Liber perennis memoriae
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Liber perennis memoriae
Liber perennis memoriae Un approccio fenomenologico alla chaos magick Sphaso Un progetto editoriale LuciAlNeon http://lucialneon.net Copyleft – All rites reversed, 2008 Introduzione [dichiarazione d’intenti] [atteggiamento dogmatico e atteggiamento caotico] [l’atteggiamento caotico può diventare dogmatico] [l’atteggiamento fenomenologico come fondativo] 1 Questo testo è volto a dare una maggior consapevolezza al praticante di quello che fa fondando un nuovo modo di guardare la realtà o non-realtà, rendendo possibile con questa nuova modalità d’osservazione, raggiungere una conoscenza del tutto particolare della logica “altra” delle visioni, dei sogni, dell’esperienza magica e inconscia in generale. Parto dal presupposto che lo scopo del mago sia la comprensione del mondo in cui è immerso, che vede o non vede e, socraticamente, la comprensione di se stesso. Inutile dire che il testo è accessibile a un pubblico di principianti ma non di completi neofiti, per quanto una classificazione del genere possa risultare ridicola, mi riferisco a gente con poca esperienza e qualche concetto generale preso da libri o siti web. Approfondirò soprattutto le tematiche di carattere filosofico e psicoanalitico dando per acquisiti i riferimenti alla chaos magick. Non dirò niente di nuovo, non è mia intenzione, ma spero allo stesso tempo di non dire niente di troppo trito. Piuttosto cercherò di dare un fondamento solido alle scienze occulte, dove per “scienze occulte” intendo quell’insieme di pratiche volte a una conoscenza interiore secondo un’alterazione degli stati di coscienza. Chi si trovasse confuso di fronte alla terminologia usata può consultare la bibliografia essenziale allegata: si tratta di testi classici che fanno parte dell’orizzonte culturale in cui ci muoveremo. L’attitudine espressa da tutti i miei scritti è quella caota, e questo non farà eccezione. Non parleremo (spero) di sigillazione, gnosi e altre pratiche care a questa tradizione, piuttosto mi interessa essere caota in quanto libero pensatore: al di là dei dogmi indago la natura dei simboli, creo nuove teorie, analizzo strutture. Portare la chaos magick al di là del suo uso pratico, toglierle la nomea di “magic of results” è possibile e penso che questo testo lo dimostri ampiamente. Permettetemi ora di parlare della struttura dell’opera. Innanzi tutto mi sembra ci sia molta confusione intorno alla pratica della meditazione, e questa confusione aumenta più i riti si fanno complicati. Ci interessa chiarire il suo uso ma non per questo darò qui indicazioni di ordine storiografico, concentrandomi il più possibile su un approccio pratico. Chiariti alcuni dubbi e punti teoretici andremo via via estraniandoci da un’individualità data nel mondo verso l’inconscio collettivo, per poi riportarlo all’esperienza diretta. In questo cammino incontreremo altre nozioni che verranno chiarite in senso trascendentale. Il pensiero junghiano (inconscio collettivo, archetipi) insieme a un po’ di sana fenomenologia husserliana saranno le basi teoriche e teoretiche. La domanda che ci poniamo è sempre la stessa: come funziona? Le risposte nel tempo aumentano e si fanno sempre più distanti l’una dall’altra. Le risposte in chaos magick vengono chiamate “paradigmi”, che hanno però poco a che fare con la famosa teoria epistemologica di Khun in quanto più paradigmi possono esistere e comunicare nello stesso periodo o nella stessa persona. C’è chi parla di spiriti, di Dio o divinità, altri di inconscio collettivo o addirittura dei quanti. Dietro tutti questi nomi c’è un abisso che va esplorato. 2 Quando leggo un rituale da un libro o da internet per prima cosa distinguo le costanti dalle variabili: il rituale per me non è altro che un algoritmo. Per questo mi sembra di poter definire l’atteggiamento caotico come contrario di un atteggiamento dogmatico che è spesso tale per ignoranza, non distinguendo ciò che è necessario da ciò che non lo è, e la ragione di tale distinzione. Esempio emblematico per questa categoria è il famoso libro di Abramelin il mago, la cui importanza storica non vogliamo dubitare, ma la cui serie di operazioni è oggi assolutamente risibile. Molti thelemiti, seguendo le indicazioni di mastro Crowley, credono in una congiuntura tra cronologia e metafisica, per cui a un cambiamento sul calendario corrisponde un cambiamento nelle coscienze (e oltre!). Cifra di questo pensiero è l’eone, il cui passaggio porta a un cambiamento nell’atteggiamento 2 magico. Per noi tutto questo è parte di quel “vecchio eone” di cui dobbiamo sbarazzarci. La cultura influenza l’approccio alla magia, non c’è nessun salto quantico nella storia. I thelemiti operano un’inversione del rapporto causa-effetto. Non abbiamo prove che sia in un modo o nell’altro, semplicemente rifiutiamo il lato soprasensibile per una magia materialista ma non per questo edonista. Il caota legge e interpreta, analizza e cambia secondo le proprie necessità ma anche secondo le sue disponibilità! Se lo scopo è costruire un rito di purificazione dividendo una somma di denaro in 72 parti da dare in elemosina, possiamo capirlo e agire in modo analogo: prendere 72 candele e accenderle in certi punti della nostra città o semplicemente farci una doccia. Certo, quelli che chiamiamo dogmatici potrebbero tacciare noi di ignoranza dicendo che se non capiamo l’importanza di praticare una certa asana rispetto a un’altra è colpa nostra, non loro. Ebbene, chiediamo a questi praticanti di Haute Magie di darci questa conoscenza e liberarci dall’onta, il loro karma non potrà che giovarne. La differenza tra i due punti di vista non è solo strumentale o ideologica, ma metafisica e storica. Negli ultimi vent’anni c’è stato un notevole disquisire sulla politica della segretezza, sembrava che con la caduta delle grandi ideologie si aprisse un periodo di relativo candore, senza lo spauracchio dell’inquisizione. Sia tra celebri autori1 sia in alcuni gruppi2 è stato affrontato il tema. Pensiamoci: dove abbiamo imparato noi certe tecniche di base? Da libri in commercio, da internet, con semplici esperimenti. Perché dovremmo precludere tale conoscenza ad altri? Il dogmatico risponderà che, al di là delle minacce che vengono dall’esterno, l’importante è il processo di conoscenza che ognuno dovrà percorrere da solo. E’ molto importante, ad esempio, comprare un libro piuttosto che cercarlo in internet o farselo prestare, perché ciò dimostra la volontà del praticante. Noi questo non lo mettiamo in dubbio, piuttosto ci chiediamo se non si debba ripensare il concetto di “volontà” e se tale regola non debba essere ponderata caso per caso. Il praticante onora la propria volontà quando decide di impiegare il suo tempo seriamente, l’idea di pagare un obolo per la conoscenza mi sembra piuttosto retrograda: se esiste uno “spirito della storia” che regola i vari eoni, come vogliono questi maghi albini, non possiamo vederlo in opera proprio oggi in una direzione ben precisa? Cosa significa il boom di internet, del file-sharing, delle reti p2p se non che è tempo di condividere le proprie conoscenze? 3 Parafrasando Kuhn: fai gli esercizi del libro e se non te ne riesce uno, fai finta! Il principio del “fake it till you make it” è ben noto, ma spostiamo l’attenzione sulla prima parte della frase: fai gli esercizi del libro. La Chaos Magick (CM d’ora in poi) esiste da quasi 30 anni. Dalla sua nascita abbiamo assistito a ben pochi cambiamenti: il Culto di Cthulhu, la Tesseract magic, la definizione apparsa su Konton di magia post-moderna sembra in verità l’unico timido tentativo di un’attitudine diversa3. La CM non è riuscita a rifondarsi. Il Liber Null è la bibbia di questa perversione psicologica e i caoti una nuova borghesia conservatrice. Anche quello che nasce come atteggiamento caotico può trasformarsi in dogmatico. Da meta-paradigma la CM è diventata un paradigma con diverse sfaccettature o sotto-correnti: CM-Wicca, CM-Goetia e chi più ne ha… Mentre la CM si diffonde, la sua inutilità nelle forme predigerite viene a galla e le informazioni tramandate in modo frammentario. Per un mago che fa ricerca ce ne sono dieci che lo seguono senza discutere. In che senso la chaos magick è inutile? Lo è nel suo approccio più pratico, come “magia dei risultati” in quanto sigillazione e uso inconsapevole di simboli. Se lo scopo della magia è la conoscenza e questa avviene tramite uno svelamento del simbolo, a cosa serve complicare ulteriormente le cose? Per questo, ancora una volta, il nostro atteggiamento si dichiara analitico in psicologia e fenomenologico in filosofia, in netta contrapposizione con un atteggiamento sintetico ed ermeneutico, dove per ermeneutica pensiamo all’approccio discordiano. 1 Cfr. Ray Sherwin, The theatre of Magick, Act I: Scene I e The book of results, Chapter 2. Il primo è disponibile sul sito di Phil Hine all’indirizzo: http://www.philhine.org.uk/writings/pdfs/theatre.pdf 2 Ricordo una discussione sul defunto forum di chaosmagic.com, mentre per lo IOT sembra un valore acquisito. 3 Cfr. Josef Karika, Postmodern Magick e Michael Szul, A criticism of postmodern magick, id. “Konton magazine”, Vernal Equinox 2005 2.1 3 L’idea che “Nothing is true, everything is permitted” sia equivalente a “fai quel che vuoi” è un’altra idea pervertita. La frase di Hassan I è volutamente provocatoria: tutto è permesso, ma tu hai il coraggio di farlo? No, il praticante è fissato su una logica del risultato e non sente il bisogno di evolversi, di cambiare e indagare le relazioni tra i suoi complessi. Per questo continuano a uscire migliaia di liber con niente di nuovo. Tuttavia, per quanto sembri che nella chaos magick non si possa fare altro che sigillare, non abbiamo dimenticato le enormi possibilità dal punto di vista della praticità ma soprattutto della sperimentazione che offre una tale corrente. Sciolta da qualsiasi dogma e divinità, la pratica può mirare a risvegliare il subconscio in modo molto più rapido, senza perdersi in rami oscuri della teologia o teorie che spesso sviano il praticante. 4 C’è un fatto molto più grave che può riassumere le critiche già poste: manca una fondazione filosofica della chaos magick. Peter Carroll nel suo Liber Kaos ha tentato di spiegare l’atteggiamento caotico e le sue possibilità tramite il modello della meccanica quantistica, ma questa non è una fondazione! Dobbiamo trovare un criterio, una strada sicura per orientarci in una nuova logica e solo l’atteggiamento fenomenologico può aiutarci. In cosa consiste? Cercherò qui di riassumere l’essenziale. Secondo la tradizione husserliana, l’atteggiamento fenomenologico si può dividere in tre fasi operative: l’epoché fenomenologica, l’analisi fenomenologica di regioni ontologiche, la riduzione eidetica. Non facciamoci spaventare dai paroloni! La prima fase è riassumibile nell’atteggiamento dello scettico: noi dubitiamo di tutto. Ma possiamo davvero farlo? Avremmo la certezza che niente è certo, cadendo in un paradosso. Dobbiamo quindi evitare l’assenso e basarci sull’unica cosa indubitabile: il mio dubitare. Il mio dubitare in quanto atteggiamento intimo e personale. Husserl parla, rifacendosi a Cartesio, di “cogitationes”: la mia semplice visione del veduto, il sentire del sentito ecc. La proprietà della coscienza di avere un tale oggetto logico e quindi di esistere sempre e solo in quanto relazione è detta “intenzionalità”, riprendendo un termine della filosofia scolastica (Guglielmo da Ockham). Mettiamo tra parentesi il mondo e cominciamo ad osservarlo con occhi nuovi, concentriamoci su quelle che Husserl chiama “ontologie regionali”: la religione, l’immaginazione, il sogno, la fisica, l’arte. Indaghiamo cioè dei complessi o degli argomenti e vediamo cosa ci è dato di volta in volta, in questo modo potremo poi dare un fondamento alle varie scienze, cioè “riprendere” il mondo come lo abbiamo lasciato. Ma come possiamo distinguere un’ontologia dall’altra? Nel sogno non troviamo l’immaginazione? La distinzione è effettivamente labile, ma il confine verrà stabilito secondo la ricerca di “strutture eidetiche”. La terza fase è anche la più problematica e tuttavia la più importante. Le strutture eidetiche sono le strutture necessarie alla nostra intenzionalità, l’oggetto (logico) si da a noi secondo certe strutture di cui noi abbiamo un’intuizione, un’intuizione detta appunto “eidetica”. Questa non è un’ipotesi quanto la semplice constatazione di “rimandi percettivi”. L’esempio classico è quello delle “attese percettive”: vedo un oggetto e comprendo immediatamente il suo senso, cioè il suo essere per me secondo certe rivelazioni o certi nascondimenti: se mi muovo da una parte mi si da in un certo modo, posso afferrarlo così e così La prospettiva husserliana è molto più complicata, spesso incomprensibile ai suoi stessi sostenitori. Il lettore è invitato ad approfondirla, la letteratura non manca. Per ora ci basta quello detto sopra. 4 La meditazione e l’inconscio collettivo [l’importanza della meditazione] [cos’è l’inconscio collettivo] [in costante epoché!] [pratica] 1 L’importanza della meditazione è indubbia, il praticante non può proseguire senza una padronanza della tecnica in questione, eppure la prima parte del Liber null, chiamata Liber MMM, è l’incubo di molti caoti. Si tratta infatti di un corso accelerato di meditazione e visualizzazione creativa che, come ogni cosa, richiede costanza e umorismo. Anche Crowley all’inizio del suo famoso “Magick” pone un capitolo sulla meditazione, lo yoga, il pranayama e tecniche affini, ma la sua mancanza di umorismo lo rende inutilizzabile. Non mi occuperò qui di delineare un particolare percorso di apprendimento, il lettore che intende cimentarsi può seguire il Liber null o quello che preferisce. La lettura del mio libro altresì non richiede cambiamenti drammatici nella pratica, qualora si pone come semplice fondazione teoretica. Insomma: potete continuare il vostro addestramento senza problemi, qui ci poniamo solo qualche domanda sul funzionamento di ciò che già state esercitando. Quindi: perché la meditazione è così importante? Prima di tutto, da un punto di vista meramente pratico, ogni rito caota comincia o ha al suo interno un periodo di meditazione: non c’è magia senza meditazione. Questa risposta non può assolutamente soddisfarci ma delinea la natura del problema. La risposta arriverà, per ora rendiamoci conto che stiamo chiedendo il valore di qualcosa che ancora non conosciamo: cosa intendiamo infatti per “meditazione”? Si tratta, per usare una definizione breve e intensa, di una “concentrazione inconscia”. Attraverso questa pratica noi siamo assolutamente concentrati sul nulla, o meglio, su niente in particolare. La meditazione nello yoga (scuola che qui non è presa a modello, anzi!) dovrebbe seguire a una prima fase quella del dhyana (concentrazione su un unico oggetto) a cui succede il samadhi (concentrazione sul nulla, in quanto unione di Uno e Tutto). A un primo periodo di caos mentale, dove catene e catene di pensieri si affollano e si rincorrono, riusciamo a esaurire l’energia di questi semplicemente manifestandoli. Possiamo così concentrarci su di un unico oggetto, da questo stadio si passerà all’eliminazione di quell’unico oggetto per il raggiungimento del nirvana. Da un particolare punto di vista psicanalitico, che approfondiremo in seguito, si tratta di manifestare diversi strati inconsci: in una prima fase diamo libero sfogo ai toni affettivi, i pensieri più superficiali che presuppongono un concetto di individuo. Successivamente passiamo all’estremizzazione del rapporto soggetto-oggetto e quindi del complesso dell’Io. Infine eliminando questo complesso raggiungiamo lo strato più profondo della psiche: l’inconscio dei complessi, o inconscio collettivo. Qui si trovano le parti più primordiali (da un punto di vista genetico-psicologico) di noi che senza la cintura protettiva dell’Io si manifestano liberando un’energia enorme: la Kundalini. Non a caso alcuni libri sul Kundalini yoga mettono in guardia rispetto al suo risveglio: i risultati possono essere tutt’altro che piacevoli. Sembra che nella maggior parte dei casi il praticante che sia riuscito in tale impresa entri in uno stato depressivo, probabilmente per un’irruzione dei complessi sull’Io. Jung ha scritto un libro sul Kundalini Yoga ma non ho ancora avuto occasione di leggerlo4. Per quanto detto nell’introduzione, dal nostro punto di vista di provetti fenomenologhi la cosa è piuttosto bizzarra: si tratterebbe per la coscienza di perdere una sua proprietà essenziale! Stiamo parlando dell’intenzionalità. La possibilità o necessità di raggiungere questi stadi in realtà non ci interessa. Quello che vogliamo capire è come raggiungere uno stato di coscienza che ci permetta di operare sul piano dell’inconscio collettivo, cioè che ci permetta di estraniarci dal mondano per avere un cogitatio-cogitatum del tutto particolare. Non serve infatti liberarsi dei primi due strati psichici per raggiungere il “lago nella valle”, in quanto questo si manifesta già a noi tramite simboli o “archetipi”, ma anche di questo ci occuperemo più avanti. 4 Si tratta di: C.G.Jung, La psicologia del kundalini-yoga, Bollati Boringhieri, Torino 2004 5 Abbiamo detto che qui non seguiamo il pensiero yoga. Non ci interessa infatti un controllo assoluto del nostro corpo e della nostra mente, ma soprattutto non crediamo nella bontà del risultato promesso: il risveglio della Kundalini. Siamo volti piuttosto a ricercare un equilibrio tra opposti: conscio e inconscio, controllo e non, soggetto e oggetto, in linea con la prospettiva psicoanalitica indicata. Allo yoga poi si mischiano teorie metafisiche su vari corpi extrasensibili che andranno esaltati tramite la meditazione, mentre per noi esiste un unico corpo: quello di ossa e carne. L’ordine di questo corpo è l’equilibrio (biologico e psicologico), e per noi questo è l’unico indice di salute. 2 La psicologia analitica è molto complessa e preferirei limitarmi a dare un quadro generale, concentrandomi su quello che può interessarci maggiormente. “Inconscio collettivo” è un’espressione usata da Jung per definire lo strato inconscio più profondo rispetto allo strato del “complesso dell’Io” e quello più superficiale dell’”inconscio personale” che corrisponde alla nozione freudiana: un’accozzaglia di materiale rimosso dal super-io di natura del tutto personale che Jung chiama “toni affettivi”. Se nell’inconscio personale troviamo rimozioni e pulsioni già individuali, nell’inconscio collettivo troviamo i così-detti “archetipi”, cioè materiale inconscio e innato comune a una cultura o all’intera umanità5 che si manifesta sotto forma di simboli. Questi simboli fanno capo a diversi complessi in relazione tra loro, l’economia tra questi determina i diversi tipi psicologici, cioè va a fondare la natura del complesso dell’Io. Jung è piuttosto chiaro in proposito: i simboli esoterici, i miti, le religioni non sono che manifestazione dell’inconscio collettivo. Queste possono risvegliarsi o assopirsi a seconda che il simbolo abbia o meno ancora “mana”, un archetipo può essere così simbolo (complesso nel suo essere progettuale) o segno (complesso attuale). Questa distinzione si lega a quella che Jung propone per le due logiche psichiche: stasi e movimento. In cosa consiste questo “mana”? La forza di un archetipo sta nel suo non essere in conflitto con il complesso dell’Io, nell’essere da questo accettato e alimentato, ma nel momento in cui viene a galla e mina la nostra individualità può certo portare a nevrosi, isterismo ecc. (è proprio questo processo dinamico per Jung la causa dei disturbi mentali) ma è anche destinata alla capitolazione: “forse furono i protestanti ad accorgersi che nessuno aveva la più pallida idea del significato della nascita verginale, della divinità di Cristo o delle complessità della Trinità? Si direbbe quasi che queste immagini siano soltanto esistite, e che la loro esistenza sia stata semplicemente accettata, senza dubbi e senza riflessione, un po’ come si fa l’albero di Natale… di solito totalmente ignari del significato di tali usanze. Le immagini archetipiche sono proprio così cariche di significato che non ci si chiede mai che cosa veramente possano voler dire. E’ per questo che di quando in quando muoiono gli dei: a un tratto si scopre che non significano niente”6. Si pensi ancora alla relazione segno-simbolo, quindi: “Gli dei dell’Ellade e di Roma perirono della stessa malattia dei nostri simboli cristiani: allora come oggi gli uomini scoprirono che quei simboli non dicevano loro niente, mentre gli dei degli stranieri avevano ancora del mana, cui attingere”7. Proprio il fatto di portare questi archetipi tramite simboli convenzionati li inquina: “specialmente sui gradini più elevati delle dottrine esoteriche, gli archetipi appaiono in un contesto che di solito rivela in modo inequivocabile che essi sono stati giudicati e valorizzati da un’elaborazione cosciente.”8. E continua: “Invece la loro apparizione diretta, quale ci si presenta nei sogni e nelle visioni, è molto più individuale, incomprensibile e ingenua di quanto non sia, per esempio, nel mito.”9. Lo scopo della meditazione o della magia in generale dovrebbe essere la conoscenza, non a caso personaggi del calibro di Newton, Galileo o il matematico Poisson si occuparono di alchimia. 5 Per quanto ne so Jung parla di archetipi come materiale innato, connaturato e per questo condiviso da ogni essere umano, mentre alcuni suoi allievi (Cfr. Joseph L. Henderson, Miti antichi e uomo moderno, id. C.G.Jung, “L’uomo e i suoi simboli”, TEA, Milano 2004, p.119) distinguono l’equazione psichica per sessi a livello di archetipi. D’altra parte, come vedremo nella sezione sui “meme”, credo sia possibile localizzare nell’inconscio collettivo anche del materiale comune solo a una particolare cultura. 6 C.G.Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, Torino 1977, p.27 7 ivi, p.23 8 ivi, p.17 9 ibidem 6 Cambiano i metodi ma rimangono alcune costanti: linguaggio analogico, uso di simboli, ricerca di una conoscenza di sé e dell’uomo che le altre scienze non possono darci. Jung in proposito pone in relazione la caduta delle religioni con la nascita della psicologia: laddove i simboli religiosi (manifestazione e sublimazione) perdono potere questa forza inconscia e primordiale deve essere compresa (cum+prendo, presa insieme, domata) in qualche altro modo. Per la prima volta abbiamo una scienza che si pone la domanda “perché” mettendo in relazione l’esoterismo alla psiche: “Tutti i fenomeni naturali mitizzati, come estate e inverno… non sono affatto allegorie di quegli avvenimenti oggettivi, ma piuttosto espressioni simboliche dell’interno e inconscio dramma dell’anima che diventa accessibile alla coscienza umana per mezzo della proiezione, del riflesso cioè nei fenomeni naturali.” Per Jung i dogmi dei culti antichi non sono diversi da quelli ancora oggi esistenti: “Il dogma sostituisce l’inconscio collettivo in quanto lo esprime con grande ampiezza. Perciò, in linea di principio, il modo di vita cattolico non conosce una problematica psicologica di questo tipo. La vita dell’inconscio collettivo sbocca quasi interamente nelle rappresentazioni archetipiche del dogma e fluisce come una corrente bene imbrigliata nel simbolismo del Credo e del rituale: la sua vita si manifesta nell’interiorità dell’anima cattolica. L’inconscio collettivo, quale oggi lo conosciamo, non fu mai psicologico, poiché prima della Chiesa cristiana esistevano misteri antichi, i quali a loro volta avevano radice nelle nebulosità del neolitico.”10. Un ipotetico movimento simbolo-segno visto attraverso i due atteggiamenti trattati nell’introduzione è anche qui contraddittorio: il mago dogmatico (così come il religioso) chiede il simbolo attraverso un segno, e per questo non trova che un altro segno. Il mago caota destrutturando il segno (si pensi alla nota tecnica di sigillazione che consiste nella trasformazione della richiesta in un mantra che ha perso la struttura della frase iniziale) lo rende veicolo per il simbolo. La meditazione ci permetterà quindi di oltrepassare (fino a un certo punto!) la barriera dell’Io per cogliere i simboli in quanto archetipi. 3 Invito il lettore a dubitare di ogni frase e a mettere alla prova ogni promessa. Mi rendo benissimo conto delle difficoltà che può portare, dal nostro punto di vista fenomenologico, la nozione di “inconscio collettivo”. Come possiamo provare qualcosa del genere? In che modo ci si da? E’ semplicissimo. Possiamo in realtà paragonare questo campo a noi (in parte) nascosto alla nozione husserliana di struttura eidetica, Jung stesso scrive: “<<Archetipo>> è una parafrasi esplicativa dell’éidos platonico.”11. L’inconscio collettivo è la struttura necessaria del darsi di alcuni oggetti particolari: i miti, le allucinazioni, i sogni, insomma i simboli! e allo stesso tempo la chiave per scoprire il loro significato. Mi si obietterà che ciò è impossibile, io potrei disegnare il volto di una persona, mettere uno sfondo particolare e trovare in questo un riferimento simbolico. Perciò io dovrei aver seguito due strutture differenti, una conscia e una inconscia. Ciò è assolutamente sbagliato, vi invito a non vedere le ontologie regionali in modo così piatto. La struttura è una, oggettiva e universale. La sua ampiezza e quindi il campo delle possibilità per noi va indagato seriamente, la divisione in regioni è semplicemente strumentale. C’è un altro problema epistemologico certamente più serio e riguarda la profondità della nostra epoché fenomenologica. La stessa questione portò a una rottura tra la scuola di Vienna e quella di Zurigo. Riassumendo: come posso indagare un simbolo quando io stesso sono soggetto al suo portato? Cioè: come è possibile una ricerca psicologia? Cioè: come posso operare un’epoché fenomenologica sugli oggetti psicologici? Se Freud pensava di trovare la soluzione nel metodo delle libere associazioni, Jung contesta il suo fondamentale positivismo e riduzionismo al complesso sessuale. Da una prima critica coerente col sistema dei complessi, Jung si avvicinerà sempre più al prospettivismo e alla filosofia della difference. L’uomo, e così lo psicologo, non può che interpretare ciò che gli si da secondo quella che Jung chiama un’”equazione psichica” cioè, per farla breve, la propria personalità ed esperienza. Lo stesso vale per la psicoterapia, in cui due equazioni psichiche vengono a trovarsi e a confrontarsi. Il problema è quello noto del circolo ermeneutico per cui non può esistere qualcosa come 10 11 ivi, p.26 ivi, p.16 7 una verità ontologicamente fondata, piuttosto diverse interpretazioni, prospettive, tutte storicizzabili nel loro rapporto culturale. Da questa ineludibile differenza e relatività Jung pensa di arrivare a una teoria tramite oculate riduzioni: scompositiva, figurale ecc. ecc. Certamente non possiamo approvare l’approccio epistemologico freudiano, così come la visione ermeneutica contrasta con il nostro progetto: una fondazione fenomenologica delle scienze occulte. Non per questo contestiamo al prospettivismo, al pensiero di Derrida o all’ermeneutica contemporanea di aver colto e sviluppato un punto importante: l’esistenza duale dell’individuo tra sé e il mondo. Dobbiamo d’altra parte limitarne il campo! Certamente il mondo è vissuto secondo interpretazioni, quello che contestiamo è l’irriducibilità della differenza tra segno e interprete. Se interpretazioni diverse si danno, deve esserci una regola, una struttura che può spiegare questa differenza: non per questo la verità è univoca, non assolutizziamo una posizione piuttosto che un’altra. E’ il problema che Husserl affronta nelle temibili “Lezioni sulla sintesi passiva” indagando le stesse strutture dell’esperienza percettiva. A noi non interessa cogliere il noumeno, ci basta capire in che modo, secondo quali orizzonti di possibilità, si può dare a noi un oggetto: il fatto che questo si dia in un modo o nell’altro a diverse persone è solo un ostacolo su un cammino ben tracciato. Ma attenzione: è proprio certo che le cose si danno a noi in modo diverso? Le differenze non si manifestano forse solo nell’interpretazione e quindi nel giudizio (sensi+intelletto)? Siamo salvi: abbiamo trovato un fondamento egologico per i nostri vissuti, mentre non siamo restii ad accettare la prospettiva ermeneutica qualora si ponga il problema di strutturare teorie. D’altra parte è la stessa posizione che assumeva Husserl, si guardino in questi senso espressioni come “campo comunicativo”. Un altro problema che ci pone la psicoanalisi junghiana è la differenza tra segno e simbolo in rapporto al complesso razionale e la psiche complessiva: nel momento in cui io ragiono su un simbolo questo è per me segno, cioè si da nella sua attualità. Anche questa mi sembra sia un’assolutizzazione indebita: nel momento in cui riconosciamo alla ragione lo statuto di complesso lo inseriamo all’interno dell’inconscio. Jung stesso riconosceva una parte di “passione” nella razionalità. Possiamo quindi ragionare su un simbolo senza renderlo segno? No, o meglio, non proprio. Possiamo però operare in uno stato di coscienza alterato per cui, pur coscientemente, allentiamo le redini del complesso dell’Io e della ragione: possiamo meditare. 4 Date queste premesse arriviamo al punto: come si medita?! A prima vista sembra una domanda sciocca, da quello che si vede nei film una persona (ad esempio Yoda) dice a un’altra (Luke Skywalker) “concentrati”, “medita” (non che le due cose equivalgano, intendiamoci) e Luke semplicemente medita. Così per il maestro Miyaghi e Daniel, gli esempi sono numerosi. Ma cosa significa concentrarsi e cosa meditare? A cosa portano queste pratiche l’abbiamo descritto sopra, quello che ci interessa ora è un approccio operativo. Spesso leggendo rituali su internet si incontrano espressioni come “mettetevi in una posizione comoda”, “respirate piano”, “immaginate…” e qui cominciano i casini. Dobbiamo distinguere le variabili dalle costanti per capire cosa davvero ci serve, cosa possiamo fare a modo nostro e quindi meglio, ma come? Seguiamo fedelmente queste istruzioni, vediamo cosa succede, capiremo dopo vari ed estenuanti tentativi (possono durare mesi, il praticante non demorda) lo stato mentale che vogliamo raggiungere: estraneità dal mondano, mente libera e sotto controllo. Per ottenere questi risultati servono solo due cose: esistenza e immobilità, e non sono così sicuro sulla seconda. Dobbiamo esistere: respirare. Inoltre serve immobilità, come scrive Parmenide il divenire è illusione sensibile: <<L’essere non è stato mai né mai sarà perché è ora tutto insieme, uno e continuo>> (fr.8, Diels), proprio quello che noi vogliamo evitare! L’immobilità sarà evidentemente la nostra. Il praticante può semplicemente stare immobile e continuare a respirare, prima o poi raggiungerà lo stato suddetto. Tenere gli occhi aperti o chiusi, le gambe incrociate, stare seduto o sdraiato non importa. D’altra parte per ridurre il tempo d’agonia (sì, soffrirete, molto) ci sono alcuni accorgimenti: stare al buio (o sotto una luce soffusa), in un luogo tranquillo e silenzioso, state da soli o con un gruppo di persone che condivide il cammino che state facendo, rilassatevi. Il rilassamento oltre a permetterci di stare immobili porterà a galla i pensieri e i desideri più superficiali, così come il paziente dallo psicanalista fa quando decide di sdraiarsi sul lettino. Proprio 8 per raggiungere il rilassamento troviamo nei riti pubblicati i vari “immaginate”, immancabilmente c’è abbondanza di: candele, luci (azzurre o bianche), palle di luci, ma soprattutto spine dorsali. Non importa quale sia il vostro metodo, cioè cosa immaginiate, basta che funzioni! Per trovare la vostra via operativa è d’altra parte necessario comprendere, per quanto possibile, la teoria cioè le costanti. La concentrazione sulla spina dorsale, ad esempio, è di grande importanza in quanto permette di rilassare la maggior parte dei muscoli (su, fino ai forzuti pensieri!) seguendo una geometria semplice. Non a caso sulla spina dorsale sono posti i così-detti “chakra” [dal sanscrito, ruota]. Guarda caso ognuno di questi “centri di energia” è in prossimità di un centro nervoso particolare: basterà passare in rassegna i 7 chakra e la loro localizzazione per rendersene conto. Meditazione e chakra non sono strettamente collegati se non all’interno della tradizione orientale. Volendo potete usare, a vostra discrezione, simboli kabbalistici, enochiani, runici ecc. ecc. l’importante è mantenere un certo rapporto funzionale. Al di là del sistema che intendete usare vi serve una posizione, un asana. Anche qui non posso che dare i soliti consigli: sceglietene una semplice e rimanete con quella. Non esiste “la vostra asana”, è inutile scartabellare e provarne una per una, state confondendo i mezzi con i risultati! Né la posizione deve essere per forza una di quelle riportate sui libri o nei film, potete semplicemente starvene sdraiati sul letto, o seduti su una sedia, l’importante è mantenere: respiro, immobilità ma soprattutto la veglia! Il Vijnanabhairava è un testo che comprende un centinaio di tecniche di meditazione, spesso piuttosto complicate, sembra che Buddha abbia raggiunto il nirvana usando la prima tutta la vita. Col tempo il praticante potrà usare diverse asana a seconda del lavoro che intende fare: invocare Ares con l’asana del guerriero? Invocare Apollo nella posizione dell’arco? Sono possibilità, l’importante è, ancora, essere in grado di raggiungere un certo stato di coscienza. 9 Archetipi [presentazione] [meme] [chaosphere] [sincronicità] 1 L’archetipo in quanto simbolo si presenta come segno. Scriveva Frege12: oltre al Bedeutung esiste un Sinn: il significato è circondato da un senso. C’è sempre un alone che ricopre le parole e questo è forse il loro elemento essenziale, la modalità della relazione influenza la relazione stessa. Così Jung criticherà un certo approccio freudiano che associa diverse immagini (senso) a uno stesso significato (o denotazione) senza indagare oltre. Insomma: se nel sogno associo diverse immagini a uno stesso pensiero, come posso non chiedermi cosa le distingue, in cosa consiste la modalizzazione? Lo studio del glifo e la scoperta di un proprio alfabeto simbolico è perciò molto importante oltre che per la pratica (ricordo l’Alfabeto del Desiderio di Spare) per la conoscenza di sé, punto di partenza per qualsiasi lavoro magico. Lo studio avverrà tramite meditazione e l’approccio non potrà essere che fenomenologico. Restando nella pura immanenza non potremo avere dubbi sulle associazioni o sui rimandi che un archetipo suscita in noi. E’ fondamentale a questo punto studiare diversi paradigmi, religioni o mitologie, scoprendo le varie similarità e figure che fungeranno da struttura del nostro inconscio collettivo. Conosco le critiche che Deleuze ha portato a proposito: applicare un modello più o meno arbitrario all’empirico falsa quest’ultimo, la somiglianza si basa su una differenza. D’altra parte la nostra applicazione non sarà risultato di giudizio ma trovata in pura cogitatio. Guardando un simbolo noi abbiamo già sensazioni, reazioni a cui però non possiamo dare un nome. Forse non è così per glifi o meme, ma è certamente così con i sogni, per fare un esempio ovvio. Parlando di archetipi come fondo e fondazione non può che sorgere un pensiero: cosa ne è della rifondazione esistenziale? Cioè: possiamo lavorare su questi archetipi in modo da cambiare radicalmente ciò che siamo? La domanda non è precisa, non si capisce cosa dovrebbe significare per un uomo cambiare ontologicamente, cambiare identità? Quella la cambiamo ogni secondo, ciò che resta è la monomania per l’unico e immortale “IO”. Voglio comunque cercare di rispondere, per fare ciò modificherò la domanda: è possibile per una persona, operando sulle proprie relazioni con l’inconscio collettivo, cambiare radicalmente la propria personalità? Secondo recenti scoperte che riguardano le neuroscienze esistono ragioni genetiche che determinano alcuni tratti della persona. D’altra parte l’idea di una rifondazione ci affascina troppo, e potremmo pensare che le ragioni fisiologiche pongono un limite sì, ma pur sempre un campo! Jung prendeva la questione da un punto di vista evidentemente kantiano: “Nella vita vi sono tanti archetipi quante situazioni tipiche. La continua ripetizione ha impresso queste esperienze nella nostra costituzione psichica… solo come <<forme senza contenuto>>, atte a rappresentare solo la possibilità d’un certo tipo di percezione e d’azione. Quando si presenta una situazione che corrisponde a un dato archetipo, allora l’archetipo viene attivato e si manifesta come una coercizione che… si fa strada contro ogni ragione e volontà”13 Se sia possibile o meno un cambiamento radicale di sé ci interessa relativamente. Per ora ci sembra sufficiente saper operare su tre livelli, introiettivo-statico-proiettivo, cioè: inserire un complesso (meme) nell’inconscio collettivo; avere conoscenza dei vari complessi; operare sul piano mondano attraverso gli archetipi. 12 13 Mi riferisco al suo famoso articolo del 1892: Über Sinn und Bedeutung. C.G.Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, cit., p.77 10 2 “meme” è un termine introdotto da Dawkins nel tentativo di espandere il dominio della teoria darwiniana all’ambiente culturale oltre che naturale. Oggigiorno, soprattutto nell’ambiente caoista, per “meme” si intende qualcosa di profondamente diverso. Si tratta di segni nel senso più materiale del termine: forme, numeri, sigle, parole o una composizione di questi elementi, volti a portare velatamente un significato. Generalmente sono caratterizzati da una grafica semplice, minimale, ideata in modo da riprodurre e diffondere più facilmente il messaggio. Possono essere costruiti e “caricati”, cioè associati ad alcuni archetipi con un rituale caota, oppure cercati e usati all’interno della simbologia tradizionale. La seconda scelta è forse meno felice ma in un buona parte inevitabile. Come ci ricorda Jung anche le religioni, nella loro simbologia, muoiono. Ciò significa che il legame tra grafo e archetipo che crea il segno si è spezzato, le persone non si sentono più partecipi di questo mistero e il meme lascia l’inconscio collettivo. I meme sono usati soprattutto da grandi aziende e multinazionali, l’esempio più banale è quello dei numeri. La gente ricorda il brand non tanto per il suo nome o per gli oggetti che produce (fa anche maglioni? boh!) quanto per il numero stampato sui suoi prodotti. Il meme può coincidere con il logo dell’azienda o meno. Non voglio certo dire che multinazionali come la Coca-Cola, Apple ecc. abbiano un team di caomagisti pronti a fare strani riti! La diffusione del loro materiale sostituisce quello che il singolo deve fare in altro modo, né si deve pensare che l’associazione risulti più o meno precisa in un modo o nell’altro. L’approccio fenomenologico a queste teorie non può che rassicurarci. L’immagine in sé, nel suo essere solo immagine, è comunque composta da elementi che noi riusciamo a distinguere (gli uomini in un quadro di Giotto, la mela del logo Apple) e che per sintesi passive rimandiamo a un certo strato di Erlebnisse: proprio questo strato nei suoi successivi e numerosi rimandi porta al fondo: l’inconscio collettivo e gli archetipi. Husserl nelle “Lezioni sulla sintesi passiva” parla di intensità del rimando: banalmente, più fresca l’esperienza più fresco il ricordo. Per questo la diffusione di un meme risulta una componente importantissima. 3 C’è molta confusione sulla caosfera[chaosphere]. Cominciamo col dire che le otto associazioni tradizionali ai raggi sono di Carroll. Nel Liber Null la caosfera è in 3d (è una sfera, dopo tutto) dove l’ottarino non è “allineato” agli altri raggi, in questa prima fase i raggi non sono associati a nessun attributo. Solo nel Liber Kaos Carroll parla di “otto magie”, associando ai raggi colori e attributi. Si potrebbe obiettare che questo è un semplice esempio operativo e che lo schema originale è quello del Liber Null: sono d’accordo, d’altra parte noi useremo le otto associazioni ormai classiche, vedendo la caosfera come caoscerchio. La portata operativa da noi pensata verrà esplicata in seguito. Altrove14 ho definito gli otto raggi di una caosfera come “topiche”. Mi sembra ora di dover aggiustare il tiro e usare il termine “complessi”, facendo riferimento alla nota teoria junghiana. Si tratta di otto temi che, come per la teoria dei tipi, possono influenzare la personalità del praticante. Tramite la caosfera evochiamo alcune parti di noi per operare a un livello più profondo, e l’equilibrio nella caosfera è importante quanto l’equilibro nell’inconscio complesso, i cui simboli sono rappresentati dai raggi (che ovviamente saranno ora “segni”). E’ bene precisare che la caosfera non ha niente a che fare con la teoria degli 8 circuiti di Robert Anton Wilson e Timothy Leary, che si basa su intuizioni adleriane, sebbene ci possano essere alcune somiglianze15. Proviamo a confrontare le due teorie: la caosfera è una sfera i cui raggi vanno in direzioni opposte, si tratta cioè di complessi in contrasto tra loro. Gli otto circuiti sono in realtà quattro colonne (benché possano comunicare tra loro) divise in parte bassa/alta. Non sembra esserci contrasto quanto continuità tra una e l’altra, per questo è difficile vedere un equilibrio-squilibrio della persona se non prendendo un’idea preconcetta. Nel modello degli 8 circuiti non si tratta inoltre di delineare dei complessi quanto dei “punti critici” che riprendono in parte le fasi della sessualità infantile in Freud. 14 Cfr. Sphaso, Liber Fenomenologiae Rizomaticae, liberamente scaricabile da http://sphaso.splinder.com Cfr. Paul Clark, Timothy Leary's 8-Circuit Model of Consciousness, http://www.totse.com/en/fringe/dreams_auras_astral_projection/8circuit.html 15 11 Inoltre, se la caosfera spazia tra conscio e inconscio senza preoccuparsi di una divisione netta, lo schema degli 8 circuiti divide nettamente tra “mondano” e “magico”. Essendo modelli si può usare uno come l’altro a seconda di cosa si voglia fare, d’altra parte riteniamo più coerente ed interessante all’interno di questo percorso usare la caosfera. Prima di procedere osserviamo in cosa consistono gli 8 complessi. Per la loro natura non possono essere definiti quanto rappresentati come cifra di una catena di associazioni. Ottarino: l’io magico, il matto, un colore personale, il complesso dell’Io, la Volontà Si oppone a Ego: l’io mondano, l’impiccato, giallo, inconscio freudiano Morte: morte e rinascita, la morte, nero, assenza di libido (o trauma) Si oppone a Sesso: desiderio, dieci di denari, viola, libido Prosperità[wealth]: salute e ricchezza (controllo), asso di coppe, blu, sintesi Si oppone a Intelletto: pensiero e intuizione, lo ierofante, arancione, analisi Amore: armonia, l’imperatrice, verde, Venere Si oppone a Guerra: disarmonia, sette di bastoni, rosso, Marte Il lettore provi ad associare gli 8 circuiti a questi 8 complessi e si troverà presto in imbarazzo: sono due modelli diversi, con un dominio diverso e tutt’altro sfondo teorico. Un’altra domanda che dovremmo porci è: perché proprio otto, e perché proprio questi otto? Ovviamente non c’è nessuna ragione perché debbano essere questi o perché proprio in questo numero, il praticante può sceglierne quattro o sedici o nove complessi, ma anche qui vale la regola: non confondere il mezzo col fine. Consiglio per tanto di discostarsi da questo modello solo se ci si sente particolarmente lontani dalla riduzione. Per quanto riguarda le associazioni, quelle fornite non sono altro che esempi. Il praticante, lontano dall’accettarle dogmaticamente, dovrebbe farsi la propria idea o “sensazione” dei vari complessi. 4 Certi caoti, quando vogliono essere presi seriamente, ripetono che i sigilli funzionano per “sincronicità”. Certo, ma di cosa stiamo parlando? Nonostante il termine sia ormai nel nostro vocabolario c’è pochissima letteratura a riguardo, spesso sembra sia qualcosa accettato per fede, come comoda spiegazione. La sincronicità è un fenomeno studiato inizialmente da Jung16 e dal dottor Wolfgang Pauli, definito come rapporto tra elementi di natura acausale ma significativa. Un elemento (nel suo significato simbolico) si presenta di fronte a noi sempre più frequentemente, ma in apparenza non ci sono cause che possono spiegare l’incongruenza con le probabilità di manifestazione. Ad esempio, possiamo essere in uno stato sincronico con un numero e vederlo sulle porte, ogni volta che guardiamo l’ora, facciamo una somma ecc. Gli oggetti cambiano, ma il significato è lo stesso. Anche i simboli possono cambiare, nel momento in cui sono in una qualche relazione tra loro, ad esempio: il cuore, il sole, Tipharet, Gesù Cristo, sono diversi simboli che hanno però una corrispondenza reciproca. La sincronicità si lega alle nozioni di archetipo e inconscio collettivo, e soprattutto all’attitudine junghiana di interpretare il materiale inconscio come “messaggio” o “consiglio” che il Sé (l’insieme dei complessi) da all’Io (come complesso dominante). Da questo punto di vista la differenza tra 16 Cfr. C.G.Jung, Sincronicità, Bollati Boringhieri, Torino 2004 12 conscio e inconscio si slega definitivamente da quella di sogno-veglia, e il mondo come lo viviamo si colora di possibili interpretazioni psicoanalitiche17. Vorrei citare un caso per me molto importante. Nell’estate dei 16 anni ero ancora piuttosto timido, avevo un lavoro e questo mi causava qualche problema. Stavo leggendo alcuni testi di Spare, approfondendo allo stesso tempo Crowley. Da un giorno all’altro cominciai a vedere ‘666’ ovunque. Il fenomeno in sé è più comune di quanto si creda, nel gruppo LuciAlNeon moltissimi membri hanno avuto esperienze di sincronicità col 32, il 23, il 72, il 93 ecc. si noti che ognuno di questi numeri ha un posto particolare nella tradizione occulta. Cominciai a pensare al suo significato tentando tutte le associazioni più assurde, tralasciando inconsciamente la più ovvia. Frater Beppe propose di interpretarlo sì come numero della Bestia, ma nel senso di Crowley: la Volontà. I fenomeni di sincronicità sparirono dopo pochi giorni, cioè quando cominciai a prendere le cose con più leggerezza e coraggio, smettendola di vivere passivamente ma applicando la mia volontà di potenza. La Volontà non è nient’altro che questo: diventare ciò che si è, vivere la propria prospettiva. In termini junghiani si tratta di individuarsi, prendere coscienza del Sé: l’insieme dei complessi e delle loro relazioni. Qualcuno potrebbe obiettare che Beppe, conoscendomi, sia stato influenzato nell’interpretazione: certamente, ma questo invalida la verità del fenomeno vissuto? Se l’interpretazione può essere stata guidata, di certo non lo è stata la continua apparizione del numero. Né si deve pensare che la sincronicità, in quanto evento acausale, metta in crisi il nostro approccio fenomenologico. Si tratta di un fenomeno che rompe la struttura eidetica? In che modo? Io questo non lo credo. Quando siamo in uno stato sincronico le nostre attese percettive possono mutare, ma sono in gran parte le stesse: guardiamo l’ora e ci aspettiamo di vedere un 23, ma l’utilizzo dell’orologio, i movimenti che dobbiamo compiere per usarlo, sono banalmente gli stessi. Anche qui si tratta di distinguere tra mera percezione e giudizio. Noi, intellettualmente, possiamo rifiutare la sincronia, ma percettivamente non ci possiamo fare nulla. La fenomenologia al contrario è un’arma efficace per scoprire i legami che possono unire diversi casi. La sincronicità ci permette inoltre di uscire dal solipsismo in cui l’analisi fenomenologica compiuta fin’ora ci ha imbrigliati. Come abbiamo visto, molti caoti sono d’accordo nel ritenere la sincronicità causa di cambiamento, interno o esterno che sia. Da esperimenti compiuti col gruppo LuciAlNeon è stato dimostrato che lo stato sincronico può essere indotto, aspetto di cui Jung non si occupò. Non è raro ad esempio trovare in internet testimonianze di caoti ossessionati da un simbolo dopo un rito. Desiderare di entrare in uno stato sincronico con un simbolo attraverso sigillazione è altrettanto possibile ed efficace. Non mi sembra il caso di esplicitare le possibilità pratiche: entrare in sincronicità con un simbolo aumenta le probabilità di riuscita di un rito. Un altro fenomeno interessante che Jung non ha considerato è la possibilità di un “contagio”. Spesso è stato notato come una persona a contatto con un’altra acquisti la sua stessa sincronicità. A me capitò di essere contagiato dall’archetipo del pesce dopo la prima lettura del testo di Jung, mentre ad altri membri di LuciAlNeon capitò di ereditare una sincronicità della propria ragazza. D’altra parte le ragioni per cui una persona viene contagiata e un’altra no sono ancora misteriose. La ricerca deve continuare. 17 Certo, anche in S.Freud, Psicopatologia della vita quotidiana (Newton Compton 2002) si interpretano esperienze quotidiane psicoanaliticamente, ma il lettore non avrà difficoltà a trovare le fondamentali differenze nell’approccio e negli oggetti presi in considerazione. 13 Conclusione Si potrebbe obiettare che quella dell’inconscio collettivo, degli archetipi e per ultima la sincronicità non è esattamente una teoria, in quanto a una domanda (es: perché riscontriamo similarità tra manifestazioni dell’inconscio e figure mitologiche? Perché certi simboli si ripresentano in alcuni periodi?) non risponde, ma pone delle ipotesi ad hoc. D’altra parte, come rilevano alcuni postpositivisti tra cui Feyerabend18, molte teorie scientifiche sono supportate da ipotesi di questo genere. Se si vuole prendere la psicologia analitica come modello e non come teoria si è liberissimi di farlo, purché si presenti una teoria altrettanto estesa e provata. Uno degli intenti di questo breve scritto è quello di mostrare la possibilità di operare magicamente senza per questo farsi carico di nozioni metafisiche. Non servono divinità, poteri, anima (nel senso cristiano) o non meglio specificata “energia”. Possiamo pensare che questo atteggiamento limiti le possibilità del praticante, in quanto lo ingabbia in un impianto teorico-filosofico. Ma cosa ne è dei veli di Maya? E’ libertà illudersi di eseguire riti completamente inutili? Quello che vorremmo vedere nella scena contemporanea è una seria presa di posizione a riguardo: una critica della ragion magica. Molte persone mi hanno aiutato durante l’elaborazione e la scrittura di questo testo: Alice, Beppe, Diotima, Elena, Filippo, Gigi, Giulia C., Giulia M., Guglielmo, Jennie, Luca, Maurizio, Silvia e Veriko. Desidero qui ringraziarle. Bibliografia essenziale Per un primo approccio alla cultura caotica anglosassone si consiglia la lettura dei seguenti testi: Peter Carroll, Liber Null and psychonauts e Liber Kaos, Weiser books Ray Sherwin, Theatre of magick e Magic of results, scaricabili ovunque The temple ov thee psychic youth, The black book, scaricabile ovunque R.A.Wilson e Shea, Principia discordia, Loompanics Unlimited, 1980 Per un approfondimento su altre tematiche affrontate in questo testo: Edmund Husserl, L’idea della fenomenologia, Laterza, Roma-Bari 2006 Pieri, Introduzione a Jung, Laterza, Roma-Bari 2003 Vijnanabhairava, Adelphi, Milano 2002 18 Cfr. P.K.Feyerabend, Contro il metodo, Feltrinelli, Milano 2003 14