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SOMMARIO INTRODUZIONE_3 Design, quasi una pietra filosofale di Carlo Olmo Questioni di approccio di Luigi Bistagnino TRA FORMAZIONE E PROFESSIONE _9 Adolfo Guzzini: formazione e professione del Made in Italy I discepoli di Norbert Wiener Alla ricerca di capitale umano Come tutelare il design? Pubblicando su internet Il regolamento Brevetti, istruzioni per l’uso La rivoluzione Pauli Gunter Pauli Obiettivo: Zero Scarti Tunnel e strade high-tech per una nuova cultura della sicurezza Architetto Associato per antonomasia Vico Magistretti: «Come nasce un buon design? Al telefono» Patricia Urquiola: «i premi sono segnali, perché non farne di più?» Cini Boeri. Architettura degli interni, arte dello spazio Video-installazioni trasversali Studio Azzurro Noorda, una leggenda metropolitana Giovanni Sacchi il genio della terza dimensione, rigorosamente in legno Ha lavorato con i più grandi: da Nizzoli a Piano Polo ingegneristico Pininfarina I LUOGHI DELLA PROMOZIONE_47 L’Ice tra Italian Creativity e allarme tagli A Omote-Sando Vuitton, Prada & C. Milano e il Salone: tre domande a Fulvio Irace Per Philippe Daverio a Rho-Pero sarà il suicidio del Salone Prima New York e Mosca, poi Rho-Pero 1 LE AZIENDE DELLA PRODUZIONE E DISTRIBUZIONE: ALCUNI CASE-STUDIES_54 Villaggi per costruttori di Ferrari Caso Basicnet: intervista al chiarman Marco Boglione Alessi, una macchina da 90 milioni di euro l’anno Metro, il giornale globale Al Virtual Reality & MultiMedia Park: effetti speciali, non solo narrazione I numeri di VR&MM Park La diffusione del mercato del design oltre oceano: Rob Forbes Design Within Reach La sfida di Vergnano: caffè, cinema e architettura LE RECENSIONI_72 Tracce di comunità in Triennale Foto on the road, perfino troppo belle Franco Fontana Cinquant’anni di lampade italiane Il design delle lampade anomale Livio e Piero: architetti-scintilla L’Italia s’è Vespa Mollino e 12 designer interpretano il vernacolare Tutta la pubblicità è paese 2 Introduzione Questo libro raccoglie una selezione di articoli, sul tema design nella sua accezione più ampia, apparsi nelle pagine del Giornale dell’Architettura dal 2002 al 2005. Il Giornale dell’Architettura, edito dalla Casa Editrice Umberto Allemandi & C., è un medium, un prodotto editoriale a larga diffusione, afferente all’industria, e per questo culturalmente vicino ad un prodotto di design, in cui vengono veicolati fattori simbolici, antropologici, sociali, culturali, ecologici oltre che economici e tecnologici. Un prodotto di comunicazione maturo in formato tabloid, capace di restituire i fatti legati al mondo dell’architettura, del disegno industriale, della città. Un giornale, non una rivista patinata, nonostante spesso nell’ambito del design e dell’architettura si privilegino modelli comunicazionali rassicuranti in cui sono le immagini ad avere un maggior peso nella progettazione di una pagina, sia essa di un giornale, di un di una rivista, di un libro. Un giornale in controtendenza in grado di fornire notizie a un tipo di lettore need to know piuttosto che nice to know: un mensile agile di informazione e attualità, uno strumento utile per la professione capace di agire come un sismografo per intercettare le discussioni, le idiosincrasie, le tendenze, gli umori, o semplicemente commentare quanto accade intorno a noi. Gli scritti qui pubblicati, pur non aspirando a fornire una visione organica sulla complessità del design contemporaneo, compongono un puzzle utile per investigare i temi più ricorrenti nel mondo della formazione e della professione del disegno industriale: dagli aspetti legislativi all’offerta formativa delle università e degli istituti privati, dal punto di vista dei produttori a quello dei promotori, dalle interviste a personaggi di spicco del progetto alle recensioni di mostre e libri fino agli approfondimenti sulle culture della tecnica, degli archivi delle imprese, dei nuovi materiali. Infatti, con questa raccolta non si intende fissare gerarchie all’interno di un fenomeno che presenta confini continuamente in movimento, quanto piuttosto offrire alcuni spunti per una riflessione sulla complessità di questa disciplina e sulle molte variabile che ne determinano il successo anche mediatico. Andare oltre la patina applicata dai mass media non specializzati, in cui la parola «design» è il più delle volte soltanto veicolo immediato di valori estetico-formali di un prodotto, solitamente associato a un determinato stile di vita, significa addentrarsi in una disciplina che ha molte declinazioni, interseca molti saperi, rinnova continuamente il suo statuto nella sua, sembra oggi, ininterrotta crescita. Muovendosi lungo le molte direttrici del design, in parte legittimate dalla ampia proliferazione di corsi all’interno dei programmi di studio delle università e delle scuole private, emerge un quadro piuttosto eterogeneo di saperi che combinandosi in vario modo formano la spina dorsale delle diverse professioni del designer. I contorni di questa riflessione sono tracciati dagli articoli di Carlo Olmo, direttore de Il Giornale dell’Architettura, e di Luigi Bistagnino qui ripubblicati come prefazione al libro. Olmo nel suo editoriale del novembre 2003 in occasione dell’ampliamento delle pagine dedicate al design e allo slittamento dell’intera sezione al fondo del giornale, mette in luce le questioni cruciali che attengono lo statuto del 3 design, delle sue professioni e del suo mercato. Bistagnino, a fronte del mercato del design, dello sviluppo di tecnologia e innovazione, fa invece il punto sul ruolo delle scuole di progettazione, richiamando l’importanza di una formazione improntata alla flessibilità interdisciplinarietà. Definito con questi due contributi il quadro di riferimento entro il quale muoversi, la selezione degli articoli presentata si propone dunque come un osservatorio dei molteplici modi di fare design, o una mappa, che indica alcuni possibili percorsi senza tuttavia ordinarli secondo una sequenza prefissata o lungo un asse temporale. Questi percorsi sono raccolti intorno a quattro aree tematiche che riprendono settori e categorie interpretative de Il Giornale dell’Architettura, e più precisamente de Il Giornale del Design. Sono quattro scenari del design, complementari, che possono incrociarsi, sovrapporsi, con i quali progettisti, studenti, produttori, studiosi, si confrontano continuamente. Tra formazione e professione è il titolo della prima parte, che raccoglie una selezione degli articoli dedicati all’insegnamento, alla ricerca, alle questioni legate alla tutela dei prodotti e alla progettazione del design oggi e nel passato, cercando di approfondire anche la trasformazione dell’approccio alla formazione e alla professione nel corso degli anni. Il secondo gruppo di testi è riunito invece sotto il titolo I luoghi della promozione, sezione nella quale si esplorano le geografie e i modi di messa in scena dei prodotti, le strategie che guidano le scelte promozionali e gli effetti dei processi decisionali. Le aziende della produzione e distribuzione: alcuni case-studies offre una serie di esplorazioni tra i luoghi di produzione del design, dall’automobile al tessile, dal prodotto industriale all’editoria, dal cinema al caffé. Infine, le Recensioni: una serie di riflessioni critiche sulla produzione teorica del design, nelle varie forme della pubblicistica e delle esposizioni. 4 Design, quasi una pietra filosofale di Carlo Olmo In una società che sembra esaurire l’interesse per il progetto nell’annuncio che un’opera si farà, rappresentare ogni prodotto come carico di forza innovativa sta diventando un rito di iniziazione. Un’innovazione che ormai prescinde dai contenuti (un tempo si sarebbe detto dai valori d’uso) del prodotto. Design e innovazione appaiono connessi, al di là di qualsiasi, anche tenue, argomentazione. Ma la fortuna di un mondo assai complesso non sta solo nella crisi della razionalità (e della previsione) che oggi stiamo vivendo. L’universo delle professioni che il design comprende è quanto mai vasto contraddittorio, come lo sono i valori che il design mobilita. Mestieri che vedono convivere forme di libera professione, lavori dipendenti (sino a forme di lavoro davvero impiegatizio), citazioni delle forme più arruffate di psicologia sperimentale e conoscenze di chimica dei materiali. Così il design può rianimare la base stessa di un’economia dei consumi (lo spreco) e proporsi come soluzione non temporanea ai limiti di uno sviluppo che non conosce (o non vuol conoscere) i limiti delle risorse di cui dispone. Districarsi in questo mondo, senza cedere alle lusinghe che proprio la sua dimensione onnivora propone, non è facile. Come è tutt’altro che semplice distinguere quanto è marketing e quanto innovazione, quanto autopromozione e quanto esigenze di una società dei servizi che deve in primo luogo alimentare proprio quel mondo su cui si fonda. Né hanno significato le semplificazioni. Il tout est art come l’iconoclastia nostalgica possono consolare i cinici o gli hommes revoltés, di camusiana memoria, ma non aiutano il lettore a costruirsi degli strumenti di comprensione, se non di giudizio, di quel mondo. Un mondo che interessa per molte ragioni. Perché, con tutte le sue contraddizioni, è il mondo oggi in maggior crescita, su tanti piani: da quello della formazione a quello del mercato. Perché veicola valori e comportamenti, ma soprattutto intreccia saperi, in modi che ci spiegano come oggi i tradizionali steccati che hanno fatto la fortuna di molte professioni (liberali e non) non abbiano più ragione di esistere. Una palestra che mette alla prova anche gli strumenti dell’interpretazione (e la loro autonomia da un mercato davvero invasivo). La cultura architettonica soffre in modo particolare di questa sfida. Soffrire non significa solo trovarsi a difendere antichi recinti. Certo, può far sorridere vedere come l’universo delle professioni che sta avanzando nel mondo del design sia guardato con sospetto, se non con disprezzo, da culture architettoniche che vedono erosi ancora nuovi confini. Vittime forse incoscienti di un’idea quasi iniziatica, ma anche garantita da un’autorità esterne della professione. Il «Giornale», forse non a caso da questo numero propone come prima rubrica le professioni e si 5 chiude con una scommessa sul design. Le due scelte sono in realtà una. Pongono come terreno di informazione, confronto, discussione, la mobilità dei mondi del lavoro, le forme del loro aggiornamento (non solo i progetti formativi), la coesistenza di garanzie e concorrenza, di tradizioni (culturali, non solo professionali) e saperi che intrecciano biologia molecolare e scienza dei materiali, ecologia e marketing. Professioni alcune tra le più strutturate, altre oggi quasi virtuali. Con un denominatore che deve restare comune. In molte delle più importanti, e sempre ricordate, università americane, ai futuri professionisti (ingegneri, architetti, medici, biologi.) si propone, spesso si impone, un curriculum su etica e affari. Non è solo un bel retaggio di una religione protestante. Senza deontologie condivise, praticate e sanzionate, non esiste neanche un mercato, anche solo in grado di regolare il formarsi dei valori economici. Il «Giornale» sta costruendo una sua lettura sul tema forse più populista che oggi attraversa l’Italia: il condono edilizio. Un terreno davvero scivoloso, ancor di più perché non si vuole affrontare il tema delle deontologie dei diversi attori coinvolti in questa ricorrente pena. Forse un paese nominalmente cattolico conosce troppo il peccato e il perdono e poco la responsabilità e le regole, con tutta la carica di violenza che esse portano con sé. Ma se l’alternativa è una diffusa malattia di Ponzio Pilato, forse vale la pena di risalire, anche un po’ di fretta, la corrente del bostoniano Charles River. Il Giornale dell’Architettura, n. 12, novembre 2003, pp. 1-2 6 Questioni di approccio di Luigi Bistagnino Percepito sempre più frequentemente come «antenna» in grado di registrare in anticipo le trasformazioni in atto, il designer vive oggi una straordinaria fortuna che trova conferma anche nell’appeal delle scuole di design con i loro molteplici sbocchi professionali. Una varietà di occupazioni nei numerosi ambiti disciplinari, non solo del prodotto industriale tout court, ma anche nel campo dell’ergonomia, della virtualità,dell’ecologia come della pubblicità o del web. L’offerta è molto varia per qualità e quantità nei diversi atenei, che garantiscono una proposta didattica costruita su sperimentazioni nelle varie sedi, divenute poi precise indicazioni ministeriali. Altre scuole, private, sono germogliate in breve tempo, da nord a sud, cavalcando questa onda di successo, tuttavia investendo principalmente nel breve termine. La vera forza dei corsi di laurea in Design, depositari oggi di quella cultura politecnica e di quell’adesione alla «cultura del tempo» propria delle facoltà di Architettura della fine degli anni sessanta, è individuabile nella cultura del «progetto» (di un prodotto come di un servizio), una risorsa indispensabile capace di dare nuova linfa al made in Italy e di arginare fenomeni diffusi come quello della copia. L’innovazione, infatti, non consiste nello studio di un aspetto tecnologico o del suo perfezionamento, ma nella ricerca costante attraverso la cultura del progetto che, proprio per le sue caratteristiche intrinseche, difficilmente potrà essere scippata e fatta propria da altri. La tecnologia, invece, è facilmente esportabile e pare oggi destinata a rimanere in mano a quei paesi (India su tutti) in cui il costo del lavoro è quasi nullo. Il design è un incrocio, una piazza in cui s’incontrano molti saperi: dall’ingegneria alla storia, dalla tecnologia all’ergonomia, dalla psicologia all’ecologia fino alla virtualità. La flessibilità che lo studente acquisisce nel percorso formativo diventa uno strumento fondamentale per gestire progetti in diversi ambiti di lavoro. L’innovazione delle scuole di design è in parte questa, e non è riconducibile soltanto alla scoperta di una nuova tecnologia, spesso applicata anche in maniera non corretta. Il nodo cruciale dell’insegnamento nelle scuole è dunque quello di mettere in relazione e calibrare opportunamente le connessioni tra funzione, seduzione, innovazione e adattamento al contesto, requisiti tutti indispensabili per una buona progettazione. Questo approccio, in realtà, non è così scontato a fronte di una domanda di mercato che tende a implementare singole variabili rispetto ad altre, trasfigurando il progetto finale. Il telefono cellulare, ad esempio, è nato con una precisa funzione ma è diventato un po’ alla volta una telecamera: in questo momento è in una «terra di mezzo», non sta né nell’area della telefonia né nell’area della fotografia o della televisione e viene utilizzato in maniera goffa e impropria. Il controllo di questi parametri sopra citati permette al designer di affrontare settori disciplinari anche molto diversi tra loro, fino a quello del fashion: se i prodotti d’élite disegnati per l’alta moda servono ad alimentare più che altro il giro del marketing, è nel prêt à porter che il designer 7 agisce creando un prodotto di massa ideato con una funzione ben precisa in cui si può cogliere, quindi, la vera essenza di un prodotto industriale. Il Giornale delle Facoltà in Il Giornale dell’Architettura, n. 20, luglio-agosto 2004, pp. 1-2 8 TRA FORMAZIONE E PROFESSIONE 9 SPAZIO AI MANAGER DI PROGETTO E AI TECNICI PROGETTISTI SPECIALIZZATI Formazione e professione del Made in Italy Tre domande ad Adolfo Guzzini, l’imprenditore marchigiano voluto da Luca Cordero di Montezemolo nel nuovo team di Confindustria: gli stage e i master in collaborazione con le aziende possono essere importanti strumenti di sviluppo Ad oggi, 12 facoltà di Architettura hanno attivato 20 corsi di laurea di primo livello in Disegno industriale e 12 corsi di laurea specialistica. Un bilancio in crescita, per una laurea relativamente giovane ma che sta riscuotendo, in modo abbastanza omogeneo in tutte le sedi universitarie italiane un successo che va oltre ogni aspettativa e che è confermato, ad esempio, dai numeri delle preiscrizioni ai corsi dello scorso anno, quasi tutti doppi rispetto al numero chiuso consentito. Quali le ragioni di questo successo? Il designer progetta nuovi scenari spesso con l’entusiasmo tipico dei giovani: uno spirito, credo, che è la chiave del successo, per esempio, di alcuni designer con cui ho avuto modo di lavorare, che anagraficamente giovani non sono, come Ettore Sottsass, Massimo Vignelli, Luigi Massoni, o Achille Castiglioni, recentemente scomparso. Nel prodotto industriale il progettista può ancora gestire tutti gli aspetti tecnologici e produttivi, una condizione che nell’architettura viene sempre meno a causa della grande e articolata complessità del progetto architettonico. In sintesi, mentre nel progetto di architettura sono richieste molte e diverse competenze specialistiche che conducono a un lavoro progettuale in team, nel design esiste ancora spazio per l’attività individuale. Questo permette al giovane designer di cimentarsi, anche subito dopo il termine degli studi, sia nella libera professione che nelle aziende. Il rapporto tra i corsi di laurea in Disegno industriale e le aziende è attualmente molto solido: la collaborazione è attiva in quasi tutti gli atenei in forma di stage, master, esperienze lavorative e corsi tenuti da professionisti. Questi contatti servono a facilitare l’inserimento nel mondo del lavoro. Crede che ci sia un settore in cui tali esperienze registrino un maggiore successo o, più in generale, in cui esistano sicuri sbocchi professionali? Non esistono a mio avviso settori di sicuro sbocco professionale, nel senso che tutti i settori possono offrire le stesse opportunità interessanti. Certamente Confindustria, che com’è noto sostiene e promuove il Made in Italy e considera il design come settore strategico, aumenterà queste opportunità: anche le aziende e i settori che fino ad oggi non hanno investito su questo settore potranno, in futuro, adottare la leva del design nelle loro strategie di prodotto. In quest’ottica credo che gli stages e i master in collaborazione con le aziende possano essere strumenti importanti di supporto a questi sviluppi. Possono inoltre aumentare le capacità di integrazione tra committente e progettista in quanto non tutte le aziende hanno la capacità di utilizzare al meglio le risorse del designer, così come il designer non sempre riesce a integrarsi con le complessità di funzioni aziendali che operano per lo sviluppo dei prodotti. 10 La figura del designer è sempre più orientata verso discipline che vanno oltre l’«ideazione» di un prodotto, per coinvolgere le varie fasi della produzione, dal disegno del prodotto stesso alla sua immissione sul mercato, fino al marketing e alla gestione aziendale. Questa tendenza si traduce nelle nostre Università in una polverizzazione di insegnamenti (dall’ergonomia fino alla psicologia): come giudica questo fenomeno? Quali proposte potrebbe suggerire per migliorare eventualmente questa offerta formativa? Credo che oggi manchino programmi formativi per due figure chiave nel design: il «manager di progetto» e il «tecnico progettista specializzato». Il secondo deve essere in grado di tradurre correttamente in elaborati tecnici i disegni e le idee del designer. È una figura assimilabile a quella del perito industriale, tuttavia con una preparazione legata non solo alle tecnologie ma anche alla cultura del design. Una figura che non necessariamente deve uscire da corsi universitari ma da quelli della scuola superiore. Il manager di progetto, invece, è una figura che ricopre un ruolo importante nello sviluppo del rapporto industria/design. Questo ruolo è finalizzato a gestire all’interno delle strutture aziendali tutto il processo di sviluppo di produzione e di immissione di prodotto sul mercato. Per questa figura, accanto alle competenze tecniche e culturali del design, occorre creare una competenza di tecniche di gestione manageriale. La professione dei designer, tuttavia, non rientra nelle professionalità riconosciute e quindi non è garantita in materia di tariffe e di tutela del lavoro. L’ADI, Associazione Italiana di Design di cui sono stato vicepresidente, ha supportato questa carenza di tutela dando indicazioni di indirizzo e da 10 anni lavora con il CNEL (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) per far riconoscere questa professione. In un recente convegno nazionale sul design a Roma Giuseppe De Rita ha sottolineato come il governo sia orientato a inserire queste professioni, attualmente non riconosciute, negli ordini professionali degli architetti. Una tendenza opposta rispetto a quello che avviene oggi in Europa, e se ciò avvenisse sarebbe un grave danno per i giovani che escono dalle scuole di Industrial Design. Speciale Facoltà in Il Giornale dell’Architettura, n. 20, luglio-agosto 2004, p. 8 11 DAL 3 OTTOBRE UN MASTER PER SYSTEMS DESIGNERS I discepoli di Norbert Wiener Con Capra, Pauli, Wijkman e Benyus nuovi scenari per la teoria dei sistemi applicata al design TORINO. La «teoria dei sistemi», disciplina introdotta nei programmi dei corsi di studio in disegno industriale negli anni cinquanta presso la Hochschule für Gestaltung di Ulm, è al centro oggi di un rinnovato interesse in seguito allíavvio, dal prossimo 3 ottobre, di un master di secondo livello in Systems Design. Il corso punta a formare dei progettisti che guardano al prodotto ma soprattutto al sistema industriale che lo ha generato, alla dismissione dell’oggetto dopo l’utilizzo e al possibile riutilizzo della materia prima attraverso lo studio di un sistema che ha come unica finalità quella di trasformare l’output in una risorsa. Progettare soltanto la forma, coordinando e integrando tutti i fattori (funzionali, simbolici, culturali, tecnico-produttivi, ecc.) secondo quanto affermava più di trentíanni fa Tomás Maldonado, è oggi superato e l’offerta variegata dei corsi di primo, secondo e terzo livello in Disegno industriale in Italia, ma non solo, è in qualche modo uno specchio fedele di questa tendenza. Innovativo, in questíottica, pare il nuovo master in Systems Design, o design dei sistemi, del corso di studi in Disegno industriale della I Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, in collaborazione con la Fondazione ZERI (Zero Emissions Research and Initiatives) e un team di università europee, da Riga a Mondragon fino a Stoccolma e Parigi. L’obiettivo del master è di formare una nuova figura professionale di designer, non estranea alle teorie di Norbert Wiener e Talcott Parsons, il cui bagaglio culturale presupponga una contaminazione dei saperi, dalle scienze umane e sociali a quelle biologiche, fisiche, economiche e politiche. Un designer consapevole sia dei vantaggi prodotti dai modelli economici non fondati sul core business, sia della progettazione di sistemi industriali «aperti» in cui non esistono scarti di produzione. All’interno del corpo docente figurano, tra gli altri, il fisico Fritjof Capra, Ashok Khosla, esperto di sostenibilità ambientale, Janine Benyus, autrice del libro Biomimicry, Anders Nyquist, architetto impegnato nello sviluppo di progetti sostenibili in Svezia e in Giappone, Gunter Pauli, fondatore di ZERI e il parlamentare europeo Anders Wijkman (www.systemsdesign.polito.it). Speciale Facoltà in Il Giornale dell’Architettura, n. 30, giugno 2005, p. 5 12 LE COLLABORAZIONI TRA L’UNIVERSITÀ E L’AZIENDA Alla ricerca di capitale umano Intervista ad Alessandro Bonfiglioli, amministratore delegato e direttore generale di HaworthCastelli «106 DSC» è dal 1965 la sedia in compensato curvo e alluminio pressofuso su cui più studenti si sono seduti. Trenta milioni di esemplari venduti nelle scuole e università di tutto il mondo, quando Castelli non era ancora Haworth e Giancarlo Piretti, líinventore di «106», non era ancora conosciuto. Piretti cinque anni dopo progetta «Plia», due meccanismi in acciaio per trasformare in «pieghevole» una sedia formata da due fogli di stampato in acetato trasparente fissati a un tubo metallico appiattito. Un capolavoro di essenzialità: numerosi premi e riconoscimenti in tutto il mondo, acquisizione nella collezione del MoMA di New York e, a oggi, oltre sei milioni di copie prodotte. «106», e «Plia» successivamente, rappresentano il risultato delle ricerche condotte da Piretti, allora venticinquenne e appena diplomato, presso il Centro studi e progetti interno all’Anonima Castelli. Dottor Bonfiglioli, da quando Castelli, tra il 1993 e il 1994, è entrata a far parte del gruppo americano Haworth come è cambiato il vostro approccio alla ricerca? Abbiamo ancora all’interno il nostro Centro studi «storico», con competenze molto specifiche di prodotto. Nell’ambito di un gruppo multinazionale spesso si opera per centri di eccellenza: a noi è stata attribuita, nell’ambito del gruppo, l’eccellenza per il disegno dei sistemi operativi e direzionali di arredo e per le pareti attrezzate. Disegnamo in Italia questi prodotti per tutto il mercato europeo. Il Centro studi Castelli ha ottenuto negli anni numerosi riconoscimenti e successi, anche in termini di vendita, in Europa, Asia e America, come si è verificato per il «sistema 3D», un caso di globalizzazione del prodotto da ufficio non frequente perché le richieste del mercato sono molto diverse da paese a paese. Come vi ponete in relazione con le università? Siamo consci che il primo obiettivo della produzione industriale sia la ricerca del profitto attraverso la creazione di beni e servizi in grado di soddisfare, in maniera economicamente vantaggiosa, un’esigenza di mercato. Il nostro rapporto con il mondo dell’università si pone in questa logica. Riteniamo essenziale la necessità di stringere rapporti privilegiati con diversi atenei, non solo nell’ambito del design e dell’architettura. Un modello, questo, mutuato dalla nostra casa madre che negli Stati Uniti ha un legame molto forte con il mondo dell’università. Si pensi che Haworth Inc. è fra i principali sponsor della University of Michigan con donazioni piuttosto consistenti, dell’ordine di qualche milione di dollari all’anno. 13 E nel nostro paese? Anche in Italia abbiamo forti legami con diversi atenei: riteniamo di poter offrire al mondo accademico l’opportunità di confrontarsi in maniera chiara con la realtà industriale. E di ottenere contemporaneamente un arricchimento di competenze e di capitale umano all’interno di un grande bacino di conoscenze qual è il mondo dell’università. Come si traduce questa collaborazione passando dal piano teorico a quello pratico? Le forme sono le più diverse: si può andare dal concorso d’idee, fino a un percorso all’interno della nostra azienda, cui normalmente segue anche un coinvolgimento nelle aree specifiche. Si va, banalmente, dall’accogliere un certo numero di ragazzi al termine di master o di corsi specialistici per stages in azienda, a tutte le forme che ci permettono di entrare in contatto con il mondo della formazione. In Italia, rispetto ad altri paesi, siamo ostacolati dagli aspetti assicurativi e normativi, che non impediscono tuttavia che le collaborazioni avvengano con notevole frequenza. Nelle nostre sedi all’estero abbiamo numerosi stagisti che seguono dei percorsi internazionali che consentono ai ragazzi di fare esperienza in America, Asia o Europa. Noi abbiamo voglia di essere «impollinati»: abbiamo la struttura e bisogna creare la scintilla. Siamo in contatto con alcuni grandi progettisti per i lavori del 2006-2007, ma insieme a questo ci piace trovare qualche idea provocatoria, innovativa. Come è successo con Piretti che, quando disegnò «Plia», progettava per il Centro studi. Speciale Facoltà in Il Giornale dell’Architettura n. 30, giugno 2005, pp. 1 e 10 14 IL REGOLAMENTO DISEGNI DEL 2002 È FINALMENTE OPERATIVO Come tutelare il design? Pubblicando su internet A costo zero un progetto può essere ora protetto per 3 anni in tutta la Comunità europea. Diventano 25 se si presenta una domanda ad Alicante L’avvocato Federico Zanardi Landi si occupa di contenziosi e di consulenze in materia di marchi, brevetti e disegni. Quali sono le novità del recente regolamento comunitario, reso operativo nella sua totalità soltanto da marzo, relativo ai disegni e modelli? Lo scopo del nuovo strumento normativo è quello di istituire un regime unificato per la concessione di disegni o modelli comunitari che fruisca di una protezione uniforme e abbia efficacia in tutto il territorio della Comunità europea. Gli aspetti rilevanti di tale strumento sono dati dall’introduzione di un doppio sistema di protezione per le opere dell’industrial design. La prima forma di protezione, quella del «disegno o modello registrato», è del tutto affine, perlomeno in termini «filosofici», agli strumenti di protezione brevettuali o di modello di utilità o ornamentale già esistenti in tutti i paesi occidentali. La protezione è accordata dopo la presentazione di una domanda di registrazione all’ufficio comunitario competente, che ha sede ad Alicante, in Spagna. Dopo un periodo di esame da parte dell’ufficio, di solito non inferiore a un anno, viene rilasciato un certificato di registrazione efficace sin dalla data di deposito della domanda di registrazione, che conferisce al titolare il diritto di vietare a terzi di adottare o di impiegare, a fini commerciali e pubblicitari e/o industriali, un disegno o modello sostanzialmente identico. Ma l’aspetto più innovativo è dato dall’istituzione di una nuova figura di disegno, naturalmente tutelato, la cui protezione non avviene attraverso la procedura di registrazione sopra descritta, ma a seguito della semplice pubblicazione del disegno. Questa forma di protezione è detta «modello non registrato». Perché due forme distinte di tutela? Alcuni settori industriali realizzano un gran numero di disegni o modelli di prodotti che spesso non restano a lungo sul mercato e per i quali ottenere una protezione senza formalità di registrazione rappresenta un vantaggio, mentre la durata della protezione stessa ha un’importanza secondaria. Per contro, altri settori apprezzano i vantaggi offerti dalla registrazione in funzione della superiore certezza del diritto che essa fornisce, e chiedono quindi che i loro prodotti possano essere protetti per un periodo più lungo, correlato alla loro prevedibile vita commerciale. Di qui l’esigenza d’istituire due forme di protezione, la prima di breve periodo accordata ai disegni e modelli non registrati, la seconda concessa per un periodo più lungo ai disegni e modelli registrati. Infatti, il disegno o modello è protetto come disegno o modello comunitario «non registrato» per un periodo di tre anni a decorrere dalla data in cui il disegno o modello è stato divulgato al pubblico per la prima volta nella Comunità europea. 15 Si ritiene che un disegno o modello sia stato divulgato al pubblico se è stato pubblicato, esposto, usato in commercio o reso pubblico in modo tale che, nel corso della normale attività commerciale, tali fatti siano ragionevolmente conosciuti negli ambienti specializzati del settore interessato. Il disegno o modello non si considera tuttavia divulgato al pubblico per il solo fatto di essere stato rivelato a un terzo sotto vincolo esplicito o implicito di riservatezza. Quali sono le procedure per ottenere la tutela di un disegno o modello non registrato? Il diritto su un modello o disegno non registrato nasce automaticamente, senza che sia necessaria alcuna procedura e senza i relativi costi e tempi di registrazione. Ciò è valido per la totalità dei paesi appartenenti all’Unione Europea per il solo fatto di realizzare e «pubblicare» prodotti che incorporino il disegno, rendendo così lo stesso disegno estrinsecato e disponibile al pubblico dell’Unione Europea. La durata della protezione è di tre anni, a decorrere dal giorno di prima pubblicazione del disegno stesso. Che cosa significa «pubblicare un disegno» in termini giuridici? La nozione di «pubblicazione» è da intendersi come attività di messa a disposizione e di conoscenza del pubblico che si ha quando il disegno e il prodotto che lo incorpora sono esibiti, usati in commercio o divulgati in qualsiasi altro modo (e perciò conosciuti nei settori o nella cerchia di operatori specializzati nei relativi settori). Ad esempio, il progetto per una nuova sedia realizzato da un giovane designer può godere della protezione nel caso in cui il suo disegno o l’oggetto stesso già realizzato siano pubblicati su internet (in ipotesi, su siti specializzati) ovvero esibiti in una qualche rassegna di arredamento, possibilmente di rilievo europeo, o ancora, pubblicati su un catalogo di vendita. Le straordinarie implicazioni discendono quindi dal fatto che per giovani designer non ancora famosi è oggi prevista la possibilità di salvaguardare le proprie creazioni intellettuali, non necessariamente con la tradizionale, e una volta imprescindibile quanto costosa procedura di registrazione, ma anche e semplicemente, seppur per un periodo limitato di tre anni (anziché di 25, come nel caso del modello cosiddetto registrato), per il semplice fatto di aver «pubblicato» la propria creazione. Tre anni non sono pochi? Dipende naturalmente dal contesto produttivo. Pensiamo a settori quali quelli della moda, dei giocattoli, della gioielleria per i quali tre anni debbono considerarsi un’eternità. Di solito la necessità di proteggere un’opera intellettuale da parte dei designer di quei settori dura soltanto pochi mesi: questo vale per una collezione di moda o per i giocattoli che riprendono, ad esempio, personaggi di trasmissioni televisive che vanno in onda per poche settimane. In questi casi, infatti, tre anni rappresentano una durata quasi eccessiva. 16 Il Regolamento Disegni Pubblicato il 5 gennaio 2002, per espressa disposizione entra in vigore il 6 marzo 2002. Tranne che per i disegni non registrati, il Regolamento non è stato concretamente operativo fino al mese di aprile 2003, data in cui è emanato il necessario Regolamento attuativo che ne ha così finalmente consentito la piena efficacia. Il disegno o modello comunitario ha carattere unitario: esso produce gli stessi effetti nella totalità della Comunità europea. Per «disegno o modello» si intende l’aspetto di un prodotto o di una sua parte quale risulta in particolare dalle caratteristiche delle linee, dei contorni, dei colori, della forma, della struttura superficiale e/o dei materiali del prodotto stesso e/o del suo ornamento. Un disegno o modello è protetto come disegno o modello comunitario se e in quanto è nuovo e possiede un carattere individuale. Un disegno o modello si considera nuovo quando nessun disegno o modello identico sia già stato precedentemente divulgato al pubblico. Si considera che un disegno o modello presenti un carattere individuale se l’impressione generale che suscita nell’utilizzatore informato differisce in modo significativo dall’impressione generale suscitata in tale utilizzatore da qualsiasi disegno o modello che sia già stato divulgato al pubblico. Il Giornale dell’Architettura, n. 10, settembre 2003, p. 25, 36 17 RAPIDO VADEMECUM PER PROTEGGERE IL DESIGN Brevetti, istruzioni per l’uso Tre domande a Federico Zanardi Landi dello studio legale Jacobacci Quali sono le strade per tutelare le creazioni intellettuali del design industriale? Il modo migliore, per efficacia e costi minori, per tutelare le proprie creazioni intellettuali afferenti alla sfera dell’industrial design è quello di riferirsi all’istituto del cosiddetto «disegno o modello comunitario», che conferisce, a chi se ne avvale, una protezione estesa in tutta l’Unione europea. Particolarmente interessante è l’opzione del diritto o modello cosiddetto «non registrato», che nasce automaticamente, senza che sia necessaria alcuna procedura e senza i relativi costi e tempi di registrazione. Il diritto conferito sarà valido per tutta l’Unione europea e per il solo fatto di aver realizzato e, quindi, divulgato o meglio pubblicato (anche su Internet) il proprio disegno o modello. Qual è oggi la procedura per ottenere un «disegno o modello non registrato» con efficacia su tutto il territorio comunitario? Direi che non vi è alcuna procedura «in senso formale» da seguire per godere di tale protezione. Il designer dovrà semplicemente pubblicare, divulgare o mettere a conoscenza del pubblico la propria creazione intellettuale, godendo in tal modo solo della protezione accordata dal design comunitario cosiddetto non registrato. Qual è il limite di questa tutela, come viene riconosciuta e cosa bisogna fare in caso di violazione? Questa tutela incontra, innanzitutto, un limite temporale ben preciso, che è di 3 anni. All’interno di questo periodo, nel caso in cui una creazione intellettuale afferente alla sfera dell’industrial design sia «imitata» da terzi, il creatore potrà pretendere, anche giudizialmente, che venga affermata la sua «paternità» sull’opera e che il contraffattore sia condannato al risarcimento dei danni. In caso di violazione, dopo essersi procurati tutti gli strumenti probatori (cioè, evidenza della pubblicazione da parte del designer del modello e, quindi, anche dell’avvenuta «imitazione» ad opera di terzi), è consigliabile riferirsi a un legale, il quale potrà suggerire se sia opportuno procedere immediatamente in via giudiziale ovvero tentare, in via stragiudiziale (mediante l’invio di una lettera di diffida al presunto contraffattore) di ottenere un risultato sostanzialmente simile a quello che potrebbe eventualmente derivare da una pronuncia giudiziale sul punto. Il mio consiglio, in ogni caso, è quello di riferirsi a uno specialista del settore, data l’estrema atipicità dell’istituto in questione. Il Giornale dell’Architettura, n. 20, luglio-agosto 2004, p. 32 18 STRATEGIE PER PROGETTI SOSTENIBILI La rivoluzione Pauli Dal riutilizzo del materiale di scavo del nuovo tunnel parallelo al traforo del Frejus alle tubazioni in bambù: un approccio etico globale per il design Gunter Pauli ha fondato e tuttora dirige Zero Emissions Research and Initiatives (ZERI) presso l’Università delle Nazioni Unite a Tokyo, un centro di ricerca ramificato nel mondo in cui si progettano processi industriali per l’eliminazione delle scorie inquinanti. Qual è il significato dello slogan «zero emissions»? Niente va sprecato. Lo scarto di un’industria (output) diventa materia prima (input) per un altro processo industriale in un meccanismo a catena che ha come obiettivo l’eliminazione totale degli scarti di lavorazione. Il modello di riferimento è la natura, che non conosce il concetto di rifiuto come qualcosa di non più riutilizzabile, e che agisce in modo circolare e non lineare come il modello industriale umano. Dal traforo stradale del Frejus scavato trent’anni fa circa fu estratta una grande quantità di roccia servita, in parte, per realizzare l’area davanti all’imbocco del traforo. In previsione dello scavo per la galleria di servizio parallela al tunnel attuale, l’organizzazione ZERI, insieme agli studenti del corso di Design, ai tecnici della Sitaf (la società che gestisce il traforo del Frejus e l’autostrada A32), agli ingegneri del Politecnico e ai ricercatori della Facoltà di Agraria di Torino, hanno ipotizzato un’utilizzazione alternativa per questo materiale, composto per il 43% circa da calcescisti utili per la produzione di calce per uso edile, industriale o alimentare. Le recenti analisi sui materiali hanno però evidenziato un alto costo di lavorazione in rapporto alla quantità di calcite ricavabile dalla roccia. Le ricerche sono destinate ad arrestarsi, sbaglio? No, al contrario le ricerche stanno continuando. Attualmente stiamo sperimentando l’efficacia del silicio contenuto nella roccia estratta in Val di Susa come fertilizzante per la coltivazione del riso. Inoltre, con gli studenti abbiamo ipotizzato uno sviluppo della Bassa e Alta Val di Susa a livello «sistemico», cioè come caso studio in cui progettare aziende all’interno di un sistema che trae beneficio dall’interazione dei diversi comparti produttivi e che sfrutta le varie forme di energia alternativa e i sistemi facilmente realizzabili di purificazione dell’acqua. Se un rifiuto all’interno di un comparto produttivo non può più essere riassimilato nello stesso, allora verrà utilizzato come input per un diverso settore produttivo. Bisogna imparare a ragionare in termini di sistema per utilizzare al meglio le interazioni tra i diversi settori. Gli studenti stanno imparando a guardare in modo differente la realtà: hanno bisogno di vedere le cose con i loro occhi e non come descritto prima da altri. Che cos’è cambiato nei luoghi in cui si è applicata questa metodologia? L’impatto più importante di questo approccio è rappresentato dal rapido incremento della produttività e allo stesso tempo dell’occupazione. L’obiettivo zero emissions significa 19 sfruttamento completo delle materie prime, nuovo business quindi profitto e, come già avvenuto, necessità di creare nuovi impianti industriali e posti di lavoro. Nel suo libro «Svolte epocali» affronta il discorso riguardante la crisi del modello economico classico basato su «core business» e «core competence». Quale modello alternativo propone? Il core business dipende dal core competence: ciò significa che tutto quello che non riguarda il core competence viene eliminato. La proposta che ZERI offre come modello economico innovativo si fonda su un incremento della concorrenza sempre considerando il core business, generando, tuttavia, un sistema tra le diverse attività complementari. Non è necessario che un’azienda si occupi di più attività economiche diverse tra loro: se tante attività indipendenti sono integrate in un sistema, allora aumenta la produttività e la flessibilità complessiva. Quando si opera in sistema l’obiettivo non è tagliare i costi e licenziare personale, vedi il caso Fiat, ma sostenere invece la ricerca in nuovi prodotti, servizi e nuove entrate per generare valore aggiunto. L’idea di profitto è motivo ricorrente nei suoi discorsi e sembra scontrarsi con alcuni luoghi comuni frequenti quando si parla di approccio sostenibile. Quali risultati state ottenendo dalle vostre ricerche sull’impiego delle risorse rinnovabili? In realtà alcuni risultati significativi sono stati ottenuti partendo proprio da un oggetto non riciclabile: il compact disc. Materiali di ottima qualità di cui sono formati i Cd, cioè il policarbonato, la resina e l’alluminio, sono separati, mediante una tecnologia innovativa, naturale e a basso costo, per essere nuovamente utilizzati. Attualmente le nostre ricerche riguardano la possibilità di trasformare alcune scoperte scientifiche in nuovi modelli di sviluppo. Questo è, a mio avviso, l’orientamento in cui la società deve investire per uscire da questa impasse economica. Naturalmente occorre tener conto del fattore «tempo»: è necessario creare sistemi di produzione da cui ottenere, in breve tempo, risultati tangibili. La popolazione locale della foresta pluviale atlantica non può, ad esempio, aspettare quarant’anni prima che sia realizzato il rimboschimento totale della regione. Ecco perché la fondazione ZERI ha promosso studi sull’impiego del bambù: una risorsa rinnovabile che si può raccogliere dopo soli tre anni ed è classificata tra le trenta specie di piante impiegate per i rimboschimenti. In un’ottica di sostenibilità noi realizziamo attaccapanni in bambù ma anche sistemi di drenaggio e impianti di irrigazione, ottenendo le medesime prestazioni delle tubazioni in Pvc. Il padiglione realizzato in occasione dell’Expo del 2000 è ancora in bambù. Per questo progetto, che ha superato in Germania i severi test sui materiali, abbiamo ottenuto numerosi riconoscimenti in tutto il mondo, utilizzando in modo innovativo il cemento per le connessioni tra gli elementi di bambù. 20 Il valore aggiunto dovuto alla separazione degli elementi sembra sempre più rilevante… Quando si progetta un prodotto si pensa quasi sempre a integrare soltanto gli elementi che lo compongono. Raramente si studia come separarli. Oltre ai Cd musicali si potrebbe estendere l’analisi anche ai supporti video Dvd che si stanno diffondendo altrettanto rapidamente. Al loro interno sono presenti l’alluminio e il policarbonato ma anche piccole quantità di polvere d’oro. Tre elementi che combinati tra loro sono tossici. Deve far riflettere il fatto che una nota società americana, che vende e affitta film in videocassetta e altri formati anche in Italia, metterà forse in breve tempo sul mercato un nuovo Dvd con un particolare protocollo per consentire la visione del film soltanto tre volte. Il Cd sarà poi reso inutilizzabile e quindi gettato come rifiuto. Il mercato dell’usa e getta garantirà all’azienda un ritorno economico immediato dovuto alla piena disponibilità del materiale. Ritengo invece che il designer debba pensare alla separazione degli elementi di un oggetto prodotto industrialmente nello stesso momento in cui progetta la loro integrazione. In questa direzione stanno lavorando i 3.000 ricercatori dell’organizzazione ZERI che dirigo dal 1994. OBIETTIVO ZERO SCARTI L’organizzazione Zero Emissions Research and Initiatives nasce nel 1994 a Tokyo presso l’Università delle Nazioni Unite. Tremila ricercatori (metà dei quali provenienti dal Giappone, Svezia e Cina) sono oggi impegnati a indagare i metodi per lo sfruttamento totale delle materie prime nei vari settori della produzione industriale e agricola. L’obiettivo è raggiunge «zero emissioni», uno standard di efficienza per l’industria analogo al Total Quality Management (Zero difetti) e il Just-in-Time (Zero rimanenze): si deve produrre soltanto quello di cui si ha realmente bisogno. Un approccio globale che riguarda tanto l’utilizzo dello «smarino», come si chiama in gergo il materiale di scavo di un tunnel, impiegato per esempio per rimineralizzare i terreni stanchi, quanto l’utilizzazione degli scarti di lavorazione di una fabbrica di birra, una parte dei quali può fornire energia necessaria ad alimentare la fabbrica stessa. I recenti successi ottenuti negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone hanno ottenuto già i primi riscontri, e applicazioni in paesi terzomondisti, dal Brasile alla Nigeria, terreno fertile per le nuove sperimentazioni (www.zeri.org). GUNTER PAULI Si laurea in scienze economiche in Belgio con master in business administration a Fontainebleau. Agli inizi degli anni ottanta è assistente di Aurelio Peccei, il fondatore del Club di Roma, noto per aver promosso l’indagine di alcuni ricercatori del Massachusetts Institute of Technology di Boston sulla crescita del pianeta, illustrata nell’allora sconcertante relazione The Limits to Growth del 1972. 21 Pauli è autore, tra l’altro, di Svolte epocali (Baldini&Castoldi, Milano 1997) bestseller tradotto il sei lingue, e del più recente Progetto Zeri (Il Sole24Ore, Milano 1999). Dal 1995 coordina workshops in Europa, America e Giappone. Da quest’anno insegna al Politecnico di Torino nel corso di laurea specialistica in Design del prodotto ecocompatibile. Il Giornale dell’Architettura, n. 3, gennaio 2003, pp. 1, 25 22 COS’È IL SAFETY DESIGN? Tunnel e strade high-tech per una nuova cultura della sicurezza All’imbocco francese del Frejus, entro l’anno, s’inaugura il secondo «Fire Detector». Sicurezza attiva per i viaggiatori MODANE (FRANCIA). Un sogno si ripropone: che esista un rapporto possibile tra comportamenti e valori, che si possano guidare gli uomini inducendo scelte razionali attraverso strumenti non razionali. È il sogno di Talcott Parsons e di tanta cultura e psicologia degli anni cinquanta che, come allora, rinasce a seguito di alcune catastrofi, oggi quelle del Monte Bianco e del Gottardo. «Progettare la sicurezza di tunnel e autostrade significa impegnare risorse organizzative e tecnologiche per migliorare un settore, il sistema strada, considerato per anni come prodotto già sufficientemente maturo», spiega Mario Virano, architetto consigliere Anas e autore, quando era amministratore delegato di Sitaf (Società Italiana Traforo Autostradale del Frejus) di un progetto pilota: la trasformazione della A32 (l’autostrada Torino-Bardonecchia), e del T4 (Traforo del Frejus) in un laboratorio permanente per la sperimentazione di tecnologie in materia di sicurezza. Uno sforzo imprenditoriale che ha avuto come esito la realizzazione nel 2001 del primo Fire Detector sul lato italiano, strumento oggi indispensabile nella prevenzione di possibili incendi sui mezzi pesanti che transitano all’interno dei trafori autostradali. Alla luce degli esiti positivi registrati dall’utilizzo del portale termografico (impiegato anche nei piazzali antistanti gli ingressi del tunnel del Monte Bianco), lo strumento è stato sottoposto a un radicale intervento di restyling in previsione forse di un lancio commerciale più ambizioso rispetto al solo mercato nazionale. Come giudica questo nuovo progetto? Il portale è stato ridisegnato integralmente pur mantenendo inalterate le funzioni originarie. Si basa cioè sulle tecnologie di derivazione militare (israeliana e americana), che utilizzano gli infrarossi per individuare in tepo reale eventuali anomalie termiche a bordo di camion in entrata nel traforo. I veicoli sono fotografati da 12 telecamere all’infrarosso. Un software confronta le singole temperature registrate con quelle massime di sicurezza indicate dalla casa produttrice. Alla segnalazione di eventuali criticità il mezzo viene fermato. Per realizzare il software si sono impiegati due anni di ricerche. Si prevedono altri sviluppi di questo sistema? L’obiettivo è quello di impiegarlo anche in condizioni dinamiche come nel caso delle normali gallerie autostradali. Si pensi, ad esempio, che nei 75 km circa della A32, di cui il 30% sono in tunnel, si registrano principi di incendio a bordo di veicoli in media da due a tre volte al mese. Questa rilevazione statistica vale qualsiasi itinerario simile, con salite e discese, che sollecita ugualmente motori e freni. Un pericolo potenziale che è tanto più grande all’interno delle gallerie… 23 Si può parlare in questo caso di «Safety Design»? Il design della sicurezza non è identificabile soltanto con la qualificazione formale e funzionale di singoli oggetti come pannelli a messaggio variabile, colonnine Sos, guard-rail, barriere o elementi per l’illuminazione. È un approccio interdisciplinare a livello sistemico per coordinare una pluralità di oggetti. Il Safety Design deve far ricorso a molti professionisti: dagli architetti, agli ingegneri fino a sociologi e psicologi che studiano le possibili alterazioni comportamentali degli individui in situazioni di pericolo. Le ricerche che come Anas ora stiamo conducendo si avvalgono anche del contributo di enti pubblici e privati, come sedi universitarie, la Fondazione Zeri, il Centro Sperimentale Stradale di Cesano, presso Roma, e il Centro Ricerche Fiat. Con quest’ultimo, in particolare, l’Anas sta sperimentando la risoluzione del problema della guida in condizioni di nebbia. Ad esempio, già da novembre su un tratto dell’autostrada Milano-Venezia e, in un secondo tempo, sul raccordo Torino-Caselle, saranno utilizzati sistemi innovativi per la ricezione istantanea e in automatico della nebbia e l‘attivazione di ausili tecnologici alla guida come led luminosi, «safety-car» dotate di infrarossi e radar per accompagnare colonne di veicoli e guardrail utilizzati come guide ottiche. Si può parlare di un nuovo modo di intendere la sicurezza? Quando si è dovuto ragionare sui grandi numeri della mobilità di massa, si è iniziato a considerare la sicurezza come un settore di ricerca specifico, cui indirizzare idonee strategie di intervento. Se tempo fa si cercava di risolvere il problema in termini solo di normazione (che aveva come primo scopo quello di mettere in regola il burocrate responsabile), oggi comincia da essere intesa come strategia globale di intervento sui veicoli, sulle infrastrutture e sui comportamenti umani. In questo ambito un esempio possibile è la riprogettazione del «Posto di controllo centralizzato» situato sul versante italiano del traforo. L’oggetto che si disegna – spiega l’architetto Gino Bistagnino coordinatore del progetto – deve trasmettere sensazioni rassicuranti. Le operazioni che l’utente coinvolto anche emotivamente nell’evento si trova a svolgere sono semplificate per evitare inutili perdite di tempo. I rifugi pressurizzati, posizionati a 1.500 metri l’uno dall’altro, risultano facilmente individuabili grazie all’aggetto delle pareti in acciaio. Il sistema segnaletico esterno è ridotto all’essenziale per favorire la trasmissione delle informazioni importanti. All’interno l’ambiente è arredato con alcuni elementi essenziali: una panchina, il pannello per le chiamate di pronto soccorso, un armadietto con acqua e altre attrezzature. La scala metallica sul lato sinistro conduce al piano superiore del rifugio, in un grande condotto per l’aria pulita. In questo punto i cartelli segnaletici «a cascata luminosa» suggeriscono le direzioni per l’uscita più vicina. Ma il Safety Design significa anche prevedere i possibili stati comportamentali degli 24 individui intervenendo con tutti i possibili espedienti progettuali. Su quali criteri si è basata la progettazione dei luoghi sicuri? Si è intervenuti su tutto il sistema: ad esempio, l’attrezzatura per la chiamata Sos è stata pensata in forma vagamente antropomorfa, dotata di microfono e altoparlanti. Allo stesso modo si è lavorato sulla scelta cromatica dei luoghi. Il colore azzurro del primo locale che si incontra spingendo i maniglioni delle porte antifuoco ha un effetto calmante. Le scale sono invece di un verde brillante associato all’idea di «via libera»; giallo, colore che ha un forte potere energizzante, per le pareti al piano superiore. Il Giornale dell’Architettura, n. 9, luglio-agosto 2003, p. 22 25 MAX ABRAMOVITZ (1908-2004) Architetto Associato per antonomasia Con Wallace K. Harrison ha firmato alcune delle grandi operazioni immobiliari di Manhattan POUND RIDGE (NY). Per ironia della sorte, l’architetto statunitense Max Abramovitz è morto a 96 anni nella sua casa di Pound Ridge, nello Stato di New York, tre giorni prima che s’inaugurasse alla Columbia University di New York la prima retrospettiva interamente dedicata alla sua attività («The Troubled Search: The Work of Max Abramovitz», Wallach Art Gallery, Columbia University, dal 14 settembre all’11 dicembre). Nato nel 1908 a Chicago da una famiglia di immigrati romeni, Abramovitz studia architettura alla University of Illinois. Nel 1931, in pieno devil decade, si trasferisce a New York per frequentare un master in architettura alla Columbia University, iniziando anche una collaborazione con lo studio di Wallace K. Harrison, allora membro del gruppo di progettazione del Rockefeller Center. Nel 1932 si reca a Parigi per un corso biennale all’École des Beaux-Arts, secondo una traiettoria formativa analoga a quella di molti architetti americani di fine Ottocento e primo Novecento, come Raymond Hood e lo stesso Harrison. Da quest’ultimo viene richiamato nel 1935, dopo l’esperienza «classicista» parigina, e da quel momento Abramovitz si lega saldamente al maestro, con il quale collabora ininterrottamente fino al 1976, dando vita a una delle firm più produttive della costa est degli Stati Uniti. Dopo il 1976 Abramovitz ha comunque proseguito la sua attività fino ai primi anni novanta, sempre come partner di uno studio associato (Abramovitz, Harris & Kingsland, poi Abramovitz Kingsland Schiff), lavorando soprattutto per una clientela di grandi corporations, dalla Nationwide Insurance alla Swiss Bank (Swiss Bank Tower, New York, 1989). Forse anche per le simpatie della famiglia Rockefeller (con cui Harrison è imparentato attraverso la moglie), lo studio Harrison & Abramovitz partecipa a molte delle grandi operazioni immobiliari e di trasformazione urbana avviate a Manhattan dopo la fine degli anni trenta: da Battery Park alla Columbia University. Oltre al già citato Rockefeller Center e al suo ampliamento verso ovest, sulla Sixth Avenue, lo studio partecipa anche al progetto del Palazzo dell’Onu. Nel 1947, infatti, Harrison è nominato coordinatore di un gruppo di progettazione di cui fanno parte, tra gli altri, Le Corbusier, Sven Markelius e Oscar Niemeyer. Verso up-town Harrison & Abramovitz sono impegnati dal 1955 nel cantiere del Lincoln Center, in cui Harrison, come già accaduto per l’Onu, assume il ruolo di architectural advisor (tra gli altri architetti anche Philip Johnson ed Eero Saarinen): ad Abramovitz, in particolare, è affidato il progetto dell’Avery Fischer Hall. La parabola dello studio ben rappresenta le trasformazioni della professione dell’architetto nel Nord America, un’attività che si è via via fatta più complessa dagli anni venti agli anni settanta. Proprio per questo, nonostante alcuni dei lavori realizzati nei quarant’anni di collaborazione con Harrison portino la firma esclusiva di Abramovitz (come lo U.S. Steel Building a Pittsburgh, del 1971), risulta difficile tracciare un bilancio della sua attività professionale che sia 26 autonomo dalla storia della firm e dalla più celebrata figura del collega, scomparso nel 1981. Il Giornale dell’Architettura, n. 23, novembre 2004, p. 8 27 PROFESSIONI: INCONTRO CON STUDIO AZZURRO Video-installazioni trasversali Il laboratorio di ricerca artistica e video presente nei colophon delle principali mostre e fiere Il pubblico delle mostre e delle fiere (dall’evento «Transatlantici» nell’ambito di «Genova 2004» fino al Cersaie e al Salone del Mobile) si sarà imbattuto, con sempre maggior frequenza in questi ultimi anni, nelle installazioni multimediali realizzate da Studio Azzurro, il laboratorio di ricerca artistica e video fondato a Milano nel 1982. Abbiamo incontrato Leonardo Sangiorgi - uno dei quattro «motori» del gruppo, insieme a Fabio Cirifino, Paolo Rosa e Stefano Roveda per sondare i lati meno conosciuti di questa professione che si è evoluta in vent’anni di sperimentazioni nel campo delle «videoinstallazioni sensibili», cioè animate mediante l’intervento degli utenti. Quali le ragioni del successo? Quasi una sorpresa inaspettata che risale a otto anni fa. Lo studio stava procedendo in tre direzioni fondamentali: le ricerche sulle installazioni interattive, sul teatro, sul cinema e, infine, per una serie di combinazioni particolari, siamo approdati al sistema dei musei multimediali. «Totale della battaglia», una mostra «inesistente » costituita solo di immagini, è stata il nostro esordio nel campo museale a Lucca. Fu un grande successo: 7.000 visitatori in tre mesi di apertura. Gli allestimenti museali, proseguiti con il Museo della Resistenza vicino a Sarzana, arrivano a coprire attualmente il 70% dell’attività dello studio. In che modo si è formato il nucleo dello studio? Studio Azzurro si è formato come gruppo di amici, alcuni di noi fin dal 1964 erano anche compagni di banco al liceo artistico, poi insieme all’Accademia. Frequentavamo anche le scuole di sceneggiatura ma la passione che ci legava era quella per il cinema. Qual è stato il vostro primo lavoro? All’inizio degli anni ottanta, quando in Italia si utilizzavano i primi esemplari di sistemi home video portatili, abbiamo realizzato Qui ci sono farfalle, un film per l’ospedale di Treviglio che riguardava l’uso del gioco come terapia nella degenza dei bambini. Al termine delle riprese lo studio si è trovato in eredità numerose apparecchiature video e audio. Con questi strumenti abbiamo incominciato a usare l’immagine elettronica come materiale plastico, come in accademia si utilizza la creta. E dopo? La nostra esperienza con i video si è sviluppata negli anni in cui si può collocare il Big Ben dell’immagine elettronica, quando sono nati i video clip, opera del regista inglese Temple. Si può parlare di un evento sociale: la musica e l’immagine hanno incominciato a fondersi. Consapevoli di ciò che stava accadendo, abbiamo iniziato un’esplorazione in antitesi. All’epoca correva tra noi questa frase: «il video è qualcosa di molto simile alla spugna», è un media che 28 assorbe. Man mano che incontra le discipline che ci interessa analizzare o esplorare, assorbe e ributta fuori qualcosa nato dalla commistione tra il nostro ambito e quello che abbiamo attraversato. Così è stato anche per il design: il primo lavoro, «Luci di inganni», è nato in collaborazione con Ettore Sottsass e Mario Godani dell’Arc ‘74 per la presentazione degli oggetti Memphis nel 1982. I risultati di quest’incontro sono stati i progetti per la video-lampada, la video-poltrona, il videolaminato, la video-teiera. La struttura dello studio è rimasta invariata fino al 1995, quando è entrato nel team Stefano Roveda, esperto in sistemi informatici e tecnologie interattive. Si può parlare di una svolta nell’attività dello studio? Proprio in quegli anni Roveda stava compiendo un percorso analogo al nostro usando però immagini sintetiche e digitali. Il contatto è stato spontaneo nel momento in cui anche noi abbiamo deciso che le immagini video dovevano acquisire una sensibilità, abbandonare un loro mondo elettronico e avere una sorta di device nel mondo reale e, viceversa, il mondo reale poteva agire sulle immagini elettroniche. Nel 1995 si è così rifondato lo studio che ha preso il corso attuale. L’elemento trasversale che lega le vostre competenze è principalmente tecnologico: che rapporto c’è tra arte e tecnica? È meglio spostare l’analisi. Il filo rosso che tiene unita la nostra attività è quello della curiosità e della ricerca sull’immagine, come mezzo di comunicazione. I nostri lavori non esibiscono mai la tecnologia, ma la usano per esibire: si impiega la tecnologia per fare spettacolo, ma non in modo spettacolare. Paradossalmente, usiamo soltanto i software più semplici. Roveda ha inventato un programma che sia chiama «Euclide», una specie di creatura che può avere tanti tentacoli ed essere applicato a diverse cose. Lo usiamo per fare video installazioni, per creare personaggi sintetici, per gestire immagini e suoni. Un salto nel presente: come è formato oggi Studio Azzurro? L’attuale struttura ha un nucleo di 4 soci, da 11 a 13 collaboratori fissi, in particolare nella filiera della produzione video. Poi una parte amministrativa e produttiva e un piccolo laboratorio di ricerca che, a seconda dei lavori, si sviluppa e si contrae e in parte si autofinanzia. Abbiamo raggiunto uno dei picchi durante la preparazione dell’installazione alle Corderie dell’Arsenale durante la Biennale di Architettura del 2000 curata da Massimiliano Fuksas: 40 schermi sincronizzati, 3 troupes in giro per il mondo, per un totale di circa 45 persone. Quali gli ambiti della vostra attuale ricerca? Dall’inizio degli anni novanta il tema dell’interattività è stato il nostro principale campo di 29 ricerca, affrontato con approcci diversi. Ad esempio l’interattività di tipo corale, condivisa cioè da più utenti, o, vicino a questo tema, quella basata sulle interfacce «naturali», senza joystick, keyboard o mouse e orientate verso i sensi. Per realizzarla bisogna connettere e verificare tecnologie, ma anche progettarle integralmente (com’è accaduto per «Totale della battaglia» e «Coro», quest’ultima incentrata sulla realizzazione di un tappeto sensibile). Inoltre ci occupiamo anche di assemblare tecnologie esistenti in modo originale o di sperimentare nel campo della narrazione non lineare e della ricerca interattiva. Chi sono i vostri committenti? Nei primi anni novanta il committente era prevalentemente il privato e l’industria. Ora lo sono le amministrazioni e gli enti pubblici; un fatto dovuto a questioni contingenti, ma anche a strategie dello studio. Opera come realizzazione di «ambienti»: esiste una formula consolidata o è sempre un’esperienza diversa? Ogni volta è una cosa differente. L’interdisciplinarietà dello studio fa sì che i progetti che nascono siano degli ibridi in senso positivo: non sono solo visivi, solo architettonici, solo tecnologici, solo comportamentali, ma la somma di tutte queste cose. Oggi il lavoro è pensato in gruppo a partire da un tavolo di discussione. Lo studio negli «ambienti sensibili» coincide con un avvicinamento ai temi del «sociale»? In questi ultimi dieci anni è stato inevitabile legarsi a indicatori e fattori di tipo sociale e quotidiano: c’è stata una violenta irruzione della tecnologia nella vita comune e Studio Azzurro, come ricercatore, ha sentito la necessità di essere testimone del nostro tempo. con ELENA FORMIA Studio Azzurro Studio Azzurro nasce nel 1982, quando Fabio Cirifino (fotografia), Paolo Rosa (arti visive e cinema) e Leonardo Sangiorgi (grafica e animazione)fondano un centro di sperimentazione artistica e produzione video. Nel 1995 si unisce al gruppo Stefano Roveda, esperto in sistemi interattivi. I territori di ricerca spaziano dal video, al teatro, al cinema, al teatro musicale, alla danza, agli allestimenti temporanei o per musei. Studio Azzurro ha svolto attività in campo formativo e didattico con workshop e seminari in università italiane ed estere. Il Giornale dell’Architettura, n. 23, novembre 2004, pp. 37,39 30 CONFERITA LA LAUREA AD HONOREM Vico Magistretti: «Come nasce un buon design? Al telefono» Nell’appartamento vicino a via Montenapoleone l’architetto e designer milanese annuncia la sua prossima collaborazione con Thonet Vienna MILANO. L’aereo che lo porterà a Londra partirà nel pomeriggio. A poche settimane dal conferimento di una laurea ad honorem in Disegno industriale al Politecnico di Milano, incontriamo Vico Magistretti che rappresenta, come Angelo Mangiarotti, il trait d’union tra la generazione di Gio Ponti e quella di progettisti come Paolo Portoghesi e Vittorio Gregotti. Ancora oggi è visiting professor al Royal College of Art di Londra in cui insegna da quasi vent’anni. «In realtà non è che insegni, correggo e discuto i lavori con i ragazzi», precisa. E che idea si è fatto dell’attitudine che hanno i suoi giovani allievi nei confronti del design? Io credo che i giovani siano oggi molto legati al mondo della moda, cioè al concetto di stile che deriva dalla moda, che ritengo molto negativo. Lei non vede punti di contatto tra moda e design? È un’altra cosa, non voglio dire l’opposto, ma è molto diverso. Prenda la Thonet, con la quale sto definendo una collaborazione: le tecnologie che usa non sono affatto nuove. L’azienda esiste dalla metà dell’Ottocento, produce sedie da oltre centocinquant’anni. Hanno sempre lavorato per il grande numero, che è la caratteristica del design. La moda ha invece le quattro stagioni e tempi di durata completamente differenti. Un buon design deve saper durare molto di più. Ammiro però lo stilista giapponese Issey Miyake, per il suo modo di combinare i materiali senza dimenticare il nesso tra forma e funzione. In un suo saggio intitolato Bauhaus scritto, ancora studente, nel 1944, mentre era in esilio in Svizzera, citando Gropius lei indicava nella dipendenza tra arte e tecnica il motivo ispiratore e finale della scuola Bauhaus. Si può dire che l’Italian Design derivi dallo stesso ideale? L’Italian Design ha avuto la fortuna di poter realizzare un rapporto con la produzione industriale che era in fondo quello auspicato dal Bauhaus. Il design italiano si è sviluppato perché a partire dalla metà degli anni cinquanta la produzione, che per esempio nella Brianza aveva raggiunto livelli di artigianato molto raffinati, è venuta direttamente da noi architetti. Per esempio, è stato Cesare Cassina a cercarmi per chiedermi se potevamo collaborare insieme. Ci può spiegare meglio come si è definito in quegli anni il rapporto con le aziende con le quali lei ha lavorato, come Cassina, Fritz Hansen e Kartell? Vede… È tutto molto diverso da ciò che avviene all’estero: un fenomeno come quello italiano non c’è mai stato. Il design non è fatto dall’architetto che va nelle aziende a portare il portfolio, ma da un colloquio 31 continuo con la produzione: immagini che io passavo a Cassina i modelli dalla finestra… Il lavoro è svolto da due entità: l’architetto e l’azienda che ha la tecnologia e le conoscenza per affrontare il mercato. Questo spiega come mai l’Italian Design è durato così a lungo: ancora adesso sta durando, in modo secondo me diverso, ma sta durando. È stato un fenomeno chiamiamolo pure artistico, che rispetto ai fenomeni dell’altro secolo è durato molto di più: In Olanda, De Stijl è durato cinque anni, il Bauhaus schiacciato da Hitler sarà durato sette-otto anni. La forza della produzione italiana sta nel fatto che quando ha realizzato un prodotto, l’ha realizzato sempre per il numero. Non mi è mai capitato di disegnare un salotto per un mio cliente, mai! Credo che avrei rifiutato. Qual è il suo approccio al progetto? Quando disegno qualche cosa, disegno sempre con l’occhio del come si fa. Viene da una consuetudine con la produzione, è stato questo il segreto, credo, della fortuna dell’Italian Design. Quasi tutti i pezzi realizzati in quel periodo, forse non le sedie, perché la sedia è il lavoro di un millimetro in più o millimetro in meno, sono oggetti concettuali, cioè oggetti che, a me, è capitato, possono essere spiegati al telefono. Neanche di persona, al telefono! La lampada «Eclisse» (Compasso d’Oro nel 1967, n.d.r.) è un tipico esempio: io ho dettato l’idea, per un certo verso, per telefono a Ernesto Gismondi di Artemide. Essendo oggetti di un qualche concetto, bello o brutto che sia, è più facile spiegare come realizzarli partendo da una geometria elementare, per esempio dal cerchio: due sfere che ruotano, anzi una sola, su una base che ho stabilito tonda o semitonda... L’ho spiegato a voce, non ho fatto un disegno, solo schizzi. Il disegno esecutivo non ha senso. Prenda, per esempio, la lampada «Arco» di Castiglioni: si può benissimo dettarla per telefono. La faranno un po’ più grossa, un po’ più piccola, dopo lei può ancora modificarla ma questo non importa. La base può essere un parallelepipedo di marmo, come hanno fatto, ma potrebbe anche essere diversa e non cambierebbe niente. L’importante è specificare il peso sufficiente a far sì che questo (disegna in aria un arco,n.d.r.) non cada giù: è un tipico esempio concettuale. L’understatement e modestia di queste sue affermazioni mi sembra siano soprattutto il risultato di una lunga esperienza maturata a contatto con la produzione… Al mio tavolo di lavoro ci sono sempre tante persone, dal presidente dell’azienda, al falegname, al fabbro, a quello che si interessa al materiale leggero. La cosa difficile del lavoro è quella di ascoltare gli altri: tutti danno un forte contributo, perché non è mai un’imposizione individuale. Questa è stata la fortuna dell’Italian Design. Il Giornale dell’Architettura, n. 2, dicembre 2002, p. 25 32 IN ITALIA HA LAVORATO, TRA GLI ALTRI, PER MOROSO E B&B «I premi sono segnali. Perché non farne di più?» Per la rivista «Elle Decor» la spagnola Patricia Urquiola è il designer dell’anno ed è stata membro della giuria di «Design Report» che ha selezionato il vincitore del Salone Satellite OVIEDO. Rintracciata nella sua Spagna dopo i giorni intensi trascorsi all’interno dei saloni milanesi girando tra i vari stand delle aziende per cui ha disegnato imbottiti ma anche oggetti per la casa, lampade e altro ancora, Patricia Urquiola rappresenta una delle figure più interessanti del design internazionale. Durante i giorni della manifestazione del Salone di Milano è stata premiata dalla rivista «Elle Decor» come designer dell’anno e ha fatto parte anche alla giuria internazionale di «Design Report» (insieme a Werner Aisslinger, Ed Annink, Maria Christina Hamel, Kasper Salto, Miguel Vierira Baptista, Hannes Wettstein e Martin Zenther). La rivista «Design Report» ha eletto il nipponico Kazuhiro Yamanaka vincitore del Salone Satellite 2003. Come giudica quel progetto? Il suo lavoro sul tema dell’illuminazione era veramente interessante e originale. La lampada «Balloon» credo che sintetizzi bene lo spirito del Satellite: occorre sperimentare, avere un’idea guida senza che questa sia banalizzata attraverso l’utilizzo di legni pregiati o materiali lucenti. Girando tra gli stand si aveva la sensazione di vedere oggetti già «vecchi» di qualche anno, il più delle volte pensati solo in funzione di una loro produzione industriale, ma senza alcuna attenzione ai contenuti che dovrebbero comunicare. La qualità dei progetti era comunque di alto livello. Come reagisce il pubblico quando si comunica attraverso un segno grafico o un oggetto? Fare il designer significa essere creativi, si disegna e si realizza qualcosa che abbia una funzione precisa, che ti permetta anche di comunicare con gli altri. Per questa ragione quando si progetta è necessario fermarsi per un certo periodo, per ricevere dei segnali che dicano se davvero si riesce a «parlare» agli altri. Il premio dato a quel ragazzo giapponese era un segnale ben preciso... È quantomeno curioso che sia stata una rivista tedesca, «Design Report», e non per esempio un ente pubblico, a decretare il vincitore del Satellite. Anche in Italia esistono premi importanti, ad esempio il Compasso d.Oro. Bisognerebbe bandire più concorsi? Credo molto nei premi. In Italia non esiste che il Compasso d’Oro: un premio obsoleto e, a dire il vero, anche poco emozionante. Occorrerebbero forse ulteriori segni di freschezza e non soltanto dalle riviste del settore della comunicazione. È stato ancora un Salone all’insegna del minimalismo? Quando la grande produzione continua a realizzare arredi che si rifanno al minimalismo per 33 ragioni principalmente di mercato, significa che le dieci o poco più aziende importanti del settore stanno già da tempo sperimentando in altre direzioni. La ricerca di un linguaggio è molto complessa: ritengo che le grandi narrazioni siano finite. Ora c’è molta più libertà: si ricercano linguaggi sempre più eterogenei come avviene anche in altri ambiti. Il commercial minimalism è servito a «ripulire» le case: si sono realizzati imbottiti e arredi fatti con poco materiale, sono stati alleggeriti non soltanto visivamente. Sono dunque i colossi dell’arredo domestico a orientare il gusto? No. Sono però spesso i più pronti a investire nella ricerca e nei giovani. Cassina quest’anno ha puntato, e direi con grande successo, su un giovane designer francese, Patrick Jouin, allievo di Philippe Starck. Stessa cosa è avvenuta per Driade, De Padova, Vitra e molti altri. Che cosa consiglia a un giovane architetto appena laureato che voglia iniziare la professione di designer? Penso, riflettendo anche sulla mia esperienza [ha lavorato con Castiglioni, Magistretti e Lissoni, n.d.r.], che sia fondamentale una formazione professionale di tipo part-time. Credo si debba dar spazio anche alle proprie ricerche individuali, così come ho avuto occasione fin da quando ho iniziato a lavorare con De Padova e come suggerisco ai ragazzi che collaborano nel mio studio. Il Giornale dell’Architettura, n. 7, maggio 2003, p. 22 34 CINI BOERI, LA DESIGNER DI «SERPENTONE» E «GHOST» Architettura degli interni, arte dello spazio Psicologia junghiana ed ergonomia tra design degli arredi e cura del dettaglio MILANO. Da Charlotte Perriand a Eileen Gray o Margarete Schütte-Lihotzky: la storia della modernità annovera donne architetto che hanno dato molta importanza alla dimensione umana, all’ergonomia, agli interni. Un aspetto dell’architettura legato effettivamente alla dimensione femminile: condivide? Forse si tratta di sensibilità, anche se queste donne hanno progettato ben poco; come la moglie di Alvar Aalto o quella di Charles Eames, sempre rimaste nell’ombra. Probabilmente deriva dall’intuito, dalla sensibilità femminile. L’uomo ama essere protagonista, la donna meno. Il protagonismo porta a essere eclatanti, il gesto identifica la firma. Di architetti legati al loro stilema ce ne sono un’infinità. Architetto-donna, binomio difficile nell’attività professionale? Ritengo di sì. Per la mia esperienza posso dire che le amministrazioni pubbliche non mi hanno mai affidato commesse importanti. Nel 1951, quando mi sono laureata, nel mio corso eravamo nove donne su una trentina di studenti. Adesso le donne sono più della metà, chissà perché. Cosa sperano di fare? Raccomanderei loro di avere grande passione ed energia. Che importanza ha la cura del dettaglio? La cura del dettaglio non è determinante ma certo contribuisce al valore del risultato. Le mie case sono tutte molto diverse. I clienti arrivano da me sapendo che ho una cura particolare per quello che loro desiderano. Spesso ci troviamo all’inizio su posizioni anche opposte che poi, un po’ alla volta, si integrano. La sua specificità è nel rapporto tra architetture degli interni e arredi: una tradizione del pensare il mondo domestico, della residenza, partendo dal punto di vista di chi abiterà la casa. Quando inizio un progetto, il mio metodo è empirico: parto sempre da uno studio psicologico di chi mi commissiona l’incarico. Tutte le case che disegno sono dedicate alle persone che le abiteranno. Penso all’interno e all’esterno come parti di un unico discorso: naturalmente il contesto determina le caratteristiche particolari, ma l’elemento decisivo rimane lo studio della personalità dell’abitante. Il suo è un metodo basato sul rapporto psicologico con il cliente, con l’abitante, e sull’idea di casa come seconda pelle, come proiezione del corpo: si riconosce nella tradizione più nobile dei grandi architetti funzionalisti come Alvar Aalto? Non c’è dubbio, sono una veterorazionalista. Ma in realtà questo approccio è presente anche in alcune architetture contemporanee. Ho visitato recentemente la mostra alla Schaulager di Herzog 35 & De Meuron, a Basilea, che mette in luce, oltre alla loro nota ricerca sui materiali, anche un aspetto razionalista nelle piante dei progetti. Avvicinarsi alla professione come architetto degli interni: oggi esiste ancora tra i giovani questa tradizione, oppure tende a scomparire? Secondo me tende a scomparire, ma non soltanto negli ultimi anni. Le riviste di architettura hanno pubblicato raramente progetti di interni, a eccezione di «Abitare» e «Domus»: l’interesse per il taglio dell’interno, oppure l’aderenza tra l’architettura del volume esterno e interno è quasi del tutto assente. Lo spiega come un fatto di mercato, per il quale si tende a suddividere gli incarichi tra più professionisti: architetto dell’esterno e architetto dell’interno? Sì, architettura di serie A e di serie B, ahimè. Come spiega il fenomeno - che avviene soprattutto in Italia, nel paese di punta della ricerca sul design - per cui oggi un architetto degli interni opera per lo più soltanto una scelta tra alcuni arredi all’interno di un catalogo di produzione? Oggi gli elementi prodotti per la produzione di serie sono buoni, è migliorata la qualità e la disponibilità. Negli anni cinquanta e sessanta erano più interessanti perché l’industria produttrice era più aperta alla ricerca, all’innovazione. Oggi è quasi sempre ricerca di profitto, il vero interesse del produttore. Com’era la Milano degli anni cinquanta, quando lei si è formata a fianco di figure come Gardella, Zanuso e Magistretti? Si lavorava con grande entusiasmo. Sono entrata appena laureata nello studio di Marco Zanuso e vi sono rimasta 12 anni. Non ho progettato in quegli anni nulla di design, ma ho lavorato principalmente agli interni delle sue architetture, dal disegno dei mobili agli arredi fissi. Ho partecipato anche alla realizzazione di alcune case da lui progettate. È stato un notevole apprendistato, perché Zanuso pensava a una architettura molto umana, attenta alla personalità dell’abitante. Insieme a questa esperienza professionale è stata determinante anche l’analisi junghiana che ho seguito per 8 anni. Il mio approccio alla progettazione è frutto di queste due discipline. In considerazione del fatto di essere l’autrice di un libro sull’ergonomia, scritto negli anni ottanta e ancora oggi attuale, non pensa che oggi questa disciplina andrebbe maggiormente approfondita nelle scuole di architettura e design? È paradossale che nel progetto di una abitazione non sia dato più spazio a questi studi. Anche nelle università si dovrebbe considerare come fondamentale, e non soltanto opzionale, un corso sull’ergonomia e sulla percezione del rapporto tra corpo e spazio. 36 Questa attenzione esiste per esempio nella tradizione austriaco-tedesca che utilizza la parola Raumkunst, letteralmente «arte dello spazio», a proposito dell’architettura degli interni. Essere architetti dovrebbe significare dedicarsi al benessere fisico e psichico delle persone. con PIERRE-ALAIN CROSET Il Giornale dell’Architettura, n. 20, luglio-agosto 2004, p. 31, 32 37 PROFESSIONI: INCONTRO CON STUDIO AZZURRO Video-installazioni trasversali Il laboratorio di ricerca artistica e video presente nei colophon delle principali mostre e fiere Il pubblico delle mostre e delle fiere (dall’evento «Transatlantici» nell’ambito di «Genova 2004» fino al Cersaie e al Salone del Mobile) si sarà imbattuto, con sempre maggior frequenza in questi ultimi anni, nelle installazioni multimediali realizzate da Studio Azzurro, il laboratorio di ricerca artistica e video fondato a Milano nel 1982. Abbiamo incontrato Leonardo Sangiorgi - uno dei quattro «motori» del gruppo, insieme a Fabio Cirifino, Paolo Rosa e Stefano Roveda per sondare i lati meno conosciuti di questa professione che si è evoluta in vent’anni di sperimentazioni nel campo delle «videoinstallazioni sensibili», cioè animate mediante l’intervento degli utenti. Quali le ragioni del successo? Quasi una sorpresa inaspettata che risale a otto anni fa. Lo studio stava procedendo in tre direzioni fondamentali: le ricerche sulle installazioni interattive, sul teatro, sul cinema e, infine, per una serie di combinazioni particolari, siamo approdati al sistema dei musei multimediali. «Totale della battaglia», una mostra «inesistente » costituita solo di immagini, è stata il nostro esordio nel campo museale a Lucca. Fu un grande successo: 7.000 visitatori in tre mesi di apertura. Gli allestimenti museali, proseguiti con il Museo della Resistenza vicino a Sarzana, arrivano a coprire attualmente il 70% dell’attività dello studio. In che modo si è formato il nucleo dello studio? Studio Azzurro si è formato come gruppo di amici, alcuni di noi fin dal 1964 erano anche compagni di banco al liceo artistico, poi insieme all’Accademia. Frequentavamo anche le scuole di sceneggiatura ma la passione che ci legava era quella per il cinema. Qual è stato il vostro primo lavoro? All’inizio degli anni ottanta, quando in Italia si utilizzavano i primi esemplari di sistemi home video portatili, abbiamo realizzato Qui ci sono farfalle, un film per l’ospedale di Treviglio che riguardava l’uso del gioco come terapia nella degenza dei bambini. Al termine delle riprese lo studio si è trovato in eredità numerose apparecchiature video e audio. Con questi strumenti abbiamo incominciato a usare l’immagine elettronica come materiale plastico, come in accademia si utilizza la creta. E dopo? La nostra esperienza con i video si è sviluppata negli anni in cui si può collocare il Big Ben dell’immagine elettronica, quando sono nati i video clip, opera del regista inglese Temple. Si può parlare di un evento sociale: la musica e l’immagine hanno incominciato a fondersi. Consapevoli di ciò che stava accadendo, abbiamo iniziato un’esplorazione in antitesi. All’epoca correva tra noi questa frase: «il video è qualcosa di molto simile alla spugna», è un media che 38 assorbe. Man mano che incontra le discipline che ci interessa analizzare o esplorare, assorbe e ributta fuori qualcosa nato dalla commistione tra il nostro ambito e quello che abbiamo attraversato. Così è stato anche per il design: il primo lavoro, «Luci di inganni», è nato in collaborazione con Ettore Sottsass e Mario Godani dell’Arc ‘74 per la presentazione degli oggetti Memphis nel 1982. I risultati di quest’incontro sono stati i progetti per la video-lampada, la video-poltrona, il videolaminato, la video-teiera. La struttura dello studio è rimasta invariata fino al 1995, quando è entrato nel team Stefano Roveda, esperto in sistemi informatici e tecnologie interattive. Si può parlare di una svolta nell’attività dello studio? Proprio in quegli anni Roveda stava compiendo un percorso analogo al nostro usando però immagini sintetiche e digitali. Il contatto è stato spontaneo nel momento in cui anche noi abbiamo deciso che le immagini video dovevano acquisire una sensibilità, abbandonare un loro mondo elettronico e avere una sorta di device nel mondo reale e, viceversa, il mondo reale poteva agire sulle immagini elettroniche. Nel 1995 si è così rifondato lo studio che ha preso il corso attuale. L’elemento trasversale che lega le vostre competenze è principalmente tecnologico: che rapporto c’è tra arte e tecnica? È meglio spostare l’analisi. Il filo rosso che tiene unita la nostra attività è quello della curiosità e della ricerca sull’immagine, come mezzo di comunicazione. I nostri lavori non esibiscono mai la tecnologia, ma la usano per esibire: si impiega la tecnologia per fare spettacolo, ma non in modo spettacolare. Paradossalmente, usiamo soltanto i software più semplici. Roveda ha inventato un programma che sia chiama «Euclide», una specie di creatura che può avere tanti tentacoli ed essere applicato a diverse cose. Lo usiamo per fare video installazioni, per creare personaggi sintetici, per gestire immagini e suoni. Un salto nel presente: come è formato oggi Studio Azzurro? L’attuale struttura ha un nucleo di 4 soci, da 11 a 13 collaboratori fissi, in particolare nella filiera della produzione video. Poi una parte amministrativa e produttiva e un piccolo laboratorio di ricerca che, a seconda dei lavori, si sviluppa e si contrae e in parte si autofinanzia. Abbiamo raggiunto uno dei picchi durante la preparazione dell’installazione alle Corderie dell’Arsenale durante la Biennale di Architettura del 2000 curata da Massimiliano Fuksas: 40 schermi sincronizzati, 3 troupes in giro per il mondo, per un totale di circa 45 persone. Quali gli ambiti della vostra attuale ricerca? Dall’inizio degli anni novanta il tema dell’interattività è stato il nostro principale campo di 39 ricerca, affrontato con approcci diversi. Ad esempio l’interattività di tipo corale, condivisa cioè da più utenti, o, vicino a questo tema, quella basata sulle interfacce «naturali», senza joystick, keyboard o mouse e orientate verso i sensi. Per realizzarla bisogna connettere e verificare tecnologie, ma anche progettarle integralmente (com’è accaduto per «Totale della battaglia» e «Coro», quest’ultima incentrata sulla realizzazione di un tappeto sensibile). Inoltre ci occupiamo anche di assemblare tecnologie esistenti in modo originale o di sperimentare nel campo della narrazione non lineare e della ricerca interattiva. Chi sono i vostri committenti? Nei primi anni novanta il committente era prevalentemente il privato e l’industria. Ora lo sono le amministrazioni e gli enti pubblici; un fatto dovuto a questioni contingenti, ma anche a strategie dello studio. Opera come realizzazione di «ambienti»: esiste una formula consolidata o è sempre un’esperienza diversa? Ogni volta è una cosa differente. L’interdisciplinarietà dello studio fa sì che i progetti che nascono siano degli ibridi in senso positivo: non sono solo visivi, solo architettonici, solo tecnologici, solo comportamentali, ma la somma di tutte queste cose. Oggi il lavoro è pensato in gruppo a partire da un tavolo di discussione. Lo studio negli «ambienti sensibili» coincide con un avvicinamento ai temi del «sociale»? In questi ultimi dieci anni è stato inevitabile legarsi a indicatori e fattori di tipo sociale e quotidiano: c’è stata una violenta irruzione della tecnologia nella vita comune e Studio Azzurro, come ricercatore, ha sentito la necessità di essere testimone del nostro tempo. con ELENA FORMIA Studio Azzurro Studio Azzurro nasce nel 1982, quando Fabio Cirifino (fotografia), Paolo Rosa (arti visive e cinema) e Leonardo Sangiorgi (grafica e animazione)fondano un centro di sperimentazione artistica e produzione video. Nel 1995 si unisce al gruppo Stefano Roveda, esperto in sistemi interattivi. I territori di ricerca spaziano dal video, al teatro, al cinema, al teatro musicale, alla danza, agli allestimenti temporanei o per musei. Studio Azzurro ha svolto attività in campo formativo e didattico con workshop e seminari in università italiane ed estere. Il Giornale dell’Architettura, n. 23, novembre 2004, pp. 37,39 40 MILANO, NEW YORK, SAN PAOLO, NAPOLI Noorda, una leggenda metropolitana Dal disco combinatore agli «accorgimenti» per rendere più leggibile un carattere tipografico. La segnaletica a Milano compie quarant’anni MILANO-NEW YORK. Le celebrazioni di queste ultime settimane sui cent’anni del primo tratto del subway newyorkese e sui quarant’anni della linea metropolitana «rossa» a Milano, offrono l’occasione per alcune riflessioni sui progetti di segnaletica attuati da Bob Noorda negli anni sessanta e settanta tra Broadway Nassau e Porta Venezia. Giunto nel capoluogo lombardo nel 1954, dopo una breve incursione nello studio Boggeri, il grafico olandese è chiamato nel 1962 dal duo Albini-Helg, impegnato nella progettazione degli arredi delle ventuno stazioni della Linea Rossa, per inventare la segnaletica della metropolitana milanese. La collaborazione proficua tra i due architetti e il graphic designer inaugura in Italia la stagione delle grandi commesse pubbliche per progetti di corporate identity. Un lavoro, questo, che «Domus», un paio di anni più tardi, battezzerà come il «più esteso disegno cittadino, il più grande ambiente milanese, concepito con unità». Noorda rielabora il carattere «helvetica» accorciando tutti i discendenti e ascendenti delle lettere per rendere più immediata la lettura della scritta bianca su fondo rosso. Insieme al rigore nelle scelte cromatiche e nel lettering (che non sarà però sufficiente a riconoscere quell’ufficialità al carattere Noorda come avvenuto invece a quello di Edward Johnston, del 1916, per la segnaletica del tube londinese) egli disegna la grafica di alcuni elementi caratteristici dell’arredo «metropolitano»: dal quadrante dell’orologio all’immagine stilizzata del disco combinatore a indicare la presenza di un telefono pubblico. Lo studio sulla leggibilità della segnaletica quando il treno è in movimento, le indicazioni a livello stradale con il marchio capovolto MM, fino al segno grafico in 3D, rosso, del corrimano emblema del concetto di «immagine coordinata» - rappresentano alcuni degli elementi caratterizzanti l’attività grafica di Noorda, premiato nel 1964 con il Compasso d’Oro. L’anno successivo Noorda fonda, insieme a Massimo Vignelli, la Unimark International, con sedi a Chicago, Milano, New York e nel Sudafrica. Nel 1970 lo studio è chiamato a coordinare il progetto di grafica della segnaletica, allora piuttosto eterogenea anche per tipologia di supporti, della metropolitana di New York. Non si tratta di un progetto ex-novo ma di un redesign per uniformare la grafica delle circa 500 stazioni. La scelta del carattere tipografico cade sullo «Standard Medium», adottato in positivo e in negativo sui pannelli grafici in bianco, nero o di diversi colori corrispondenti alle numerose linee metropolitane. Da quel progetto, rimasto quasi invariato fino ai giorni nostri, deriva nel 1972 una seconda commessa affidata questa volta soltanto a Massimo Vignelli: la realizzazione dell’iconica mappa della metropolitana di New York con una pallida Manhattan definita da poche righe, rigorosamente a 45 e 90°. L’attività grafica di Noorda applicata alla segnaletica delle 41 metropolitane avrà un seguito a San Paolo del Brasile nel 1974 (con l’Unimark International), e a Napoli nel 1991. Il Giornale dell’Architettura, n. 24, dicembre 2004, p. 46 42 GIOVANNI SACCHI (1913-2005) Il genio della terza dimensione, rigorosamente in legno Per Francesco Trabucco il modellista «era un eccellente interprete della forma sempre in posizione dialettica con il progettista» MILANO. Giovanni Sacchi non era un designer. Tuttavia, da abile artigiano modellista qual era, leggeva i progetti come pochi altri e sapeva coglierne le criticità. Gli schizzi che transitavano nel suo laboratorio milanese e che si materializzavano poco tempo dopo in un modello di legno di cirmolo, quasi sempre ottenevano una miglioria. Scolapasta, ventilatori, biciclette, macchine per scrivere, posate, radio, televisori, telefoni, automobili, caffettiere,stadi per il calcio, alberghi, residence, piani urbanistici. Realizzava di tutto, non come semplice esecutore ma come interprete della forma. Professor Trabucco, con la morte di Sacchi, avvenuta il 26 gennaio a Milano, si è persa definitivamente anche la tradizione del sapere artigianale e manuale del modellista? Di sicuro è scomparso un grande testimone, ma il «mestiere» svolto da Sacchi era finito molto tempo fa con l’avvento del computer, della modellazione virtuale, dei rendering tridimensionali e della stereolitografia. Non è scomparso un sapere artigianale, ma le tecnologie hanno modificato molto questo tipo di competenze. Ci può spiegare come si è evoluta negli anni la «professione» del modellista? Fino a poco tempo fa, quando si disegnava a mano, non vi era alcuna possibilità di verificare con obiettività il progetto nella terza dimensione. I designer non riuscivano a restituire appieno la forma dell’oggetto progettato usando solo tecniche grafiche come la prospettiva ma, soprattutto, non riuscivano a comunicare il progetto al cliente. Ecco perché lavoravamo tanto sui modelli e Sacchi non si tirava mai indietro dal modificare un raggio, scavare una forma, sottolineare un profilo. Il modello non era solo un rendering fisico e tridimensionale, era innanzi tutto uno strumento di progettazione. Per il designer è indispensabile verificare il progetto con un modello in diverse fasi di sviluppo. Quando esisteva il laboratorio di Sacchi ci si affidava alla sua esperienza e abilità, oggi lo facciamo con le nostre mani realizzando modelli anche molto rudimentali e approssimativi. Il modello è una forma espressiva che il designer deve controllare: Richard Sapper usa la carta, il cartoncino e la cucitrice, Marco Zanuso usava la plastilina e il filo di ferro, altri usano il legno morbido come la balsa, io preferisco il polistiroloespanso. Il progetto è un continuo feedback tra modello, disegno e idea. In cosa consisteva questo mestiere? Sacchi era un artigiano con una straordinaria capacità di interpretare la forma e le intenzioni espressive del progettista, capace di dialogare con il designer, di sapersi porre sempre in posizione dialettica. È stato un grande personaggio, un esecutore intelligente, molto sensibile, abile, un interprete eccezionale. 43 Sacchi risolveva i problemi dei progettisti, aveva una straordinaria sensibilità. Potevi permetterti di portargli un progetto «immaturo» e sapeva interpretare lo schizzo senza bisogno di disegni quotati; capiva cosa stavi disegnando. Era anche di una simpatia travolgente e molto abile nelle pubbliche relazioni. Ha saputo costruire intorno alla sua bottega un’atmosfera d’interesse per il design e per l’architettura. L’atelier di Sacchi appartiene alle mitografie del design italiano: qual è il ricordo di chi lo ha frequentato? Ho conosciuto Sacchi quando lavoravo da Marco Zanuso. Come tutti i giovani di bottega ero quello che andava avanti e indietro dal laboratorio di Sacchi per curare i modelli di Zanuso.Lì ho visto centinaia di modelli che erano il migliore indicatore dell' attualità del design e ho conosciuto i grandi maestri come Nizzoli, Castiglioni, Sambonet, Magistretti e Sottsass. Con Sacchi ci davamo del «lei» fino a quando, passati 3-4 anni dal primo incontro, di fronte al primo modello di un ventilatore che avevo disegnato per Vortice mi disse: «Bravo, adesso possiamo darci del tu». L’ho considerato come una sorta di laurea. Nel suo laboratorio lavoravano anche dei bravi artigiani che, come lui, provenivano dal mondo della costruzione di stampi. Artigiani che avevano imparato a lavorare l’acciaio e a realizzare gli stampi in pressofusione: erano, come si diceva, gli «attrezzisti». Oltre ai modelli di design Sacchi era bravissimo anche con i plastici di architettura, trasferendo in una scala più grande la stessa immagine di astrattezza che connotava i suoi lavori. Impiegava il legno di cirmolo, non trattato, senza colore: il risultato era un oggetto astratto, non neutro ma quasi prezioso di per sé. Un legno in cui traspariva l’artigianalità, molto lontano dai modelli verniciati «verosimili» che conoscevamo. All’inizio degli anni novanta, quando le tecnologie per lo studio della tridimensionalità si stavano affermando, lui ha cessato la sua attività. I suoi artigiani erano andati via via in pensione, si lamentava di non trovare personale; forse aveva oramai anche poco lavoro. Sacchi era diventato molto caro e le aziende cercavano altri modellisti più abbordabili, anche se meno famosi. Inoltre, molti studi come il mio erano cresciuti e avevano al loro interno un laboratorio modelli. Il suo era però diventato una sorta di museo dove, oltre a migliaia di modelli, c’erano le macchine, capolavori di artigianato di per sé, e attrezzature in gran parte costruite da suoi collaboratori per progetti particolari. HA LAVORATO CON I PIÙ GRANDI: DA NIZZOLI A PIANO Nato a Sesto San Giovanni, a dodici anni inizia l’apprendistato come modellista da fonderia presso la bottega Ceresa & Boretti di Milano. Nel 1948 si presenta nel suo laboratorio di modelli meccanici in via Sirtori a Milano Marcello Nizzoli, che gli commissiona un modello ligneo per la macchina per scrivere Lexicon della Olivetti. Da allora la sua bottega diventa un punto di riferimento per i designer e gli architetti come Castiglioni, Munari, Zanuso, Bellini, Sottsass, 44 Sapper, Colombo, Botta, Piano, Ponti e molti altri. Sacchi ha realizzato più di ventimila modelli di oggetti di design (ad esempio, la lampada «Tizio» di Sapper per Artemide, le posate «Dry» di Achille Castiglioni per Alessi, il telefono «Grillo» per Siemens e la radio portatile «TS 502» per Brionvega disegnati da Zanuso e Sapper) e ben ottomila plastici architettonici, dal teatro Strehler di Milano al Museo d’Orsay di Parigi. Tra le aziende con cui ha lavorato figurano Olivetti, Fiat-Lancia, Ibm, Philips, Brionvega, Rex, Alessi, Nava. Nel 1998 è insignito del Compasso d’Oro alla carriera; due anni dopo chiude la sua bottega e la Triennale di Milano gli dedica una grande mostra antologica. Dei suoi modelli in legno, 350 sono stati acquistati dalla Regione Lombardia per la collezione del Design Italiano della Triennale. Il Giornale dell’Architettura, n.27, marzo 2005, pp. 35-36 45 Polo ingegneristico Pininfarina È stato inaugurato a metà ottobre il nuovo Centro di Engineering Pininfarina a Cambiano (Torino). Una scelta coraggiosa per rilanciare la tecnologia e l’innovazione nella progettazione dell’automobile in un momento di grave crisi per l’industria automobilistica, non solo torinese. Un centro di servizi per il car design che offre alle case automobilistiche clienti oltre al progetto dell’automobile anche le tecnologie per realizzarlo. Vi lavorano 400 dipendenti per l’engineering di prodotto (disegno dell’auto) e 100 per quello di processo (indicazioni per realizzare una linea di produzione). Nei 6.000 mq coperti si realizzano anche prototipi virtuali, capaci di simulare le verifiche di progetto e di processo: tra questi anche i nuovi codici di calcolo CAE (Computer Aided Engineering) per le analisi dei crash, per l’analisi statica e dinamica oltre a quelle in campo acustico e termico. Il Giornale dell’Architettura, n. 1, novembre 2002, p. 26 46 I LUOGHI DELLA PRODUZIONE 47 ALLESTIMENTI E MOSTRE D’AUTORE PER IL DESIGN Tra Italian Creativity e allarme tagli La Finanziaria taglia i fondi a sostegno del made in Italy: Confapi, Federlegno-Arredo e altre associazioni di categoria insorgono Nel mese di dicembre, grazie anche a migliori prospettive di ripresa dei mercati, si è riacceso il dibattito intorno alla competitività delle nostre aziende all’estero. Intanto il maxi-emendamento fiscale presentato dal governo, che riguarda tra l’altro tagli per più di 80 milioni di euro proprio alla promozione e tutela del made in Italy, è stato approvato con il passaggio della Finanziaria alla Camera. C’è da prevedere che questa decurtazione dei fondi rappresenterà un ulteriore ostacolo per le imprese italiane che competono sui mercati internazionali, come dimostrano le reazioni indignate di varie associazioni di categoria. Nonostante il Presidente della Repubblica Ciampi abbia poche settimane fa rimarcato con orgoglio la superiorità del marchio made in Italy nel mondo, l’iniezione di fiducia dalle alte cariche dello Stato servirà infatti a poco contro la concorrenza agguerrita di Paesi come la Spagna, che investe parecchi milioni di euro in promozione, o come la Romania, in cui il costo del lavoro è poco più di 1 euro/h. La Finanziaria 2004 promette inoltre di inasprire la lotta ai falsificatori di marchi attraverso la creazione di un comitato nazionale anticontraffazione. Ed è curioso che in coincidenza di questa crociata (legittima ma spesso fortemente ideologizzata) contro la violazione dei diritti di proprietà industriale e intellettuale ci siano imprenditori come Mario Moretti Polegato, presidente della Geox, che riescono a vendere le loro scarpe in Cina e a garantire l’apertura, entro i prossimi tre anni, di un centinaio di negozi nella sola Repubblica Popolare. Ciò giunge a riprova che, ancora una volta, per fronteggiare il mercato cinese e competere anche con i prodotti dei Paesi di nuova industrializzazione, le imprese italiane non hanno altra strada che quella di investire nella ricerca e nell’innovazione dei prodotti. La promozione degli stessi non può che venire dopo, con campagne pubblicitarie o altre forme di promozione, come l’allestimento di mostre allestite nelle metropoli considerate più attraenti e trainanti per il mercato. Ma come ci presentiamo all’estero? Qual è l’immagine dell’Italian Design propagandata a New York come a San Pietroburgo o a Tokyo? La maggior parte delle mostre (mi riferisco per esempio a «1950-2000. Theater of Italian Creativity», promossa dall’Ice -Istituto nazionale per il commercio estero e allestita recentemente a New York) sono senza dubbio organizzate con grande professionalità, allestimenti d’autore e cura scientifica di un certo rilievo. Queste mostre sono però vetrine in cui è l’aspetto commerciale a dover prevalere: vi si vende cioè l’immagine dell’Italia, sono mostre di prodotti, non di progetti. Il Design, esibito quale componente di una grande catena merceologica, finisce quindi con l’esservi usato soprattutto per rafforzare visioni stereotipate della «creatività» italiana. Tutti i generi vi sono mescolati: la Fiat 500 di Dante Giacosa a fianco di un abito firmato Capucci, o la lampada «Arco» dei fratelli Castiglioni vicino alla Vespa, icona del dopoguerra 48 italiano... Ne deriva un’esteticità d’effetto e indifferenziata, in cui lo scopo promozionale e il valore culturale si confondono in una retorica che da un lato rischia di non aiutare le politiche commerciali, mentre dall’altro impoverisce la qualità dell’evento culturale. Forse sarebbe più opportuno che queste occasioni servissero a sviluppare una filosofia espositiva più sperimentale e innovativa senza che il ricorso alla storia diventi il collante formale di un sostanziale eclettismo di correnti e di idee. Il Giornale dell’Architettura, n. 14, gennaio 2004, p. 31 49 IN UN ELEGANTE QUARTIERE DI TOKYO A Omote-Sando Vuitton, Prada & C. La crisi dell’economia del Sol Levante modifica i consumi e le «griffes» della moda ne approfittano TOKYO. Terzo incarico per un global store della Louis Vuitton per l’architetto nipponico Jun Aoki dopo i progetti a Nagoya nel 1999 e Ginza (Tokyo) nel 2000. Formatosi per sette anni presso lo studio di Arata Isozaki, Aoki ha realizzato recentemente un nuovo showroom a Omote-Sando, la via Monte Napoleone di Tokyo dove hanno sede altre case di moda europee come Gucci e dove, in futuro, anche Prada e Christian Dior. Stretto tra una chiesa e un edificio, il nuovo negozio Louis Vuitton utilizza interamente il lotto di 600 mq circa, e gli undici livelli (di cui 9 fuori terra) di superficie espositiva. Include anche un museo permanente dei pezzi più famosi prodotti nei 130 anni di attività della casa francese. «La forma di tutti questi spazi è quella di parallelepipedi, quasi a rievocare la sagoma dei bauli impilati» spiega l’architetto, che ha riproposto sulla facciata principale il pattern a quadri damier (marchio distintivo dei prodotti Louis Vuitton) già sperimentato, con tecniche differenti, negli edifici a Nagoya e Ginza. Se il progetto dell’involucro esterno si modifica a seconda del luogo (e dell’architetto), precisi criteri di allestimento sono indicati invece all’architecture department interno alla Louis Vuitton per uniformare tutti i punti di vendita secondo una prassi comune anche ad altre aziende, non solo nel settore della moda. A due passi dal global store di Aoki nella zona di Omote-Sando si stanno chiudendo anche i cantieri del negozio Prada (Herzog & de Meuron), mentre è in programma la costruzione del negozio di Christian Dior (Kazuyo Sejima). La crisi dell’economia nipponica sembra infatti non riguardare i fatturati delle più note case di moda europee presenti in Giappone, che acquistano terreni edificabili nel centro città per i loro spazi espositivi favorite dal forte ribasso del costo delle aree. La recessione ha prodotto un cambiamento nei consumi dei giapponesi orientandoli, paradossalmente, verso i prodotti griffati e (si spera) di miglior qualità. Tokyo, non a caso, sta assistendo a una trasformazione delle proprietà fondiarie nelle zone più eleganti della città: da Omote-Sando ad Aoyama e al quartiere di Ginza, dove la Maison Hèrmes progettata da Renzo Piano (inaugurata nel 2001) ha dato avvio alle operazioni immobiliari sostenute anche dai grandi nomi della moda. CON HARUMI NARUSAWA Il Giornale dell’Architettura, n. 2, dicembre 2002, p. 26 50 9-14 APRILE Milano e il Salone Tre domande a Fulvio Irace ll 9 aprile riapre il Salone del Mobile: quale ruolo gioca Milano, città in cui si rispecchia sempre di più la manifestazione? È un evento oramai entrato a far parte della tradizione e delle aspettative sia degli operatori che del pubblico. L’immagine che si cerca di accreditare è quella di Milano capitale del design: una sorta di «Big Apple» del Made in Italy. L’espansione del Salone verso la città, al di fuori del luogo chiuso della fiera, ha analogie sorprendenti con quanto è avvenuto e sta avvenendo nel campo della moda. La città fa da fondale. Nelle edizioni precedenti, gli eventi organizzati durante il Salone sono diventati occasione per l’invenzione di alcuni luoghi urbani prima trascurati. Ritiene che anche l’architettura abbia un ruolo importante all’interno di queste manifestazioni? In queste ultime due, tre edizioni del Salone l’architettura è stata riscoperta attraverso una serie di iniziative. L’anno scorso la rivista «Interni» aveva promosso l’installazione di padiglioni espositivi sparsi per la città, quest’anno ha organizzato la mostra «Earthly Paradise», un’esposizione legata al tema dell’abitare e dell’architettura di interni. L’architettura, con le sue trasformazioni anche recenti, è chiamata a far parte sostanziale di questa grande rappresentazione mediatica che è il Salone, proprio in virtù della sua spettacolarità. Se negli anni ottanta il design per rivitalizzarsi si era rivolto all’arte (penso ad esempio alle sperimentazioni condotte insieme agli artisti delle transavanguardie), ora il punto di maggior contatto è con l’architettura, elemento necessario anche al Salone del Mobile per fornire scenografie da utilizzare come interfaccia con la città. Che relazione intercorre tra il Salone, vetrina privilegiata per produttori e designer, e il mercato del design? Il Salone dimostra che ciò che si vende non è più soltanto un prodotto, ma l’idea che sta dietro al prodotto. Quello del design non è soltanto un mercato che produce oggetti, ma un sistema di comunicazione complessivo, all’interno del quale gli oggetti sono dei «terminali» ma non l’unica parte importante dell’intero processo. Un prodotto molto complesso in cui la comunicazione ha assunto un ruolo strategico anche dal punto di vista commerciale. Oggi gli oggetti si vendono in quanto portatori di sistemi di valori, certamente di significati sociali. Un po’ com’è accaduto per il mondo dell’automobile. Il Giornale dell’Architettura, n. 6, aprile 2003, p. 25 51 VERSO IL SUICIDIO DEL SALONE Fine della fiera a Rho-Pero Tre domande a Philippe Daverio, ex assessore alla Cultura a Milano, docente universitario a Palermo e autore del programma televisivo «Passepartout» MILANO. Professor Daverio, l’apertura del prossimo Salone del Mobile, quello del 2005, coinciderà con l’inaugurazione del nuovo polo fieristico nel quartiere Rho-Pero, molto più a nord di quello attuale. Come cambierà la città? Sarà il suicidio del Salone del Mobile che ha sempre funzionato sulla correlazione tra fiera e città. Sul fatto che accanto agli eventi fieristici avvenivano una serie di eventi importanti all’interno della città, sul fatto che molte prestigiose firme avevano una presenza tanto nel salone quanto nel centro città. Le due fiere della moda e del design hanno bisogno della connessione costante tra città e sistema espositivo: necessitano dell’apporto con gli studi di designer, con le invenzioni dei giovani. Togliendo questo meccanismo vitale il Salone è destinato a crollare. L’allontanamento della fiera andrà benissimo soltanto per vendere i trattori. Ma la città non funziona in base ai trattori... Milano è una città che si è suicidata costantemente negli ultimi centocinquant’anni per far guadagnare soldi a pochi speculatori immobiliari. Mi riferisco all’uccisione dei Navigli, all’abbattimento delle mura spagnole, allo «smontaggio» del centro, all’operazione Fiera: sono soltanto forme isteriche destinate a lasciare niente alla città. Il design è conseguenza di una visione del mondo. Non essendoci evoluzione in questa direzione è difficile che ci sia un’evoluzione della visione del design. Questa sua considerazione a tinte fosche vale anche per le invenzioni dei giovani? La creatività giovanile esiste ma non trova applicazione per i motivi che ho illustrato prima. Il piano superiore del Salone Satellite, quello destinato alle giovani promesse, non conteneva niente se non delle esercitazioni da scuola media. Invece, il piano sottostante, dove i ragazzi avevano delle regole e una visione da raggiungere, come il progetto di ristoranti, era molto più interessante. Quando il tema è definito allora la creatività ha modo di svilupparsi e crescere. Cibo, moda e design, le tre icone del made in Italy, convergono nei saloni di Milano: ennesimo tentativo di allargare la professione del designer? Bisogna fare attenzione perché il design ha una sua specificità. Il design «importante» è l’opposto della moda e cerca un tema stabile, non qualcosa che si ripeta o si alterni. Questo è un equivoco pericolosissimo. Sono due cose totalmente diverse: la poltrona di Breuer o quella di Mies van der Rohe le acquisterei per metterle ancora oggi in casa mia, ma un vestito di quell’epoca lì non lo indosserei mai più. Esiste il fashion design che ha il tempo della stagione: esiste una visione stagionale del design che avrà un suo segmento di mercato, più vicino all’«oggettistica» di quanto non lo sia all’oggetto stesso. Il Giornale dell’Architettura, n. 18, maggio 2004, p. 43 52 CON IL SOL LEVANTE ALL’ORIZZONTE Prima New York e Mosca, poi Rho-Pero Dal 13 al 18 aprile riapre il Salone internazionale del Mobile nel quartiere fieristico milanese MILANO. Se sarà il «suicidio del salone» con il suo spostamento a Rho-Pero (cfr. l’intervista a Philippe Daverio ne «Il Giornale dell’Architettura», maggio 2004), questo si potrà verificare soltanto nell’edizione del 2006 del Salone internazionale del Mobile. Per ora infatti la fiera di design più famosa al mondo rimane nel polo urbano, che accoglierà dal 13 al 18 aprile circa 2.200 espositori e 180.000 visitatori. Riaprono negli stessi spazi anche la biennale Euroluce, con il tema «La luce e la città» e le installazioni luminose in alcune parti storiche del vicino centro città, ma anche il «giovane» Salone Satellite, il più classico Salone internazionale del complemento d’arredo, e quello high tech del Bagno e del Tessile per la casa. Una formula collaudata e vincente che ha spinto gli organizzatori del Cosmit insieme a Federlegno-Arredo a esportare questo modello di fiera prima a New York, dal 14 al 17 maggio, poi a Mosca, dal 12 al 15 ottobre, e nel 2006 chissà dove, forse a Tokyo o in altre città dell’Estremo Oriente. Il termometro che indica la salute di questo evento, infatti, ha registrato un incremento esponenziale del numero di partecipanti dall’estero fino all’edizione record dell’anno scorso quando, per la prima volta, i visitatori stranieri hanno superato quelli italiani: 96.761 contro 92.894. Numeri che naturalmente hanno fatto intravedere, non solo agli organizzatori della fiera, la possibilità di esportare un business worldwide fornendo a un selezionato numero di aziende nostrane una vetrina privilegiata in alcuni mercati strategici, dove è più esportabile il mercato delle eccellenze italiane, dalla moda al design. Così, chiuso il Salone del Mobile ad aprile, il carrozzone Salone sbarcherà sull’Hudson River di Manhattan, proponendo una fiera alternativa a quella dell’ICFF, la più importante nel Nordamerica per l’arredo contemporaneo, e poi voler à a Mosca, a ottobre, nel nuovo polo espositivo Crocus Expo destinato a diventare il principale centro fieristico russo. Sempre qui, la fiera storica «Mebel» e quella più giovane «100% Design» dovranno trovare un loro spazio o studiare nuove alleanze per contrastare il furnishing ideas Made in Italy, cioè il concetto di «suggestione», anche volgare ma rigorosamente prodotta in Italia, che il Salone Worldwide, come medium, veicolerà per stimolare la creatività e suggerire possibili idee per arredare. con ELENA FORMIA Il Giornale dell’Architettura, n. 28, aprile 2005, p.46 53 LE AZIENDE DELLA PRODUZIONE E DELLA DISTRIBUZIONE: ALCUNI CASE STUDIES 54 PIANO, VISCONTI, FUKSAS, STURCHIO Villaggi per costruttori di Ferrari Inaugurati i nuovi stabilimenti Ferrari e presentata ufficialmente a Parigi la granturismo «Enzo» prodotta in serie limitata e già esaurita MARANELLO. Sulla scia dell’ultimo successo mondiale in Formula Uno è stata presentata al pubblico del Salone dell’Automobile di Parigi, in ottobre, la nuova granturismo «Enzo» realizzata dalla Ferrari. Una biposto in fibra di carbonio disegnata dallo studio Pininfarina con caratteristiche e prestazioni analoghe alle monoposto da gara. La crisi dell’auto non sembra contagiare il settore delle automobili di lusso tanto che la casa di Maranello, venduti i 349 esemplari della nuova Ferrari prima ancora della presentazione alla stampa, ha dovuto provvedere alla messa in produzione di altri 50 modelli per accontentare alcuni capricciosi collezionisti e clienti. Un’automobile eccessiva in tutto: nelle prestazioni, nel motore, nella tecnologia, nel prezzo e perfino nel marketing. Ma dove si costruisce l’ultimo gioiello capace di correre su pista a oltre 300 km orari? Naturalmente a Maranello, nei nuovi edifici (alcuni ancora in costruzione) progettati dagli architetti Marco Visconti, Massimiliano Fuksas e Luigi Sturchio nell’area del «Villaggio Ferarri» che accoglie già dal 1999 la Galleria del vento firmata dallo studio Piano. La strategia di marketing che la Ferrari sta attuando dal 1992 passa infatti attraverso una riorganizzazione degli spazi della produzione e un programma di investimenti volti a rinnovare entro il 2005 le fabbriche di Maranello secondo una strategia oggi frequente nell’industria automobilistica europea dell’auto di lusso. La sede direzionale della BMW di Monaco progetta da Karl Schwanzer come l’edificio a Ulm di Richard Meier per la Daimler-Benz, per citare solo alcuni esempi, sono oggetti da esibire e in cui mettere in mostra determinate fasi della lavorazione del prodotto. L’esempio forse più eclatante è quello della «fabbrica di vetro» della Volkswagen progettata da Gunter Henn nel centro di Dresda a pochi metri dalla cattedrale. Una fabbrica tutta in vetro in cui i turisti come i clienti possono assistere alle ultime fasi di assemblaggio delle automobili. Anche Maranello sta trasformando il suo paesaggio industriale molto velocemente. Sturchio ha firmato il garage della Logistica, un capannone a forma di dirigibile in cui accogliere i Tir e i ricambi necessari alle gare di Formula Uno. Fuksas ha progettato (e il cantiere si è aperto da pochi mesi) il Centro sviluppo e prodotto: un edificio a tre livelli in cui una grande vasca d’acqua separerà il piano terreno destinato alle macchine utensili dal piano degli uffici. Di fronte alla Galleria del vento è stata costruita, invece, la Nuova officina meccanica, progettata dal gruppo architettura di Fiat Engineering sotto la guida di Visconti. Uno spazio coperto di 15.000 mq, illuminato con luce naturale, in cui si alternano zone di verde a macchine utensili per la produzione di teste, basamenti in alluminio e altri pezzi del motore. Il cantiere di questo edificio, che si è completato in dodici mesi soltanto, è il risultato di un’attività di squadra che ha trasferito conoscenze, tecnologie e organizzazione scientifica del lavoro dalla fabbrica dell’auto al progetto di architettura. L’immagine tecnologica e la qualità estetica dell’auto si riflettono così nel luogo in cui questa è prodotta, non tralasciando gli aspetti, oggi 55 essenziali, di «ecocompatibilità », qualità bioclimatica e illuminazione naturale, affidati a un team di esperti internazionali. Il Giornale dell’Architettura, n. 1, novembre 2002, p. 26 56 INTERVISTA AL CHAIRMAN DI BASICNET È il marchio a unificare design e moda La rete, la produzione in serie, il rapporto tra moda, marchio e design secondo Marco Boglione Che rapporto intercorre tra moda e design, due settori sempre più indistinguibili? Moda e design, in un aspetto fondamentale, coincidono: entrambi devono comunicare. Tutti i prodotti ormai, dagli oggetti agli appartamenti, sarebbero difficilmente vendibili se il compratore li acquistasse solo per la loro funzionalità. In questo senso design e moda sono identici. Tra il prodotto e la sua comunicazione c’è il marchio, elemento ormai trasversale a tutti i settori; è un flusso di comunicazione che va anche oltre l’oggetto e i suoi contenuti. Un marchio che comunica efficacemente alla fine aiuta a vendere di più un prodotto simile ad altri. Come funziona BasicNet? BasicNet parte dalla creazione del campionario. Il campionario si sviluppa per i nostri tre marchi (Kappa, Robe di Kappa e Jesus Jeans) e deve avere una coerenza con contenuti di comunicazione predefiniti. Poi bisogna realizzare i prototipi. Una volta realizzati, li inviamo ai nostri licenziatari che, tramite le loro reti di vendita, raccolgono gli ordini dai negozi e solo a questo punto attiviamo il sistema di produzione: è un sistema con il quale vengono prodotti e venduti circa 20 milioni di pezzi in 75 paesi nel mondo. È una rete commerciale non burocratica, in cui tutto deve essere scambiato commercialmente gestendo la maggior parte delle transazioni on line senza l’uso della carta. I modelli vengono disegnati in sede. Producete voi anche i prototipi? No. Anche se il primo e il secondo prototipo li realizziamo in luoghi non troppo lontani: molti in Italia, altri in Portogallo, o in Turchia. In ogni caso abbiamo una regola: non si realizzano più di 5 prototipi per ciascun modello, e la media è di meno di due. Una volta definite le caratteristiche del prodotto, viene realizzata una piccola serie per il campionario, se possibile da chi realizzerà in grande serie il prodotto finale. Tutto questo è stato possibile proiettando l’azienda su internet. Che cosa ha rappresentato questa tecnologia per BasicNet? Grazie a internet siamo riusciti a crescere più velocemente e con maggiore flessibilità rispetto ad altri. In sostanza, abbiamo usato per primi una tecnologia innovativa. Era il 1993, verso la metà di settembre: ho letto il protocollo internet. e il giorno stesso ho pensato che si poteva ripartire da zero con questo nuovo sistema. Le università e i sistemi di formazione in Italia e in Europa sono adatti a preparare le persone in grado di lavorare in questo settore? Da alcune università escono studenti molto preparati. Assumiamo molto da stages post universitari, che diventano contratti di formazione e poi contratti a tempo indeterminato: il 90% 57 delle nostre assunzioni sono passate da una simile procedura. Certo, nelle università italiane non si insegnano modelli di funzionamento come il nostro. L’università è comunque vivace, e non credo che nelle università straniere la preparazione sia molto diversa. L’80% del nostro personale è italiano. Che cosa pensa di concetti come eco-compatibilità, sostenibilità. Molti sbandierano la propria «compatibilità» proprio nelle campagne di comunicazione. Io diffiderei molto da quelli che dichiarano di voler fare tanto, perché in genere hanno molto da farsi perdonare; non a caso, le pubblicità più ecologiche sono quelle delle compagnie petrolifere. L’economista belga Gunter Pauli, recentemente intervistato da noi, ha spiegato la sua filosofia basata sul concetto di «zero emissions», dimostrando come si possano utilizzare gli scarti di altri come input per la produzione. È possibile una politica di questo genere? Pauli è un intelligente comunicatore, va bene per creare la sensibilità al problema, ma non per gestire un’azienda. Qualunque azienda deve partire dai bisogni del mercato. E la compatibilità non è il mercato, forse oggi ne è una nicchia. Nel tempo, i gusti si dovranno orientare verso aziende che hanno saputo creare fiducia. Il problema non si può risolvere con obblighi o certificazioni. Come imprenditore ha scelto di investire anche nell’architettura, recuperando la vecchia sede della ditta. Cos’è per lei e per la sua azienda l’architettura in cui si lavora? Iniziata la ristrutturazione della sede storica del 1916 ci siamo accorti che i reparti e i vecchi uffici erano adatti alla nostra produzione. Ai piani inferiori ci sono gli uffici, i reparti di ricerca e sviluppo, di marketing. All’ultimo piano abbiamo trasformato l’ex tessitura in loft abitabili, una sala per le conferenze e mostre. Compresi i servizi commerciali, sono 22.000 mq. Un complesso che funziona notte e giorno, come centro commerciale, di sabato e di domenica. Mancava solo la logistica e abbiamo costruito, vicino all’autostrada, un magazzino di 10.000 mq, punto di arrivo e partenza di tutti i prodotti. Nel prossimo futuro che cosa vi aspettate dallo sviluppo delle tecnologie digitali? Più il mondo va on line, più siamo contenti. Quando siamo partiti, eravamo tra i primi, e essere pionieri vuol dire operare tra mille difficoltà. Oggi tutti i sistemi di produzione e comunicazione sentono l’esigenza di andare on line, e la diffusione della rete non fa che rendere la nostra formula più efficace. Tecnicamente, ci aspettiamo che i costi dei database su server scendano ancora (sono già a livelli accettabili), ma soprattutto che ci aspettiamo l’allargamento della banda. Per quanto riguarda i programmi, noi produciamo il nostro software, in un reparto a ciò dedicato, ed è questo che ci distingue dalla concorrenza. con Edoardo Piccoli Il Giornale dell’Architettura, n. 5, marzo 2003, p. 27, 28 58 7.500 PEZZI D’ACCIAIO PRODOTTI OGNI GIORNO Una macchina da 90 milioni di euro l’anno Alberto Alessi: con «Hot Bertaa» raggiunta la borderline della «bollitoricità» CRUSINALLO (VERBANIA). Nella fabbrica Alessi, che si è dischiusa a poco a poco durante la nostra visita ai luoghi di produzione, è palpabile quell’incrocio di culture d’impresa, tecnologia, design e storia che hanno reso celebre nel mondo l’azienda di Alberto Alessi, e che lui con orgoglio definisce un «laboratorio di ricerca nel campo delle arti applicate». Un laboratorio, una macchina ben oliata, che produce 5 milioni di pezzi l’anno, complessivamente (perché un servizio di posate è composto da più elementi). Ogni giorno, il materiale che risulta dal taglio al laser o meccanico delle lastre in acciaio di produzione francese, e sottoposto già ad alcuni passaggi come levigatura, saldatura e vari controlli, entra nel luogo sacro di produzione: il reparto stampaggio. Da qui esce qualsiasi forma in metallo disegnata dai designer dell’Alessi, quasi tutti architetti. Circa 7.500 pezzi al giorno, soltanto per la produzione dell’acciaio, cui aggiungere il mercato della porcellana, della plastica e del vetro, per un fatturato totale di poco più di 90 milioni di euro. Dottor Alessi, quali sono i mercati più remunerativi? Quello italiano è il più importante ed equivale a circa un terzo di quello mondiale, con circa il 50% del fatturato realizzato soltanto nelle liste di nozze. Il secondo mercato è quello tedesco, anche se in crisi in questi ultimi anni. Segue il resto dell.Europa. Fuori Europa due sono i mercati importanti: Giappone e Stati Uniti. Da dove provengono le materie prime? Tutto quello che produciamo qui deriva dal metallo stampato a freddo. L’acciaio proviene principalmente dalla Francia, la porcellana da Germania e Portogallo, la plastica ancora dalla Francia e, in parte, qui dall’Italia (ma non escludo che in futuro si potrà produrla anche in Cina), il vetro da Austria e Germania. Diventa progressivamente meno rilevante il luogo di produzione, mentre è sempre più determinante la pratica di lavoro nella fabbrica, che fa sì che i migliori progettisti e anche i migliori progetti di un design di ricerca vengano fuori proprio dalle fabbriche italiane. Da quando è diventato un «talent scout»? Fino alla fine degli anni settanta il design italiano era prodotto in Italia e disegnato da progettisti italiani. Nel 1983 insieme ad Alessandro Mendini abbiamo presentato «Tea and Coffee Piazza», un progetto nato qualche anno prima quando Mendini, allora direttore prima di «Modo» e poi di «Domus», ci propose una ricerca per capire come risollevare le sorti del design italiano, la cui parabola era nella fase discendente dopo l’apice raggiunto negli anni cinquanta e sessanta. Una provocazione, naturalmente, che ha avuto come effetto la scoperta che, tra gli undici 59 progettisti invitati, due erano anche straordinari industrial designer: Michael Graves e Aldo Rossi. Fu un concorso per selezionare designer: per usare un’espressione di Mendini, «un progetto nato per ossigenare il nostro mondo del design». E i risultati? L’output di quella ricerca fu la realizzazione di 11 servizi da tè e da caffé realizzati in 99 esemplari fatti a mano in argento, destinati soprattutto al mondo del collezionismo e ai musei. Finita quell’operazione ho potuto constatare che almeno 5 o 6 tra quegli undici progettisti erano interessati a lavorare davvero nel campo del design. «Tea and coffee», inoltre, ha provocato un cambiamento importante nella storia del design italiano, facendo cadere la costante per la quale i migliori esempi di questa cultura sono sempre realizzati da aziende italiane e disegnati da progettisti italiani. Almeno questo secondo elemento è venuto meno. Più della metà degli autori che lavorano con me non sono italiani. Com’è suddiviso il lavoro di creazione e di produzione? Io collaboro con una struttura che si chiama «Design Assistance» e riunisce ingegneri esperti che sono già da diversi anni nella nostra azienda e che hanno assorbito integralmente la nostra cultura. Poi esiste un ufficio più grande in cui sono presenti, insieme, i veri «ingegnerizzatori» del progetto e i disegnatori tecnici. Sono questi ultimi i responsabili di come costruire, far funzionare e produrre un oggetto lavorando sui disegni esecutivi degli stampi e sulla tecnologia. Dal momento che oggi la tecnica e la creatività sono due mondi in forte conflitto tra loro, a volte risulta difficile mettere un ingegnere insieme al designer. Per questo che esiste la «Design Assistance», per risolvere questi problemi di mediazione tra due mondi molto lontani. L’esuberante intervento di cosmesi operato da Stefano Giovannoni sulla nuova Fiat Panda che cosa ha significato per lei? Il primo passo di una collaborazione che potrebbe, mi auguro, proseguire. Le confesso che la mia ambizione è sempre stata quella di mettere in produzione un.«Alessimobile» interamente disegnata qui da noi. Problema plagio: come proteggete un vassoio «Alessi» dalla possibile copia da Oriente? Depositiamo per tutti i nuovi prodotti un modello ornamentale, comunitario, che garantisce una copertura di 25 anni nella maggior parte dei paesi dell’Europa e anche in altri paesi che non appartengono alla Comunità europea. Quando la copia supera il 70% di imitazione dell’oggetto noi abbiamo quasi la certezza di farcela a difenderci. Se è sotto, invece, è molto difficile. Siamo consapevoli comunque di essere sempre stati fonte di ispirazione per molte aziende e designer. Sono anche molto attento al diritto d’autore. In Italia siamo solo ai primi passi, nel senso che è riconosciuto finalmente in termini giuridici anche per le opere di design dalla nuova legge europea; però bisognerà vedere nella prassi come sarà realmente interpretato dalla 60 giurisprudenza. A me farebbe molto comodo, anche perché tutte le aziende di design italiano hanno di fatto dei contratti di royalties in base alle quali gli autori sono pagati in relazione al numero di pezzi venduti e al loro prezzo. E questa royalty di fatto risponde a un criterio di diritto d’autore. Noi riconosciamo diritto d’autore all’autore del design e ai suoi eredi e ci comportiamo come se fosse stato sempre così. Qual è il vostro prodotto più venduto? Quando si parla di top seller devo distinguere il materiale, perché un prodotto in plastica ha delle unità di vendita molto superiori a quelle di uno in acciaio che costa 4-5 volte di più. Un top seller in acciaio è il bollitore di Michael Graves che produciamo dal 1985 e di cui abbiamo prodotto alcuni milioni di esemplari e che vendiamo ancora oggi in 60-70.000 unità l’anno. Un top seller di plastica è, per esempio, «Magic Bunny»: il porta-stuzzicadenti di plastica disegnato da Stefano Giovannoni, di cui vendiamo alcune centinaia di migliaia di pezzi l’anno. E infine i flop. Ho un grande culto per i flop: li ritengo essenziali. Ho sviluppato quella che io chiamo «teoria della borderline» che serve a spiegare perché sono importanti i flop. La borderline separa la zona del possibile dalla zona del non possibile. La zona del possibile è rappresentata da quegli oggetti che il pubblico è disposto ad amare, a capire, desiderare e infine a comperare. La zona del non possibile è rappresentata da quei progetti che il pubblico non è in grado di capire. Questa linea di confine non è disegnata, non si può vedere con gli occhi, tanto meno con una ricerca di mercato. Lavorare molto vicino a questo confine è molto rischioso: non a caso tutte le vere industrie di produzione che lavorano sulla grande serie lo hanno capito benissimo; a poco a poco però tutti si trovano a produrre la stessa automobile o lo stesso televisore. Io, invece, cerco di lavorare il più possibile vicino alla borderline: quando ci riesco creo un oggetto che non esisteva, non è l’ennesima automobile in produzione. Questo oggetto, in termini puramente industriali, mi dà un monopolio: sono solo io che lo posso offrire. Ma come faccio a sapere se sono vicino o lontano? Con i flop: il flop è un flash di un microsecondo in cui io vedo la borderline. Vederla è prezioso e insostituibile, anche se quel singolo oggetto è caduto. Con quale oggetto è riuscito a vedere meglio la «borderline»? Con il bollitore «Hot Bertaa» di Philippe Starck, non più in produzione dal 1997. È con lui che ho visto la borderline della «bollitoricità», fino a dove un progettista si può spingere nello stressare quello che i semiologi chiamano il «velo decorativo», l’interstizio sottile che c’è tra forma e funzione. Il Giornale dell’Architettura, n. 18, maggio 2004, p. 43 61 DOPO I MOBILI, SVEDESI NEI MULTIMEDIA Metro, il giornale globale 14 milioni e mezzo di persone leggono «Metro» ogni giorno in 16 paesi, 54 città, 15 lingue: primo giornale per distribuzione ROMA. I numeri sono da capogiro. «Metro» (5.500.000 copie) è il 3° giornale più letto al mondo dopo i due nipponici Yomiuri Shimbun (10.000.000 di copie) e Asahi Shimbun (8.200.000), in una classifica dei most read che vede il britannico «The Sun» al 6° posto con (3.200.000 copie) e soltanto al 10° (2.617.000) l’altro giornale a diffusione globale: «Usa Today», immancabile cadeau in qualsiasi viaggio aereo. Naturalmente la distribuzione gratuita di «Metro» deve aver influito non poco sul successo di questo prodotto editoriale sostenuto integralmente dalle entrate pubblicitarie. E alle spalle la svedese Kinnevik, società di telecomunicazione cui fanno capo, oltre a «Metro», anche Tele 2, Millicom, Transcom, Modern Holdings e MTG (Modern Times Group), il maggior operatore europeo nei settori media e comunicazione con il più alto numero di abbonati alla Tv digitale. Queste le basi su cui poggia l’impero di Pelle Törnberg, che lancia nel lontano 1995 una prima edizione a Stoccolma e due anni dopo esporta il concept anche nella lontana Praga. «Perché Praga?» amano chiedergli da sette anni i giornalisti. Un luogo come un altro ma più con understatetement rispetto alle altre metropoli europee - sintetizza il presidente di «Metro» da Londra - perché in caso di flop al riparo dalla certa e devastante alluvione di critiche. Ma ciò non è accaduto. Anzi, nel 1998 lancia il giornale gratuito a Göteborg e Budapest, l’anno successivo in Olanda e Finlandia, nel 2000 a Roma e Milano, attraversa l’Atlantico e sbarca a Toronto, a Filadelfia poi in Cile fino ad arrivare all’ultima edizione, quella di New York, del maggio 2004. Un fenomeno di globalizzazione dell’informazione attraverso il prodotto che meglio rappresenta l’industrializzazione della cultura di massa del Novecento, il quotidiano, stampato ogni giorno in milioni di copie e distribuito gratuitamente nei luoghi più frequentati e di maggior passaggio di qualsiasi città: metropolitane, stazioni ferroviarie, università, biblioteche, mercati e alcune sedi istituzionali come, in Italia, Ministero degli Interni, Comune di Roma, Comune di Milano, Regione Lazio, Regione Lombardia. Un mercato trasversale a quello dei quotidiani tradizionali che ha ancora, sembra paradossale, grandi margini di crescita. In una recente intervista apparsa su «Il Sole 24 ore» Törnberg, riferendosi al caso Italia dove «City», «Leggo» e «Metro» coabitano a Milano e Roma, ha spiegato che «non c’è nessuna ragione per la quale più giornali non possano coesistere nello stesso mercato, così come succede per le radio libere e per le televisioni». Sta di fatto che la geografia della distribuzione dei tre quotidiani free press di Roma e Milano appare distorta dalle alleanze politiche dietro alle singole testate. Così «Leggo» (Gruppo Caltagirone Editore) è il solo presente all’interno della stazione Termini (Gruppo Grandi Stazioni di cui fa parte Caltagirone), «Metro» è invece leader incontrastato nella metropolitana romana, «City» (Rizzoli-Corriere della Sera) in quella milanese, e 62 continuando di questo passo si potrebbe mappare l’intera area geografica delle due città. Inoltre, alla luce dei dati in crescita nel 2004 della raccolta pubblicitaria per tutto il settore della free press in Italia, «Metro» ha recentemente stretto accordi con Ferrovie Nord Milano e Viacom per la sua distribuzione in alcuni luoghi della periferia milanese, così come a Roma, per le stesse ragioni, con le Ferrovie dello Stato. Si è arrivati in questo modo a 500.000 copie di «Metro» tra Milano e Roma, ogni giorno. Un giornale apolitico agile da leggere in 20 minuti, quanto si impiega mediamente per spostarsi in metropolitana da un luogo all’altro della città. L’iniziativa ha conquistato, come messo in evidenza dall’indagine Eurisko del 2004 sulla «readership della free press», un nuovo segmento di lettori: quelli che leggono soltanto un giornale free press, appunto perché gratuito. Su 1.642.000 lettori di quotidiani distribuiti gratuitamente, 1.115.000 (cioè il 68%) sono quelli che utilizzano soltanto la stampa non a pagamento. Un dato imbarazzante, che se da un lato mette in luce ancora una volta la profonda crisi in cui versa il settore della stampa tradizionale in Italia, dall’altro conferma il ruolo strategico «sociale», spesso anche di alfabetizzazione, che il quotidiano gratuito, può offrire. Il pubblico della free press è assimilabile oggi a quello della televisione, come spiega Törnberg ancora sulle colonne di «Il Sole 24 ore»: «Questo perché oggi le giovani generazioni cercano un mix facilmente digeribile di notizie chiare, concise ma affidabili. Sia per notizie interne sia estere». Non si tratta di un appiattimento verso il basso dell’informazione ma di una sua articolazione. Gli approfondimenti delle grandi firme del giornalismo rimangono appannaggio dei quotidiani nazionali principali. I flash informativi e i brevi articoli confezionati dagli oltre 400 giornalisti che formano lo staff redazione di «Metro International» (superiore come numero anche a quello di CNN) sono invece la linfa della free press di marca svedese che piace, come l’arredamento Ikea, a un target giovane, per il 70% sotto i 45 anni di età. Il Giornale dell’Architettura, n. 21, settembre 2004, p. 39, 43 63 DOPO BOLLYWOOD, «TOLLYWOOD»: VIRTUAL REALITY & MULTI MEDIA PARK Effetti speciali, non solo narrazione Sotto la Mole: Lanterna Magica, Lumiq Studios, Rai, il Museo nazionale del Cinema, il Parco Tecnologico sulla realtà virtuale e multimediale, la Scuola Nazionale di Cinema d’animazione, Torino Film Festival, Film Commission e Asifa TORINO. Tutt’altro che imbolsito dalla schiacciante supremazia del cinema d’animazione digitale americano (Alla ricerca di Nemo prodotto dalla Pixar-Walt Disney, film campione d’incassi ai botteghini di dicembre e gennaio), il cartone animato italiano rilancia la sfida agli studi d’animazione a stelle e strisce. E lo fa non solo privilegiando la narrazione, che da sempre contraddistingue il cinema europeo, italiano in particolare, ma sul piano della computer grafica e delle tecnologie a supporto della realtà virtuale. Tuttavia l’industria europea del cinema dovrà guardarsi non tanto dai colossi americani, quanto piuttosto da paesi come Vietnam, Cina e India (si pensi al caso Bollywood di Bombay), che hanno in appalto, grazie al basso costo del lavoro, intere fasi di animazione 3D di lungometraggi, pubblicità e videogiochi, tutti di case produttrici statunitensi. In Europa spiccano gli studi cinematografici di Germania, Francia e Finlandia. In Italia, Torino si sta riaffermando come capitale internazionale del cinema, questa volta d’animazione. Oltre a Lanterna Magica (tra i lungometraggi, La freccia azzurra e La gabbianella e il gatto), fondata nei primi anni ottanta da Enzo D’Alò e Maria Fares, sono presenti anche un Dipartimento di animazione che fa capo alla Scuola nazionale di Cinema di Roma, la Film Commission, la Rai, l’Associazione italiana Film d’animazione (ASIFA) e un nutrito gruppo di studi cinematografici tra cui lo studio Lastrego & Testa Multimedia. Inoltre, nei medesimi spazi dove nel 1919 era nato il cinema indipendente italiano, sorge ora il Virtual Reality & Multi Media Park, ultimo nato, cronologicamente, tra i parchi tecnologici piemontesi. Il parco, che dispone di teatri di posa e tecnologie all’avanguardia per la produzione, postproduzione televisiva e cinematografica, punta sulla formazione e sullo sviluppo di prodotti e servizi ad alto contenuto tecnologico per il cinema, la tv, la pubblicità, la multimedialità. All’interno del Parco esistono laboratori per la computer grafica 2D e 3D e per la realizzazione di progetti in realtà virtuale. «La parola chiave spiega Gianfranco Balbo, presidente di Virtual Reality & Multi Media Park - è realtà virtuale, elemento di snodo tra diverse linee di applicazione molto diversificate: nell’ambito cinematografico vuol dire effetti speciali in senso lato, in ambito televisivo o di set cinematografici può voler dire character animation, cioè creazione di un modello, set up di un modello, movimento e interattività. Si va verso il videogioco, considerato spesso come sottoprodotto, ma che può divenire anche elemento trainante di un filmato in character animation. Realtà virtuale, ancora nel cinema, vuol dire creazione di un virtual set. In ambito aerospaziale significa aver la possibilità di simulare sulla Terra operazioni che normalmente si effettuano 64 nelle stazioni spaziali, nel campo dell’architettura e del disegno industriale, vuol dire interagire in real time con un modello Cad, derivato per esempio da Catia. La possibilità di sviluppare manualità e capacità in forma virtuale diventa oggi un elemento estremamente importante, dalle applicazioni in campo industriale a quelle in campo medico per il training dei chirurghi». Il Parco Tecnologico, che è volto alla formazione specialistica di numerose professionalità nei vari settori della realtà virtuale, ha sviluppato di recente anche un innovativo software insieme a Softdesign (www.soft-design.it): un motore di rendering grafico (EnrG) per la realizzazione di applicazioni immersive 3D in tempo reale. Il motore consente di integrare streaming audio e video all’interno di un ambiente di sintesi, offre numerosi livelli di texture sul medesimo oggetto e la possibilità di multithreading (lavorare cioè con multi-processori). Tra le tecnologie d’avanguardia anche una Rendering Farm di dimensioni ragguardevoli, pronta ad assorbire anche eventuali commesse d’oltreoceano, «anche se - puntualizza Balbo – l’obiettivo è essere presenti su tutta la catena, dall’ideazione alla distribuzione, e non soltanto fornendo services agli studi cinematografici americani, come avviene ad esempio in India, con i quali, tra l’altro, difficilmente potremmo competere». Presso il Virtual Reality & Multi Media Park ha sede anche la società a capitale privato Lumiq Studios che sviluppa competenze nel campo del cinema, della pubblicità, della tv, del cartoon, dei videogiochi e del restauro cinematografico, e che ha già collaborato alla realizzazione di alcuni format per il piccolo schermo (Amazing History) e alla fase di postproduzione di film recentemente usciti nelle sale (come Cantando dietro i paraventi di Ermanno Olmi) e di pubblicità (Toyota Altis, videogioco FIFA 2004). Il distretto industriale torinese si sta modificando: all’auto subentra un’altrettanto articolata produzione per il mercato dell’audiovisivo e per le variegate applicazioni della realtà virtuale. Nella Mole Antonelliana ha sede il Museo del Cinema, Cinecittà Holding ha stretto accordi con il Parco Tecnologico, la ricaduta è anche sul piano formativo: dal Politecnico alla Scuola nazionale di Cinema fino al Virtual Reality & Multi Media Park si possono indagare i molti aspetti della multimedialità, dalla tecnica del suono, il video, gli effetti, la grafica 3D, la realtà virtuale, lo storyboarding, alle tecniche di animazione in computer grafica, al design dell’interattività nei videogiochi fino al restauro delle pellicole. I numeri di VR&MM Park Superficie totale: 10.000 mq per sale regia, aule, camerini, uffici, falegnameria, sartoria e vari locali tecnici 4 teatri di posa di cui: «Teatro 1», 1.500 mq, altezza. 18 m. Ospita, tra l’altro, una piscina predisposta per le riprese subacquee «Teatro 2», 700 mq, altezza 15 m. Ha sede qui il blue box, l’ambiente per set virtuali, tra i più grandi in Europa attrezzato con tecnologia israeliana Orad. www.vrmmp.it Il Giornale dell’Architettura, n. 15, febbraio 2004, p. 35 65 L’ENTREPRENEUR ROBERT FORBES La diffusione del mercato del design oltre oceano Intervista al fondatore di Design Within Reach alla vigilia del lancio americano di Cosmit Worldwide In un’improbabile classifica stilata allíinizio dellíanno dalla rivista americana «I.D.» (International Design Magazine, gennaio-febbraio 2005) delle quaranta personalità più influenti nell’ambito della cultura del design latu sensu, compare al decimo posto l’imprenditore americano Robert Forbes, staccato di qualche posizione dai curatori del design department del MoMA, vincitori dell’edizione di quest’anno, da Steve Jobs, chief executive officer dei due colossi Apple e Pixar, e, tra gli altri, da Philippe Starck, da Rem Koolhaas e dal sindaco di Chicago Richard M. Daley. Design Within Reach (tradotto letteralmente «design alla portata») è la società fondata da Forbes per la vendita al dettaglio nel Nord America di prodotti di «modern design», dalle icone lecorbusieriane alle sedute prodotte da Herman Miller fino alle lampade disegnate da Castiglioni e De Lucchi. Laurea in economia all’Università di California, master in Business Administration a Stanford e una passione smisurata per il design domestico, Robert Forbes ha inaugurato a San Francisco nel 1999 il suo primo studio dove si organizzano incontri con personaggi di spicco della cultura del progetto, si vendono lampade, arredi e accessori, ma si offre anche assistenza ai progettisti e al pubblico; da allora ne ha aperti oltre quaranta, da Los Angeles a Washington. Dal giugno 2004 DWR è quotata in borsa tra i titoli del mercato tecnologico del Nasdaq e il suo fatturato nell’ultimo anno ammonta a oltre 100 milioni di dollari. Design Within Reach è tra i primi veicoli per la diffusione allargata del design europeo negli Stati Uniti: com’è nata l’idea? Tutto è iniziato nel 1990 quando, dopo un’esperienza di lavoro in Gran Bretagna, sono rientrato negli Stati Uniti e ho dovuto arredare la mia nuova casa. Cercavo degli arredi moderni ma trovarli è stato difficile: a San Francisco esistevano allora solo due showroom di prodotti di design, peraltro molto esclusivi. Il prezzo e l’attesa per ottenerli hanno ulteriormente complicato la già difficile ricerca. Negli anni successivi, dopo un’esperienza di lavoro presso un’importante azienda specializzata nella vendita di d’arredo per l’esterno, ho avviato un’attività commerciale centrata sugli interni. Infine nel 1998, avvicinandomi a produttori come Herman Miller, Vitra e Kartell, ho potuto constatare come nel mercato americano ci fossero i presupposti per un più ampio sviluppo del design d’alto livello. Il passo seguente fu l’acquisto, in Italia, di 16 container di prodotti di design. L’anno successivo ho pubblicato il mio primo catalogo che illustrava 50 sedute progettate da designer italiani: l’ho lanciato sul web e distribuito a 300.000 americani inclusi architetti, designer e grafici. Fu un successo, dovuto al fatto che nel catalogo comparivano prodotti sconosciuti ai più, a fianco di oggetti ben riconoscibili come le sedute degli Eames: due terzi della selezione era di produzione italiana. 66 Dopo sei anni, quali sono oggi le dimensioni di DWR? Al momento abbiamo in catalogo 800 prodotti che vendiamo a circa 150.000 clienti. Il punto di forza è rappresentato oggi dalla presenza sul territorio con i 42 studios distribuiti nelle principali città americane: solo a Manhattan siamo presenti con quattro sedi. Altrettanto importante per la comunicazione dell’azienda è il servizio offerto dal catalogo che pubblichiamo e distribuiamo in più di un milione di copie ogni mese, oltre al sito web e la newsletter settimanale inviata a 400.000 persone: internet è importante non tanto come spazio per fare acquisti, ma come luogo per una comunicazione efficace e immediata. Qual è la filosofia alla base di DWR? L’obiettivo è di eliminare ogni tipo di complessità. Puntiamo sulla semplificazione delle versioni e sulla rapidità di consegna. Si pensi alla «Aeron Chair», a suo tempo simbolo della nuova tecnologia capace di caratterizzare un luogo di lavoro: noi abbiamo creduto in questo prodotto e siamo stati i primi negli Stati Uniti a metterla in commercio; ora è disponibile in 24 ore. Si può ipotizzare un allargamento del vostro mercato anche al di fuori degli Usa? Il concetto di design domestico è accolto universalmente: a Tokyo come a Milano o Parigi le persone parlano la stessa lingua. Ritengo che si potrebbe avviare un’attività proficua in Italia, come in altri luoghi, partendo semplicemente dalla creazione di una rete di distribuzione efficace per portare la merce da qualunque parte e in breve tempo. Il più grande errore che si commette oggi nell’era di internet è quello di non capire fino in fondo che non conta soltanto inviare l’ordine in pochi secondi… I vostri clienti scelgono i prodotti per il nome del designer, per l’azienda come garanzia di qualità o per il prodotto in sé? Qui l’idea della riproduzione è molto complessa, ed esiste un mercato tanto per la copia quanto per l’originale. Il Made in Italy negli Stati Uniti significa alta qualità a un prezzo elevato. Ci sono molti clienti, infatti, che al momento di scegliere la chaiselongue di Le Corbusier, ad esempio, preferiscono il prodotto realizzato dalla casa italiana che detiene il brevetto; altri invece che scelgono un prodotto molto simile a un prezzo contenuto. Al momento stiamo ampliando la tipologia dei nostri fornitori cercando di acquisire la maggior parte degli articoli direttamente dalle case produttrici originali. Questo perché siamo giunti a un punto di sviluppo tale per cui oggi sono molte le aziende rinomate che desiderano collaborare con noi. A metà maggio il Salone del Mobile si sposta a Manhattan, in un mercato molto differente da quello italiano: come giudica questa operazione, quali le analogie con il modello d’origine? Sarà di sicuro un’ottima occasione per ampliare la visibilità del design italiano, in una città strategica come New York. Si tratta forse di un passaggio obbligato: negli ultimi anni l’Italia ha ampliato un po’ alla volta la propria presenza nel mercato americano e l’evento Cosmit 67 WorldWide potrà attrarre oltre 20.000 visitatori dando un forte segnale anche al mercato statunitense. Il mercato del design negli Stati Uniti è molto elitario: la semplice visita a uno showroom per visionare un oggetto si poteva verificare, tempo fa, soltanto se accompagnati da un architetto professionista. È un sistema di cui in fondo si compiace anche l’industria, e che rende il cittadino medio del tutto ignorante rispetto al prodotto di design. In realtà non esiste un dibattito pubblico, cioè non limitato ai soli addetti ai lavori o nelle sedi universitarie, come accade a Milano, ad esempio, durante la settimana del Salone. Così per esempio NeoCon, il più grande evento americano che si svolge a Chicago dedicato al contract, consente l’ingresso soltanto ai progettisti. Così anche High Point, che equivale al vostro Salone del Mobile, è di qualità molto bassa e non esiste una via di mezzo se non la fiera ICFF di New York. con ALESSANDRO ALLEMANDI DESIGN WITHIN REACH Quotato con la sigla DWRI al Nasdaq di New York, è tra i più importanti rivenditori americani di prodotti di industrial design moderno e contemporaneo, che conta circa 300 impiegati. Quarantadue studios situati nelle principali aree metropolitane degli Stati Uniti fungono da avamposto per la vendita al dettaglio e per la divulgazione del prodotto, visto il più delle volte soltanto sul catalogo. A oggi, circa il 50% delle vendite di DWR avviene tramite il sito internet o telefonicamente. Negli Stati Uniti tra i bestseller dei corpi illuminanti, «Arco» di Achille e Pier Giacomo Castiglioni (nella foto), con oltre 500 pezzi l’anno, mentre tra le sedute spiccano le poltroncine in policarbonato di Kartell disegnate da Philippe Starck(2.000-5.000 unità/anno). Il Giornale dell’Architettura, n. 29, maggio 2005, pp. 42-43 68 INTERVISTA A FRANCO VERGNANO E ROBERTO FERRERO La nuova sfida: cinema e architettura L’azienda cerca di scalare la classifica italiana dei produttori di caffè puntando sul «Progetto 1882», una rete di caffetterie con torrefazione Per uno dei settori trainanti dell’economia nazionale quale quello dei produttori di caffè non è una novità associare «chicchi» e mondo dell’arte e del design: locali a tema, sofisticati progetti di merchandising, oggetti griffati, eventi a scala internazionale sono solo alcuni degli strumenti di un marketing aziendale sempre più proiettato verso il mercato della cultura. Più originale è la proposta di un connubio con il cinema, un’idea recentemente promossa da Vergnano, azienda a conduzione familiare impegnata negli ultimi mesi a rinnovare la propria immagine. Signor Vergnano, perché avete scelto il medium cinema? Il cinema è il canale privilegiato che intendiamo utilizzare per promuovere la grande distribuzione, come dimostrano, ad esempio, il concorso «Vola a Hollywood», ma soprattutto la campagna televisiva «Lezioni di caffè» con Dustin Hoffman (in onda da settembre). Abbiamo scelto un testimonial d’eccezione che potesse sfondare presso un pubblico allargato, ma anche rispecchiare la qualità del nostro prodotto e della nostra azienda. Ma non è l’unico impegno: ora puntiamo molto sul «Progetto Caffè Vergnano 1882», che ha a che fare con l’architettura e il design. Di che cosa si tratta? Il «Progetto» prevede una rete di caffetterie all’italiana con torrefazione (e non cito appositamente il termine «bar»). Nasce cinque anni fa come un’avventura senza particolari pretese: un intervento sulla facciata di un edificio esistente, una delle più antiche torrefazioni italiane, nello stesso luogo dove sorgeva l’azienda Vergnano nell’Ottocento, a Chieri. L’idea di rifarsi direttamente alle vetrine torinesi e mitteleuropee dell’Ottocento, tema divenuto oggi centrale nel «Progetto», rappresentava all’epoca una buona soluzione progettuale, ma anche un rassicurante escamotage (per il facile smontaggio) per affrontare le fortune, ancora incerte, dell’impresa. Il Caffè ha avuto successo e dopo pochissimo tempo ci hanno chiesto di ripetere l’esperienza in Italia e all’estero, un’operazione che da allora è diretta dell’architetto Roberto Ferrero. Architetto, quali sono state le iniziative successive? Dopo Chieri (2000), è stata la volta di Nizza, poi Monaco, Düsseldorf, Londra, Riga, Parigi. Le destinazioni sono state scelte in funzione dell’andamento del mercato e delle potenzialità di vendita del prodottoVergnano nei contesti locali. Ma non basta, era più facile portare avanti quest’operazione all’estero: la qualità del progetto, del manufatto, del design nostrano, del caffè italiano in genere, rappresentano un know-how molto apprezzato al di fuori del nostro paese. Il 5 ottobre, con l’apertura del nuovo Caffè all’interno del centro commerciale che si inaugura a 69 Caselle, avremo raggiunto 18 punti vendita, sette dei quali all’estero. Come funziona il percorso che porta alla nascita di nuovi Caffè? Il primo approccio viene sempre dal settore commerciale. Si compie quindi un sopralluogo e poi prende avvio la fase progettuale, accompagnata da un’idea di strategia che comprende costi, tempi, possibilità. Mediamente un locale diventa operativo in quattro, cinque mesi, dall’accordo all’inaugurazione. Il progetto contempla tutto: colore, arredamento, merchandising, collocamento degli oggetti nel locale, controllo della qualità del prodotto, verifica del livello di servizio. In questo senso è nata l’«Accademia Vergnano»: i parametri dei Caffè dovrebbero essere standardizzati e attestati a un livello di qualità molto alto. A tal fine, ciclicamente (due volte l’anno) riuniamo addetti - convocati o iscritti - per approfondire il discorso «Caffetterie»: ad esempio, un insegnante spiega quali sono le varianti di un cappuccino, quanto dev’essere alta la crema, come va servito il cucchiaino, il sottotazza... Inoltre seguiamo personalmente il lancio dei locali all’estero, assistendo e accompagnando il personale. I format che proponete sono sempre uguali? No, in particolare lo studio degli interni, dove il progetto cerca di conformarsi alle diverse città, alle diverse realtà. Cambiano dettagli o elementi sostanziali, ogni ambiente è personalizzato. Per esempio il Caffè di Düsseldorf, collocato in un quartiere elegante, è allestito con divani e poltrone in pelle; a Parigi, il locale dovrà essere più «italiano» degli altri; mentre il Caffè di Londra ha dovuto piegarsi alla terribile macchina dei coffee-shop inglesi diventando un takeaway con sgabelli alti (tale locale è stato eletto Caffè dell’anno dalla rivista inglese «What’s On In London»). Qualcosa di molto simile alla popolare e collaudata catena Starbucks, una formula che la qualità italiana potrà solo migliorare. Come è stato studiato il merchandising del «Progetto»? Il contenitore per caffè in PET è il prodotto più interessante, ma il merchandising comprende anche il nero, che è entrato efficacemente come colorazione: nei tradizionali oggetti come tazze e tazzine, nelle divise, realizzate in collaborazione con Robe di Kappa, e nel logo. Il contenitore in PET è nato dall’esigenza di avere un nuovo prodotto che potesse competere con i contenitori sotto vuoto di Illy. Ci siamo orientati su un materiale trasparente in modo da rendere il caffè visibile, esibendo chicchi migliori e più grandi. Abbiamo poi dovuto giocare su dimensionamento e peso, contrastando i problemi di rigidità. Così è nata l’idea di proporre una confezione trasparente, rettangolare, compatta, completamente riciclabile. Il progetto è arrivato anche a brevettare una dima per riportare il numero 1882 sulla schiuma del cappuccino! Esiste un problema di falsi? 70 Sì, si sono verificati già due casi in Polonia. I distributori locali che servono il caffè Vergnano hanno utilizzato il nostro marchio per realizzare il progetto dei locali. L’aspetto positivo è che questa iniziativa ha rispettato fedelmente i nostri canoni e ora abbiamo regolarizzato il rapporto commerciale. Signor Vergnano, alla luce di queste operazioni, come si colloca la vostra azienda all’interno del mercato italiano del caffè? Vergnano è la quinta azienda in Italia e all’estero esporta in trenta paesi diversi (un mercato in cui mancano gli Stati Uniti, ma che si sta aprendo verso Cina e Corea). Il nostro principale concorrente è Illy, con cui condividiamo numerose strategie d’impresa: l’idea di puntare sulla qualità, l’estero, il canale hotel-bar-ristorante, il merchandising. Ci sono infatti aziende come Lavazza, che è leader del mercato, che hanno una politica e un concetto di prodotto diversi e sono orientate verso la grande distribuzione. con ELENA FORMIA Il Giornale dell’Architettura, n. 33, ottobre 2005, p. 42-43 71 LE RECENSIONI 72 UN DESIGN CHE SI VUOLE SOSTENIBILE Tracce di comunità in Triennale Milano è la prima tappa di una mostra interattiva sulla sostenibilità MILANO. Il design non è soltanto produzione di artefatti. Primo messaggio - non così scontato che la Triennale veicola mettendo in parallelo tre mostre di design allestite al primo piano: sull’acqua, sulle mutazioni degli interni domestici, sulle strategie (il cosiddetto design strategico) che si dovranno attuare per vivere nelle città cosmopolite. Non solo, design significa progettare anche servizi fondati sul principio della condivisione di un bene, dal car-sharing all’utilizzo di lavanderie, ma anche cucine, comuni a più utenti: un approccio condotto a monte per dematerializzare prodotti, ritenuti oramai tradizionali, sostituendoli con servizi utili alla collettività. Alcune di queste proposte sono illustrate nella mostra «Quotidiano sostenibile. Scenari di vita urbana», curata da Ezio Manzini e François Jégou e allestita da Studio Azzurro: una rassegna interessante quanto utile di proposte d’intervento a partire dall’ambito locale per trasformare comportamenti e abitudini di chi abita le città. I lavori esposti nella sezione «Laboratori» sono i primi risultati di una ricerca progettuale, tuttora in corso, condotta con studenti di Cina, Corea, Giappone, Canada, Usa, Brasile, India, Francia, Finlandia e Italia che hanno partecipato a workshop organizzati secondo una medesima struttura e uno stesso tema. «I 15 laboratori sparsi nel mondo - spiega Manzini - offrono uno spaccato di quanto succede o si sta già sperimentando nei vari paesi; gli studenti funzionano come antenne che captano modi di vivere e comportamenti e traducono il tutto in soluzioni realizzabili, ma che non sono un .mai visto prima.». In effetti, la mostra è un catalogo di soluzioni curiose, più o meno originali, ma che hanno la forza di comunicare attraverso un allestimento sofisticato e al tempo stesso leggero (in economia di supporti e facilmente riproponibile altrove) che cosa significhi progettare sistemi finalizzati a un ambiente sostenibile. Il contesto di studio è quello della grande città cosmopolita, con tutti i problemi noti di mancanza di spazio e di convivenza tra gli individui. Le soluzioni proposte sono raccolte per temi, come quello della casa estesa nella sua accezione non ideologica, non sul modello moscovita del Narkomfin o delle cosiddette «comuni» degli anni sessanta-settanta, con l’individuazione di spazi pubblici per socializzare, lavanderie comuni o «club di cucina», come previsti già da tempo nei campus studenteschi. Sono oggetto di studio anche la sfera del lavoro, dello studio e del tempo libero per avvicinare queste attività alle zone residenziali tentando una loro integrazione. Le prefigurazioni degli studenti riguardano anche la mobilità alternativa, il sistema alimentare (prodotti biologici, stagionali del luogo), lo studio delle zone a verde urbano ma, in particolare, il ripristino del network di relazioni e di collaborazioni di vicinato che la comunità (in contrapposizione nella sociologia classica a società) può offrire. È proprio nei meccanismi della comunità - che è il vocabolo, insieme a «condivisione», che ritorna più frequentemente lungo il percorso dell’esposizione - che si possono riprogettare modi 73 di vita sostenibili. Malgrado i workshop siano stati organizzati in contesti culturali e geografici anche molto lontani, le proposte degli studenti coinvolti sono in alcuni casi molto simili, almeno a un primo livello metaprogettuale. La mostra, infatti, mette in luce quante siano le prospettive «cosmopolite» e l’esistenza di elementi di una comune cultura della sostenibilità che vanno oltre la dimensione locale. La seconda sezione dell’esposizione, quella degli «Scenari», è invece interattiva e il visitatore può esprimere le proprie preferenze su alcune «situazioni sostenibili», utilizzando come scheda il biglietto d’ingresso. La mostra, che chiude il 21 dicembre è accompagnata dal catalogo Quotidiano sostenibile e dal fascicolo Album. Un catalogo di soluzioni promettenti (Edizioni Ambiente, pp. 272, euro 50, in vendita con Album, pp. 26). Il Giornale dell’Architettura, n. 13, dicembre 2003, p. 31, 35 74 IN VIAGGIO CON KEROUAC SULLA ROUTE 66 Foto on the road, perfino troppo belle Tra archeologia industriale e asfalto: 152 scatti firmati Franco Fontana TORINO. Route 66 è un lungo nastro d’asfalto che collega l’est e l’ovest degli Stati Uniti, da Chicago a Santa Monica. Da percorrere soltanto in questa direzione e non al contrario, come consigliano anche le guide. È anche il tema dell’opera di Franco Fontana in mostra alla Fondazione Italiana per la Fotografia, dopo la prima tappa a Reggio Emilia nel 2002. È l’America che ti aspetti di vedere. Iperreale. O pop. Ma come shakerata, ricomposta dopo un twister. O dopo un’esplosione. Lunga e lenta, inesausta. Con colonna sonora. Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni. E gli oggetti occupano un posto che non è il loro. Ma è come se fossero sempre stati lì. Destinati a un declino che neanche queste fotografie rivitalizzano. Vecchie stazioni di servizio, motel, caffé, pali del telefono, insegne, neon, distributori di bibite. Oggetti decontestualizzati, sospesi. In verticale e orizzontale. «Il nostro campo visivo verticale - spiega Fontana - è meno vasto di quello orizzontale. Con l’immagine verticale il primato della cultura prevale sulla natura. Gli oggetti rappresentati diventano un inno al desiderio senza tempo, una ricerca formale di disegno che ci riporta a Giorgio Morandi, al design dell’archeologia industriale e alla comunicazione attraverso gli oggetti. Dove le immagini e il design delle cose perdono rilievo. I colori quasi svaniscono e l’unico dato di riconoscimento è la loro silhouette». Belle foto, forse anche troppo, queste dell’artista-fotografo modenese. Fotogrammi di un cortometraggio più che semplici scatti. Senza personaggi e interpreti. E come dialoghi le poesie di Ferlinghetti e le parole delle canzoni di Woody Guthrie. Un viaggio dove l’arrivare è secondario. Una scenografia ininterrotta. Paris, Texas di Wim Wenders. Un catalogo ossessivo e pomposo di modernariato. E grafici e art directors in fibrillazione per le mille suggestioni di locations. Multiple possibilità di lettura della mostra quindi. «In Twin arrows - 20 miglia da Flagstaff. - riprende Fontana - le frecce sintetizzano il linguaggio comunicazionale, il segno come scrittura. E diventano totem, scultura». Polvere, anche se azzerata dalla luce: colori netti, alla Fontana. Siamo nel pieno della Società dello Spettacolo: non solo nel senso del consumo, ma del mitico per la sollecitazione del desiderio e della gratificazione dello spreco che è poi ciò che lo sorregge. Se questi fotogrammi avessero un altro formato, fossero più grandi, avremmo la sensazione di trovarci di fronte a dei quadri, che al di là del loro valore d’arte, avrebbero quello del documento. Da rivedere, da confrontare. Tra trent’anni quando ben altre auto, non quelle dalle grandi pinne, dai colori dei lecca-lecca, con i volanti e la fascia delle gomme bianca, sfrecceranno su questo nastro d’asfalto. Punto zero di Richard Sarafian. con FRANCO MELLO 75 Recensione della mostra Franco Fontana Route 66, a cura di Sandro Parmiggiani. Fondazione italiana per la fotografia. Franco Fontana Nato a Modena nel 1933, nel 1961 inizia a dedicarsi alla fotografia a livello amatoriale e nel 1965 inaugura la sua prima personale a Torino. Nel 1979 compie per la prima volta un viaggio negli Stati Uniti, da cui hanno inizio le ricerche sul paesaggio urbano. Ha ottenuto importanti riconoscimenti e premi in Italia e all’estero. Ha esposto in tutto il mondo in gallerie private e musei con oltre 400 partecipazioni tra collettive e personali. Ha collaborato e collabora con riviste e quotidiani come «Time-Life», «Vogue-Usa», «Il Venerdì» di «la Repubblica», «Sette» del «Corriere della Sera», «Epoca», « Panorama », «New York Times», «Frankfurter Allgemeine Zeitung». Oltre quaranta pubblicazioni hanno celebrato l’opera di Fontana nel mondo.Tra le molte campagne pubblicitarie: Fiat, Volkswagen, Ferrovie dello Stato, Snam, Sony, Canon, Kodak, Robe di Kappa. Dirige regolarmente workshops, tra gli altri, al Politecnico di Torino (corso di laurea in Disegno industriale), all’Interfotofestival in Calabria e al Toscana Foto Festival, di cui è responsabile della direzione artistica. Il Giornale dell’Architettura, n. 8, giugno 2003, p. 22 76 LUCE IN NUCE Cinquant’anni di lampade italiane La storia di Alberto Bassi colma un vuoto editoriale Sedici riferimenti bibliografici «essenziali» (ma un indice dei nomi fittissimo) al fondo del libro di Alberto Bassi, La Luce italiana. Design delle lampade 1945- 2000, danno la misura di quanto la storia delle imprese e dei progettisti degli apparecchi illuminanti «made in Italy» sia ancora un campo poco indagato. Sono numerosi infatti gli architetti, gli artisti, gli ingegneri e gli imprenditori che hanno lasciato un segno indelebile nel design della luce, disegnando e mettendo in produzione alcune lampadearchetipo così eccezionali da essere riprodotte a distanza di quarant’anni. Ma anche il vuoto letterario in questo settore pare ora colmato, almeno in parte, dal libro di Bassi, secondo volume della collana «Design & Grafica» di Electa, dopo Abecedario di Sergio Polano e Pierpaolo Vetta. I saggi che compongono il volume mettono a fuoco alcuni passaggi essenziali della ricerca formale e tecnologica nella progettazione delle lampade negli anni successivi al secondo conflitto mondiale. Schede biografiche dei designer (come Bruno Munari, Gino Sarfatti e i fratelli Castiglioni), studi sulle aziende (Arredoluce, Kartell, Danese), sui sistemi illuminotecnici e su alcune fasi epocali del design italiano (anni cinquanta in primis) restituiscono uno scenario molto complesso, eterogeneo negli esiti, ma uniforme nei numeri delle unità prodotte. Lo testimoniano gli oltre mille brevetti di lampade depositati tra il 1946 e il 1965, a sottolineare un grande interesse per un settore che si è evoluto negli anni introducendo nuove tecnologie, materiali prodotti industrialmente (come il metacrilato) o sistemi di illuminazione innovativi come le fibre ottiche (che sono conduttori di luce, come il perspex utilizzato da Mangiarotti nel 1962) e le lampade a led alimentate da celle fotovoltaiche al silicio. Il filo che riunisce i molti racconti è rappresentato dal «pensiero progettuale», un percorso, che, come scrive l’autore, «conduce a formulare un’idea di manufatto industriale, come risultanza di una “intuizione funzionale”, e/o tecnologica e/o estetica oppure in risposta a una necessità di mercato». Alberto Bassi, La luce italiana. Design delle lampade 1945-2000, Electa, Milano 2003, pp. 248, euro 35. Il Giornale dell’Architettura, n. 8, giugno 2003, p. 30 77 Il design delle lampade anomale Sul tema dell’illuminazione e, in particolare, del design delle «lampade anomale» prodotte tra gli anni sessanta e settanta, occorre segnalare anche il recente libro curato da Fulvio e Napoleone Ferrari: «Luce. Lampade 1968-1973: il nuovo design italiano», Allemandi, Torino 2002. Quasi duecento lampade memorabili di quel periodo straordinario, selezionate da Fulvio Ferrari durante il suo lavoro di «postantiquariato», e disegnate da oltre 120 designer, molti dei quali famosi, altri sconosciuti o dimenticati. I saggi contenuti nel volume portano la firma di Fulvio Ferrari, Gillo Dorfles, Andrea Branzi, Roberto Gabetti e Consuelo de Gara. Luce. Lampade 1968-1973: il nuovo design italiano, a cura di Fulvio Ferrari e Napoleone Ferrari, Allemandi,Torino 2002, pp. 136, euro 49. Il Giornale dell’Architettura, n. 8, giugno 2003, p. 30 78 COME DARE FORMA ALLA TECNOLOGIA Livio e Piero: architetti-scintilla Sistemi di illuminazione ma soprattutto apparecchi radio. Questi i Castiglioni La recente monografia edita da Electa su Livio e Piero Castiglioni consacra l’attività di due protagonisti del design italiano i cui lavori, alcuni meno conosciuti forse per il loro carattere transitorio (allestimenti di musei, progettazione di interni, sistemi di illuminazione), sono spesso associati o confusi con quelli dei fratelli minori di Livio: Achille e Pier Giacomo. Il ricco materiale iconografico che costituisce la spina dorsale del libro accompagna il lettore attraverso la poliedrica produzione tecnico-artistica di Piero e del padre Livio, l’inventore - parafrasando Gio Ponti - di un «vero Stile dell’apparecchio radio», lo strumento su cui si riversano, negli anni trenta, interessi culturali e commerciali, ma soprattutto politici. Livio, dopo aver frequentato per un paio d’anni i corsi al Regio Istituto Superiore di Ingegneria di Milano, s’iscrive alla facoltà di Architettura dove si laurea nel 1936. L’anno successivo apre uno studio, accanto a quello del padre scultore, insieme a Luigi Caccia Dominioni e al fratello Pier Giacomo. Nel loro laboratorio si disegnano apparecchi radio, posate e altri oggetti, molti dei quali realizzati a partire da calchi in gesso. Il libro di Dario Scodeller documenta infatti anche i numerosi studi sulla forma dei radioricevitori, spesso affiancati a oggetti comuni dell’arredo domestico, per contestualizzarli e legittimarli come apparecchi essenziali della vita moderna. Oltre allo studio degli strumenti per diffondere il suono, Livio Castiglioni indaga anche la luce, intesa come questione di illuminotecnica, nei suoi numerosi campi di applicazione, dalla conduzione alla diffusione. La ricerca si svolge fino alla definizione di un sistema su binari che porta insieme apparecchi per l’illuminazione e la diffusione sonora («Trepiù», con Gae Aulenti, Stilnovo, 1972), o alla celebre lampada pop «Boalum» (con Gianfranco Frattini, Artemide 1970), costituita da un lungo tubo in pvc flessibile in cui sono inserite 21 lampadine in serie sottovoltate. Tuttavia, il sistema d’illuminazione forse più conosciuto rimane «il diabolico faretto» (perché abbaglia) «Scintilla», l’alogena nuda per definizione, in cui la lampada si riduce alla sola incandescenza del filamento. Un sistema che segna l’inizio della collaborazione (che durerà dieci anni) di Piero con Livio, e che sarà realizzato in molte versioni a partire dal prototipo del 1972: un’alogena lineare, cavetti tensionatori, un «osso» di vetro come distanziatore-isolatore, due catenelle in argento. Dopo aver partecipato nel 1972 con Ugo La Pietra alla mostra newyorkese «Italy: the New Domestic Landscape», Piero Castiglioni realizza sistemi di illuminazione e audiovisivi per la XIV e XV Triennale di Milano, per Eurodomus e per altre mostre in Italia e all’estero. Lavora con il padre fino al 1979, anno della morte di quest’ultimo, e nel 1980 realizza con Bruno Munari e Davide Mosconi uno spettacolare gioco di luci nel teatro comunale di Firenze per Prometeo di Scriabin. Tra i più importanti progetti d’illuminazione per musei e gallerie sono da segnalare quelli per Palazzo Grassi a Venezia, il Museo della Gare d’Orsay a Parigi, il Museo d.Arte catalana a 79 Barcellona, la Galleria Vittorio Emanuele a Milano. Dario Scodeller, Livio e Piero Castiglioni. Il progetto della luce, Electa,Milano 2003, pp. 332, euro 45. Il Giornale dell’Architettura, n. 10, settembre 2003, p. 25, 36 80 L’Italia s’è Vespa «Chi Vespa mangia le mele» e «Vespizzatevi!» sono due dei tanti messaggi pubblicitari che hanno fatto la storia della pubblicità dello scooter più famoso dell’azienda di Pontedera. La mostra si è inaugurata il 19 dicembre 2002 e rimarrà aperta fino al 16 marzo 2003: ricostruisce nelle otto sezioni tematiche in cui è suddivisa la storia della comunicazione pubblicitaria della Vespa, utilizzando il ricco materiale iconografico proveniente dall’Archivio Storico Piaggio. La Vespa nasce nel 1946 nelle officine dell’imprenditore ligure Enrico Piaggio. Corradino D’Ascanio è il progettista del primo modello realizzato con materiali di recupero dell’azienda, che fino ad allora aveva prodotto treni, navi e, durante la guerra, anche elicotteri e aerei. La ricostruzione dell’Italia postbellica passa anche attraverso l’innovazione della mobilità della gente. L’efficacia dei manifesti pubblicitari realizzati da artisti come Mosca, Savignac (nella foto, 1955), Longanesi fino alle agenzie Fletcher, Fukuda, Cato e Glaser hanno contribuito a rafforzare l’immagine di un simbolo della ricostruzione prima e della libertà poi. Museo Piaggio – Giovanni Alberto Agnelli Pontedera Il Giornale dell’Architettura, n.3, gennaio 2003, p. 25 81 Mollino e 12 designer interpretano il vernacolare La sedia a tre gambe che carlo Mollino ha disegnato negli anni quaranta prendendo a modello il tipico sgabello valdostano rappresenta, non solo metaforicamente, l’ideale punto di partenza di una mostra, curata da Fulvio Irace, sul tema della reinvenzione della tradizione. La rassegna, aperta ad Aosta nella piccola chiesa sconsacrata di San Lorenzo dal 27 giugno al 21 settembre, propone un insolito dialogo tra pezzi storici dell’artigianato locale senza tempo come grolle, lanterne e slitte, e il loro equivalente rielaborato in chiave postmoderna da dodici artisti e designer della contemporaneità. Gli autori, pur consci del valore simbolico degli oggetti presentati, reinventano la tradizione valdostana, attualizzando la funzione anche con l’aiuto della tecnologia e, come in un curioso gioco di specchi, tormentano i visitatori in un continuo alternarsi di emozioni tra oggetti di epoche diverse, «anonimi» e firmati. In esposizione sono visibili, oltre alle sedie di mollino, le realizzazioni dei progetti di ettore Sottsass, Vico Magistretti, Aldo Cibic, Alessandro Mendini, David Palterer, Claudio Bitetti, Antonio Cagianelli, Ernst Gamperi, Elisabetta Gonzo, Alessandro Vicari, Konstantin Grcic e Joanna Lyle. Il catalogo della mostra contiene saggi di Fulvio Irace e Sandra Barberi. «La forza delle cose. Tradizione valdostana e design», Chiesa di sal Lorenzo, piazza Sant’Orso, Aosta Il Giornale dell’Architettura, n.9, luglio-agosto 2003, p. 23 82 AL CASTELLO DI RIVOLI Tutta la pubblicità è paese Con la mostra curata da Ugo Volli va in scena il Museo della Pubblicità RIVOLI (TORINO). A novembre ha aperto i battenti al Castello di Rivoli il primo museo in Italia dedicato interamente alla comunicazione pubblicitaria e alle sue implicazioni con il mondo della cultura artistica, il marketing, la società. In coincidenza di questo evento è stata inaugurata nella Manica Lunga del castello la mostra «Nel paese della pubblicità», curata da Ugo Volli e allestita dalla scenografa Leila Fteita. Lungo i 150 metri dello spazio espositivo Volli ha catalogato i numerosi spot pubblicitari secondo le ambientazioni scelte più frequentemente per reclamizzare i prodotti (come il mare, la scuola, gli spazi domestici) e non tentando un’organizzazione più scontata per agenzie pubblicitarie, autori, marche o prodotti. Ne risulta un piacevole viaggio che il visitatore compie saltando dalle spighe di grano tra cui verrebbe voglia di cercare la casa del Mulino Bianco, i paesaggi aridi del Far West fino allo scoppiettante skyline di New York. «Nel paese della pubblicità» Castello di Rivoli (Torino) – Museo d’Arte Contemporanea. Il Giornale dell’Architettura, n. 13, dicembre 2003, p. 31, 35 83