Ottocento - Scuderie del Quirinale

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Ottocento - Scuderie del Quirinale
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Ottocento. Da Canova al Quarto Stato
I dipinti presentati e, a sottolineare i passaggi decisivi,
poche, scelte sculture, scandiscono il percorso di
questa mostra pensata come una sfida capace di
restituire al pubblico odierno non solo la complessità
ma anche l’identità di un secolo oggetto recentemente
(dopo un lungo e singolare ostracismo da parte della
critica novecentesca), di un approfondito recupero
storiografico. All’inizio, opere di grandi dimensioni e
forte impatto formale come i Pugilatori di Antonio
Canova (1795-1806), il Quarto Stato di Pellizza da
Volpedo (eseguito a cavallo tra l’Otto e il Novecento) e
la Maternità di Gaetano Previati (1891), collocate in un
dialogo immediato ed emozionante, segnano in una
dimensione eroica, quella dell’arte come impegno di
fronte alla società e alla storia, l’inizio e il termine di
un Ottocento che non ha smarrito, pur attraverso
dolorose e radicali trasformazioni, il senso della grande
tradizione italiana. Inizia così un “viaggio” nel nostro
passato attraverso opere selezionate e messe a
confronto non più per scuole regionali o per categorie
formali, ma accostando in date significative le
esperienze concrete degli artisti.
A rappresentare gli slanci e le contraddizioni di
un’epoca di grandi attese (quella delle lotte
risorgimentali e della nascita dell’unità nazionale) sono
stati scelti quei protagonisti che hanno saputo
affrontare con coraggio e originalità la dialettica serrata
tra tradizione e innovazione, scegliendo la via della
“modernità”. Le opere presentate, a partire dalla
grande stagione neoclassica e napoleonica,
attraversando la vibrante stagione romantica, le
ricerche “macchiaiole” e l’impegno naturalista, per
arrivare alle inquietudini “scapigliate” e simboliste di
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fine secolo, seguono la trasformazione dei generi.
Cambia anche il modo di vedere e rappresentare la
realtà, elaborata (ormai fuori delle Accademie messe
continuamente in discussione) negli studi degli artisti e
nelle sale espositive in cui il pubblico popolare e la
nuova critica partecipano, o si contrappongono, alle
sperimentazioni in corso.
Durante il percorso espositivo, accostamenti insoliti di
opere e artisti rispecchiano la circolarità di idee ed
esperienze tipica dell’Ottocento, ricomponendo
l’affascinante mappa di una lunga e varia
sperimentazione formale e visiva.
Scale
Ad apertura, e insieme a chiusura monumentale della
rassegna, ritroviamo le grandi dimensioni di un’opera
simbolo, la Maternità di Gaetano Previati, un
capolavoro, come tanti nel corso di quei cent’anni,
scomodo e allora di difficile decifrazione, ma
significativo nell’anticipare la disgregazione del
linguaggio pittorico che sarà realizzata dal Futurismo
nel secondo decennio del Novecento. Qui non è il
tema, il messaggio a contare, quanto il confronto, la
sfida ingaggiata dal suo autore con i meccanismi della
visione. In alto, salendo le scale, i lavoratori in marcia
del Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo (dalle
sembianze fiere e nobili e raggruppati come i filosofi
greci della Scuola di Atene di Raffaello), ci vengono
incontro in un immenso e celebre quadro, manifesto
delle speranze in un mondo nuovo con cui si chiudeva
il XIX secolo.
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Fino al 1815, inizio della Restaurazione, l’Italia - quasi
riunificata - è sotto il governo diretto e indiretto di
Napoleone. Milano è capitale del Regno Italico, Napoli
del Regno di Gioacchino Murat, marito di Carolina
Bonaparte, la Toscana, Regno d’Etruria, è affidata
all’altra sorella, Elisa Baciocchi, mentre Roma è
governata da funzionari dell’Imperatore: in questi anni
Antonio Canova diventa un simbolo di identità
nazionale, il genio che con le sue sculture di
incomparabile fattura ha raggiunto la perfezione della
scultura greca.
I due pugilatori, Creugante e Damosseno, iniziati nel
1795, terminati tra il 1801 e il 1806, e ispirati ai due
colossi della piazza del Quirinale, prendono così il
posto nei Musei Vaticani dei marmi antichi trasferiti a
Parigi.
primo piano
Dall’età napoleonica all’Unità d’Italia
1
Mentre la scultura riconquista con Canova il suo
primato, la pittura cerca di percorrere strade nuove alla
ricerca di una bellezza diversa, originale rispetto a
quella convenzionale elaborata dalle Accademie,
sempre però ispirata all’eccellenza nel disegno,
confermato come il fondamento della grande tradizione
classicista. Gli esempi di eroismo e di virtù tratti dalla
storia antica vengono privilegiati in nome di un’arte
impegnata a migliorare l’individuo e la società. Se il
romano Vincenzo Camuccini si rifà con grande rigore
grafico e compositivo ai modelli del pittore francese
Jacques-Louis David e allo spirito di Vittorio Alfieri,
PRIMO PIANO
Balconata
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come dimostra La morte di Cesare (1804-1805), il
lombardo Giuseppe Bossi si cimenta con uno stile più
sperimentale, ispirato a Leonardo e al Manierismo. Ma
il vero interprete delle grandi speranze e delle
inquietudini dell’età napoleonica è Andrea Appiani che,
come Canova in scultura, Vincenzo Monti e Ugo
Foscolo in poesia, sa ridare attualità alla mitologia,
animando le antiche divinità con le moderne seduzioni
della luce, del colore, dello sfumato. Anche i suoi
ritratti appartengono, in un certo senso, alla sfera del
mito e proiettano nella leggenda gli affascinanti eroi di
anni irripetibili, come lo stesso Bonaparte o Il Generale
Desaix (1800), dal profilo fiero ed elegante. Di
quest’epoca densa di eventi e di eroi, artisti visionari
rendono con soluzioni iconografiche e tecniche estrose
i risvolti più eccentrici, come il miniaturista
Giambattista Gigola o il decoratore Vincenzo Bonomini,
autore nel 1802 c. di una singolare serie di Macabri,
sarcastico Memento mori ma anche, attraverso una
figura di grande attualità politica come quella del
Tamburino della Guardia Nazionale (sono gli anni della
Repubblica Cisalpina), spietata allegoria del principio
rivoluzionario dell’uguaglianza.
2
Negli anni della Restaurazione e del ritorno degli
antichi sovrani, l’Italia perde con la morte di Canova,
nel 1822, un simbolo, ma non il primato nel campo
della scultura, affidato ad artisti che, come il giovane
Pietro Tenerani (nella commovente e tenerissima
Psiche abbandonata), sono in sintonia con Giacomo
Leopardi nel preservare gli incanti della mitologia, cui
conferire un significato esistenziale.
La pittura trova nel clima europeo della Milano
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romantica, di Stendhal e di Manzoni, della rivista
“Il Conciliatore” e dei primi moti risorgimentali, la forza
di cambiare. Abbandonati gli dei e i miti, il veneziano
Francesco Hayez e i suoi seguaci ricostruiscono,
rappresentando le vicende dell’Italia moderna (La
congiura dei Lampugnani, 1826-1829, che ricorda la
congiura ordita da Andrea Lampugnani, Girolamo Olgiati
e Carlo Visconti guidati dall’umanista Carlo Montano,
contro il tiranno Galeazzo Maria Sforza, avvenuta a
Milano nella chiesa di Santo Stefano nel dicembre
1476), una storia nazionale in cui proiettare le
speranze di un futuro riscatto. I ritratti, che non
celebrano più la potenza del casato ma rappresentano
le “affinità elettive” nel seno della famiglia, diventano
lo specchio inquieto di una società che sta cambiando
rapidamente: ne è una prova tra gli altri il Gruppo della
famiglia Belgiojoso di Giuseppe Molteni (1831), dalle
dimensioni monumentali come un quadro storico, con
la contessa Amalia fulcro emotivo della scena, madre
affettuosa di tre giovani e raffinati aristocratici,
rappresentanti ideali della colta Milano della
Restaurazione.
Sia i dipinti storici che i ritratti riescono in questi anni
a coinvolgere il nuovo pubblico creato dalle esposizioni
milanesi, allestite nelle sale di Brera, con le
suggestioni di un linguaggio pittorico che, basato sulla
luce e sul colore, riesce a rinnovarsi continuamente,
nel segno della creatività individuale.
2a
Con il Romanticismo si afferma un nuovo sentimento
della natura che supera le convenzioni del paesaggio
ideale nobilitato dai riferimenti alla mitologia o alla
storia. Alle vedute con rovine antiche tipiche del Grand
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Tour settecentesco, si sostituiscono le immagini delle
campagne e delle città dove si svolge la vita di tutti i
giorni, luoghi reali di cui gli artisti fermano i particolari
effetti atmosferici, gli scorci, la luce “locale”. Questa
“luce rapida” che “piove di cosa in cosa, / e i colori
vari suscita / dovunque si riposa” (Manzoni) abbaglia
(o rabbuia) i cieli e le acque del mare nei piccoli dipinti
della napoletana Scuola di Posillipo, di Teodoro
Duclère, Anton Sminck Pitloo, Gonsalvo Carelli, Giacinto
Gigante, del quale sono esposti due rare opere a
cavallo tra gli anni trenta e quaranta, Amalfi e Sorrento
e la costiera. Oppure identifica i connotati dell’operoso
territorio lombardo in Marco Gozzi, Giovanni Migliara,
Giuseppe Canella, o conferisce una profonda
dimensione lirica al cielo notturno rischiarato dal
“verecondo raggio” (Leopardi) nel Notturno con effetto
di luna del piemontese Giuseppe Pietro Bagetti. Al
rigoroso cannocchiale ottico del vedutismo
settecentesco subentra nelle vedute urbane di Angelo
Inganni e di Canella a Milano, di Ippolito Caffi a
Venezia e a Roma (suggestiva la ripresa del Colosseo
visto dall’alto, del 1855), l’effetto a sorpresa di una
prospettiva a zig-zag che esplora gli angoli più
inconsueti e prima mai rappresentati delle città.
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Nel corso degli anni trenta torna ad essere
protagonista il nudo, dove i riferimenti mitologici
(la Venere sotto cui non riescono a celarsi le procaci
forme della ballerina Carlotta Chabert nel sontuoso
dipinto di Hayez), biblici (Betsabea, sempre di Hayez) o
letterari (l’Aminta di Piccio tratta da Torquato Tasso)
diventano solo dei pretesti per dispiegare le seduzioni
di una bellezza contingente e moderna. Ne sono
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interpreti a Milano Hayez, con splendidi nudi femminili
ispirati alla grande tradizione veneta e emiliana e,
nell’ambito della colta provincia lombarda, tra Bergamo
e Cremona, il Piccio. Un artista eccentrico allora non
del tutto compreso e di cui nel Novecento si
apprezzerà la inconsueta libertà “impressionistica” del
tocco pittorico: un pittore che non riuscì a diventare
realmente alternativo, restando sul piano di
sperimentazioni straordinarie ma occasionali,
soprattutto se confrontato con Hayez, destinato a
dominare incontrastato con lo splendore naturalistico e
cromatico dei suoi nudi femminili.
4
Verso la fine degli anni trenta esplodono le polemiche
contro le Accademie, tradizionale centro di formazione
degli artisti, e cominciano ad essere criticate le
convenzioni della pittura storica. Il genere, verso cui il
primo Risorgimento aveva coltivato tante speranze
nella convinzione che attraverso gli esempi del suo
passato l’Italia potesse rigenerarsi e creare le basi
dell’unità nazionale, entra in crisi sia nei contenuti che
nella forma. I protagonisti della scuola romantica,
Giuseppe Molteni, Francesco Hayez, il più giovane
Eliseo Sala o lo scultore Vincenzo Vela (La preghiera
del mattino, 1846), elaborano così nuove iconografie
con l’intento di dare espressione allo spirito
tormentato dei tempi; nascono figure emblematiche
come la Malinconia di Hayez (nota anche come Un
pensiero malinconico, 1842), simbolo delle inquietudini
dell’uomo contemporaneo, mentre i pittori e gli scultori
cominciano a confrontarsi con la realtà. Piccio, erede
del naturalismo lombardo, riesce a dare alla bruttezza
del reale una straordinaria, quasi manzoniana, dignità
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(Ritratto di Anastasia Spini, 1840 c.). In scultura,
Lorenzo Bartolini (Bacco pigiatore, 1842), che nel 1841
aveva proposto un gobbo come modello agli allievi
dell’Accademia di Firenze, e il giovane Giovanni Dupré
sostituiscono alla perfezione del bello ideale i
turbamenti di nudità adolescenti (Bacchino della
Crittogama, 1859, dove il riferimento alla malattia della
vite è allusivo alla fragilità e caducità dell’esistenza).
Tra gli anni quaranta e cinquanta la pittura storica
ritrova slancio nel confronto col vero: Hayez e Piccio
sperimentano nel repertorio biblico, che il melodramma
verdiano (Nabucco) ha reso di grande attualità, una
modulazione, quasi musicale, di atmosfere e
sentimenti, restituiti attraverso una raffinata scala
tonale e cromatica che recupera Tiepolo e il
Settecento. Su versanti opposti il toscano Luigi
Mussini e il napoletano Domenico Morelli cercano di
dare nuovo slancio al linguaggio accademico: di fronte
alle decantate soluzioni puriste di Mussini, moderno
interprete dell’arte sacra e di un nuovo spirito religioso
(Eudoro e Cimodoce, del 1855, ispirato al Livre des
Martyrs di Chateubriand, in cui si narra un episodio
della triste storia d’amore tra la sacerdotessa greca
Cimodoce e il cristiano Eudoro), il laico Morelli propone
un rinnovato impegno a interpretare i grandi conflitti
della storia come, ad esempio, quello tra le arti e il
potere, attraverso una pittura che faccia apparire reali i
fatti immaginati (Gli Iconoclasti, 1855, relativo ad un
episodio di ribellione nei confronti dei provvedimenti
presi dall’imperatore bizantino Leone III contro il culto
delle immagini, con il monaco Lazzaro che, sorpreso a
dipingere una figura sacra, è condannato al taglio della
mano).
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Il Bacio di Hayez, presentato all’esposizione di Brera
del 1859 che festeggiava l’ingresso a Milano di Vittorio
Emanuele II e Napoleone III, deve la sua immediata
popolarità e la successiva fortuna a un senso di
mistero prima legato al suo significato politico, l’atto
d’amore da cui stava allora nascendo la nuova
nazione, poi allo straordinario coinvolgimento con cui
quell’atto è rappresentato. La magia irreale della sua
luce e la trasparente lucentezza dei suoi colori
ispireranno ancora nel 1954 il regista Luchino Visconti
in Senso, indimenticabile e struggente film sul nostro
Risorgimento. Suggestivo e prezioso è, dello stesso
autore Le veneziane, o Consiglio della Vendetta (1851,
con la giovane tradita che per vendicarsi denuncia con
una lettera l’amante), soggetto legato al mito di
Venezia come luogo di bellezza, intrighi e decadenza.
Questo periodo della storia d’Italia, nei primi anni
dell’Unità trova i suoi migliori interpreti in pittori di
genere come i lombardi Domenico e Gerolamo Induno,
o i Macchiaioli toscani. Nei loro dipinti, dove la realtà
popolare è resa con un nuovo linguaggio basato sulla
variazione dei rapporti tonali o sui colori saturi di luce,
si ritrova quello spirito di partecipazione che fece del
Risorgimento un fenomeno autenticamente popolare e
condiviso da tutte le classi. Così, nell’Imbarco di
Garibaldi a Quarto (1860), Gerolamo Induno riporta ad
una dimensione quotidiana un evento decisivo e presto
proiettato nel mito, la partenza per la spedizione dei
Mille: lì l’eroe dei due mondi dava inizio a un’avventura
unica, paragonabile, in un certo senso, a quella
dell’esploratore Costantino Beltrami in America, nel
dipinto di Enrico Scuri del 1861, ricordato mentre risale
le acque alla scoperta delle misteriose sorgenti del
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Mississipi. Nel breve volgere di pochi anni, però, più
che celebrare con un ottimismo che i fatti sembrano
smentire l’affermazione di una società migliore, i pittori
si fanno interpreti di una delusione sempre più diffusa.
Il tradimento di Villafranca, l’“orribile pace” come
venne definita, con il quale il Veneto rimaneva
all’Austria, o l’arresto di Garibaldi, fermato ad
Aspromonte mentre marcia per liberare Roma, vengono
fissati nella coscienza collettiva dal quadro corale di
Domenico Induno sull’indignazione e il dolore dei
milanesi (Il bollettino del giorno 14 luglio..., 1862),
o da quello in cui il macchiaiolo Odoardo Borrani,
nell’atmosfera rarefatta di un decoroso interno
domestico, dove lo spazio appare scandito dai volumi
delle figure come in una predella del Quattrocento,
unisce il ritratto dell’eroe oltraggiato e una veduta di
Venezia non ancora liberata (Le cucitrici di camicie
rosse, 1863). Allusivo alle difficoltà e alle speranze
della contemporaneità è anche La barca della vita
(1859) di Domenico Morelli, densa allegoria sulla
storia passata, sulla decadenza presente e sulla
fiducia “positivista” nel futuro.
SECONDO PIANO
Dopo l’Unità d’Italia
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Il ventennio che vede realizzarsi l’Unità d’Italia
riconosce la propria fisionomia artistica nelle poetiche
del vero le quali, in diverse ma analoghe declinazioni,
riflettono la cultura democratica prevalente in quegli
anni. La scelta progressista di studiare la realtà in tutti
i suoi aspetti coincide, infatti, con la generale
inclinazione dello spirito dei tempi verso l’indagine
“positiva”. Le scuole artistiche, sorte in Italia in
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antitesi alle Accademie, diventano così espressione di
un momento unitario il cui risultato è il temporaneo
superamento delle diversità regionali a favore del
dibattito comune sul principio di verità e sulla funzione
sociale dell’artista. Dopo le ardite sperimentazioni
formali e cromatiche dei primi anni, i Macchiaioli
ritrovano interesse verso il rigore del disegno,
affrontando in modo nuovo anche scene di vita
quotidiana e domestica, spesso risolte in grande
formato e con una solennità sospesa e rarefatta, da
antica pala d’altare (Silvestro Lega, Il canto di uno
stornello, 1867, o Giovanni Fattori, Le macchiaiole,
1865 c., con tre semplici contadine a occupare inusualmente - lo spazio di un dipinto severo e pacato
di grande formato). La pittura di storia, oltre che
meditazione vissuta sui drammatici fatti
contemporanei, affronta il tema dei “vinti”, come in
Ozio e lavoro, del napoletano Michele Cammarano
(1863 c.) o ne L’alzaia di Telemaco Signorini (1864 c.),
dove in un paesaggio terso ed esatto due eleganti
figurine sullo sfondo assistono, anche qui su grande
formato, alla fatica degli uomini che trascinano una
barca contro la corrente dell’Arno.
Al pittore “moderno”, capace di uno sguardo esatto e
obiettivo, è in qualche misura “concesso” indagare
anche nei risvolti più privati e segreti dell’esperienza
umana, come fanno i meridionali Domenico Morelli
(Il bagno pompeiano, 1861) e Gioacchino Toma
(La messa in casa).
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Nel rinnovamento dei generi e in special modo del
paesaggio, all’avanguardia sono sin dalla metà degli
anni cinquanta i Macchiaioli, che condividono con gli
artisti delle scuole di Resina (in Campania) e di Rivara
(in Piemonte, nel cuore del Canavese) le ricerca sullo
spazio all’aperto e sulla luce, in dipinti tersi, luminosi,
inusuali per taglio - con la predilezione per il formato
basso e orizzontale - e per l’ampio punto di vista
(Odoardo Borrani, Raffello Sernesi o Vincenzo Abbati,
Veduta di Castiglioncello, 1867). Mentre in Italia
meridionale il tema del vero continua ad affascinare
pittori e scultori come Vincenzo Gemito, spesso
cimentatosi con figure popolari, vivissime e colte
nell’istante dell’azione come Il pescatore (1877), il
ritratto conquista, soprattutto in Toscana, con Giovanni
Fattori, Antonio Puccinelli (Ritratto di Nerina Badioli,
1866 c., insieme composto e brioso) o con Giovanni
Boldini, la moderna funzione di rivelare i caratteri
attraverso l’oggettiva definizione dei contesti sociali.
Ne sono testimonianza, tra gli altri, proprio i ritratti di
Boldini, dalle pennellate rapide e guizzanti, come
l’informale Ritratto di Diego Martelli (1865 c.) la cui
posa sottolinea la non convenzionalità del personaggio,
o il ritratto del collega e amico Giuseppe Abbati (1865),
l’occhio ferito a ricordare i trascorsi di garibaldino, le
mani spavaldamente in tasca, ai piedi uno degli amati
cani, per il morso del quale morirà di idrofobia, ancora
giovane.
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Mentre le indagini sul vero danno risultati importanti e
tra loro anche assai diversi (si confrontino le limpide
vedute toscane con i suggestivi e addirittura
introspettivi scorci paesistici dell’emiliano-piemontese
Antonio Fontanesi, Solitudine, 1875, o ancora con le
frizzanti, raffinate e fotografiche “istantanee” parigine
di Giuseppe De Nittis, Ritorno dal Bois de Boulogne,
1878, o di Federico Zandomeneghi), attraverso il
sistema delle esposizioni nazionali organizzate
periodicamente a Roma, Napoli, Milano, Torino, critici e
artisti hanno la possibilità di confrontare la situazione
italiana con quanto avviene nel resto d’Europa. Emerge
così il grande peso conquistato dalle tematiche del
verismo sociale e delle sue singolari metamorfosi che
vanno dalla denuncia diretta e cruda della guerra,
anche nei suoi eventi apparentemente marginali
(Giovanni Fattori, In vedetta, 1872), alla registrazione di
momenti solenni della storia contemporanea (Silvestro
Lega, nel commovente, insieme rispettoso e partecipe
Gli ultimi momenti di Mazzini morente, del 1873), alla
narrazione di eventi storici del passato analizzati con
moderna e inquieta introspezione (Domenico Morelli,
Torquato Tasso legge la Gerusalemme Liberata a
Eleonora d’Este, 1865), o alla rievocazione di figure e
luoghi lontani ed esotici, cui avvicinarsi con rispetto e
desiderio di conoscenza (dello stesso autore,
Improvvisatore arabo, 1878).
Il rischio dell’indagine oggettiva poteva portare, però,
ad un realismo giudicato “eccessivo” dalla critica e del
quale furono rappresentanti, con un intento polemico
che ne causò in parte la marginalità, gli artisti della
cosiddetta Scapigliatura lombarda, intellettuali e pittori
dall’atteggiamento ribelle ed anarcoide, convinti
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dell’organica unità di pittura, scultura, poesia e musica.
Nelle loro opere, tra lo stupore della critica
contemporanea, si arriva così a privilegiare la
percezione soggettiva rispetto ai canoni tradizionali o
addirittura rispetto alla registrazione del dato, per cui
l’opera diviene sintesi di una passione umana, traslato
simbolico di affetti sottintesi e pregnanti (Federico
Faruffini, La lettrice, 1865).
7a
In Italia meridionale, nell’ultimo ventennio del secolo,
l’opera di pittori come Antonino Leto (La pesca del
tonno, 1887) e Francesco Lojacono (Il ritorno del
coscritto o L’arrivo inatteso, 1882) testimonia un
inesausto interesse per la rappresentazione dell’uomo,
della natura o delle problematiche sociali, interesse
risolto, senza nulla perdere del valore dei contenuti o
della forza di denuncia, in una forte tensione formale.
In tutta Italia si conferma del resto, pur nella varietà
delle ricerche, la presenza di grandi individualità,
concentrate di volta in volta nella denuncia di ipocrisie
e drammi borghesi (Angelo Morbelli, con il
sorprendente Asfissia!, 1884, dipinto che venne dallo
stesso autore diviso in due parti qui riunite,
opprimente e fosca cronaca del suicidio di due
amanti), nella luminosa narrazione di un momento di
pace domestica (Giuseppe De Nittis, Colazione in
giardino, 1883), o nel cimento in temi letterari e
passionali tipici della grande tradizione romantica
(Gaetano Previati, Paolo e Francesca, 1881).
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Verso il finire del secolo, mentre Boldini, De Nittis,
Federico Zandomeneghi si trasferiscono a Parigi
diventando i pittori della vita moderna, artisti come
Morbelli, Plinio Nomellini, Pellizza da Volpedo, Emilio
Longoni, Previati, Giovanni Segantini, Medardo Rosso,
transitano da una dimensione naturalistica alle rive
inquiete del Simbolismo, rimettendo di volta in volta in
gioco il proprio modo di vedere e di interpretare la
realtà, addentrandosi nei territori oscuri dell’inconscio
individuale o collettivo. Preceduta da interventi polemici
e da discussioni molto accese, è la prima Triennale di
Brera del 1891 a segnare un mutamento radicale nello
svolgimento dell’arte di fine secolo. Convergono, infatti,
in essa gli esiti della corrente verista e dell’estetismo
di matrice dannunziana ma, soprattutto, vi si mostrano
in tutta la loro forza innovativa i risultati delle teorie
divisioniste, basate cioè sulle moderne leggi della
visione ottica che scompone e analizza il fenomeno
luminoso e il colore nelle sue componenti pure (si
vanno accentuando così le competenze tecniche e
scientifiche del lavoro dell’artista), come appare
evidente nella Maternità di Previati (1891, collocata
all’ingresso, di fronte alla scalinata), vero e proprio
motivo di scandalo dell’esposizione. La compresenza di
tante molteplici espressioni è del resto il sintomo
dell’intricato panorama che contraddistingue l’arte allo
scadere del XIX secolo, un crogiuolo in cui la resa della
realtà indagata senza preconcetti (Antonio Mancini, Il
Saltimbanco, 1877), anzi denunciata con impegno da
parte degli artisti (Plinio Nomellini, Piazza Caricamento,
1891, o Emilio Longoni, Riflessioni di un affamato,
1894), si alterna alla poetica degli stati d’animo
collegati alla rappresentazione della natura (dello
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stesso Longoni il maestoso Ghiacciaio).
La scelta di collocare l’arte in una dimensione
atemporale, sulla scorta del Simbolismo europeo,
avrebbe comunque fatto prevalere nell’Italia umbertina
le mitologie estetizzanti di Giulio Aristide Sartorio
(La Sirena, 1893), mentre la sensibilità sperimentale
dimostrata dai divisionisti (Giovanni Segantini, La dea
dell’amore, 1894-97) e dalla scultura di Medardo
Rosso (Ritratto di Yvette Guilbert, primo modello 1895)
doveva attendere gli anni del Futurismo per trovare
pieno riconoscimento.
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