Il terrorismo internazionale e la «guerra al terrorismo».

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Il terrorismo internazionale e la «guerra al terrorismo».
Luciano Bozzo *
Il terrorismo internazionale e la «guerra al terrorismo».
1. Il dibattito sulla «guerra al terrorismo»
A partire dall’attacco alle torri gemelle di New York il tema del terrorismo – e nella fattispecie
della forma specifica che questo fenomeno ha assunto nel dopo guerra fredda: il terrorismo internazionale – ha acquisito un’enorme valenza politica e mediatica sulla scena mondiale. Come è inevitabile in casi simili ciò ha condotto all’ideologizzazione e alla strumentalizzazione del dibattito in
materia, sia di quello condotto in ambito politico e mediatico che, non raramente, di quello intellettuale. La cosa evidentemente non riguarda soltanto il nostro Paese, anzi. È tuttavia innegabile
che durante lo scorso decennio in Italia troppo spesso l’argomento terrorismo internazionale è
stato affrontato cedendo alle ragioni della retorica, ovvero facendone un nuovo terreno di confronto e scontro politico a fini essenzialmente interni, quando non utilizzandone il forte impatto
emotivo a semplice vantaggio degli interessi dei media.
La prova più evidente di questo stato di cose è offerta dalla confusione terminologica che continua a circondare l’argomento; in particolare quando vengano affrontati casi concreti di “terrorismo”, o presunti tali, collegati a conflitti armati in atto. Nel caso dell’Iraq, come in quello oggi di
più drammatica attualità dell’Afghanistan, solo per restare ai due esempi più eclatanti, al fine di
identificare coloro che combattono contro le forze armate nazionali, facenti parte delle coalizioni
internazionali intervenute in quei paesi nel quadro della cosiddetta «guerra globale al terrorismo»
lanciata dal presidente Bush in risposta agli attacchi dell’11 settembre, vengono spesso impiegati
termini assai diversi. Coloro che per alcuni sono semplicemente terroristi, per altri sono invece ribelli, insorti, guerriglieri, resistenti, o addirittura partigiani, in altri termini combattenti per
l’indipendenza nazionale e la libertà.
Ciascuno dei termini appena citati ha ben diversa connotazione, politica, culturale ed etica, più
o meno positiva nella percezione del destinatario, sia esso lettore o ascoltatore. Queste diverse
definizioni di combattente possono infatti essere disposte lungo un continuum, ad un estremo del
quale troviamo la figura cui la nostra cultura politica, oltre al lessico corrente, generalmente attribuisce la più forte connotazione positiva, anche in senso etico – il partigiano, cui si affianca il guerrigliero che si batte per l’indipendenza nazionale –; mentre all’estremo opposto si collocano quelle
a maggior valenza negativa: il terrorista, appunto, sia esso interno o «internazionale», e con lui il
«ribelle», se non il volgare criminale, ovvero il «brigante» di risorgimentale memoria.
È appena il caso di notare come la diversa valenza etica e politica contemporanea di ciascuno di
questi termini, già manifesta nell’etimo di quelli più negativi, si sia consolidata grazie all’esperienza
storica del secolo passato, quando non del precedente. La figura del guerrigliero si è così ammantata di un’aura di prestigio, se non di gloria, a seguito della vittoriosa conclusione delle guerre di
liberazione nazionale che tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secondo dopoguerra mondiale posero fine all’età coloniale. Quella del partigiano ha assunto invece una connotazione altrettanto se
non più positiva, sempre nel secondo dopoguerra, perché ad essa sono stati associati i movimenti
di resistenza al Nazi-fascismo sviluppatisi in Europa durante la seconda guerra mondiale. D’altra
parte in quella stessa guerra «ribelli» fu la definizione utilizzata dalle forze di occupazione per definire i resistenti – nel caso italiano dalle autorità della Repubblica Sociale nel riferirsi ai partigiani –
: è infatti «ribelle» chi si rivolta contro la propria legittima autorità di governo, venendo in tal modo meno ai doveri fondamentali associati alla cittadinanza. Addirittura, come noto, gli insorti delle
regioni meridionali italiane negli anni immediatamente seguenti al compimento dell’unificazione
del Paese passarono tutti, indistintamente, alla storia con la qualifica tranciante e dispregiativa sopra menzionata di «briganti»; a rimarcare nella maniera la più evidente il carattere del tutto illegittimo della loro resistenza e gli interessi particolari, se non personali, che la avrebbero ispirata. È
però dato oggi acquisito alla ricerca storica che molti di quegli uomini erano tutt’altro che banditi,
trattandosi sovente, tra l’altro, dei medesimi soldati e ufficiali che prima della sconfitta avevano
servito nell’esercito regolare borbonico.
Questo ci porta ad un’ulteriore osservazione. Spesso si registra un mutamento nel tempo del
concetto impiegato per definire il medesimo gruppo di combattenti, uno stesso movimento armato; si verifica cioè un’evoluzione nella rappresentazione di quel gruppo o movimento e di conseguenza nella percezione che di esso ha l’osservatore per così dire esterno. Il terrorista di ieri può
divenire l’«insorto» di oggi e – perché no? – l’avversario con cui trattare e concludere un accordo
politico domani. È chiaro che la definizione di una frazione o movimento armato da parte
dell’avversario e l’eventuale evoluzione nel tempo di tale definizione dipenderà dagli interessi contingenti dell’avversario stesso – si veda, ad esempio, la diversa maniera in cui i Talebani sono stati
rappresentati nelle fasi iniziali della guerra in Afghanistan, avviata nell’autunno 1991, rispetto a
come si tende sempre più frequentemente a presentarli oggi, quando interesse primario
dell’amministrazione statunitense è divenuto di chiudere per quanto possibile rapidamente il conflitto individuando un interlocutore credibile – e, cosa ancora più rilevante, dalla maniera in cui il
conflitto in questione si chiude. La massima che recita «guai ai vinti» dovrebbe valere più e meglio
di ogni altro e più articolato discorso a chiarire il punto.
L’ultima osservazione consente di andare un passo oltre nell’analisi, poiché rinvia all’argomento
principe utilizzato da chi intende relativizzare il tema che abbiamo qui iniziato a prendere in esame: poiché la storia «la scrivono i vincitori» – questo l’adagio –, allora la valutazione dei fini, dei
mezzi e dei metodi di combattimento impiegati dall’una e dall’altra parte impegnate in un dato
conflitto armato conosceranno un ben diverso trattamento a seconda di chi uscirà vincitore da
quel conflitto, avendo così la possibilità di scriverne (ed eventualmente riscriverne) la storia. È innegabile a tal proposito che la storia, un buon esempio è quella ricordata delle guerre di decolonizzazione o quella della seconda guerra mondiale, insegna che i «ribelli» e «terroristi» di ieri possono diventare, e in nei casi menzionati sono davvero divenuti, gli eroi nazionali di oggi.
Osservazioni analoghe potrebbero esser fatte, e sono state fatte, anche in riferimento a certe
figure risorgimentali e care alla nostra successiva storia nazionale: non si è ancora totalmente
spenta, alle soglie delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità nazionale, la polemica scatenata attorno alla figura e all’azione di Giuseppe Garibaldi. Né paiono prossime a soluzione,
tutt’altro, le aspre dispute che continuamente si riaccendono sulla guerra – non da tutti considerata «civile» – che fu combattuta in Italia e tra italiani nel biennio 1943-1945, con strascichi anche
negli anni immediatamente successivi. D’altra parte, per tornare alla politica internazionale contemporanea, nel dopoguerra molti tra gli avversari di Israele hanno rimarcato come alcune delle
figure politiche più famose nella storia di quel Paese, fieri avversari del terrorismo palestinese ed
arabo, non avessero rinunziato ad utilizzare metodi di lotta aventi natura chiaramente terroristica,
quando si trattò di combattere contro le truppe britanniche che esercitavano il mandato sui territori della Palestina al fine della creazione di uno Stato indipendente e sovrano.
Inutile dire che queste e altre simili argomentazioni colgono un elemento di verità di per sé sin
troppo evidente. Che le rappresentazioni a fini politici e storici del Brigantaggio, dell’azione armata
dei coloni ebrei in Palestina o della Resistenza italiana nella seconda guerra mondiale sarebbero
state diverse e diametralmente opposte se in ciascuno di quei confronti armati, per ipotesi, avessero prevalso rispettivamente i borbonici, o le truppe britanniche e gli arabi, o infine le forze naziste e della Repubblica Sociale, è niente altro che una banale tautologia. E tuttavia, sposare appie-
no l’argomento relativista a nostro avviso presenta costi inaccettabili: in primo luogo perché rischia di aumentare la già forte confusione terminologica che abbiamo rilevato in partenza, non
consentendoci di distinguere tra i – e formulare giudizi fondati sulla natura politico-militare dei –
fenomeni qui considerati; inoltre, cosa ancor più grave, finisce col non consentire la formulazione
di un qualsivoglia giudizio di natura etica rispetto a diverse forme e modalità di combattimento.
Nella prospettiva della politica interna la mancanza di consenso sulle definizioni da cui abbiamo
preso le mosse trova naturalmente una sua forte ragion d’essere. Per l’attuale governo italiano
(ma è assai dubbio che la situazione sarebbe sostanzialmente diversa in presenza di un governo
sostenuto da una diversa maggioranza parlamentare), per i partiti che lo sostengono in parlamento, gli opinionisti e i mezzi d’informazione che ne condividono le linee fondamentali di politica estera, sostenere una missione militare dalle caratteristiche e delle dimensioni di quella a tutt’oggi
presente in Afghanistan è compito arduo. A fronte di interessi nazionali non sempre definiti e dichiarabili, di un’opinione pubblica quanto meno diffidente verso ogni impiego delle Forze Armate
fuori dai confini nazionali – in particolare se in teatri di conflitto violento –, quest’azione di politica
estera richiede, o per meglio dire impone, la ricerca costante del consenso; non soltanto – e oggi
in Italia non tanto – nelle aule parlamentari, quanto piuttosto presso l’opinione pubblica e chi
quest’ultima condiziona ed orienta: il sistema dei media, alcune élites politiche ed intellettuali e
via discorrendo. Nell’Occidente sviluppato la guerra oggi è impopolare pressoché ovunque, massimamente – e per qualche buona ragione storica – lo è nei Paesi dell’Europa occidentale; non così
le operazioni, sebbene armate, per «il mantenimento della pace e della sicurezza» (peace-keeping,
peace-building), o quelle dirette al «consolidamento dei regimi democratici», se del caso istituiti a
seguito di un intervento armato esterno, e per la tutela dei diritti fondamentali dell’essere umano.
Particolarmente popolari, poi, restano come noto gli «interventi umanitari» in ogni loro forma;
tanto che nel 1999 si ritenne opportuno coniare l’ossimoro della «guerra umanitaria» per giustificare il ricorso alla violenza da parte della NATO contro la Serbia per la “liberazione” del Kosovo.
Essendo questo lo stato delle cose, vi è forse da stupirsi se quando qualcuno colpisce chi, sulla
carta, sta solo aiutando le popolazioni locali, ricostruendo e democratizzando il paese, ristabilendo
condizioni di sicurezza e pace, quell’azione sarà definita quantomeno attacco terroristico, deprecandone già con la scelta del termine modalità ed effetti? Con ciò non si vuol sostenere – vale forse la pena sottolinearlo – che le missioni militari all’estero condotte da un Paese quale l’Italia non
perseguano anche, per volontà politica, opportunità operativa – la necessità cioè di conquistare «i
cuori e le menti» delle popolazioni locali e meglio tutelare le proprie truppe rispetto a possibili attacchi – ed eventualmente per l’iniziativa e la sensibilità degli uomini presenti sul campo, finalità
propriamente riconducibili a quelle che sono o dovrebbero essere tipiche di un intervento umanitario. Il punto è che, come insegnano tutti gli interventi militari italiani all’estero condotti sotto varia bandiera nel quadro di operazioni multinazionali, a partire dalle due missioni in Libano del
1981-1983 per giungere a tutte quelle ancora in corso, qualsiasi intervento esterno in una situazione di conflitto che miri de facto a consolidare l’autorità locale di governo, eventualmente insediata e di certo sostenuta dall’intervento stesso – tramite il presidio e il controllo del territorio,
l’addestramento delle forze militari e di polizia, il disarmo di fazioni combattenti e ogni altra iniziativa del genere –, non può non scatenare la reazione violenta delle forze il cui obbiettivo politico
sia di prevenire e/o impedire il consolidamento di tale autorità di governo. Ciò anche a voler prescindere dalla volontà delle diverse componenti nazionali della forza di intervento. Osservazione,
questa, che tra l’altro consente di comprendere le ragioni di tanti equivoci che puntualmente si ripetono, nella rappresentazione offerta dai media come nella percezione dell’opinione pubblica,
ogniqualvolta le forze nazionali si trovano coinvolte in scontri armati aventi natura propriamente
bellica.
Conseguenza ultima dell’insieme delle osservazioni sin qui fatte è l’almeno apparente paradosso per cui, spesso, la definizione stessa della natura delle azioni violente in cui si sostanzia un dato
conflitto finisce col non dipendere dalle caratteristiche del combattente, ovvero dalle modalità
dell’azione che egli mette in atto sul campo, bensì varia al variare della collocazione politica e culturale del responsabile decisionale, commentatore, analista o semplice spettatore esterno di quel
conflitto. Così, sempre per rimanere al caso italiano, colui che è inequivocabilmente terrorista
nell’ottica dei responsabili di governo, della maggioranza che lo sostiene, o di certi pubblicisti, può
divenire guerrigliero, o partigiano, nella percezione di quella parte della classe politica e
dell’opinione pubblica che non si identifica con le linee guida della politica estera e di sicurezza,
nazionale o internazionale, di quel governo e di quella maggioranza. Ancora una volta, in definitiva, parrebbe imporsi la necessità di una lettura in chiave in buona sostanza relativistica dei fenomeni cui facciamo riferimento. Ma davvero non c’è spazio per un’analisi diversa che intenda sfuggire questo genere di impostazione?
Come dobbiamo considerare, in definitiva, tornando ad uno degli esempi cui facevamo cenno in
precedenza, coloro che in Afghanistan si contrappongono con la violenza alle forze d’intervento
straniere, come a quelle di sicurezza nazionali? Come possiamo distinguere, tra di esse, i terroristi
da altre figure di combattente, ammesso queste ultime siano presenti? Chi è il terrorista e cosa
consente di definirlo tale? Cosa è il «terrorismo internazionale» e come si distingue da quello tradizionalmente inteso? Quali sono, infine, i caratteri della «guerra al terrorismo». L’obbiettivo della
parte restante di questo breve contributo non è certamente quella di dare risposte esaustive a
questi e ad altri simili interrogativi che potrebbero essere avanzati, quanto piuttosto di individuare
alcuni elementi utili a porre almeno un principio d’ordine nella discussione.
2. Partigiano, guerrigliero, terrorista: una questione di definizioni
Per tentare di fare un po’ di chiarezza terminologica vale la pena approfondire le diverse definizioni di ciascuna delle figure di combattente sin qui richiamate. Partigiano, come espressamente
rivela il termine, rinvia alla «parte»: il partigiano si batte per la difesa ad oltranza degli interessi di
un partito, di una fazione, coalizione, etnia, o nazione. Il concetto tradizionalmente indica una figura di combattente irregolare, cioè non inquadrato nelle Forze Armate di un particolare Stato,
che tuttavia si confronta sul campo con unità militari regolari, solitamente ben equipaggiate ed
addestrate, e che proprio in virtù di ciò, ovvero per bilanciare una situazione strutturalmente squilibrata a suo svantaggio, fa ricorso a specifici mezzi, tecniche e tattiche di combattimento, ricomprese nella categoria della guerriglia. Il termine «guerrigliero» rinvia perciò ad una specifica modalità di combattimento: la «piccola guerra», termine con cui gli spagnoli indicarono l’ostinata e
spesso feroce resistenza opposta all’occupazione del proprio Paese da parte delle truppe napoleoniche. Partigiano è invece il combattente che appartiene a formazioni armate irregolari, le quali
conducono azioni di guerriglia sul proprio territorio invaso da forze armate nemiche.
Nella definizione appena introdotta tre sono gli elementi su cui occorre focalizzare l’attenzione.
In primo luogo, il fatto che il partigiano sia un irregolare. Egli si pone oltre, infatti, alle distinzioni
classiche vigenti in materia di guerra e disciplina della medesima, ad iniziare dalla distinzione tra
civili e militari finalizzata ad impedire il coinvolgimento dei primi nelle azioni belliche. Essere un irregolare significa non indossare una divisa, né essere inquadrato in una formazione militare permanente espressione di uno Stato; l’irregolare è di fatto espressione della – ed indistinguibile dalla
– società cui appartiene. Cosa che, tra l’altro, costituisce il suo peculiare punto di forza, perfettamente espresso dalla sin troppo nota metafora maoista del «pesce nell’acqua». Il partigiano deve
tuttavia affrontare forze regolari, manifestazione della potenza bellica dello Stato; sebbene non sia
affatto escluso il confronto con altri irregolari, magari reclutati proprio al fine di affrontarlo sul piano a lui più congeniale nel tentativo di privarlo del vantaggio strutturale appena evidenziato. È
proprio la potenza militare dell’avversario ad imporre la scelta del metodo di combattimento proprio della guerra partigiana.
A quest’ultimo rinvia il secondo elemento di rilievo nella definizione sopra introdotta: la guerriglia di necessità privilegia l’«approccio indiretto» all’avversario, il fattore sorpresa, dunque la rapidità dell’azione e il mantenimento della segretezza su tutti i preparativi che la precedono, nonché
la preventiva selezione dei punti vulnerabili della controparte su cui concentrare le forze per
l’attacco. Guerriglia è la modalità di combattimento – più propriamente dovremmo dire il «modello strategico», ovvero un particolare modo di collegare i mezzi disponibili ai fini perseguiti – cui il
partigiano usualmente fa ricorso al fine di massimizzare i propri fattori di potenza (in primis il rapporto organico con la società civile) e raggiungere i propri obbiettivi. Il partigiano è perciò per definizione un guerrigliero, mentre non è necessariamente vero il contrario. Allo stesso modo il partigiano può avvalersi di una diversa modalità d’impiego della violenza, quella terroristica; cosa che
di nuovo non implica, come ci pare evidente, che il terrorista sia comunque anche un combattente
partigiano.
Chiarire, allora, chi davvero sia il partigiano significa far riferimento al terzo ed ultimo degli elementi prima evidenziati. Questa figura di combattente originariamente era caratterizzata dal fatto di battersi per la difesa di un territorio, il proprio, invaso da truppe nemiche, facendo comunemente ricorso a tal fine ad azioni di guerriglia, se del caso aventi natura terroristica.
E veniamo finalmente proprio al termine terrorista, divenuto così tragicamente popolare nel
lessico politico e militare degli ultimi anni, sebbene sarebbe invero più corretto parlare di decenni.
Come nel caso del guerrigliero anche la definizione di terrorista, è evidente e lo abbiamo già accennato, rinvia ad un modo di esercizio della violenza, è cioè mezzo rispetto ad un fine: terrorista è
chi mette in essere atti di terrorismo, diretti cioè ad ingenerare paura e terrore nell’avversario.
Questi atti sono caratterizzati dal fatto che l’effetto psicologico che s’intende ottenere per loro
tramite è decisamente più che proporzionale rispetto alla violenza fisica effettivamente esercitata.
Non vi è differenza, dunque, tra i massicci bombardamenti alleati contro le città tedesche o giapponesi condotti nell’ultima guerra mondiale e altri atti cui più comunemente attribuiamo la qualifica di terroristi1.
Da sempre la violenza armata posta al servizio dei fini dell’unità politica può essere impiegata
secondo due modalità radicalmente diverse: per sconfiggere sul campo le forze dell’avversario, affrontandolo apertamente, faccia a faccia – secondo il modello classico del duello, o della «monomachia» –; oppure per colpirlo nelle sue componenti più indifese e sensibili, nella maniera per lui
più dolorosa e meno accettabile, cioè per punirlo e ferirlo, così da farne crollare la resistenza psicologica, la tenuta morale, senza peraltro doverlo preventivamente e necessariamente battere sul
campo di battaglia comunque definito2. Collocare una carica esplosiva in una banca, in una discoteca, in un supermercato o in una sala d’attesa ferroviaria, o ancora su di un aereo o un treno, magari programmandone la deflagrazione quando quei luoghi saranno più affollati e quei mezzi di
trasporto più vulnerabili (in aria, in galleria), sono altrettanti e non ipotetici esempi della seconda
modalità d’esercizio della violenza. Essi valgono più di qualsiasi ulteriore spiegazione ad illustrare
cosa significhi, nella pratica, colpire l’avversario nelle sue componenti più vulnerabili e sensibili, al
fine di scatenare una forte reazione emotiva nell’opinione pubblica.
Il terrorista, in definitiva, decide di far ricorso a quegli strumenti e di colpire quegli obbiettivi
che, in virtù delle loro caratteristiche precipue, più di altri generano paura nell’avversario. Anche il
1
2
Si veda R. Aron, Paix et Guerre entre les Nations, Paris, Calmann-Lévy, 1962, p. 176.
T. C. Schelling, Arms and Influence, New Haven, Yale University Press, 1966, pp. 4-6.
terrorista, come il partigiano, è un combattente irregolare, anche il terrorista evidentemente non
rispetta la distinzione civili-militari – al contrario identifica tra i civili i propri obbiettivi –, anche lui
impiega tattiche tipiche della guerriglia e magari agisce in difesa della propria terra occupata da
forze regolari straniere. La differenza con altre figure di combattente sta nel modo in cui la violenza è utilizzata, negli obbiettivi che vengono selezionati ed attaccati, nella maniera spettacolare, indiscriminata ed efferata con cui quegli obbiettivi sono colpiti. È quando si vogliono produrre effetti
psicologici e comunicativi particolarmente intensi, ovvero quando si ritiene che non restino altre
alternative ritenute praticabili, o altrettanto efficaci, che nella guerra partigiana si può far ricorso,
come spesso è accaduto, a tecniche terroristiche.
Quando si pensa oggi al terrorismo è immediato identificare quest’ultimo con un metodo di
combattimento sviluppatosi negli ultimi decenni del Novecento e tipico di attori sub-statuali, o
transnazionali: movimenti e gruppi politici, fazioni etniche, sette religiose, organizzazioni clandestine dislocate in Paesi diversi. Di fatto, però, il termine entrò nel lessico politico assai prima e per
altra e ben diversa strada. Lo dimostra il lemma terrore del Nuovo vocabolario filosofico - democratico, pubblicato a Venezia nel 1799, che recita testualmente: «vi è il dialetto democratico moderato, il terroristico, o giacobinico». Negli anni in cui in Italia si scatena la reazione anti - giacobina, e non casualmente proprio nella Repubblica Serenissima, quello terroristico – significativamente ritenuto sinonimo o comunque analogo di giacobino – è dunque considerato un «dialetto» della lingua della politica; la quale prevede forme diverse ed antitetiche di espressione, essendo declinabile nella versione democratica, o moderata.
A tutti è noto che la Rivoluzione francese sfociò nel periodo cosiddetto del Terrore, durante il
quale non fu altri che lo Stato, rivoluzionario, ad impiegare in maniera massiccia ed indiscriminata
la violenza contro frange del corpo sociale per scatenare appunto il terrore, sia a fini di politica interna che internazionale. Così fu la conclamata volontà e necessità di difendere il portato
dell’esperienza rivoluzionaria, i valori intangibili della Rivoluzione, a condurre alla repressione feroce – e terroristica – del dissenso nella Vandea ed ovunque fosse necessario agire efficacemente
contro i movimenti contro-rivoluzionari. Allo stesso modo il terrore staliniano fu giustificato in
quanto necessario alla difesa dei valori della Rivoluzione bolscevica e, in un diverso contesto storico e politico, l’impiego di tecniche che pure furono a tutti gli effetti terroristiche da parte delle
truppe dell’Italia appena unita contro i cosiddetti «briganti» meridionali venne presentato dalla
storiografia ufficiale e dalla retorica risorgimentale, opportunamente manipolato ove non completamente occultato, come indispensabile alla difesa del processo di costruzione del nuovo Stato unitario, contro la reazione comunque definita oscurantista e il ribellismo presunto criminale.
Tutto quanto appena detto ci consente di individuare con chiarezza un ulteriore aspetto cruciale dell’azione terroristica: il fatto che l’impiego della violenza a fini politici assume le forme peggiori e più intense ogniqualvolta esso venga posto al servizio, dallo Stato o da qualsiasi altra unità politica, di un’ideale superiore, estremo, di un’idea algida nella sua presunta perfezione teorica, filosofica o politica: la rivoluzione, ad esempio, o la Nazione. Analogo principio vale per ciò che concerne l’evoluzione della figura e del concetto di partigiano, nel periodo compreso tra il XVIII e il XX
secolo.
3. L’evoluzione storica della figura del partigiano
Il fatto che il termine partigiano sia stato impiegato per indicare gli appartenenti ai diversi movimenti resistenziali sviluppatisi in Europa contro i regimi nazista e fascista, in particolare nei territori occupati dalle forze armate tedesche e italiane, ha fatto si che al termine della seconda guerra
mondiale il concetto abbia definitivamente assunto e consolidato quella che è la sua attuale, forte
connotazione positiva. La natura dell’avversario, in questo caso, è valsa di per sé a giustificare il
giudizio etico e politico su ogni forma di guerra irregolare messa in atto al fine di combattere
quell’avversario, nonché la sostanziale equivalenza stabilita tra partigiano e combattente per
l’indipendenza nazionale, o addirittura per la libertà. Questo a prescindere dall’analisi caso per caso, ovvero in ciascun contesto nazionale o locale e in riferimento ad ognuna delle formazioni combattenti coinvolte, di quelli che furono gli obbiettivi reali della lotta partigiana; nonché, cosa ancor
più rilevante sotto il profilo etico, delle specifiche modalità di comportamento e combattimento
impiegate dalle formazioni partigiane. Tutto ciò ha prodotto effetti persino paradossali. Riesce difficile, infatti, considerare a pieno titolo combattenti per la libertà i membri di formazioni partigiane per i quali, come mostra l’evidenza storica, la guerra contro il Nazi-fascismo e le truppe occupanti era soltanto premessa ad una diversa e più decisiva guerra: la rivoluzione interna finalizzata
all’instaurazione di regimi certamente non ispirati ai principii del liberalismo e della democrazia.
Fu Carl Schmitt, in un celebre volumetto intitolato Teoria del partigiano3, ad individuare nella
difesa del territorio, dunque nel radicamento alla terra, ovvero nel carattere propriamente «tellurico», l’elemento che più di ogni altro consente di comprendere la natura ultima del partigiano
come originariamente inteso, quindi del modo di combattere che gli è proprio. È la difesa della
propria terra, della patria, di fronte all’occupante straniero lo scopo che conduce alla guerra partigiana. Patria, dal latino pater, tuttavia non è altro che la terra dei padri; perciò, solo forzando un
poco il pensiero di Schmitt, potremmo anche dire che lo scopo del combattente partigiano non è
soltanto la difesa dell’indipendenza della propria terra, con gli interessi anche personali che sono
ad essa legati, bensì quella dell’insieme dei valori che a quella terra sono riferiti, che in essa si sostanziano.
La premessa era necessaria per lo sviluppo successivo del nostro argomento. È infatti facile notare come nell’esperienza europea la figura del partigiano sia originariamente associata alla già
menzionata reazione anti-giacobina, che fuori dai confini della Francia finisce con l’identificarsi con
la reazione anti-francese, prima, e con quella anti-napoleonica poi, accesasi in regioni diverse del
continente. Per quanto riguarda la prima basti ricordare i Viva Maria che infiammano tutta la penisola italiana sul finire del XVIII secolo; a suo tempo ridotti, sulla scorta di un’affrettata lettura
gramsciana e della vulgata marxista su di essa costruita, a moti popolari scatenati da moventi economici. L’esempio certamente più noto ed eclatante della seconda è rappresentato invece dalla
resistenza messa in atto in Spagna, nel periodo 1808-1813, quando non a caso proprio un termine
in lingua castigliana – «guerrilla» – fu introdotto ed iniziò a diffondersi per indicare i metodi di
combattimento adottati dagli irregolari che combattevano le truppe di occupazione. In quello
stesso periodo l’esperienza feroce della «piccola guerra», immortalata nelle realistiche ed impressionanti incisioni di Goya, si ripeté, sempre a danno dei francesi e dei loro alleati, in Tirolo tra il
1809 e il 1810 (la resistenza capeggiata da Andreas Hofer), durante la campagna di Russia del
1812, infine nel meno noto caso della Calabria, tra il 1806 e il 1811.
In quel momento storico le ragioni che determinarono la resistenza furono più d’una e ovviamente variabili da contesto a contesto. Nuove tasse, requisizioni e saccheggi divennero certamente moventi cruciali. Ma il dileggio nei confronti delle tradizioni – spesso sostenuto e fomentato dalle élites borghesi locali –, in particolare di quelle religiose (è questo il caso dei Viva Maria in Italia),
nonché ciò che potremmo definire l’orgoglio del territorio (il Tirolo), furono scatenanti altrettanto
decisive. Le esperienze spagnola e russa colpirono l’immaginario dell’Europa del primo scorcio del
XIX secolo più di ogni altra, influenzando e turbando la cultura e in particolare la riflessione politi-
3
C. Scmitt, Theorie des Partisanen: Zwischenbemerkung zum Begriff des Politischen, Berlin, Duncker & Humblot, 1963,
trad. It. Teoria del partigiano: integrazione al concetto del politico, Milano, Adelphi, 2005.
co-militare dell’epoca, come testimoniato da alcune celebri pagine dei due fondatori del pensiero
strategico contemporaneo: il prussiano Carl von Clausewitz e lo svizzero Antoine Henri de Jomini.
Né poteva essere diversamente. Le guerre della Rivoluzione e dell’Impero chiudevano infatti,
tanto bruscamente quanto drammaticamente, quello che era stato per antonomasia il secolo della
«guerre en forme», ovvero della guerra condotta entro i limiti e nel rispetto delle regole definite
dalla «repubblica millenaria» degli Stati d’Europa, per riprendere una poco citata definizione di
Clausewitz, a seguito e in conseguenza delle guerre di religione. I conflitti bellici del XVIII secolo
erano infatti combattuti da eserciti regolari, contrapponevano esclusivamente degli Stati, iniziavano e si concludevano con atti aventi natura giuridica, si svolgevano infine nel rispetto di un insieme
di norme dirette ad evitare il coinvolgimento dei civili nel combattimento, assicurando d’altro lato
il rispetto dei militari nemici sul campo di battaglia. La logica della guerra assoluta napoleonica e la
reazione ad essa rappresentata dalla guerrilla spazzarono via tutto ciò. Ma proprio per questo motivo la connotazione originaria del termine partigiano era allora quantomeno ambigua: la connotazione positiva e la legittimità del partigiano appartenente alle milizie territoriali organizzate dal sovrano, ad esempio quelle care alla tradizione prussiana, mobilitate in difesa del territorio invaso
dal nemico, non era ovviamente in discussione. Radicalmente diverso il caso in cui si trattasse di
bande davvero irregolari, costituitesi spontaneamente, in grado di attaccare, colpire nel più inaccettabile dei modi – dunque in maniera propriamente terroristica – e persino distruggere formazioni militari regolari, come era avvenuto in Spagna e Russia.
In ciascuno dei casi menzionati di resistenza anti-napoleonica sarebbe in effetti possibile individuare episodi in cui la resistenza partigiana alle truppe di occupazione si manifestò in azioni aventi
finalità terroristica, scatenando reazioni altrettanto terroristiche. Il combattente irregolare può
trovare opportuno, quando non necessario, ricorrere a tecniche terroristiche poiché è indirizzato a
ciò dalla natura stessa del rapporto ineguale, sbilanciato – oggi si definirebbe «asimmetrico» – che
lo vede contrapposto al suo avversario: da una parte truppe regolari, organizzate, più o meno ben
armate e addestrate, comunque espressione militare di una struttura statuale; dall’altra gruppi di
irregolari armati e addestrati in maniera spesso meno che approssimativa. In queste condizioni, ieri come oggi, i secondi non possono e non debbono, pena la sconfitta certa sul campo, accettare le
condizioni del confronto più favorevoli ai primi. D’altro canto, truppe regolari, colpite nei gangli
più sensibili nella maniera meno militarmente accettabile da un nemico inafferrabile, perché in
pratica non distinguibile dalla popolazione civile, è pressoché inevitabile che reagiscano colpendo
in maniera altrettanto penosa e inaccettabile, alla luce dei criteri tradizionali di proporzionalità,
onore militare e via discorrendo, proprio quella stessa componente civile che – più vulnerabile ed
esposta – è alla loro immediata portata e che inevitabilmente è ritenuta complice del, se non organicamente connessa con, l’avversario.
L’evoluzione radicale della figura del combattente partigiano ha luogo nel passaggio tra XIX e XX
secolo, un momento storico in cui anche la figura del terrorista – si pensi agli attentati degli anarchici contro membri delle famiglie regnanti europee – assume rilievo e significato diverso. Nasce
allora un nuovo partigiano, rispetto al suo precursore del secolo precedente, sia dal punto di vista
dei fini che egli persegue nella lotta, sia dei mezzi impiegati per condurre a termine la medesima. Il
partigiano del Novecento dispone di mezzi sempre più potenti, in virtù dell’avvento dell’età
dell’Industria e dell’incessante sviluppo tecnologico. Ancor più significativa rispetto a quella dei
mezzi è però l’evoluzione dei fini. Il XX secolo è infatti il secolo del «combattente rivoluzionario»,
che potremmo anche definire «partigiano assoluto», o per altri versi «partigiano globale»: colui
che imbraccia le armi non più a difesa della propria terra, delle tradizioni ad essa legate, o degli interessi che direttamente lo riguardano, bensì per il perseguimento di valori tanto estremi quanto
astratti: la giustizia, la libertà, l’uguaglianza, l’umanità; in una parola il «Bene».
È nella lotta di classe che la battaglia per l’affermazione di questi diversi valori trova prima armonizzazione e compimento. Il «combattente rivoluzionario» è il nuovo partigiano, impegnato
nella guerra vera ed ultima, quella che va in scena oltre lo schermo su cui scorrono le immagini
delle false guerre combattute tra Stati borghesi: la guerra tra le classi, appunto, la rivoluzione.
Questa figura e oramai lontana dal combattente «tellurico», non è più legata alla terra, alla patria,
agli interessi locali e personali; semmai è associabile all’acqua e all’aria, poiché si muove liberamente e sempre più rapidamente in uno spazio – ed ovviamente non ci riferiamo solo ed esclusivamente allo spazio fisico – che non presenta più ostacoli di sorta. Il suo campo d’azione – vero teatro bellico – è dunque illimitato, globale. L’obbiettivo ultimo del militante leninista è
l’esportazione della rivoluzione, egli è un combattente internazionalista. Parafrasando Shakespeare potremmo dire che «è il mondo intero [la sua] ribalta».
Per definizione l’avversario di questa nuova figura di partigiano non potrà che essere la personificazione stessa del «Male»; dovrà perciò essere affrontato e trattato come tale. Chi altri se non il
Male potrebbe infatti opporsi alle cause sante della giustizia, della libertà, dell’umanità? E il difensore del male, colui che fa gli interessi del male, non è altri che un volgare «mal-fattore», un «malvivente», in altri termini un criminale a tutti gli effetti, degno di essere perseguito. Una volta individuati fini assoluti quali obbiettivi dello scontro, la natura di tali fini non potrà che legittimare i
mezzi cui si farà ricorso per conseguirli: l’“inveramento” finale del Bene non giustifica forse qualsiasi sacrificio, qualsiasi azione, anche riprovevole in sé? Di qui i sempre rinnovati appelli a guardare
agli atti di violenza, anche a quelli che assumono carattere terroristico, situandoli nell’appropriato
«contesto» storico e culturale. Quante volte, nel recente passato, abbiamo sentito invocare un simile argomento, quando si è trattato di affrontare il tema del terrorismo interno che ha a lungo
interessato il nostro Paese. Nella prospettiva richiamata la guerra è «giusta» se e quando è giusta
la causa per cui è combattuta, a prescindere dai tradizionali criteri, fossero essi di ordine logico,
giuridico o etico, che consentivano di operare una distinzione tra i conflitti bellici, discriminando
tra diverse modalità d’impiego della violenza.
Per meglio chiarire il significato dell’evoluzione della figura del partigiano, da « partigiano tellurico» a «combattente rivoluzionario» e «partigiano globale», con le implicazioni che ne seguono, è
utile prendere in esame quanto accadde in Italia al termine della seconda guerra mondiale, nel biennio 1943-1945. Nella vulgata corrente e nella retorica politica della cosiddetta prima Repubblica
i partigiani che combatterono contro le forze naziste di occupazione e le truppe della Repubblica
Sociale sono di solito rappresentati come combattenti per la libertà e l’indipendenza d’Italia. In
certo senso, dunque, si dà di loro una rappresentazione tradizionale, classica, come fossero appunto partigiani tellurici, attaccati alla terra, alla Patria e ai valori che le sono propri. Ciò è probabilmente vero nel caso di alcune delle formazioni partigiane che furono attive sul teatro italiano
nel periodo considerato; ad esempio quelle che, operando lungo il confine orientale del Paese, si
adoperarono affinché esso fosse per quanto possibile difeso rispetto alle mire espansioniste dei
partigiani jugoslavi. La stessa maniera retorica di rappresentare il partigiano finisce invece con
l’apparire ingiustificata, se non grottesca, quando si considerino tante altre unità combattenti, apparentemente del tutto simili alle prime, il cui scopo dichiarato e oggi sufficientemente ben documentato era quello di sfruttare la guerra contro il nazi-fascismo come necessaria premessa militare della rivoluzione interna, a sua volta parte di un più globale rivolgimento politico. Unità di
quest’ultimo genere, come noto, si comportarono nell’area geografica sopra citata in maniera radicalmente diversa da quelle appena sopra considerate, non solo non contrastando le attività dei
corpi combattenti jugoslavi sul territorio nazionale, ma al contrario spesso collaborando attivamente al conseguimento degli obbiettivi, politici e territoriali, di questi ultimi in nome dei superiori valori dell’internazionalismo.
4. Il «terrorismo internazionale» e la guerra al terrorismo
Aver concesso tanto spazio alla definizione delle caratteristiche proprie del genere di combattente partigiano, quello rivoluzionario, che si afferma nei conflitti violenti del Novecento aveva lo
scopo di consentirci di meglio inquadrare la natura del terrorista contemporaneo, visto che tra le
due figure, pur scontate le innegabili differenze, esiste a nostro avviso un’evidente linea di continuità. Iniziamo col dire che anche il terrorista contemporaneo, come del resto già accennato, può
agire in nome degli ideali della terra, in difesa degli interessi del proprio gruppo di riferimento. Si
pensi a tal proposito ai movimenti terroristici di natura etno-nazionale sviluppatisi in Europa occidentale nel secondo dopoguerra: nel Paese Basco, in Irlanda del Nord, in Corsica. Vero è che in alcuni di questi casi, in particolare il primo e l’ultimo, quei movimenti indipendentisti rivendicavano
una connotazione politica di matrice marxista; tuttavia, ciò detto, il loro radicamento nel territorio
resta innegabile. Ammesso e non concesso che sia sempre possibile tracciare una linea di distinzione netta tra terrorista e partigiano-guerrigliero tellurico tradizionalmente inteso essa sarà data,
lo ripetiamo, solo dal metodo di lotta impiegato. È il primo, infatti, che fa normalmente ricorso alla
violenza indiscriminata contro le componenti meno difendibili e più sensibili dell’avversario, così
da produrre il massimo dell’impatto psicologico ed emotivo, e di conseguenza incidere sulla sua
determinazione a resistere ed a continuare a combattere.
Il terrorista globale contemporaneo si batte nel nome di valori assoluti, non diversamente dal
combattente rivoluzionario degli anni della guerra fredda. L’affermazione del «vero Dio» e della
«vera fede» ha soppiantato libertà, giustizia, uguaglianza, rivoluzione, quale fine ultimo del confronto violento. Eppure l’espressione stessa «terrorismo internazionale» parrebbe diretta ad evidenziare la differenza tra questa più recente manifestazione del fenomeno ed i suoi più immediati
precursori storici: ad esempio il terrorismo politico interno sviluppatosi in alcuni Paesi dell’Europa
occidentale, tra cui l’Italia, negli anni Settanta ed Ottanta del secolo passato.
La maggiore o minore caratterizzazione in senso internazionale di un movimento terrorista evidentemente dipenderà dalla quantità e qualità delle relazioni di varia natura – operative, logistiche, economiche – con analoghi movimenti, o comunque basi di sostegno logistico, o centri di addestramento, operativi e direttivi, situati fuori del proprio territorio nazionale. Se tuttavia ciò è vero ne segue, a ben vedere, che i fenomeni terroristici “interni” cui facevamo riferimento erano
tutt’altro che tali. Come sarebbe anche solo pensabile, infatti, affrontare a fini analitici il terrorismo italiano, o quello tedesco, degli anni Settanta ed Ottanta senza inquadrare il fenomeno entro
il contesto politico e militare della guerra fredda, cioè come parte del confronto complessivo tra le
due superpotenze e da quest’ultimo condizionato? Il sistema bipolare, in definitiva, era già un sistema internazionale altrettanto se non più globalizzato, in particolare dal punto di vista della sicurezza, di quello che lo ha sostituito. Il grado di internazionalizzazione del terrorismo politico, come
sopra definito, era già intenso. Cosa è cambiato da allora?
Abbiamo già detto del mutamento intervenuto rispetto ai fini – sebbene non all’intensità dei
medesimi – dell’azione terrorista nel corso degli ultimi due decenni: il Bene di riferimento adesso è
davvero quello supremo ed ultimo. All’illimitatezza dei fini corrisponde quella dei mezzi messi al
loro servizio dall’evoluzione tecnologica, dalla semplificazione e disseminazione delle tecnologie di
distruzione, anche di quelle di distruzione di massa. Esiterebbe un movimento terrorista del genere che abbiamo imparato a conoscere nel post 11 settembre a ricorrere ad armi di tal genere –
chimiche, batteriologiche o nucleari –, posto fosse in grado di procurarsele, pur di raggiungere i
propri obbiettivi? Una delle caratteristiche più eclatanti e di maggior impatto psicologico del terrorismo contemporaneo è data dopotutto dagli attacchi suicidi. Ha scritto a questo proposito Jean
Baudrillard: «I terroristi sono riusciti a fare della loro stessa morte un’arma assoluta contro un sistema che vive dell’esclusione della morte, che ha eretto a ideale l’azzeramento della morte, lo ze-
ro-morte»4. Gli attacchi suicidi tuttavia, è il caso di ricordarlo, quando hanno luogo in teatri di conflitto armato trovano il loro principale movente nella volontà di porre termine all’occupazione
straniera del proprio Paese o territorio5. Un movente, come si vede, in fin dei conti antico, di natura niente affatto ideologica o religiosa.
Con il terrorismo qualificato come internazionale giungiamo alla completa «deterritorializzazione» del confronto6; anche sotto quest’ultimo profilo, come nelle modalità di organizzazione ed azione che gli sono proprie, il fenomeno rispecchia le caratteristiche della società internazionale contemporanea, né del resto potrebbe essere diversamente. Più volte è stato osservato in proposito che Al Qaeda – la «rete delle reti» – mette in pratica una sorta di franchising del
terrore: il nome, ovvero il marchio, è ciò che davvero conta ed esso può essere acquisito e speso
da gruppi diversi, in aree a volte distanti migliaia di chilometri, ma collegati o facilmente collegabili
in rete, al fine di rendere immediatamente riconoscibili le loro azioni, ottenendo così il massimo
effetto mediatico ed intimidatorio.
Se caratteristica del terrorismo internazionale è quella della sua tendenziale illimitatezza – nei
fini, nei mezzi, ma anche nello spazio coperto dall’azione e nel tempo in cui essa si svolge e deve
produrre i propri effetti – non vi è certamente da stupirsi nel constatare che anche la cosiddetta
«guerra al terrorismo» rispecchia le medesime caratteristiche. Non a caso fu lo stesso presidente
George Bush a definirla globale e «infinita». Ma qui emerge il problema fondamentale per questo
genere di lotta, in particolare quando praticata da un attore statale che si avvale delle tecnostrutture tradizionali che presiedono all’organizzazione e all’impiego della forza. Dire infatti «guerra al
terrorismo» dà il senso intero dell’indeterminatezza e della difficoltà del compito.
Il terrorismo, e alla luce di quanto sin qui detto dovrebbe oramai apparire sin troppo evidente,
non è altro che un metodo di lotta, una modalità d’impiego della violenza indirizzata al conseguimento di determinati obbiettivi. Stando così le cose, appare chiaro che nell’ottica strategica non
ha alcun senso parlare di guerra ad un metodo di combattimento. Vero è che l’impiego di quella
formula linguistica ha una valenza politica e comunicativa forte, in particolare in un regime democratico. Allo stesso modo durante la seconda guerra mondiale il conflitto fu infatti presentato da
parte degli Alleati, ci riferiamo in particolare agli anglosassoni, come guerra al Nazismo e al Fascismo, dunque, ancora una volta, in termini di lotta senza quartiere tra il bene e il male, in quel caso
rappresentato dalle due ideologie totalitarie. Le democrazie hanno sempre necessità di coalizzare
e conservare il consenso, qualora intendano condurre in porto una guerra, e far ricorso a tal fine
all’argomento del confronto tra bene e male – anziché a più tradizionali motivazioni d’ordine geopolitico o economico – è strategia comunicativa che si è rivelata assai efficace.
Nel caso della seconda guerra mondiale, tuttavia, la formula fu tradotta nella definizione di teatri operativi privilegiati per l’azione, nell’individuazione di obbiettivi militari da conseguire, perciò
di specifici bersagli da colpire, inabilitare o distruggere. La distruzione dei quali si riteneva essere
funzionale – e in molti casi lo fu – rispetto al disegno complessivo della strategia bellica adottata,
ovvero a mettere l’avversario nelle condizioni di non proseguire oltre nel combattimento, forzandolo clausewitzianamente ad accettare la resa e la successiva imposizione della volontà dei vincitori. Ma se ciò fu possibile e produsse il risultato atteso lo si deve in larga misura al fatto che allora
il nemico era ancora uno Stato, anzi una tradizionale alleanza tra Stati. Oggi, al contrario,
l’avversario presenta quelle caratteristiche di fluidità, indeterminatezza, diffusione nello spazio –
4
J. Baudrillard, L’esprit du terrorisme, Paris, Galilée, 2002, trad. it. Lo spirito del terrorismo, Milano, Raffaello Cortina,
2002, pp. 22-23.
5
Si veda R. Pape, Dying to Win: The Strategic Logic of Suicide Terrorism, New York, Random House, 2005, trad. it. Morire per vincere: la logica strategica del terrorismo suicida, Bologna, il Ponte, 2007, in particolare le pp. 295-309.
6
A. de Benoist, Global terrorism and the state of permanent exception: the significance of Carl Schmitt’s thought today, in L. Odysseos e F. Petito (a cura di), The International Political Thought of Carl Schmitt: Terror, liberal war and the
crisis of global order, London, New York, Routledge, 2007, p. 77.
non solo geograficamente inteso –, dissimulazione entro la componente civile, organizzazione a
rete anziché gerarchica, che abbiamo cercato rapidamente di illustrare e che rendono tanto difficile quanto costoso, soprattutto in termini di possibili ricadute negative d’immagine presso
l’opinione pubblica interna ed internazionale, attaccarlo e colpirlo con efficacia ricorrendo a strumenti militari – e non solo – tradizionali, adatti cioè al confronto tra Stati sovrani.
5. Conclusioni: il quadrilatero del terrorismo
L’azione terroristica si differenzia da altre forme d’impiego della violenza a fini politici non solo
in riferimento al tipo di obbiettivo prescelto e al modo di esercizio della violenza stessa. In
un’azione militare di tipo tradizionale l’agente individua e colpisce un determinato bersaglio sul
teatro delle operazioni – è questo il fine nella guerra – allo scopo di consentire, tramite quella ed
altre azioni simili, il raggiungimento dell’obbiettivo ultimo per cui la guerra è combattuta – il fine
della guerra, che è poi quello politico. Il gioco del terrorismo oggi è un gioco più complesso, a
quattro componenti: il terrorista, le vittime, il sistema dei media, infine i poteri costituiti7.
Bersaglio immediato, evidente, delle azioni di questo tipo sono quelle componenti particolarmente sensibili del contesto sociale – le vittime – cui più volte abbiamo fatto riferimento. Al contrario di quanto avviene in altre forme di azione militare questo, però, non è altro che il primo passaggio, un obbiettivo intermedio lungo il percorso che dovrebbe condurre al raggiungimento del
fine ultimo dell’azione. Le vittime sono colpite facendo affidamento sull’effetto psicologico più che
proporzionale, rispetto al livello effettivo di violenza impiegata, che il gesto provocherà, in virtù
della specifica natura del bersaglio come delle particolari modalità dell’attacco. Tramite
quest’effetto ciò che veramente s’intende raggiungere e colpire, ma in una diversa accezione del
termine, è il sistema dei media: l’atto mira cioè a produrre il massimo impatto comunicativo, sfruttando il rilancio che ne faranno i diversi media, che ne enfatizza ulteriormente la portata, e le successive ricadute sull’opinione pubblica. Dopo le vittime, e più di esse, il secondo bersaglio è rappresentato in definitiva proprio dall’opinione pubblica, che tuttavia non è il destinatario ultimo
dell’azione. L’effetto emotivo enfatizzato dalla rappresentazione mediatica e la mobilitazione
dell’opinione pubblica che ne risulterà sono infatti indirizzati ad esercitare una pressione tale sul
sistema politico da condizionarne le decisioni in maniera conforme ai desideri di chi ha messo in
atto l’evento terroristico. È questo, dunque, l’obbiettivo ultimo e vero.
Qui giunti possiamo forse tentare di trarre una qualche conclusione rispetto agli interrogativi
posti in apertura. Coloro che si oppongono alle forze straniere oggi presenti in Afghanistan a presidio del territorio non sono riconducibili ad un’unica categoria o figura di combattente. In un teatro operativo estremamente complesso come è quello, dal punto di vista sia geopolitico che culturale, le motivazioni della reazione armata alla presenza di truppe straniere sono varie, come diverse sono le modalità di combattimento a tal fine utilizzate. Il «partigiano tellurico», che prende le
armi in difesa della propria terra e degli interessi materiali ed immateriali ad essa legati, si mescola
e si confonde con quello «globale»; il guerrigliero agisce a fianco del terrorista e i rispettivi ruoli,
come spesso avviene in questo genere di conflitti armati, sono perfettamente interscambiabili; a
completare il quadro già complesso si aggiungono le bande dei signori della guerra locali, mossi da
interessi niente altro che criminali. Cosa ciò implichi rispetto alle difficoltà presenti, e ai tempi e
modi in cui sarà possibile portare a conclusione quel conflitto, nonché alle possibili conseguenze
del medesimo, non occorre aggiungerlo.
7
A. de Benoist, op. cit., pp. 83-85.
Certo è, per citare solo un esempio eclatante, che l’impiego in Iraq ed Afghanistan dell’arma
che sino ad oggi è risultata la più efficace contro le truppe straniere e di conseguenza temuta – i
cosiddetti «ordigni esplosivi improvvisati» (IED) –, non è un atto terroristico in senso stretto e coloro che impiegano quegli ordigni non sono terroristi, visto che il loro obbiettivo sono colonne militari nemiche entro un teatro di guerra. Del pari i militari colpiti da quelle azioni non sono vittime
del terrorismo internazionale. Equivoci, apparenti, di questo genere sono soltanto la conseguenza
del fatto che in Occidente non è più possibile chiamare le cose con il loro nome: la guerra resta
guerra. Semmai è vero che il fine ultimo di simili attacchi non è l’eventuale vantaggio che possono
assicurare sul campo, non è cioè militare; obbiettivo vero ed ultimo è piuttosto l’impatto che essi
possono provocare, tramite il rilancio assicurato sistema oramai globalizzato dei media, sulle opinioni pubbliche dei Paesi i cui militari risultino colpiti, feriti o uccisi. Far fronte a questo genere
particolare ed assai efficace di minaccia è tuttavia compito che ci pare essere assai fuori della portata della guerra al terrorismo come sin qui praticata.
Relazione tenuta il 21 gennaio 2010
*
Luciano Bozzo è Professore Associato presso la Facoltà di Scienze Politiche «Cesare Alfieri» dell'Università di Firenze, dove tiene gli insegnamenti di Relazioni
internazionali, Strategie comunicative e Teorie della politica internazionale, nei
corsi di laurea triennali e specialistici. Nel 1990 è stato Fellow del Dipartimento
per gli Affari del Disarmo dell'Organizzazione delle Nazioni Unite e nell'anno accademico 1995/96 Visiting Professor nell'Università Autonoma di Barcellona e in
quella di Leiden, Olanda. È Direttore del Master dell'Aeronautica Militare presso
la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Firenze e Direttore del Centro
universitario di Studi Strategici e Internazionali della medesima Università.