandazioni, i consumi degli italiani, sotto il profilo della loro qualità, non sembrano troppo distanti da quanto consigliato dagli esperti internazionali. Ovviamente, però, lo stesso non si può dire delle quantità, le quali senza dubbio eccedono i fabbisogni, visto che tanta parte della popolazione italiana è in eccesso di peso. In sostanza, ciò che bisogna davvero fare é rendere consapevoli le persone che se non si spendono più calorie di quanto mediamente viene fatto ora, sarà inevitabile che il peso aumenti in maniera eccessiva, indipendentemente dalla 8 composizione della dieta. Indirizzare l’attenzione ora verso l’uno ora verso l’altro alimento, rischia solamente di mascherare l’essenza del problema e di confondere le idee, peggiorando così la situazione. Il colpevole non è il “veleno bianco”, ma la sedentarietà. Combattere la sedentarietà significa restituire agli italiani la possibilità di godere di quella varietà e piacevolezza della dieta che permettono di raggiungere sia la adeguatezza nutrizionale che la soddisfazione del gusto e della tavola. Il problema di cui dobbiamo farci carico oggi è che l’uomo occidentale, grazie ai progressi dell’industria agroalimentare, si trova in un’epoca che non ha uguali nella storia, essendosi ormai liberato dalla fatica fisica legata allo sforzo di procurarsi il cibo. Ed è proprio il dispendio energetico collegato al cibo ciò che regola il ritmo fame/sazietà nell’animale. La fame stimola l’attività fisica per la ricerca di cibo, mentre la sazietà riduce la voglia di muoversi. Se ci togliamo di dosso la fatica fisica collegata all’atto di procurarci il cibo, come sta succedendo oggi, tenderemo a mangiare sempre di più e a muoverci sempre di meno. Non potendo invertire la freccia del tempo, l’unica soluzione che ci rimane è quella di aumentare l’attività fisica volontaria. Questi sono i concetti educativi alla base di un corretto comportamento alimentare e di vita. Ed è necessario che questi concetti vengano diffusi e ribaditi con forza e utilizzando ogni canale possibile, insieme a quelli che ammoniscono che é fuori luogo e diseducativo suddividere gli alimenti in buoni e cattivi. E’ indubbio che il falso dilemma “questo sì, questo no” piaccia al consumatore, proprio perché lo fa sentire più sicuro delle sue scelte; il problema è che si tratta di qualcosa di estremamente ingannevole. Non si fa educazione con i semafori rossi. Dobbiamo invece educare Il consumatore alla varietà dell’alimentazione, facendogli comprendere che i diversi alimenti sono caratterizzati da porzioni e frequenze raccomandate di consumo differenti, e che tutti i cibi attualmente disponibili sul mercato possono e debbono contribuire, se usati con misura e buon senso, alla varietà, alla completezza e alla piacevolezza della dieta. Dobbiamo abituare i consumatori al “sì, ma”, e non al “sì o no”, perché solo in 9 questo modo daremo loro gli strumenti atti a modificare il comportamento alimentare e consentiremo loro di riappropriarsi della responsabilità della propria salute. Ma non solo! Mentre il “sì o no” accompagna una scelta che finisce nel momento stesso in cui è stata fatta, il “sì, ma” punta invece costantemente l’attenzione sul fatto che tutti i cibi possono essere consentiti, nelle appropriate quantità, purché la bilancia energetica non venga squilibrata da una accentuata sedentarietà. E’ in questo modo, contrariamente alla mentalità del semaforo e delle proibizioni immotivate, che è possibile sottolineare e suggerire la strategia migliore per guadagnare salute. 10