Nuove politiche e progetti abitativi a Milano

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Nuove politiche e progetti abitativi a Milano
Sguardi oltre le retoriche.
Nuove politiche e progetti abitativi a Milano.
di
Massimo Bricocoli
Alessandro Coppola
Paper for the Espanet Conference
“Innovare il welfare. Percorsi di trasformazione in Italia e in Europa”
Milano, 29 Settembre — 1 Ottobre 2011
Massimo Bricocoli
Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Politecnico di Milano,
[email protected]
Alessandro Coppola
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Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Politecnico di Milano,
[email protected]
Nuove politiche e progetti abitativi a Milano.
Abstract
In Italia, ancor più che in altri contesti europei, lo stato – in tutte le sue articolazioni, funzionali
e territoriali – ha visto contrarsi il suo ruolo nella fornitura diretta di alloggi e
progressivamente le politiche della casa si sono configurate come uno dei campi d’azione
pubblica delegato all’iniziativa dei governi locali.
Negli anni novanta e duemila, l’ascesa (e l’influenza reale) della retorica della proprietà
immobiliare di massa si é intrecciata con gli imponenti effetti che i processi di privatizzazione e
di riorganizzazione del governo hanno avuto nel campo delle politiche abitative.
Da un lato, con il generalizzarsi della negoziazione quale principio cardine della promozione e
del governo della trasformazione urbanistica, l’offerta di alloggi per gruppi sociali ritenuti
“fuori mercato” é stata devoluta a soggetti vecchi e nuovi dell’economia sociale ed al loro ruolo
negli schemi di trasformazione dell’urbanistica contrattata. Dall’altro, con l’emergere ed il
diffondersi della retorica della mixité sociale, i nuovi interventi sono stati accompagnati da una
nuova enfasi sugli aspetti più latamente urbani e sociali degli interventi di trasformazione ad uso
residenziale.
In altre parole, alla complessità del quadro di produzione degli interventi si associava la
complessità degli esiti che si intendeva determinare. A consolidarsi é stata così una nuova
cultura delle politiche dell’abitazione sociale che traeva la propria legittimità da un discorso di
rottura nei confronti di quelli che erano ritenuti i fallimenti della precedente stagione
dell’edilizia pubblica. Ma se in altri contesti europei, la produzione di abitazioni in locazione è
fonte di innovazione e la costituzione di gruppi di progetto per la coabitazione è terreno di
pratiche di un certo interesse, questo non pare essere ancora il caso del contesto italiano, in cui
l’abitare collettivo sembra in grande prevalenza segnato da un’offerta assai conservativa e
difensiva. In questo quadro, il caso milanese si presenta come contesto privilegiato di indagine
sia per la centralità di alcuni di questi principi nel discorso delle forze che hanno controllato il
governo locale nell’ultimo ventennio, sia per gli esiti imponenti del lungo ed intenso ciclo
edilizio che, ormai esauritosi, è coinciso con il definitivo consolidarsi di quella cultura.
Il paper discute (I) i tratti qualificanti di vent’anni di politiche abitative a Milano, (II) il quadro
dei suoi esiti qualitativi ed infine (III) i risultati di alcuni recenti studi di caso relativi ad
interventi di trasformazione urbana che appaiono significativi per la discussione del tema in
oggetto, tanto più in termini comparativi rispetto ad uno sfondo di casi investigati in altri paesi
europei.
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1. Caratteri e tendenze del ciclo immobiliare 1995-2006
La crisi economica e finanziaria intervenuta a partire dal 2008 ha determinato, anche nella
regione urbana milanese, un netto rallentamento nella dinamica del mercato immobiliare.
All’apice del ciclo immobiliare ascendente, secondo stime dell’Università Bocconi, il valore
complessivo delle operazioni immobiliari ammontava a circa 13 miliardi di euro, pari all’8,5%
del Pil dell’intera Lombardia, dei quali una parte consistente era assorbita dalle operazioni di
trasformazione urbanistica che, al 2006, riguardavano secondo il Comune circa l’8% del
territorio comunale per un totale di oltre 13 milioni di metri quadrati (Memo, 2006). Seppure
l’esito di alcune delle principali operazioni immobiliari già approvate sia ancora incerto, risulta
evidente l’eccezionalità di questi lungo ciclo di sviluppo immobiliare: 1) per le sue dimensioni
finanziarie e territoriali, 2) per il suo intrecciarsi con un periodo di intensa trasformazione della
strumentazione urbanistica e degli attori coinvolti nel mercato urbano, 3) per il carattere
fortemente controverso dei suoi esiti in termini di qualità spaziale e sociale delle trasformazioni.
Alcuni dei motivi centrali del discorso sulle trasformazioni portato avanti dagli attori protagonisti
delle trasformazioni degli ultimi anni si fondano su formulazioni problematiche consolidatesi
nell’arco di almeno tre decenni. Fra gli anni settanta e ottanta dello scorso secolo, in un quadro
di declino demografico della città centrale e di progressivo decentramento residenziale e
produttivo nell’area urbana, le politiche di ricentralizzazione saranno destinate a non essere di
fatto mai implementate, nel quadro di una progressiva perdita di pertinenza di un piano
regolatore fortemente orientato alla difesa della presenza manifatturiera e della residenza
popolare nel centro storico (Balducci, 2007). L’incapacità realizzativa degli anni ottanta
(Bonfantini, 2007) diverrà giustificazione teorica fondamentale per la profonda riformulazione
della strumentazione urbanistica determinatasi a partire dagli anni novanta.
Dopo le prime sperimentazioni degli anni ottanta, il percorso di destrutturazione degli strumenti
urbanistici tradizionali si consoliderà con il passaggio dal ricorso ad alcuni programmi
sperimentali nazionali – i programmi di riqualificazione urbana (PRU) della metà degli anni
novanta - a quelli offerti dalla nuova legislazione urbanistica regionale (Bricocoli e Savoldi,
2010). Se i Pru (Programmi di Recupero Urbano) – originariamente inquadrati in un documento
di indirizzo, Nove Parchi per Milano - verranno a costituire lo strumento di trasformazione
urbanistica tipico della prima fase del nuovo ciclo immobiliare, i PII (Piani Integrati di
Intervento) – inquadrati in un documento di indirizzo, Ricostruire la Grande Milano –
prenderanno il loro posto nella seconda fase. A segnare l’intero periodo di trasformazione degli
strumenti urbanistici, scandita dagli aggiornamenti successivi della normativa regionale, sarà
l’idea dell’inadeguatezza di un modello di pianificazione sinottica e vincolistica rispetto ad una
pratica della trasformazione contrattuale della città operata per parti, capace di attrarre
investimenti privati e di accelerare e portare a compimento i processi di trasformazione. Il nuovo
Piano del Governo del Territorio adottato nel 2011 rappresenterà il compimento di questa lunga
fase di riformulazione della strumentazione urbanistica.
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L’evoluzione degli strumenti si accompagnerà ad una profonda ristrutturazione del mercato
urbano (Bolocan Goldestein, 2007) sia nel profilo dei suoi attori sia nelle loro modalità
operative. La rilevanza di nuovi attori privati relativamente specializzati, a partire da developer
ed operatori finanziari capaci di agire a grande scala seguendo logiche e forme d’azione
relativamente inedite nel contesto italiano; l’irrobustimento del ruolo di attori non specializzati
(dalle cooperative alle assicurazioni, dal sistema bancario ad alcune grandi imprese industriali e
terziarie) ed il ruolo crescente giocato da alcuni grandi attori istituzionali e funzionali nei
processi di trasformazione ne sarebbero alcune delle traiettorie più evidenti (Pasqui 2007).
Lungo il ciclo immobiliare espansivo, ad una prima fase dai caratteri ancora tradizionali, ne
sarebbe subentrata una seconda segnata da una forte accentuazione dei caratteri di novità, con
l’emergere di attori ed operatori privati new-comer, espressione dei processi di
finanziarizzazione e globalizzazione del real estate che avrebbero investito anche il mercato
milanese: anche a Milano si sarebbe infine imposto all’attenzione un nuovo tipo di operatore
specializzato – da indicare con l’acronimo NOTIA (Nuove Organizzazioni del Terziario
Immobiliare Avanzato) – capace di integrare funzioni e servizi altamente qualificati e di
mobilitare ingenti risorse economiche nella gestione di grandi progetti di sviluppo e
valorizzazione immobiliare (Memo, 2006).
Il salto di scala degli operatori si sarebbe esercitato nel disegno e nell’implementazione di alcuni
mega-project – in particolare Santa Giulia, City Life e Porta Nuova - che dominano la seconda
fase del recente ciclo immobiliare ascendente (Memo, 2006) imponendo l’immagine di una
svolta comunicativa delle politiche urbanistiche milanesi (Longo, 2007) caratterizzata dalla
vistosità dagli apparati discorsivi mobilitati nella promozione dei progetti, dall’iconicità delle
architetture proposte e dalla supposta coerenza degli interventi con le politiche di attrazione e
competizione inter-urbana portate avanti dell’amministrazione nel segno di un rinnovata
ambizione di ricentralizzazione volta a fare della città la downtown della regione urbana
(Bricocoli e Savoldi, 2010).
L’assenza di una visione strategica, con l’amministrazione di fatto auto-confinatasi in un ruolo
meramente regolativo e non strategico dello scambio con il settore privato e con gli altri settori in
gioco, avrebbe un processo di modernizzazione ad una dimensione - quella del mercato - a
scapito della produzione di strategie e beni pubblici adeguati (Pasqui, 2007). Lo stesso
dispiegarsi degli strumenti frutto dell’innovazione urbanistica si è per molti versi risolto “in un
gioco adattativo ed opportunistico tra istanze e comportamenti compositi e non nella
stratificazione di “uno spazio culturale condiviso da amministratori, tecnici, operatori”. Una
mancanza dalla quale discenderebbe l’elevata discrezionalità nella valutazione dei singoli
progetti di trasformazione (Bolocan et al, 2007), caratterizzati da un ruolo spesso marginale
dell’amministrazione nella fase di concezione e realizzazione e viceversa rimediale ed
emergenziale di fronte al determinarsi di situazioni critiche nella fase di implementazione e di
vita dei progetti (Bricocoli e Savoldi, 2010). Più complessivamente, la scarsa qualità di molte
trasformazioni sarebbe anche discesa dalla generale latitanza di significativi processi di
discussione e mobilitazione pubblica in un panorama segnato da conflitti “a bassa radicalità”e
generalità (Pasqui, 2007) e come tali incapaci di arricchire in modo rilevanti i processi ed i loro
esiti.
In questo quadro, all’incrocio fra una riscoperta di una valutazione sostantiva degli esiti sociali
delle trasformazioni urbanistiche (Fainstein, 2010) ed un ritorno ad uno sguardo denso ai
concreti luoghi urbani ed alle loro qualità come lascito dei processi di trasformazione (Bricocoli,
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2008; Bricocoli e Savoldi, 2010), si intravedono le potenzialità di percorsi di ricerca capaci di
valutare in modo puntuale l’eredità del lungo ciclo immobiliare che sta ormai alle nostre spalle,
formulando allo stesso tempo alcuni principi – altamente contestuali – che orientino la
valutazione delle trasformazioni in atto.
La questione abitativa a Milano
Nel quadro di un paese che registra fra i tassi più elevati di residenza in proprietà al mondo ed
una crescente marginalizzazione ed irrilevanza quantitativa dell’offerta pubblica (Minelli, 2006),
si segnala da tempo una considerevole estensione dell’area del rischio abitativo. Al 2008,
l’81,5% dei nuclei familiari é proprietario dell’abitazione in cui vive, rispetto al 17,2% che
invece si trova in affitto, con una forte accentuazione di questi negli ultimi due quintili nella
piramide dei redditi (Anci, 2010). Nel periodo 1991-2009, a fronte di una crescita delle
disponibilità familiari del 18%, l’incremento dei canoni di mercato nelle aree urbane è stato pari
al 105%, una divaricazione riflessasi in una dinamica sostenuta del numero degli sfratti (Anci,
2010). In questo contesto difficile, la tradizionale inadeguatezza e il sotto-dimensionamento
dell’offerta pubblica di alloggi si é approfondita: oggi solo il 4% circa degli alloggi é di proprietà
pubblica, rispetto al 36% dell’Olanda, il 22% dell’UK ed il 20% della media comunitaria.
Rispetto agli anni ottanta, la produzione pubblica si sarebbe ridotta di circa il 90%, scendendo
dai circa 34.000 alloggi l’anno del 1984 ai 1900 del 2004; lo stesso andamento sarebbe stato
registrato anche per le abitazioni realizzate in regime di residenza agevolata o convenzionata,
passate da 56mila a 11mila nel ventennio considerato. Più complessivamente, il patrimonio
pubblico, a causa dei processi di privatizzazione e cartolarizzazione (di proprietà di Stato,
Regioni, Province, Comuni e aziende regionali di edilizia residenziale) si sarebbe ridotto di oltre
il 20%: da un milione di alloggi nel 1991 a 900mila nel 2001 e a 800mila nel 2007 (Anci, 2010).
La forte contrazione dell’offerta pubblica e la crescente insostenibilitàdell’offerta privata
avvengono in un contesto di forte trasformazione della domanda abitativa. La riduzione della
taglia media delle famiglie e l’incremento costante del loro numero, le trasformazioni delle
configurazioni familiari, l’aumento dei nuclei ‘non tradizionali’ (single, nuclei monogenitoriali,
coppie non coniugate, etc), le trasformazioni della struttura delle popolazioni (il peso crescente
della quota di popolazione anziana, gli immigrati stranieri) hanno comportato non soltanto una
differenziazione della domanda, ma anche un aumento di domande abitative atipiche (Tosi,
2003). Accanto ai temi ed ai soggetti del disagio abitativo grave, la letteratura ha sottolineanto
l’emergere di un’area vasta di rischio abitativo, collegato alla crescente “vulnerabilità sociale” di
ampi settori della popolazione (Torri, 2006). La dimensione del rischio abitativo alluderebbe “sia
all’estensione dimensionale e al potenziale di crescita del problema, sia al carattere non
sistematico del fenomeno”: coinvolte nel rischio abitativo ci sarebbero anche popolazioni non
necessariamente in condizioni di povertà (Torri, 2006). Coerentemente, una recente ricerca
dell’Anci individua, accanto a quella del cosiddetto disagio assoluto, l’area del disagio relativo
per la quale “la questione abitativa rappresenta un fattore di freno (nell’autonomizzazione dei
giovani, nello spostamento per motivi di studio e di lavoro, nei progetti genitoriali) e un grave
fattore di rischio di fronte ad eventi imprevisti (uno sfratto, una separazione familiare, o la fine di
una coabitazione)” (Anci, 2010). L’estensione del bacino della precarietà occupazionale ha
giocato un ruolo fondamentale nell’estensione del rischio abitativo. Le difficoltà di inserimento
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delle giovani generazioni – instabilità e bassi salari precedentemente alla crisi, crescita
consistente della disoccupazione a partire della crisi – si sono trasferite sul piano abitativo,
sottolineando le criticità di un sistema caratterizzato dal ruolo pervasivo delle economie
familiari, dall’ assoluta marginalità dell’intervento pubblico e dall’arretratezza del mercato
privato. Tradizionalmente, in Italia, le reti familiari giocano un ruolo fondamentale nella
circolazione e nell’accesso al bene immobiliare: ereditare un immobile da generazioni precedenti
o ricevere il sostegno finanziario di queste al momento dell’acquisto rappresentano pratiche
diffuse (Tosi, 2003) che se, da una parte, attutiscono gli effetti della precarizzazione e delle
inefficienze del mercato immobiliare, dall’altro determinano diseguaglianze profonde. Nella
definizione della carriera abitativa dei giovani, assieme al reddito personale (income) conta
quindi anche la ricchezza (wealth) accumulata dalle reti familiari entro le quali si é inseriti
(Poggio, 2006). Il ruolo del ‘capitale ereditario’ – e le diseguaglianze che esso determina - si
trova ulteriormente acutizzato dall’aumento dei prezzi, verificatosi nel corso del ciclo
immobiliare ormai conclusosi, che “richiede – in assenza di trasferimenti dagli ascendenti – un
indebitamento sempre più forte, stabilendo soglie sempre più alte per l’autonomia abitativa e
quindi per il soddisfacimento dei bisogni primari” (Poggio, 2006). In queste condizioni, per chi
non accede a reti familiari dotate di capitali consistenti e si trova ad affrontare condizioni di
precarietà e di bassi salari sul mercato del lavoro, l’assenza di un’offerta adeguata in affitto si
riflette in un forte ritardo nella fuoriuscita dal nucleo originario e nel rinvio di progetti familiari.
Anche a Milano, emerge oggi una “nuova questione abitativa” che appare, complessivamente,
poco indagata. Non sono mancate le ricerche che in questi anni hanno esplorato le trasformazioni
delle forme e dei paesaggi dell’abitare (Lanzani et al., 2006; Multiplicity.Lab, 2007). Ma proprio
mentre la questione abitativa è andata definendosi in termini di criticità acute anche a seguito
dell’avanzare della crisi economica, assai più limitate sono le analisi che hanno messo sotto
osservazione in modo sistematico le criticità della domanda e dell’offerta sociale di abitazione.
Sono le stesse dimensioni quantitative del problema, e non solo per i complessi problemi di
definizione cui la questione si presta (Torri, 2006), ad essere restituite solo parzialmente e con
margini di approssimazione che paiono eccessivamente ampi. Molti degli indicatori impiegati in
gran parte delle rilevazioni disponibili - numero di domande presentate, di candidati dichiarati
idonei e di alloggi effettivamente assegnati nell’ambito dei bandi dell’Aler; l’incidenza dei costi
di locazione sui redditi familiari medi; il numero di homeless, etc. – sembrano riferirsi
esclusivamente alla domanda “statica” e non a quella “dormiente”.
I dati disponibili documentano tuttavia l’esistenza di un’area di disagio molto vasta che risulta
appena scalfita dalle politiche pubbliche attualmente in essere. A Milano, l’incidenza di nuclei
familiari in affitto sul totale, seppure in riduzione nel corso degli ultimi decenni, é sensibilmente
più elevato della media nazionale. Questi si concentrerebbero di più fra i giovani, le famiglie
unipersonali, le famiglie monogenitoriali e le famiglie ‘altre’ (Comune di Milano, 2007). Come
nelle altre aree metropolitane del paese, l’incidenza dell’affitto sui redditi disponibili sarebbe
superiore alla media nazionale (Comune di Milano, 2007), attestandosi nell’insieme delle
provincia oltre il 50% (Osservatorio regionale, 2009). Nel 2007, l’ammontare medio mensile per
l’affitto di un appartamento di 90 metri quadri corrispondeva a Milano a 1.252 Euro (+51,2%
rispetto al 2000) (Anci, 2011), un dato che ad ogni modo pare comprimersi con il pieno
dispiegarsi degli effetti deprimenti determinati della crisi del mercato immobiliare avviatasi nel
2007 (Repubblica, 2011).
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Di fronte ad un mercato di difficile accessibilità per i redditi medio-bassi, la risposta dell’edilizia
residenziale pubblica risulta straordinariamente inadeguata. Nel corso del 2007 risultavano quasi
tredicimila i candidati idonei per l’assegnazione di un alloggio, mentre si stimava che –
annualmente – si potesse soddisfare la domanda di soli 1200 nuclei (Comune di Milano, 2007).
L’attuale offerta ERP sarebbe quindi appena sufficiente a rispondere alle “situazioni di
emergenza, cioè quei casi in cui l’assegnazione non è derogabile per oggettive situazioni di
difficoltà, in primis gli sfratti” che coinvolgevano nel 2006 circa 1300 persone, un dato in forte
aumento negli anni 2000 rispetto agli anni precedenti (Ranci, 2005). Una parte della domanda,
stimabile nel 2007, in circa ulteriori 3600 nuclei familiari aggiuntivi non risulta tuttavia visibile a
causa della mancata partecipazione ai bandi ERP (Comune di Milano, 2007). A Milano,
complessivamente, la soddisfazione della domanda di abitazione in edilizia residenziale pubblica
raggiungerebbe così solo il 3,4% del totale, un dato in linea con la media nazionale (Anci, 2011).
Si tratta di dati che se, come abbiamo detto, non restituiscono le vere dimensioni e qualità della
“nuova questione abitativa” indicano comunque il consolidarsi di condizioni critiche il cui
rapporto con le trasformazioni urbanistiche in atto rimane tutto da indagare.
2. Una svolta nelle politiche abitative?
Di fronte al mutare e all’estendersi della questione abitativa, la sfida delle nuove politiche
abitative sarebbe quindi quella “di prendere in carico nel campo dell’abitare gli effetti
dell’estensione dei fenomeni di povertà, di vulnerabilità e di esclusione sociale” (Torri, 2006).
Fra le debolezze ereditate delle politiche pubbliche starebbe, ad esempio, la trattazione impropria
del problema abitativo di gruppi sociali marginali ed è certo emblematico il caso del progressivo
trattamento in termini securitari - entro un frame di ordine pubblico piuttosto che di welfare - dei
problemi di inserimento abitativo di specifici gruppi etnici e sociali, come nel caso dei Rom. Ma
ancora, si indicano come fattori altamente problematici la scarsa selettività delle politiche
abitative sociali e la separazione tra dimensione dell’intervento in campo abitativo, da un lato, e
quello sociale/socio-assistenziale dall’altro (Tosi, 2006).
La critica delle politiche tradizionali di edilizia pubblica si é andata costruendo attorno a temi e
tendenze diversi. Le conseguenze e gli effetti negativi generati negli interventi di mass housing
prodotti dal pubblico nel secondo dopoguerra sono contestati nello stesso tempo per obiezioni
sulla sua efficacia sociale (Power, 1993; Tosi, 2003) ma via via in nome di ideologie neoliberistiche e di re-orientamenti della cultura progettuale. In particolare, sono stati sottolineati i
limiti dell’applicazione estensiva del progetto moderno nei programmi di edilizia pubblica,
intendendo con il primo “un sistema di valori costruito attorno all’esperienza della domesticità; il
corrispondente schema spaziale che prevede l’abitazione come spazio distinto da quello pubblico
e da quello lavorativo, e separazioni di funzioni e di vani all’interno dell’alloggio; ed il carattere
specialistico della produzione di abitazioni” (Tosi, 2003). La reazione culturale ai programmi
standardizzati di edilizia pubblica si sarebbe nutrita della riscoperta di alcune dimensioni del
problema abitativo precedentemente trascurate. All’insegna del passaggio dall’attenzione alla
mera produzione di alloggi ad un’enfasi sull’abitare, si è progressivamente affermata una
rivalutazione del tema dell’abitare oggi sempre più declinato con riferimento non tanto alla
generalità e ad un’aspirazione al welfare universalistico (“una casa per tutti”) ma ad una maggior
adesione alla articolazione e alla specificità dei singoli nonché alle forme di aggregazione e di
convivenza che essi mobilitano. Come esplorato in una recente ricerca (Sampieri, 2011;
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Bianchetti, 2011), se negli anni novanta l’attenzione per l’abitare si era declinata con riferimento
ad una sfera intima e privata e aveva visto la sua concrezione nella soluzione dell’abitare
unifamiliare, oggi rileviamo un diffuso ritorno di interesse per l’abitare secondo una declinazione
che fa piuttosto riferimento alle retoriche e alle pratiche della condivisione, ed è in questa
prospettiva che si alimenta e può essere discusso un rinnovato interesse per l’abitare collettivo.
Il discorso sull’housing sociale si è andato affermando in corrispondenza di un ritrovato interesse
per forme variamente riconducibili, in forme più o meno lievi, all’idea di comunità che sempre
più spesso è stata mobilitata in riferimento a nuovi progetti abitativi. Mentre da un lato il cohousing ha profilato iniziative di costruzione basati su affinità di status o di stili di vita, o sulla
condivisione di valori di ‘comunità elettive’, l’housing sociale ha profilato invece un coté più
sensibile alla vulnerabilità dei soggetti coinvolti e il riferimento alla comunità richiama piuttosto
i temi della solidarietà, del mutuo-aiuto e chiama quindi in causa direttamente le forme e alle
condizioni in cui si dà la produzione di welfare locale. Come Ota de Leonardis mette in luce,
queste tendenze, in cui l’alloggio e l’abitare sono ricondotti – non senza rievocare valori morali
come la presa di responsabilità rispetto al territorio come bene comune – alle relazioni di
vicinato, di prossimità e solidarietà sembrano prendere distanza da quelle forme più anonime ed
indifferenziate della vita in ambiente metropolitano che un certo modello di residenza pubblica
ha lungamente rappresentato. Questioni quali “il rapporto con il quartiere e le relazioni di
convivenza; le interazioni tra l’alloggiare e le molteplici dimensioni della vita quotidiana; il
modo di produrre l’abitazione” risultano dunque centrali nel discorso sulle politiche abitative.
Coerentemente, le politiche avrebbero dovuto concentrarsi sulle condizioni alle quali si danno
“processi abitativi” e non più sole abitazioni (Tosi, 2003).
In Italia come nel resto d’Europa, l’accresciuta sensibilità ai temi della condivisione e della
mixité ha d’altra parte sollecitato la ricerca di una maggiore articolazione nei dispositivi
urbanistici e nella produzione ed assegnazione degli alloggi.
In questo contesto, il
coinvolgimento del mercato e del privato sociale nella produzione e distribuzione di social
housing ha certamente rappresentato una delle retoriche prevalenti in vista di una più generale
riorganizzazione della presenza pubblica in campo abitativo. Questa tendenza è stata da un lato
rafforzata da un lato una perdurante scarsità di risorse pubbliche, dall’altro si è confrontata con
una evidente debolezza del settore no profit italiano (Tosi, 2006) che diversamente da altri paesi
europei come, ad esempio, la Germania e l’Austria (Bricocoli, 2011, Scavuzzo 2011) non ha
ancora dispiegato potenziali di innovazione particolarmente significativi nei progetti e nelle
politiche di cui si è fatto attore.
3. Lo sguardo sulle trasformazioni e la valutazione come necessità
Dati, analisi e tendenze che abbiamo illustrato, più che delineare un quadro d’insieme sembrano
per lo più delineare i riferimenti utili alla costruzione di un programma di ricerca e, certamente,
mettono in evidenza la necessità e l’urgenza di una più sistematica ricognizione delle condizioni
alle quali si da non solo la domanda, ma l’offerta abitativa oggi – e in prospettiva - a Milano. E
se l’abitare non è solo collezione di alloggi, ma dimensione assai più articolata a cui le politiche
pubbliche e i progetti aspirano a contribuire in termini innovativi e di qualità, l’analisi
dell’offerta non può certamente limitarsi ai soli numeri di alloggi messi a disposizione. La
sollecitazione che ne deriva in termini di percorsi di ricerca è, come abbiamo già sottolineato,
nella direzione di una maggiore attenzione ai caratteri, alle forme, alle condizioni materiali in cui
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si da l’offerta abitativa e in questa direzione proporremo qui di seguito alcuni rimandi ad alcuni
esiti della ricerca empirica da noi condotta in questi ultimi anni (Bricocoli, Savoldi, 2010) utili
ad individuare alcuni nodi e criticità che sollecitano a riposizionare alcune cruciali questioni.
Oltre ad una frammentarietà e discontinuità dei dati e delle fonti, ciò che risulta con evidenza da
una ricognizione dello stato dell’azione pubblica è l’assenza di una qualche operazione di
composizione che dia una rappresentazione – questa sì unitaria – delle diverse forme in cui si
produce la risposta alla domanda abitativa in città. In termini di politiche, la ricognizione
condotta richiama ad una necessità da parte dell’attore pubblico di una maggiore responsabilità
nel dare conto dello stato delle cose. Certamente questo richiamo sarebbe da intendersi esteso
alla pluralità dei soggetti impegnati nella definizione e attuazione delle politiche: è il caso della
Regione così come di Aler, che pur restando un attore centrale e fondamentale non sembra
esplicitare orientamenti chiari rispetto alla gestione e allo sviluppo del proprio patrimonio.
Laddove abbiamo evidenziato una contrazione netta del ruolo dello stato nella produzione diretta
di alloggi, entro un processo che pure è di governance e multiattoriale, è da attendersi che i
soggetti responsabili delle politiche locali – e, dunque regione e amministrazione comunale in
primo luogo – svolgano un ruolo di regia e di sintesi. Da un lato si riscontrano problemi
consistenti di comunicazione, quasi che il dare conto di programmi e politiche attuate non fosse
di per sé fondamentale sia in termini di accountability dell’amministrazione stessa in termini di
costruzione della conoscenza pubblica attorno al tema e quindi di qualità della discussione
pubblica che si produce attorno alle questioni connesse. Di fatto, l’impressione che si deriva
dalla letteratura sul tema, dalle ricerche prodotte, e dai documenti stessi di politiche è che molte
retoriche sia a ridosso della “nuova” questione abitativa sia delle “nuove” politiche dell’abitare si
siano prodotte ed affermate in questi ultimi anni in assenza di verifica, senza essere messe alla
prova dei ‘fatti’ che esse stesse andavano producendo. L’esito, manifesto, è la progressiva
costruzione di un discorso in cui una matrice ideologica prevalente (in questa fase si tratta
soprattutto di quella orientata a contrastare il peso - considerato come dominante ed invasivo del soggetto pubblico e impegnata a supportare vitalità e creatività del privato sociale) sembra
trovare (o, meglio, produrre) un consenso generalizzato tra soggetti pur assai differenti e che in
prima battuta dovrebbero essere portatori di interessi non omologhi (il mercato e il sociale, per
intenderci). Valga per tutti il riferimento costante e incondizionato all’housing sociale, assunto
secondo una definizione apparentemente derivata dalle esperienze di altri paesi europei più
avanzati e che oscura, in nome di una nuova stagione di politiche a venire, ogni riferimento alla
importante tradizione di soggetti che attraverso il formato delle cooperative a proprietà indivisa
hanno di fatto concorso in Italia, sin dall’inizio del secolo scorso, alla produzione di offerta
abitativa sociale (Scavuzzo, 2011).
D’altro lato, il richiamo che deriva sul fronte delle politiche e della posizione del soggetto
pubblico richiama ad una maggiore attenzione rispetto a ruolo e responsabilità. E vero che siamo
in una fase in cui si declamano varietà e pluralità dei soggetti che sono di fatto erogatori di
servizi pubblici e quindi produttori di politiche pubbliche. Ma, se pure è conclamato che il
soggetto pubblico non sia più solo provider ma enabler, certamente sta alla Città il ruolo di
presiedere alla messa in coerenza e in prospettiva delle molteplici azioni intraprese in materia. E,
soprattutto, una verifica delle condizioni a cui queste intraprese si danno. In questo senso,
l’assenza di un quadro di insieme è colpevole rispetto a questioni di merito e, insieme all’assenza
di una discussione segnalata al punto precedente, produce un quadro assai incerto entro cui pare
difficile sviluppare una riflessione documentata e formulare ipotesi in prospettiva.
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A fronte di una serie di iniziative che in fasi successive hanno visto un impegno sul fronte della
produzione di housing sociale, con gradienti differenti di impegno e investimento diretto da parte
dell’amministrazione comunale, di Aler e del privato sociale è difficile ad oggi ricomporre un
quadro. Tra i primi quattro progetti avviati con il programma Abitare a Milano 1, in un caso si è
proceduto speditamente nella realizzazione e pure in una gestione oculata delle assegnazione
degli alloggi, in altri gli stati di avanzamento sono stati discontinui fino al caso di un cantiere non
ancora ultimato. Più difficile ancora esprimersi per quei casi in cui l’intervento comunale ha
avuto una forma meno diretta e in cui la gestione del bando, l’allocazione delle aree e lo sviluppo
dei progetti hanno prodotto esiti incerti.
4. Lo sguardo sulle trasformazioni. Considerazioni critiche in prospettiva.
Come abbiamo già indicato, negli scorsi quindici anni, i temi della concertazione e della
costruzione di nuove forme di partenariato pubblico privato per la produzione di housing sociale
sono stati dominanti nel dibattito. L’accento è stato posto su strumenti e processi, sulla
governance dei processi multiattoriali, con una riflessione ridotta sugli esiti e sulla qualità delle
realizzazioni. Le esperienze concrete sono ancora modeste e per questo la riflessione tende
spesso ad essere auto-riferita, con un numero ridotto di esperienze che tendono a configurarsi
come modelli di riferimento e che certamente sono sovraesposte rispetto alle attese. I riferimenti
ad esperienze straniere consolidate sono spesso effimeri e strumentali a supportare specifici
modelli di promozione e organizzazione di uno specifico progetto abitativo, raramente
approfondiscono in modo articolato i riferimenti utili a configurare modalità e insiemi di azioni
al di là della semplice realizzazione di un singolo intervento (Scavuzzo, 2011).
Appare urgente coniugare un orientamento all’innovazione degli strumenti e il coinvolgimento di
una pluralità di attori con una rinnovata attenzione al profilo e alla qualità degli esiti e in questa
prospettiva, una discussione nel merito dell’ampliamento dello stock di abitazioni per il mercato
dell’affitto sociale non può fare a meno di una ricognizione delle esperienze di nuova produzione
residenziale degli ultimi anni.
Appare certamente utile, approfondire il discorso sulle politiche e i progetti abitativi a Milano
attraverso un affondo che faccia riferimento non tanto e non solo alle esperienze specifiche di
housing sociale e di nuova edilizia residenziale prodotte negli ultimi anni o in fase di
realizzazione. Piuttosto, appare fondamentale maturare una rassegna critica delle questioni che in
modo idealtipico alcune trasformazioni urbane e interventi di nuova costruzione mettono in
evidenza quale sfondo entro cui si definiscono oggi le condizioni per politiche e progetti di
edilizia sociale, assumendo che il disegno e la trasformazione che si realizza in porzioni
consistenti di città rappresenta una metafora del modo in cui si produce oggi la città
contemporanea. In una fase di ritorno di interesse per l’abitare nella città centrale, è da segnalare
peraltro che in molti casi di grandi progetti urbani è divenuta considerevole la quota di edilizia
residenziale. L’enfasi progressiva che è assegnata all’abitare nei progetti di sviluppo urbano
impone questa maggiore attenzione alle configurazioni dell’abitare/urbanità che si producono.
Posare lo sguardo sui nuovi interventi di edilizia residenziale realizzati consente certamente di
individuare criticità importanti insieme alla definizione di nuovi obiettivi da traguardare; non si
tratta tanto di sviluppare uno studio valutativo in senso stretto, quanto una ricognizione che metta
in valore criticità da sciogliere ed elementi di rilievo/innovazione da rilanciare a partire dalle
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esperienze concrete e dal punto di vista dell’innovazione delle politiche pubbliche, del mercato,
delle culture di progetto.
Da questo punto di vista, alcune ricerche (Bricocoli e Savoldi, 2010; Cognetti e Gaeta, 2011)
consentono certamente di individuare, ridefinire e mettere in prospettiva criticità importanti dei
progetti di edilizia residenziale recenti e in fase di realizzazione e sollecitano un’apertura di un
dibattito sulle politiche abitative che non sia esclusivamente limitato all’edilizia sociale, che
impone di considerare la qualità complessiva dei nuovi contesti abitativi e le condizioni alle quali
oggi è possibile, o meno, fare città.
E’ a partire dalle realizzazioni che alcune prime mosse di ricerca empirica sollecitano a
riposizionare, nel dibattito e nelle politiche, alcuni temi e questioni, con riferimento concreto alle
pratiche e ai luoghi.
Un primo tema che certamente emerge in Italia, come in Europa, è quello della mixité, divenuto
rapidamente retorica dominante entro un orientamento che dichiara di voler prendere le distanze
dagli esiti negativi e ampiamente discussi di un trattamento per grandi cluster funzionali dello
sviluppo urbanistico del novecento. La mixité viene generalmente discussa insieme in termini
funzionali e sociali. Si mescolano le funzioni e le attività e si mescolano le diverse popolazioni.
Si mettono alle spalle le realizzazioni moderniste di grandi quartieri monofunzionali e
socialmente omogenei e si scommette sulla qualità che deriva dal combinare la residenza con
altre funzioni se non addirittura su nuove forme di urbanità.
Tanto più il discorso si sposta sulle popolazioni vulnerabili, un poco come si è già visto nella
retorica della comunità locale, anche in questo caso emerge con una certa evidenza un certo
richiamo morale. E’ evidente nel discorso sulla mixité sociale un assunto che sembra fondato
sull’effetto benefico della vicinanza tra gruppi sociali differenti e che, complice una lettura
esasperata e riduttiva della concentrazione di gruppi sociali deboli o marginali (la ‘paura del
ghetto’ cui si riferisce Roberta Cucca nel suo paper per questo stesso convegno) assume
semplicemente che gruppi sociali più fragili possano trarre beneficio e prospettive di crescita
dalla vicinanza ad altri gruppi sociali. E’ il caso di gruppi sociali più solidi ed affluenti, ma
frequentemente è pure il caso degli studenti: le residenze universitarie sono un ingrediente
costante della miscela prevista nei nuovi progetti di sviluppo. Se pure possono essere individuati
argomenti a favore della mixité, intesa piuttosto come esito eventuale di un certo modo di fare
città, è importante che i rischi di una interpretazione riduttiva siano esplicitati e discussi, tanto
più quando essa diviene un riferimento esplicito per le politiche e il progetto (European Network
for Housing Research, 2011)
Mentre si trascura qualsiasi discorso su organizzazione e accesso a servizi primari – la scuola
innanzitutto - che certamente giocano un ruolo fondamentale nel supportare forme di
integrazione tra diverse componenti della società locale, tale orientamento emerge con evidenza
laddove si discute di nuovi progetti residenziali. Lo sguardo sui luoghi testimonia in realtà una
interpretazione assai riduttiva sia del modo di intendere la mixité, sia della nozione stessa di
’abitare’ che pur viene spesso chiamata in causa nel disegno di politiche.
La mixité diviene semplice combinazione e si traduce generalmente nella “adiacenza” tra corpi
residenziali che esprimono in modo manifesto – “sulla pelle degli edifici” (Savoldi, 2010) - la
loro diversa qualificazione (privata, non profit, sociale). I singoli lotti sono chiaramente distinti e
sistematicamente recintati. Gli spazi della frammistione sono limitati agli dello spazi aperti (che
corrispondono al verde e che tendenzialmente diviene terreno di contesa e conflitto) e agli spazi
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del consumo - inteso in senso stretto - generalmente concentrati in un’unica superficie
commerciale di grandi dimensioni. Questa interpretazione attraversa sia i nuovi progetti di
edilizia residenziale sia gli interventi sui quartieri esistenti.
Il caso di Gratosoglio, quartiere di edilizia popolare progettato negli anni’60, è esemplare
(Coppola, 2010). Gli argomenti del superamento di una concezione monofunzionale e della
omogeneità sociale del quartiere sono stati il riferimento per una serie di interventi di
densificazione che hanno previsto la realizzazione di nuove strutture residenziali.
Strutture residenziali specializzate, per anziani, per studenti, di fatto disegnate e organizzate in
modo totalmente autonomo e separato dal contesto, che in nessun modo articolano nuove
connessioni o relazioni nel quartiere e risultano piuttosto in semplici addizioni di nuova
popolazione residente. Paradossale il riferimento del programma di intervento al mix, laddove i
due interventi di densificazione non facevano altro che confermare, anzi espanderne, la storica
monofunzionalità residenziale: “nuovi dormitori in quello che è già ed è sempre stato un
dormitorio”, nelle parole di un anziano residente (Coppola, 2010). Ma una interpretazione al
ribasso della mixité quale forma di superamento dei limiti della zonizzazione funzionale e quale
condizione per una maggiore qualità dell’abitare nei nuovi quartieri è visibile nella sequenza dei
cinque Programmi di recupero urbano realizzati alla fine degli anni novanta. Si tratta di
interventi consistenti; sia pure privi di risonanza per l’assenza di firme d’autore, si sono
configurati in realtà come riferimenti importanti rispetto ad una prassi urbanistica che ha
guardato con favore alla miscela di edilizia residenziale prevista (proprietà, cooperative in
proprietà, edilizia residenziale pubblica) in cui la negoziazione ha comunque con i promotori
privati ha consentito di realizzare quote significative di edilizia sovvenzionata e convenzionata (a
differenza che nei grandi progetti urbani successivi( (Memo, 2008). Ma quei cinque ambiti di
nuova realizzazione sono stati rilevanti anche nel profilare un modello di riferimento, anche solo
di rappresentazione simbolica e di costruzione di un immaginario, circa i (nuovi) modi di abitare
a Milano. Lo sguardo sui Pru, e ci riferiamo in particolare al Pru Ravizza - cosiddetto Pompeo
Leoni - consente di mettere sotto osservazione i modi in cui una serie di dispositivi, nel disegno e
nell’organizzazione dello spazio, possono tradurre l’affiancamento di funzioni e di profili
residenziali diversi in fine e sistematica separazione (Bricocoli, 2010).
Ma uno sguardo critico su un campione più ampio di realizzazioni recenti in campo abitativo ,
frutto di almeno un decennio di ordinaria pianificazione (Cognetti e Gatea, 2011) ma anche di
una serie di grandi progetti (Savoldi, 2011) che, in una fase di contrazione e crisi del mercato,
hanno visto un ridimensionamento delle aspirazioni ad attrarre funzioni di eccellenza e sono stati
progressivamente ridisegnati verso una più consistente offerta residenziale, consentirebbe di
meglio posizionare i termini in cui si discutono e si praticano politiche e progetti abitativi a
Milano e in Italia.
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