Mezz`ora con Minosse

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Mezz`ora con Minosse
SIPARIO OLIMPO
presenta
MEZZ’ORA
CON MINOSSE
Un monologo
di
Filippo Armaioli Magi
Nota dell’Autore
In Mezz’ora con Minosse riprendo il personaggio mitico della pièce Olimpo, e stavolta il teatro è
un pretesto per un racconto narrativo in cui più generazioni possono confrontarsi, in cui gioventù e
senilità, vivacità e malinconia, passato e modernità si confrontano nelle riflessioni del Re Minosse,
che abbandona la sfera della comicità per momenti di poetico intimismo.
Entra Minosse.
Buonasera a tutti. Sono Minosse. Sono un Re greco. Che ci faccio qui?
Sono stato chiamato, e voi pure con me, a stare un’ora con Minosse.
E’una punizione per tutte le nostre colpe di essere riuniti questa sera a teatro.
Non vi preoccupate se avete bambini…vostra moglie li ha lasciati nella mia isola
a giocare col pongo… Tranquilli, sono a Creta.
Allora, sono 60 minuti…Staremo 60 minuti insieme. Che facciamo per mezz’ora? Niente, io parlo,
e voi pagate per starmi a sentire. Questo è il teatro, quel motivo per cui troverete una multa per
divieto di sosta domani mattina, quando alzerete gli occhi sul cruscotto e davanti al parabrezza,
sotto i tergicristalli, troverete il simpatico foglietto ad attendervi.
Le Forze di Polizia non lo dicono, ma sono contente, perché ogni multa è per loro la garanzia di un
pasto completo compreso di caffè e ammazzacaffè. I vigili si alzano la mattina, per vedere se ti
comporterai ammodo, se sei ammodo, se fai ammodo, se pensi ammodo, tutto dev’essere
ammodo… Scordatevi il vigile interpretato da Alberto Sordi.
I tempi sono cambiati.
Anche a Creta è così. Solo che a Creta ci sono gli Oracoli, che sono dei marcantoni alti così e grossi
tanto che se si incazzano vi fanno dei vaticini e vi gettano addosso dei presagi che vi rovinano
l’esistenza con la sfiga. Queste profezie sono peggiori di Nostradamus, peggiori delle multe. C’è un
Oracolo un giorno mi ha detto, testuali parole:
- I tuoi testicoli perderanno attrito, sarai presto sterile, e i tuoi zebedei si avvizziranno, e da sfere
corpose saranno granelli di palle ormai inutili…
Al che mi toccai i cosiddetti, per scaramanzia. Neanche nei foglietti dei Baci Perugina ci sono
questi messaggi subliminali tanto mortificanti. Gli ho risposto:
-
Oracolo, ascolta, ho sbagliato molte volte nella vita, ma non credo che castrarmi sia
l’ammenda che merito.
Nome dell’Autore: Filippo Armaioli Magi Titolo dell’opera: Mezz’ora con Minosse
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E lui:
-
Così vuole il tuo destino inesorabile.
- Ma io sono un Re.
E lui dice:
-Il responso dei numi è non ammette deroghe.
-E nemmeno proroghe, immagino.
-
No, - risponde laconicamente.
E io qui penso a una cosa: sono fottuto, perché forse non potrò più fottere. La fornicazione, è una
delle gioie della vita, ed ecco che questo Destino mi condanna. Che ho fatto? E che mi succederà,
mi chiedo, quando saranno elette le nuove veline di Striscia la Notizia, che mi accadrà, vedrò la
bruna e la bionda, e non avrò alcuna reazione legittima nel mio basso ventre? Non sarò più così
felice di fronte a una donna…
All’Oracolo, non frega niente, perché esso è un sacro eunuco, e poi ambasciatore non porta pena.
Ma a me ha portato pena. La pena del pene.
E quest’angoscia è un’agonia furente.
Mi vengono i brividi, vorrei pagargli una sanzione, come voi in Italia paghereste la multa per
discolparvi del reato. Ma l’Oracolo sta ritto.
Lui si può permettersi ancora di stare ritto…
Io ho perso questo diritto…
Sudo, mi agito, ho dei brividi. E penso che sarà di me come uomo. Allora ricordo l’uomo che ero,
se non sarò più l’uomo che sono.
Ero un discolo, da piccino.
Ammiravo il discobolo che si allenava in giardino, e gli frustavo le chiappe con un asciugamano,
per vedere se il mio stimolo lo avesse aiutato o meno nel lancio del piatto.
Spesso mi rincorreva, e se mi raggiungeva mi sculacciava, forte, con quegli stessi pezzi di stoffa
con cui lo avevo tormentato.
Me lo meritavo, e ora tramite l’Oracolo, forse è lui che ha voluto trovare vendetta. Avrei preferito
piuttosto la ghigliottina, volare ai tempi della condanna di Robespierre, vive la Rivolution, vive la
France…E invece perderò le palle.
Amici, in quest’ora tutta la mia virilità si domanda chi sono.
Ma chi è un uomo? C’è chi dice che si deriva da una scimmia, che all’improvviso, si stufò delle
scimmie, tutte pelose, e vide una donna.
Questa scimmia senza peli era curiosa. Le si vedevano le guance, finalmente, non aveva queste
grige borse sotto gli occhi da orango, i capelli non sembravano pelurie di noce di cocco,
erano lisci e fluenti, i piedi non parevano spatole, erano piacevolmente lisci e delicati…
I seni, non erano grosse sacche avvizite, ma floridi
frutti succulenti… Le braccia e le gambe, prive di peli, si facevano attraenti…Insomma, la scimmia
fu conquistata. Si chiese se fosse il primo a vedere una cosa così. Allora, gli venne idea di depilarsi.
Afferrò una scure di pietra pomice e si strappò tutti i villi. Nacque così il primo uomo.
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Cosa fece alla donna non ve lo dico, ma se oggi siamo qui, lo dobbiamo anche alla sua curiosità.
Avevamo un uomo e una donna.
Avete idea di quanti anni ci abbia messo questo individuo a fare sì che fossimo così tanti?
Le sue figlie, erano bellissime. Le scimmie se ne accorsero, e le vollero, e le presero, senza depilarsi
come aveva fatto lui. Ma i figli di queste sventurate nacquero glabri, senza peli, come noi.
E quando le nuove figlie si rendevano conto che le si chiedeva loro di procreare, preferirono fare
incesto coi propri fratelli, che non andare con quelle brutte creature. I loro figli, furono anche i loro
nipoti, ma li crebbero e da queste unioni scellerate poi si ebbero dei clan, e dei matrimoni
sani e legittimi. Gli uomini ebbero sempre la curiosità, e le donne sempre la disponibilità: così
si è sviluppata numericamente l’umanità.
Avevamo un uomo e una donna.
Poi nacquero le città, e quindi l’Ufficio di Collocamento. Sì, perché mangiare dagli alberi i frutti e
cogliere le bacche dai cespugli, era cosa lecita, ma ci si doveva impegnare a fare qualcosa.
Si pensò al lavoro. Non c’è una parola più detestata quando ci si alza al mattino: il lavoro.
Fabbro, carpentiere, muratore, artigiano.
Oppure commesso, operaio, o cuoco, aiuto cuoco, cameriere. C’è il mestiere, oppure il tirocinio.
Tanta scelta, ma spesso le offerte sono le stesse,
e nessuno ti può dire se mentre ti stai iscrivendo quell’uomo sta già facendo il suo nel tuo posto, che
non è quindi tuo, ma suo. E tu che redigi la tua cartella per consegnarla all’impiegato.
Sogni di fare quel mestiere, ti immagini mentre lo fai, ti immagini la tua sudata busta paga,
e intanto altrove si fa quel che ti si chiedeva a te.
Pare una burla, ma è la realtà.
Io non scelsi di fare il Re a Creta. Nacqui cretino nella mia isola, e così ancora lo sono.
Passo le mie giornate presso le cariatidi del mio palazzo, sognando l’Olimpo, e la quiete dei giardini
del cielo. Spesso, vorrei avvicinare qualche ancella per sollazzarmi, ma ricordo il
responso dell’oracolo.
-
Non sarai più uomo.
Una condanna pesante, ancora non ci credo, ma
l’Oracolo ha una fonte di informazione più
precisa dell’Ansa.
Dicevamo, nacque la società dagli uomini e dalle donne, e si pensò al lavoro nelle sue forme
consuete. Le monete e le banconote per i pasti spesso furbescamente cedute per comprarsi la rivista
preferita, il pacco delle sigarette, un paio di calzini. Senza mai capire che si è guadagnato davvero, e
cosa si è perso, tra uscire e rincasare.
Questa è la vita umana.
Ma io dico no, ci sarà anche altro!
E allora penso alle meraviglie della natura. I fiori, le foglie, i frutti nella natura…Le acque dei fiumi
e dei laghi e dei mari!...I giardini, gli orti, le montagne! Le nuvole! Chi è che non alza gli occhi al
cielo in cerca delle nuvole, per vedere se si muovono, se hanno delle forme! E le stelle, là dietro, a
guardarci lontane!
Ecco il mondo, e noi vogliamo l’Universo.
Si, perché non ci accontentiamo.
Vogliamo tutto e subito.
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Ci alziamo al mattino, e tutto vediamo e tutto desideriamo. Ma davvero? Io credo sempre invece
che l’uomo voglia la donna, e la donna l’uomo. O meglio, che la donna voglia tutto, e che l’uomo
voglia tutto per dare questo tutto alla donna che ha voglia di tutto, sperando che dandole tutto, lei gli
dia qualcosa…
C’è qualcosa nel mondo che ci chiama alla vita.
Sì, perché tanti uomini hanno scritto tante cose di questo e di quello che non si può credere che
queste persone amassero solo le parole, dovevano certo apprezzare anche l’oggetto che nelle loro
frasi, nelle loro pagine e pagine veniva indagato…Gli scrittori hanno amato il mondo, e ci hanno
invitato a leggere e a scrivere, ma perché?
Chiunque legge, si chiede perché lo fa?
Si chiede, se saprebbe scrivere allo stesso modo?
Se potrebbe raggiungere quella stessa casa editrice che ha finanziato con l’acquisto del volume, se
lo chiede se in quella casa editrice come fosse la sua casa, un suo testo verrebbe accolto, visionato,
apprezzato, stampato allo stesso modo?
Ed ecco che il lettore scopre di essere stato turlupinato. E’ quindi schiavo della parola, e deve subire
il libro. E si fa domande sulla cultura, e si chiede se finalmente un’altra persona ha letto la stessa
cosa, e che cosa ha pensato, cosa ha provato, e perché quella scelta, e finalmente questo lettore e
questa lettrice, perché ancora una volta di un uomo e di una donna stiamo parlando,
questi lettori abbandonano i personaggi dei romanzi con le loro vicende stucchevoli, abbandonano i
logaritmi delle pagine di aritmetica, fanno cadere questi fardelli, e riscoprono…che c’è la vita!
Sì, al di là del bene e del male, c’è la vita dell’uomo. Fra le righe di un testo, la lettrice si accorge
che le lettere non formano più parole, che le frasi sono vermetti inutili, che i testi sono esseri
amorfi, stille d’inchiostro asciugate, pressate, e proposte senza chiederci se le volevamo.
Chi scrive, ha paura adesso. Si chiede se stia perdendo davvero il suo tempo, se qualcuno gli darà
retta…Un parere, mai a chiederlo, perché fra chi scrive e chi legge è una discrezione, si ha timore a
avvicinare questi due corpi…
Si reprime la libido, nel caso, se c’è…
C’è il testo, c’è forse una lettura, una stima…
Ecco il guadagno di tanta pena per le sudate carte…
E il lettore continua a scrivere, e il lettore a sognare forse di essere pubblicato, ma poi
la stanchezza psichica di aver posto gli occhi su quelle pagine gli impedisce una sua fantasia, che
confessa di non avere, alla sera. E il lettore dorme,
mentre lo scrittore confessa che lui non può, perché la cena lo ha rinfrancato, e adesso è una pila
piena di energia deve creare, raffazzonare, proporre.
Il dizionario, è tutto un luogo di oggetti che si apre alla mente. Lo si sfoglia, e si cede di fronte al
peso della nostra fatale ignoranza. Ogni parola è un mistero, che una volta svelato, è come quando il
bambino fa i suoi primi passi, e cammina, e avanza davanti a sé, e vedendo distinguersi le forme
vede le cose, ed è sempre come una prima volta, e noi non gli diciamo che nell’ufficio all’angolo un
giorno sarà lui a dover sgobbare, non gli parliamo di quei cantieri sempre aperti,
e di tutte quelle attività umane che quegli altri padri stanno facendo per guadagnare il pane per i
bimbi come lui. Lui, il bambino, va, senza pensieri, ancora è presto per leggere che già forse
qualcuno scrive la sua vita come sarà.
E questo bambino vede una scimmia, dietro ai cani, nel negozio di animali dove sua madre acquista
il mangime per il parrocchetto.
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Mentre la madre paga il conto, il bimbo ammira l’animale che era, e lui lo guarda a sua volta negli
occhi, e sono due ebeti a confronto, ma la scimmia non evolverà, mentre il bambino sarà uomo.
Ecco, il dizionario è come il mondo, e se io dovessi dirvi che cos’è il teatro, vi direi, immaginate
una scena, ma aprite il dizionario, e pensate che Stenterello, Pulcinella e Arlecchino siano nati dalla
volontà che queste parole trovassero una voce. Non siamo forse tutti degli zuzzurelloni, quando ci
prende curiosità di qualcosa, e dobbiamo sapere, e ci rifugiamo nella conoscenza credendo di
trovare finalmente la nostra vera anima? Che illusi!
Alla sera, il nostro stomaco borbotta, e si chiede se abbiamo guadagnato la cena, fra un invito, una
passeggiata, un incontro inutile.
Ci chiediamo se fra le parole e le persone ci sia un legame parentale. Se gli altri sono come noi, se
fanno le stesse cose, se hanno trovato un che che noi non abbiamo più, se da loro si possa prendere
qualcosa senza togliergli niente, in una serie di scambi che sono ancora una volta parole, parole,
parole.
E intanto passano i minuti e le ore, ma noi rivogliamo i secondi, chi ci ridà i secondi perduti di quei
minuti per quelle ore che ormai non sono più? E che è cambiato in noi? Sta nascendo una ruga,
sopra la borsa sotto gli occhi, a fianco delle nostre orecchie? Cosa si fa ogni giorno, che vediamo,
che ascoltiamo, che tocchiamo, che diciamo, cosa taciamo, che sensi ancora non abbiamo scoperto?
E la vita va, come un carrozzone che ci invita ad andare avanti, ma senza che capiamo verso dove è
la nostra meta.
Allora, abbiamo necessità degli altri, o di fuggire forse tutti, chissà…E dove stanno le parole,
mentre noi stiamo correndo? Cosa vogliono da noi, chi le ha volute, quante sono?
E c’è ancora chi ci ricorda che si può essere bravi con le parole, ma occorrono i fatti. Anche con le
donne, c’è sì una seduzione amorosa, l’invito allettante della poesia, il sublime abbraccio del
complimento, e i termini della natura e la sfera semantica di ciò che è l’affetto nel profondo del
cuore si incontra con la spinta passionale della nostra felice lussuria impudica. Il viso della persona
amata è tutto un luogo, ma noi vogliamo entrare in un mosaico che sta fra il suo corpo e la sua
anima, e cerchiamo un linguaggio per onorarla, come studiando le lingue straniere a volte si può
giocare a dirsi ti amo in tutte le lingue del mondo, come se pronunciando Ailoviù, si viaggiasse a
Londra lui e lei come Mary Poppins sotto il suo magico ombrello.
La vita è tutta una ricerca d’Amore senza fine, e i nostri doveri sono degli orpelli orgogliosi, degli
ostacoli alla felicità, perché si perde l’ebbrezza dell’ozio, e nulla è più come prima, quando il nostro
tempo è perduto definitivamente.
Ogni anno di vita viene festeggiato nel compleanno, ma chi invecchia, dopo lo scherzo trova un
attimo in cui si accorge che in quell’anno ha tanto avuto, ma ha anche perso un poco di sé, vede gli
anziani come dei mostri e si chiede se quella imperfezione un giorno colpirà anche lui,
quelle rughe, quegli acciacchi, quei sospiri di chi ha tanto donato che continuamente si chiede se
ancora ha da avere qualcosa.
Vedo queste città, in cui giovani, anziani e bambini avanzano, e i giovani vengono assediati dagli
anziani che li tormentano per vedere se faticheranno la loro stessa fatica, e i bambini a ricordare
loro che sono chiamati a essere padri se vogliono stare perbene con le loro donne.
Essere giovani è un’identità, allora, un bene prezioso che distingue chi davanti ha ancora tutto, da
chi deve pensare a cosa può ancora cogliere. Per il giovane, la sfida più grande è perdere la
verginità. Affila le armi della persuasione, mentre la donna vede il suo corpo come uno strumento di
potere. E di quello che è stato, di ogni incontro, nessuno dovrebbe saperne, ma chi impedisce a lui
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di vantarsi e a lei di scherzare, quando con gli amici si fa il conto e si ragguaglia chi ha vinto e chi
ha perso, chi è dentro e chi è ancora fuori.
A Creta, le cose sono diverse. Ci sono le ancelle.
Io ne ho tante, perché sono il Re, ma mia moglie Pasifae, dopo avermi cornificato, mi beffa ancora,
perché da alle ancelle tanto lavoro da fare che non c’è una pausa perché possano deliziarmi.
A questa le affida un ricamo, una fa commissioni, c’è chi scrive delle lettere… a un’altra la fa
modellare sul tornio dei vasi, mentre alcune, le favorite, le invita al canto e alla musica nel suo
salotto. Ogni occupazione non serve tanto a lei né a loro, quanto ad allontanarle dal mio letto.
E poi, c’è la cucina. Pasifae vuole che le cuoche sappiano fare tutto, e io che fra una mazzancolla e
un totano sogno di palpeggiare loro le natiche, di scoprirne i seni, di accarezzare le loro gambe
meravigliose, rimango solo e inerte a rimirarmi allo specchio. E allora sì, che noto il tempo che
scorre, ahimé, e il suono greco della mia solitudine mi chiama al pensiero.
I fiori perdono il loro vivace colore, mentre piangono i miei occhi, le piante non mi accolgono più,
gli alberi che amavo mi fanno paura mentre prima mi accudivano, perché vedo che fra la corteccia e
la mia canizie c’è uno stretto rapporto di similitudine. Ma il mio sangue ancora mi chiama, bolle
come il vino, c’è qualcosa ancora.
Io ci sono ancora. Vedo il mare con la forza vivida della mia fantasia, e i colori del mondo, e la
musica del cielo. E mi viene in mente che se devo ricordare le mie delusioni amorose, è la spiaggia
quel luogo in cui sento di essere stato sconfitto, è l’invito al mare che io non ho mai fatto a lei che
ha decretato la vittoria di uno spasimante rivale, e se la rivedo che ride, so che lei ricorda la sabbia
fra le dita, e i suoi baci, e l’abbraccio nel corpo di lui. Mi viene in mente questa canzone, Non ti
scordare mai di me, e dei miei gesti, in fondo siamo stati insieme, e penso a quanti uomini sono soli
e a quante donne piangono, e ricordo che quando ascoltavo Questo Piccolo Grande Amore, avevo
un brivido, da ragazzo vergine, per quella sua maglietta fina, che si immaginava tutto…
Per anni, quando amavo una giovinetta, pensavo a quella camicia, e mi faceva dolore sapere che
qualcuno era stato più pronto di me, più veloce, che qualcuno c’era stato prima, e allora i sorrisi
delle mie amiche li capivo meglio, alla luce di quelle esperienze che ponevano una distanza tra i
mie ingenui e timidi passi, e la forza della loro fisicità altezzosa. Ogni passo avanti era un’amara
spinta a fuggire, non ad avanzare, perché si temeva di essere scoperti, dai genitori, dai passanti,
dagli altri, ed essere due doveva essere la cosa più semplice ma no, non era così facile, e ancora una
volta erano le parole a fare da scudo fra il nulla che restava e ciò che avevo perso. La maggior parte
del tempo di una storia d’amore, all’inizio, la si spende fra le lacrime.
Pasifae non sa nulla dell’uomo che fui, né della maschera che ho sempre indossato e dietro cui non
le ho mai permesso di vedere. Ma ancora so che, qualsiasi cosa abbia detto l’Oracolo, sono ancora e
sarò l’uomo che sono nato.
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