La filosofia delle forme simboliche di Ernst Cassirer nasce come

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La filosofia delle forme simboliche di Ernst Cassirer nasce come
4.
LA FILOSOFIA DELLE FORME SIMBOLICHE DI ERNST
CASSIRER
MATERIALI PER IL SEMINARIO
DA PONTE M., La filosofia delle forme simboliche di Ernst Cassirer
(appunti)
p. 2
CASSIRER E., Il concetto di simbolo.
p. 7
CASSIRER E., Le forme simboliche della cultura
p. 14
CASSIRER E., Una via per la conoscenza della natura dell’uomo: il
simbolo.
p. 20
Seminario Simbolo e metafora: un approccio alla filosofia ermeneutica
La filosofia delle forme simboliche di E. Cassirer
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4.
LA FILOSOFIA DELLE FORME SIMBOLICHE DI ERNST
CASSIRER
La filosofia delle forme simboliche di Ernst Cassirer nasce come contributo per risolvere,
alla luce delle dottrine neokantiane, il problema della fondazione delle scienze dello spirito e
rappresenta nello stesso tempo il tentativo di portare al massimo sviluppo i principi teoretici
della filosofia critica; essa vuole delineare una “morfologia” (Formenlehere) dello spirito che
definisca lo status specifico e la struttura di ciascuna delle diverse forme di “comprensione del
mondo” che compongono tutto l’ambito dell’esperienza umana. Per Cassirer si potrà dare
un’adeguata fondazione metodica delle scienze dello spirito solo se e quando si saranno trovati
dei principi gnoseologici che chiariscano la fondazione trascendentale di quelle forme
fondamentali dell’esperienza.
4.1.
La “Scuola di Marburgo”: la critica al presunto realismo della scienza
Il contesto in cui inserire le ricerche e le tesi di Cassirer è quello rappresentato dalla
cosiddetta “Scuola di Marburgo”, un gruppo di filosofi di formazione kantiana, tra i quali i più
noti sono Hermann Cohen, Paul Natorp ed Ernst Cassirer, che hanno svolto la loro attività di
ricerca presso l’università di Marburgo, una delle sedi più prestigiose del dibattito filosofico
europeo tra la fine dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento.
Il clima filosofico in cui si è inserita questa “Scuola” è caratterizzato dalla presenza di tre
diversi orientamenti:
a) gli sviluppi dell’idealismo (soprattutto nel campo della filosofia del diritto e della
filosofia della natura);
b) le reazioni positivistiche all’idealismo, riguardanti soprattutto il campo della filosofia
della natura, in cui rivendicavano il valore delle scienze naturali e la loro funzione paradigmatica
di ogni forma di sapere;
c) il ritorno dell’interesse per il pensiero di Kant, soprattutto negli studi di storia della
filosofia, un po’ rigidamente interpretato come un’alternativa secca a Hegel, anch’esso in
funzione di reazione al prevalere dell’hegelismo (sintomatica la diffusione dello slogan
“Ritornare a Kant”).
La “Scuola di Marburgo” ha segnato un contributo notevole nel campo
dell’epistemologia: essa ha indicato un’apertura verso una riflessione filosofica sulla scienza
intesa come un sistema di simboli svincolato da un rapporto immediato con la realtà e quindi
libero dal problema (tipico del realismo “ingenuo”) del rispecchiamento della realtà nei concetti.
Il primo passo viene fatto da Hermann Cohen, che affronta il problema del valore di
verità dell’esperienza su cui si basa la conoscenza scientifica; in altre parole, il problema della
fondazione oggettiva del sapere scientifico.
La metafisica classica e la filosofa realistica, implicita nell’epoca moderna e costitutiva
delle scienze fino alla metà dell’Ottocento, pongono nella realtà “in sé” la soluzione di quel
problema: la verità è ciò che la realtà è “in sé” e la conoscenza è vera se è adeguata a questa
realtà; alla fin dei conti rimane valido il principio scolastico della “adaequatio rei et intellectus”.
In effetti, Kant aveva già dimostrato che della realtà in sé si può stabilire solo l’esistenza, ma non
l’essenza, ammettendo che è conoscibile solo il fenomeno, ovvero quel che della realtà noi
possiamo cogliere per mezzo delle strutture apriori della nostra sensibilità e del nostro intelletto.
Si tratta della cosiddetta “rivoluzione copernicana”, introdotta da Kant nella filosofia in generale
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e nella metafisica in particolare, in base alla quale egli escludeva qualsiasi valore conoscitivo
effettivo della metafisica, pur attribuendole una funzione regolativa rispetto alla scienza.
Mantenendosi nel solco della lezione di Kant, Cohen nega che l’esperienza sia solo il
rispecchiamento, all’interno della coscienza, del mondo che le sta al di fuori; al contrario, a
risultare problematica è proprio l’esistenza di un mondo al di là dell’esperienza. Il mondo, nel
suo insieme, è tutto ciò di cui noi abbiamo esperienza; un mondo, che non sia conosciuto, non è
mondo (al limite, non è nulla, è un non-senso). Per Cohen l’esperienza è un “rapporto di
produzione” di oggetti: è un rapporto tra il soggetto dell’esperienza e un oggetto ed è soltanto
all’interno di questo rapporto che prende forma l’oggetto, cioè la cosa reale di cui si ha
esperienza. Si sottolinea, cioè, il fatto che è soltanto all’interno di questo rapporto che gli oggetti
dell’esperienza assumono quelle caratteristiche che ne fanno ciò che essi sono, ovvero che
costituiscono la loro specifica individuazione; ciò significa, in altre parole, che gli oggetti
dell’esperienza vengono “prodotti” nell’esperienza stessa, almeno per quanto riguarda la loro
identità conoscibile.
Secondo Cohen, questo è quello che avviene nel sapere scientifico ed è proprio questo
che ne fa una conoscenza obiettiva e universale. Nella scienza gli oggetti non sono dati, con la
loro propria identità, ma sono determinati sulla base di leggi costanti, la cui validità è apriori e
verificabile matematicamente. Analogamente, nell’esperienza, in generale, gli oggetti sono
determinati sulla base di un certo reticolo di “categorie” che competono alla coscienza in quanto
tale: ogni immagine, ogni contenuto dell’esperienza è formato sulla base di un certo schema di
categorie che ne determinano la “forma” che lo caratterizza e perciò la sua identità. Gli oggetti
dell’esperienza sono le infinite combinazioni, possibili sulla base degli elementi che
compongono questo reticolo. È chiaro, perciò, che questo reticolo categoriale non appartiene
all’oggetto prima che esso venga assunto all’interno dell’esperienza (infatti, ne viene a sua volta
determinato), ma fa parte della coscienza.
Per Cohen la fondazione degli oggetti è quindi costituita da questo reticolo apriori
trascendentale, in cui consiste la coscienza.
Dunque Cohen conclude che la scienza non può essere considerata uno specchio della
realtà e nemmeno lo è l’esperienza più generalmente intesa, perché entrambe sono fondate su un
reticolo categoriale apriori. In questo modo però, si viene a dire che la realtà, di cui ci parla la
scienza o quella che noi consideriamo come il panorama della nostra esperienza, non è niente
altro che ciò che la scienza o l’esperienza costituiscono come tale: la realtà ha la sua vera identità
esattamente nel suo essere prodotta per mezzo delle forme apriori della coscienza.
Paul Natorp assume l’impianto metodologico di Cohen e ne riprende pure la teoria
dell’esperienza, tuttavia egli ritiene necessario ampliarla: egli ritiene che l’esperienza ha luogo
ovunque vi sia una produzione di oggetti, a qualsiasi titolo, come avviene in ogni forma di
operare umano, anzi nel “puro operare umano”. Il concetto di esperienza può essere così
allargato fino a comprendere la totalità della cultura, intesa come manifestazione di tale operare
umano. In questo modo Natorp introduce un elemento nuovo: la considerazione della cultura
come campo oggettivo complessivo dell’esperienza; ne consegue che riferirsi all’esperienza
equivale a riferirsi a tutte le forme della cultura e non solo alla conoscenza scientifica; in
particolare, Natorp indica tre forme che compongono la cultura: accanto alla scienza stanno la
moralità e l’arte.
Nello stesso tempo, questo ampliamento del concetto di esperienza apre anche un altro
problema: se l’esperienza si presenta in forme diverse, è ancora possibile l’unità della coscienza?
E come? La soluzione deve essere ricercata, secondo Natorp, nella prospettiva della filosofia
critica, ossia ricercando le condizioni di possibilità. Perciò, dal momento che l’oggettività è una
produzione, le diverse forme della cultura non possono avere che un’oggettività “prodotta”, vale
a dire non possono essere che l’espressione della coscienza: esse trovano la loro origine nella
coscienza e sono da intendersi, perciò, come forme oggettivate della coscienza.
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4.2.
Ernst Cassirer: i concetti scientifici sono simboli
Cassirer ripercorre la parabola teoretica tipica dei suoi predecessori: da studi iniziali
prevalentemente epistemologici si rivolge verso temi sempre più collegati a una visione
sistematica di filosofica trascendentale.
La sua prima opera di grande rilievo porta il titolo di Il problema della conoscenza nella
filosofia del tempo moderno1 e risale agli anni 1906-1907 nella quale si evidenzia la centralità
del problema gnoseologico in tutta la storia della filosofia moderna, segnalando anche come
problemi eminentemente filosofici siano collegati direttamente con problemi scientifici.
In seguito Cassirer si orienta ancora più decisamente verso le problematiche
epistemologiche, soprattutto con l’opera Sostanza e funzione2 (del 1910), nella quale egli si
propone di dimostrare come la “classica” visione realistica delle scienze moderne, soprattutto
della fisica, sia stata smentita e superata dagli stessi sviluppi delle ricerche scientifiche. Nel
pensiero moderno, infatti, ha predominato la visione secondo la quale le scienze sono un sistema
di concetti che descrivono adeguatamente ciò che la realtà è in se stessa e ciò che nella realtà
accade; questa visione presuppone un mondo esterno la cui esistenza e il cui assetto sono
indipendenti dal pensiero. Al contrario, le scienze già nel corso dell’Ottocento, hanno
gradualmente rinunciato alla pretesa della “verità”, ossia di descrivere esattamente ciò che la
realtà è in se stessa, e sono andate configurandosi come dei “sistemi” ipotetici di concetti, basati
su postulati indimostrabili, costruiti attraverso un complesso di relazioni puramente matematiche
che legano i concetti tra di loro; di conseguenza, è stato spostato anche il terreno della loro
verifica che è tanto più sperimentale quanto più è a base matematica anziché puramente
empirica. Il tragitto delle scienze moderne è dunque approdato a basarsi su dei concetti che sono
scientifici esattamente in quanto esprimono solo delle funzioni matematiche.
Da queste conclusioni, Cassirer trae delle conseguenze epistemologiche di rilevanza
fondamentale: i concetti scientifici sono dei simboli e la conoscenza scientifica è conoscenza di
una realtà simbolica.
I concetti scientifici nel loro complesso devono essere considerati come il risultato di un
atto produttivo del soggetto, cosicché l’oggetto della scienza è visto come una creazione
dell’uomo e non come un riflesso della realtà, perché le determinazioni oggettive che ne
compongono l’identità non hanno comunque esistenza prima dell’atto della sintesi logica con cui
viene formato il concetto. D’altra parte resta sempre la necessità che i concetti scientifici si
presentino sulla base di dati sensibili onde poter essere con ciò conosciuti. È per risolvere questo
problema che Cassirer insiste sul loro carattere di simbolo. Essi sono simboli in quanto sono
mezzi sensibili in cui il pensiero si esprime e che la scienza assume: il significato
intenzionalmente attribuito all’oggettività, e che deriva dal puro pensiero, non può manifestarsi
rispecchiando la realtà in un simbolo, ma solo producendo quel simbolo per determinare un
significato e costituire così un realtà oggettiva; l’elemento sensibile inseparabile dal significato
non sono dunque i fenomeni cui esso può venire riferito ma unicamente il simbolo mediante cui
esso è espresso. All’interno della conoscenza scientifica, quindi, non può più essere presupposto
un dualismo realistico, che consideri metafisicamente opposti soggetto e oggetto: si tratta,
invece, solo di una opposizione metodica, che può essere risolta attraverso il simbolo, inteso
come elemento di mediazione tra il soggetto e l’oggetto.
1
Il titolo originale è Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit ma nella
traduzione italiana è stato semplificato in Storia della filosofia moderna (trad. it. di A. Pasquinelli, G. Colli e E.
Arnaud, Einaudi, Torino 1952-58; nuova ediz. Il Saggiatore, Milano 1968).
2
Substanzbegriff und Funktionsbegriff (trad. it. di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1973).
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Queste considerazioni, che erano al centro del dibattito scientifico contemporaneo,
aprono per Cassirer la possibilità di riformulare tutta l’epistemologia della Scuola di Marburgo,
da cui pure aveva preso le mosse, ponendovi al centro il concetto di simbolo. I simboli, infatti,
per la loro specifica natura si basano sulla spontaneità del pensiero, poiché non sono dei semplici
nomi, puramente applicati alle cose, ma sono formati attraverso una sintesi logica in cui il
pensiero spontaneamente – ossia senza essere in ciò condizionato dalla realtà esterna – esprime
in modo sensibile un contenuto intellettuale.
4.3.
Ernst Cassirer: tutta la cultura è simbolica
Su questa base, Cassirer può intendere in maniera più complessa e ricca anche il concetto
di esperienza, ereditato da Cohen; questi aveva già chiarito che l’esperienza è una produzione di
oggetti e che, in quanto tale, si fonda sulla spontaneità del pensiero; si tratta ora di aggiungervi la
considerazione che la spontaneità del pensiero si esprime nella produzione di simboli, per tirare
la conclusione che l’esperienza consiste in una produzione di simboli e che l’oggettività
dell’esperienza è un’oggettività simbolica. Questo permette a Cassirer di ritenere che il concetto
di simbolo, pur se mutuato dalla scienza, possa essere la chiave interpretativa adeguata per tutte
le forme dell’esperienza. Il fatto di esprimere un certo contenuto intellettuale (una
rappresentazione della religione, un’immagine, un valore ideale, ecc.) in modo sensibile, per
mezzo di un elemento sensibile (una figura, un suono, una cosa) è un atto caratteristico di
qualsiasi momento dell’esperienza umana; in ognuno di questi atti è il pensiero che forma una
sintesi del sensibile e dell’intelligibile e la caratterizza in una certa maniera, in un modo del tutto
analogo a quanto avviene nell’ambito della conoscenza scientifica.
Oltre alla conoscenza scientifica esistono altri modi in cui l’uomo si costruisce una
immagine del mondo: lo fa attribuendo forma e senso ai dati sensibili; in altre parole,
producendo dei simboli. Si tratta di un ampliamento della prospettiva che Cassirer compie
nell’opera che rappresenta il suo contributo più originale: la Filosofia delle forme simboliche
(scritta e pubblicata in tre momenti dal 1923 al 1927).
Non più solo la scienza deve essere intesa come un sistema di simboli, ma il linguaggio,
il mito, la religione e l’arte sono anch’esse forme di attività di produzione simbolica.
In tutti questi campi dell’esperienza umana noi abbiamo a che fare con un’oggettività
simbolica, che rappresenta la realtà con cui l’uomo ha a che fare. L’unico rapporto con la realtà
possibile all’uomo è quello che passa necessariamente per la mediazione dei sistemi di simboli
che l’uomo stesso ha prodotto; nello stesso tempo, poiché questi sistemi di simboli l’uomo non li
riceve già precostituiti ma, al contrario, è lui stesso a crearli, ciò significa che questi simboli
portano impresso il marchio dell’uomo e la realtà che configurano è quindi una realtà
“interpretata” dall’uomo. Anziché di una “oggettività dell’esistenza” si può ora parlare di una
“oggettività del significato”3.
Tuttavia, ciò non va considerato come una soluzione di ripiego, come se si trattasse di
nascondere il fatto che la realtà “vera” continua a rimanere “dietro” quella simbolica, e che ci si
deve accontentare di questa attribuendole un valore di verità fittizia e convenzionale, anziché
essenziale e originario, dal momento che ci rimane impossibile raggiungere la realtà “vera”. La
tesi di Cassirer è su questo punto, molto netta: non ha senso porsi il problema della realtà “vera”
perché realtà e simbolicità coincidono. La realtà simbolica è la realtà “vera”: la sua verità
dipende dal fatto che la coscienza dell’uomo in se stessa altro non è che questa stessa attività che
forma i simboli. La realtà è simbolica perché la coscienza è simbolica, lo spirito umano è
simbolico.
3
Filosofia delle forme simboliche, III, Fenomenologia della conoscenza, tomo I, trad. id. E. Arnaud, La Nuova
Italia, Firenze 1966, p.52.
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Le diverse forme della produzione simbolica dell’uomo rappresentano dunque
l’immagine di ciò che lo spirito dell’uomo è: le produzioni simboliche, che compongono la
cultura, ci forniscono l’immagine che l’uomo produce di se stesso, ciò che l’uomo è viene
mostrato nella cultura che egli produce. In altre parole, “l’essere qui non si può mai cogliere
altrimenti che nell’operare”4, ossia in quella incessante produzione simbolica che è la vita della
coscienza.
Ma in questo modo l’essere, oltre a perdere qualsiasi nota di staticità per trasformarsi in
un puro divenire, perde anche qualsiasi unità sostanziale: l’essere definito “operativamente” dai
simboli linguistici è essenzialmente diverso da quello significato dai simboli mitici. Ci troviamo
di fronte ora a una pluralità di strutture ontologiche 5, che corrispondono alle diverse forme
culturali nelle quali si attua la funzione fondamentale del simbolico: le forme simboliche
assumono la valenza di altrettante “ontologie regionali” e tutto questo è ricollegabile
direttamente con i principi che hanno informato la rivoluzione copernicana di Kant. Nello stesso
tempo viene delineato anche il concetto di cultura, che può essere inteso come il complesso
organico delle diverse manifestazioni dello spirito umano, in quanto esse hanno come
presupposto un’originaria attività dello spirito e sono fondate su di un generale principio
formale: la cultura è appunto l’universo di significati che lo spirito ha prodotto con la propria
opera – ma secondo questa valenza può essere inteso ora anche il “mondo”, che ha perso omai
più il senso della materialità sussistente.
Linguaggio, mito, religione, arte (naturalmente oltre la scienza) sono le forme di
comprensione del mondo che compongono la cultura. Ognuna di esse rappresenta un modo
particolare di rapportarsi al mondo e di organizzare l’esperienza secondo delle funzioni
fondamentali particolari; si tratta, comunque, in ogni caso di funzioni di tipo simbolico: esiste
una particolare funzione simbolica linguistica, una mitica, una scientifica, una artistica e così via.
Linguaggio, mito, religione, arte, scienza possono essere definite, perciò, forme simboliche e la
cultura, nel suo insieme, è composta dall’articolazione di queste forme simboliche.
4
Filosofia delle forme simboliche, I, Il linguaggio, trad. id. E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 13.
Cfr. Dibattito di Davos tra Ernst Cassirer e Martin Heidegger, in M. HEIDEGGER, Kant e il problema della
metafisica, trad. it. di M. E. Reina e V. Verra, Laterza, Roma – Bari 1981, p. 234.
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Il concetto di simbolo (E. CASSIRER, Introduzione e posizione del problema, in La filosofia delle
forme simboliche, I, Il linguaggio, trad. it. di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1961, pp. 1931).
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Le forme simboliche della cultura (E. CASSIRER, Introduzione e posizione del problema, in La
filosofia delle forme simboliche, I, Il linguaggio, trad. it. di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze
1961, pp. 48-59).
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E. CASSIRER, Una via per la conoscenza della natura dell’uomo: il simbolo, in Saggio sull’uomo,
trad. it. di C. d’Altavilla, Armando, Roma 1968, pp. 77-81.
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