Cultura, curricolo e interazione didattica

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Cultura, curricolo e interazione didattica
Cultura, curricolo e interazione didattica
Clotilde Pontecorvo
Università degli Studi di Roma, La Sapienza.
Dewey definisce nel suo libro “The child and the Curriculum” del 1913 il curricolo come “l’elemento di
connessione tra il bambino e la cultura”; questo significa che, se per curricolo si intende un programma di studi
da attuare, si deve evidenziare, secondo Dewey, che esso stesso e il bambino costituiscono i due limiti di un
unico processo: come due punti costituiscono una retta, così la posizione presente del bambino da un lato e i fatti
e le verità degli studi dall’altro definiscono l’insegnamento. Si tratta di una ricostruzione continua che passa
dall’esperienza presente del bambino all’esperienza costituita dai corpi organizzati di verità che denominiamo
studi.
È fondamentale evidenziare che in entrambi i casi Dewey parla di “esperienza”, nel senso che entrambe, pur
essendo conoscenze di tipo diverso, passano in ogni modo attraverso un’esperienza, cioè attraverso delle persone
che le hanno elaborate; pertanto in tutti e due i casi c’è un processo di costruzione, e l’insegnamento rappresenta
una ri-costruzione che parte dall’esperienza presente del bambino in quanto individuo e non solamente in quanto
studente per arrivare all’esperienza costituita invece dai corpi organizzati di conoscenze, vale a dire gli studi.
È molto significativo porre l’accento sul fatto che l’insegnamento-apprendimento costituisce un’attività di
ricostruzione continua e che esiste un rapporto dinamico tra queste due tipologie diverse di esperienza, cioè
l’esperienza attuale del bambino-ragazzo non sistematica ma unitaria e l’esperienza invece storicamente
strutturata delle discipline, che oggi denominiamo le “comunità di pratiche”.
Le discipline segmentano la realtà in modi diversi e la sottopongono a un processo di ricostruzione razionale e di
interpretazione costituendo ‘corpi organizzati di conoscenze sul mondo’.
Questo significa che esse non consistono semplicemente in sistemazioni nei manuali, ma in modalità specifiche
attraverso cui, coloro che si riconoscono in questi campi di conoscenza, definiscono il loro campo, cioè come
parlano tra loro, come fanno ricerca, come difendono certe posizioni e assumono certi atteggiamenti e
comportamenti.
Possiamo pertanto definirle vere e proprie “comunità sociali” che a loro volta fanno parte della comunità più
ampia.
Dalle affermazioni di Dewey si può quindi evincere che, come insegnanti, di fronte alle inclinazioni, alle
intenzioni, ai sentimenti, agli atti, agli interessi, all’attitudine del bambino, in quanto soggetto in evoluzione,
abbiamo bisogno di un criterio di riferimento, che ci renda capaci di interpretarli, di valutarli e di orientarli nel
quadro di un più ampio processo di sviluppo. Utilizzo non a caso la parola “soggetto”, perché penso che questo
sia uno dei nodi fondamentali dell’interazione e che esso si inserisca poi all’interno di tutta l’attività didattica.
L’acquisizione del linguaggio nei bambini tra il primo e il secondo anno di vita costituisce un processo a mio
parere straordinario, giacché molto spesso noi adulti interpretiamo i loro tentativi di concettualizzare il mondo, e
non solo di “dirlo”, in base alle nostre conoscenze; in realtà proprio questa loro capacità di concettualizzare
l’esperienza in modo diverso dal nostro mostra in modo evidente il fatto che l’elaborazione del mondo che i
bambini piccoli (ma anche un po’ più grandi) fanno è assolutamente originale e personale, e non è assolutamente
garantito che sia uguale per tutti.
Per capire il senso di un’affermazione del bambino piccolo che utilizza il termine “caldo” per intendere sia le
pietanze troppo calde che quelle troppo fredde, cioè ad una temperatura in ogni caso a lui sgradevole, bisogna
superare un po’ le nostre conoscenze, per comprendere che dietro alla parola così come noi la significhiamo vi è
in realtà un concetto diverso. L’adulto deve essere consapevole che è possibile una concettualizzazione diversa e
che la sua “adulta” non è l’unica: mantenere una prospettiva di questo tipo nei confronti dello sviluppo può
essere un grande aiuto per guidare i processi di apprendimento.
Se pertanto è vero questo principio espresso da Dewey, è altrettanto vero che la cultura non si trasferisce in
modo automatico al bambino o al giovane in formazione, e pertanto l’oggetto della mia ricerca è costituito
essenzialmente dai modi attraverso cui il percorso formativo, cioè il curricolo, si traduce in pratiche
d’insegnamento e in attività d’apprendimento e quindi anche in interazione didattica.
La scuola come “contesto sociale naturale”
La cultura non si trasferisce automaticamente al bambino e al giovane in formazione: perché ciò avvenga sono
necessari dei modi grazie ai quali il percorso formativo, cioè il curricolo, si traduce in pratiche di insegnamento
e in attività di apprendimento, e quindi anche in interazione didattica.
La scuola è un contesto connaturato alle pratiche di socializzazione di una cultura basata sulla scrittura e sulla
sua tramissione. Essa produce dei modi specializzati di parlare, pensare, ricordare e ragionare, che sono, per lo
più, sociali.
Le pratiche proprie della scuola si svolgono in una situazione sociale caratterizzata dalla presenza di più soggetti
(discenti e docenti), anche se tale caratterizzazione sociale è per lo più scarsamente utilizzata ai fini
dell’apprendimento, in quanto si assume che l’ideale situazione educativa sia quella della relazione diadica.
Considero l’interazione didattica discorsiva, quindi diretta, come non “il” modo ma “uno” dei modi o strumenti
operativi per la realizzazione del curricolo.
Quando un insegnante, ad ogni livello, si serve di uno strumento fondamentale, qual è il linguaggio, e in modo
particolare il discorso, deve essere consapevole che questo è una modalità di lavoro attraverso cui si possono
creare comunità di apprendimento, nonostante esse non si creino sempre e costantemente o a volte si creino ma
con delle distorsioni.
Una comunità d’apprendimento, da un punto di vista didattico, non è solo una comunità di pratiche, come lo può
essere un laboratorio, un gruppo di studio, un gruppo di ricerca, un luogo di lavoro o anche la scuola stessa in
quanto comunità di pratiche sociali e organizzative, ma è una comunità finalizzata all’apprendimento; in realtà in
tutte le comunità si impara, nelle scuole, nelle università, e le comunità di pratiche esistono dappertutto, ma le
comunità d’apprendimento sono caratterizzate da contesti didattici dotati di specifici strumenti: strumenti di
analisi dei problemi, materiali o dati, linguaggi/discorsi, modi di parlare, lessici, tecnologie, scambi di opinioni,
di punti di vista e di forme di collaborazione, caratterizzate rispetto all’ambito di esperienza e di conoscenza.
Tale comunità è lo strumento essenziale per realizzare la trasmissione della cultura.
Ma per costruire una tale comunità è essenziale che gli insegnanti siano capaci di assumere i punti di vista
soggettivi e collettivi degli allievi, così come emergono, più o meno positivamente, nelle interazioni didattiche in
classe o in piccolo gruppo. Che siano capaci di raccogliere, di interpretare e rilanciare quanto essi dicono, per
creare una definizione intersoggettiva e degli apprendimenti significativi.
Un’osservazione attenta ci può permettere di cogliere se e come nell’interazione didattica vi sia l’assunzione, da
parte dell’insegnante, del punto di vista del soggetto, sia esso individuale o collettivo, se vi sia quello che autori
come Newman, Griffin e Coll hanno chiamato “riappropriazione”, in altre parole se l’insegnante non solo
fornisce elementi e aspetti affinché gli studenti possano appropriarsene, ma è capace anche di fare il contrario,
cioè di appropriarsi egli stesso dell’intervento dello studente, di farlo proprio, per poi creare quella situazione
che Gordon Welsen ha chiamato “una definizione intersoggettiva della situazione”, che consente la reciproca
comprensione e quindi comporta apprendimenti significativi.
Un esempio che posso portare è quello raccolto da Marina Pascucci Formisano, mia collega e collaboratrice, in
una scuola dell’Infanzia della provincia di Roma, in cui cinque bambini avrebbero dovuto fare un’attività di
lettura con l’insegnante, ma in realtà poi ne arrivarono solo due.
Sara, una delle due bambine, chiede alla maestra: “Ma quando arrivano?”, riferendosi ai bambini mancanti; la
maestra risponde: “Tra un po’, stanno finendo il lavoro con la maestra Gloria, intanto voi potete sfogliare questi
libretti e trovare le storie che abbiamo letto ieri”; nel frattempo l’insegnante scrive.
Sara però insiste dicendo che gli altri non arrivano e Cristina, l’altra bambina, nel frattempo, osserva il foglio su
cui la maestra sta scrivendo e dice: “Ma tu che scrivi?” E la maestra risponde: “Sto scrivendo alla direttrice per
dirle che vogliamo comprare dei libri”, Sara allora interviene: “E diccelo al telefono !”e l’insegnante risponde
che la direttrice non è sempre in ufficio e quindi è meglio scriverle; Cristina risponde: “Diamo la posta al postino
e ce la porterà”. Così la maestra chiede alle bambine se vogliono scrivere insieme la richiesta.
Questa parte di intervento è interessante perchè l’insegnante è stata capace di “raccogliere”: da un lato la
bambina ha saputo raccogliere dall’affermazione dell’insegnante: “…per dirle che VOGLIAMO comprare dei
libri”, l’informazione che la richiesta veniva da tutti loro e dall’altro lato l’insegnante stessa ha saputo riraccogliere l’intuizione della bambina quando quest’ultima ha affermato “DIAMO la posta al postino…”
proponendo pertanto di scrivere insieme; tutto questo è segno di una buona interazione.
L’intervento poi continua perchè l’insegnante chiede: “Allora, cosa vogliamo scrivere ?” e la bambina si riferisce
subito al contenuto: “ Vogliamo dei libri per noi bambini piccoli” e l’altra bambina interviene: “Ma noi siamo
grandi !”e aggiunge: “Vogliamo dei libri speciali da leggere meglio”, riferendosi quindi a libri con immagini; poi
le bambine chiedono come si chiami la direttrice e quindi decidono di iniziare scrivendo “ciao Ivana”. Allora
l’insegnante riprende questo intervento e dice: “Ma se scriviamo solo “Ciao Ivana”, e i libri che vogliamo, lei
capirà chi siamo?”.
Ho segnato questo punto dell’intervento perchè mi sembra che costituisca un punto decisivo sul quale poi si
svilupperà tutto il resto della conversazione: l’insegnante pone l’accento sulla necessità che il destinatario sappia
chi è il mittente, senza però utilizzare termini astratti.
Poi continuano dicendo: “Allora si può scrivere: Ciao Ivana, ci porti i libri? Li vogliamo leggere insieme alla
maestra, portali presto perchè noi vogliamo i libri nuovi”; qui emerge evidentemente la motivazione della
bambina a leggere i libri nuovi. “Dobbiamo scrivere ancora qualcosa? Scriviamo in francese!” propone una
bambina, la maestra: “No, no, scriviamo in italiano, ma la direttrice ha tanti bambini e tante scuole, come
facciamo per farle capire che deve portare i libri proprio qui?” e le bambine: “Diciamo che deve portarle a San
Giacomo” “Ma a S. Giacomo c’è anche la scuola elementare”. “No, no ci scriviamo che li porta alla scuola
materna”. La maestra allora rilegge: “Ciao Ivana, ci porti dei libri speciali non per bimbi piccoli, li vogliamo
leggere insieme alla maestra, portali presto perchè noi vogliamo i libri nuovi, li devi portare alla scuola materna
di S. Giacomo”.
Da qui si può osservare che l’insegnante non raccoglie il significato della parola “speciali”, potremmo quasi dire
che rinuncia a “prendere” qualcosa per insistere nel far disambiguare il mittente, poichè un aspetto fondamentale
della scrittura di un testo di contatto è presentarsi, far capire chi si è.
Poi l’insegnante continua: “Adesso le dobbiamo dire i libri, quali sono i libri che dobbiamo farci portare?” “Io
voglio Sailor Moon” “Io Sissi”; nel frattempo arrivano gli altri bambini che, incuriositi, chiedono che cosa si stia
facendo e Sara e Cristina rispondono: “Abbiamo scritto alla direttrice dicendo che ci deve portare i libri nuovi, vi
leggo cosa le abbiamo scritto...volete aggiungere qualcosa?” e Ivano: “Si, io il libro dei Pokemon”; Daniele: “Io
il libro di Tarzan”. La maestra infine domanda: “Vogliamo scrivere ancora qualcosa?” “Si, Ciao, Ivana, ci
vediamo presto”.
Da questo intervento emerge l’appropriazione da parte dell’insegnante dell’idea della bambina di partecipare alla
scrittura, cosicchè l’attività di lettura si è trasformata in una attività di scrittura per bambini non scrittori,
bambini della scuola dell’Infanzia, che hanno imparato comunque alcune nozioni fondamentali della scrittura
comunicativa, qualificando pertanto tale intervento come positivo.
L’argomentare è alla base del pensare e del conoscere
Oggi si tende sempre più ad attribuire al pensare (ma lo stesso si potrebbe dire per “conoscere” o per
“ragionare”) una dimensione (e forse una genesi) argomentativa.
La forma dell’argomentare è naturalmente e innanzitutto presente quando c’è il sostegno esterno e sostanziale
che al pensare viene dalla presenza di un altro parlante e pensante: sostegno che è indispensabile e
concretamente rappresentato da alcuni interlocutori privilegiati per i bambini piccoli ma che progressivamente
tende ad assumere la forma dell’altro “generalizzato” (secondo la teoria di G.O. Mead) o “interiorizzato”
(secondo Vygotskji). Nei contesti scolastici e/o formativi in genere c’è la mediazione dell’insegnamento come
ausilio, facilitatore, sollecitatore dell’apprendimento.
L’argomentare (e quindi il pensare) procede attraverso asserzioni
– che si distinguono da altre,
– che contengono una (anche implicita) presa di posizione,
– che sollecitano un esprimersi pro e contro.
La dimensione del conoscere (inteso come riferimento ad un ambito procedurale e concettuale specifico) si
manifesta quando si utilizzano procedure epistemiche particolari attraverso:
– definizioni, predicazioni, categorizzazioni,
– giudizi di valutazione,
– analogie, similitudini ed esempi,
– la ricerca di ragioni e/o di giustificazioni,
– il richiamo a regole, generalizzazioni, principi, leggi.
Un procedere che è tipicamente persuasivo, più di tipo induttivo che del tipo deduttivo presupposto dalla logica
formale.
Questa modalità di pensare e di ragionare si manifesta con più evidenza nel dialogo, nella conversazione, cioè
nelle forme sociali del discorso.
Nel discorso collettivo e nelle forme della conversazione, della discussione, della condivisione di conoscenza, si
possono ritrovare delle regole generali di funzionamento, di tipo essenzialmente sequenziale, che cominciano
ad essere esplorate in modo sistematico dagli studiosi di pragmatica e di struttura della conversazione:
alternanza di turni, coppie adiacenti, risposte preferenziali e non preferenziali, uso di particolari marcatori di
discorso (ad esempio: pronomi personali in funzione di soggetto; prese di distanza; esplicitazione di un punto di
vita in quanto tale).
In quei particolari contesti di discorso che sono propri della trasmissione culturale, quali sono quelli scolastici,
va però aggiunta la dimensione particolare costituita dalla presenza di un motivo di carattere generale che è dato
dalla produzione di apprendimento che caratterizza l’attività di insegnamento e che si manifesta in una gamma di
scopi legati alle particolari aree disciplinari. Il pensare-argomentare è il mezzo più importante per raggiungere
gli scopi posti dagli specifici apprendimenti.
Nell’intervenire i ragazzi seguono il principio cooperativo essenziale evidenziato da Grice (1975) articolato nelle
massime implicite che rendono possibile la comunicazione (informatività, evidenza di ciò che si dice, pertinenza
negli interventi, chiarezza), cioè le procedure conversazionali già da loro acquisite.
e le modalità di argomentazione proprie dell’oggetto di conoscenza, cioè le specifiche procedure epistemiche di
un campo di conoscenza, di una disciplina.
Le operazioni epistemiche sono realizzate attraverso particolari procedure cognitivo-linguistiche che si
presentano come strategie argomentative, cioè come modi di stabilire nessi tra asserzioni e giustificazioni.
Nel caso, ad esempio, del ragionamento storico, si può trattare di: definire termini e categorie che si utilizzano;
caratterizzare gli attori sociali e le istituzioni; collocarli nello spazio e nel tempo; interpretare azioni, piani,
intenzioni; mettere in rapporto tutto questo con il contesto storico-culturale.
Tali azioni epistemiche sono realizzate attraverso particolari operazioni cognitivo-linguistiche (usando il
linguaggio della teoria dell’attività) che si presentano, appunto, come strategie argomentative, cioè come modi di
stabilire nessi tra asserzioni e giustificazioni, o tra conclusioni e premesse.
Le strategie argomentative più frequenti sono date dalla correzione parziale, dalla concessione, dalla
delimitazione; dall’impossibilità delle conseguenze; dal richiamo a condizioni necessarie, prove, testimonianze,
fonti autorevoli; dall’appello a regole o principi generali, anche impliciti; dall’esplicitazione di ragioni,
intenzioni o motivi di un’azione o di cause possibili.
Spesso le giustificazioni, cioè le premesse teoriche e fattuali su cui sono basate le asserzioni o conclusioni, non
sono chiaramente esplicitate e restano implicite, ma sono presenti agli interlocutori, perchè vengono richiamate
in un intervento successivo.
Se il conoscere e il pensare sono assunti nella scuola
– come prodotti di un rapporto fra i contenuti di conoscenza codificati e i processi cognitivi implicati
nell’apprendimento di quei contenuti;
– come interrelazione tra acquisizioni specifiche e capacità più generali; soprattutto riuscendo a vedere le une in
funzione delle altre;
– se il ragazzo pensa quando si trova di fronte a oggetti di conoscenza;
– se l’insegnante riesce a rendere partecipe chi impara dei modi di ragionare propri della disciplina:
– il “conoscere” così costruito riuscirà anche ad essere uno strumento per il “pensare”.
Le strategie argomentative utilizzate diventano sempre più specifiche del campo di discorso e possono
approssimarsi sempre di più alle procedure proprie del ragionamento dello storico, cos“ come a quelle del fisico,
del critico letterario, del biologo, dello scienziato sociale e via dicendo.
In tale progressiva acquisizione è fondamentale la mediazione dell’insegnamento come ausilio, facilitatore,
sollecitatore dell’apprendimento.
La mediazione psicopedagogica costituita dall’insegnamento ci consente di identificare la peculiarità
o un saggio, seguire un algoritmo, spiegare un fenomeno, controllare l’effetto di alcune variabili, produrre un
testo, collegare una serie di eventi, descrivere ambienti e contesti: in ogni caso è in gioco il pensare-argomentare
in diversi domini di soluzione di problemi. Ed è tenendo presenti quelle che sono le modalità prevalenti e
caratterizzanti dei diversi domini di conoscenza (sul piano epistemologico e delle prevalenti pratiche sociali) che
si possono individuare le modalità che caratterizzano le diverse discipline. Le quali si manifestano sia in
procedure di esecuzione o di azione sia in procedure di discorso. In ogni caso il pensiero che su di esse si esercita
ha carattere prevalentemente argomentativo.
Se osserviamo questa problematica dal punto di vista dell’insegnamento come ‘attività’ (nel senso di Leont’ev),
ci troviamo a identificare una mediazione didattica, offerta dalla scuola e dagli insegnanti, che rappresenta lo
strumento con cui avviene la padronanza di quella mediazione culturale che consente la formazione di base, e
quindi la socializzazione e l’acculturazione dell’essere umano.
delle discipline come pratiche di azione e di discorso. Possiamo, infatti, considerare il pensare-argomentare
come molto vicino al pensiero riflessivo descritto da Dewey in Come pensiamo. Nei suoi aspetti comuni e
generali esso pu˜ essere definito come un’attività di ‘soluzione di problemi’ che si qualifica in funzione del
contenuto sia sul piano procedurale che su quello dichiarativo. Interpretare una poesia