da ceccardi a montale... con boine e sbarbaro
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da ceccardi a montale... con boine e sbarbaro
Prosegue e si conclude la riflessione sulla letteratura ligure DA CECCARDI A MONTALE... CON BOINE E SBARBARO di Renato Barberio Non si è ancora resa giustizia a Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, già buon traduttore, in gioventù, di Verlaine e Rimbaud. Con la nascita della poesia crepuscolare da noi, tra il 1900 e il 1910, i sentimenti e i soggetti del simbolismo calarono di un tono. Ma proprio allora il Ceccardi compì il cammino opposto, irrigidendosi in un severo rigore classicistico. Per questo divenne un poeta di difficile lettura; e fu incompreso. Inoltre il suo estroso anarchismo rese perplesso il lettore (ma Montale afferma di amare il Ceccardi “elegiaco e paesista” ligure nel sangue, nonostante la fanciullezza e i frequenti ritorni apuani, errabondo e bohemien). La Riviera Ligure, che gli pubblicò per anni versi e prose, rappresentò per lui un punto fermo. L’ultima sua poesia, del 1919, “Vecchia stampa” preannuncia la solitaria sofferenza sbarbariana, tanto che per Giorgio Caproni, Ceccardi aveva già gettato il seme della propria disperazione nella poesia ligure e quindi in quella italiana del secolo. Forse Caproni avrebbe potuto parlare di un “seme del piangere”. Anche nello Jahier, genovese, ceccardiano nella sua paura della solitudine, si avverte la percezione quasi fatalistica e rassegnata del destino che lo sovrasta. Ma si palesa la costante dello spirito ligustico soprattutto nel suo rigore morale, nella sua accettazione della sofferenza e delle memorie che pesano. Scriveva Piero Gobetti di Giovanni Boine, redattore della “Riviera” che non si poteva leggerlo senza rivivere la disperata commozione di un destino incompiuto, di una volontà eroica cui mancarono i muscoli. Pensando a lui, “malato di mal sottile”, si è presi dal ricordo di Guido Gozzano, ma l’avvicinamento è solo esteriore: in realtà Boine, che si accosta al Novaro, al Ceccardi, allo Jahier, allo Sbarbaro, ha in comune con i poeti liguri il senso angoscioso della solitudine, la “canina ricerca di umanità”, il paesaggio visto come nuda sigla di una verità sempre sul punto di rilevarsi e che tuttavia resta un mistero. Boine anticipa la supina sofferenza di Camillo Sbarbaro, ligure nel suo amore ostinato per la propria terra, certamente tra i più ligustici dei poeti. Sbarbaro è tanto lontano dagli intenerimenti pascoliani e crepuscolari quanto dalla retorica dannunziana o, peggio, futuristica. Ligure nel suo rifugiarsi nel suo mondo poetico, sfuggendo scontrosamente quello degli altri; ligure persino nei suoi limiti, in quel suo essere senza voli, “senza senso storico opaco e sordo”. Al poeta di “Trucioli” Montale deve molto, per sua stessa ammissione. Il paesaggio in genere, la negatività, 54 l’aridità pietrosa, le povere creature: tutti i suoi punti di partenza sono sbarbariani. Ma già negli “Ossi” Montale va oltre questi punti. Già De Robertis aveva notato: “Povere creature, grandi simboli”; e Solmi ha parlato di “una casta oratoria” che, in Montale, nega il dimesso discorso dell’endecasillabo sbarbariano. Nato da una crisi e impossibilitato ad uscirne, Montale è poeta autonomo, che fonda una poetica nuova, non più soltanto ligure o soltanto italiana: è il portatore di un messaggio nuovo e di un nuovo linguaggio poetico, riuscendo ad amalgamare l’eredità nativa, che gli proviene dai dolenti Ceccardi e Sbarbaro, dai crepuscolari e dagli impressionisti, con le più aperte esperienze europee, specie anglosassoni. Definito, di volta in volta, il poeta delle radicali negoziazioni, è chiaro che in Montale tutti i motivi della poesia linguistica (il paesaggio, visto come geroglifico di una verità indecifrabile di cui non riusciamo a capire che barlumi, la vita, intesa come sofferenza continua e continua tentazione al dissolvimento) si assommano e si definiscono in modo nitido ed esemplare. Boine e Sbarbaro, più che Pascoli, ebbero la capacità su Montale di avviarlo a quel “gusto scabro, vetrino” della parola. Dagli “Ossi di seppia” a “Le occasioni” fino “La bufera” e a “Satura”, Montale si è costruito una sintassi che sottintende remote esperienze contemporanee, modulando la sua aspra musica fino alle estreme disponibilità. Basti pensare, in “Satura”, ai colloqui essenziali con la moglie Mosca, scomparsa, a volte ispirati da un fulmineo ricordo o da una battuta di dialogo; oppure alle minime “questioni” di carattere privato, da cui traspare un Montale impetuosamente lirico, molto vicino agli “Ossi” e distante da quello speculativo della “Bufera”. Inserito nella linea poetica che da Mario Novaro ripunta verso Montale è un poeta genovese, Adriano Grande, fondatore della rivista “Circoli” (1931-1939), redattori anche Montale, Sbarbaro, Barile. Grande possiede una percezione del paesaggio non solo ligure, ma financo africana, carica di religiosa inquietudine. In uno dei collaboratori di “Circoli”, Angelo Barile, di Albissola, rigorosamente schivo e modesto, si riconoscono le caratteristiche modulazioni sintattiche dello Sbarbaro di “Pianissimo”. Giovanni Descalzo, di Sestri Levante, autodidatta, incline a posizioni crepuscolari, è molto vicino a Grande e Barile. C’è in lui un virgiliano affiorare di sentimenti nostalgici e accorati al ricordo della sua terra: c’è una innata mitezza, che lo porta a rifugiarsi nell’amore familiare, ad escludere in lui ogni ribellione, a farne un rassegnato. Di Edoardo Firpo, accordatore di pianoforti e bibliofilo appassionato, si potrebbe dire che “è nato poeta genovese”. Ceccardiano per Giovanni Boine la natura, per gli uccelli, tenacemente dialettale (e in questo aggettivo c’è il senso indispensabile della sua poesia) rileva un’attitudine simbolistica, le sollecitazioni di Baudelaire, ma più di Rimbaud, di Verlaine e di Valery, lo aiutano a ricondurre i significati delle cose alla loro problematicità, esposta allegoricamente. Guido Seborga, il quale scrive “ho radici nella mia terra ligure, ma che interpreto con animo internazionale”, mette a punto i termini di quella che vuol essere una definizione di “ligusticità”. Se si astrae da questi termini, nessun ligure ha ragione di appartenervi e nessun poeta nazionale o internazionale può esservi avvicinato. Seborga, surrealista, in gioventù a Parigi, libertario e isolato, oppositore della civiltà dei consumi e dell’industria culturale, oggi si definisce realista, poiché riconosce la radice della letteratura italiana in Verga. Nei suoi versi il paesaggio livido, su cui incombe il senso della morte, e del dissolvimento fisico, riconduce alla problematica stessa del poeta: desolazione, alienazione, fine del tutto. E’ ansioso di evadere e vivere nuove esperienze (“Le ore che ignoro”) ma alla fine il ligustico dolore solitario non gli concede possibilità di salvezza. Il livornese Giorgio Caproni dal 1922 vissuto a Genova mescolando lingua popolare e lingua colta, ricercando assonanze sintattiche, canta Genova, i luoghi e le persone care con tale sofferto attaccamento alla realtà quotidiana da porsi in una situazione d’addio alla vita stessa del momento in cui li saluta per sempre. Così il genovese Nicola Ghiglione, irrimediabile solitario, autore dei difficili e crudi “Canti civili” scritti nel 1942, in cui presenta una galleria di ritratti che da vicino possono ricordare le celebri iscrizioni mortuarie di Lee Masters, è considerato poeta “strano”. “Sono un documento scritto in difesa della povertà, in maniera clandestina ma non troppo” – dice lo stesso Ghiglione, 55 che già aveva pubblicato poesie nel 1933, sul Barco, rivista del G.U.F. genovese. Nel verso, ritmico e sostenuto, è messa a fuoco una problematica sociale scottante. Adriano Guerrini, Cesare Garelli, Giovanni Giudici si riportano alla lezione sbarbariana attraverso i motivi del ligure paesaggio tradizionale. Cesare Vivaldi, di Imperia, ermetico da giovanissimo, successivamente realista su modelli americani e pavesiani con un viscerale attaccamento alla terra d’origine e al ceppo familiare, è sostenuto da un’ispirazione alla poesia civile da una parte e dall’altra agli affetti domestici. Il Vivaldi è tra i più interessanti poeti delle giovani generazioni, poiché ha elaborato una lingua dal dialetto a scopo sperimentale e di “rottura” togliendo alla poesia dialettale ligure il carattere idiomatico-romantico: riconduce a dignità letteraria il dialetto imperiese portandolo con gusto alle cose che sono dentro alla parlata popolare, in fondo, dentro di lui. Una rassegna della poesia ligustica potrebbe chiudersi con i nomi di Guido Zavanone e Mario Schiaffino. Nel primo, astigiano, il senso della ricerca si pone in una prospettiva sociologica oltre che letteraria. Zavanone rivela nei suoi versi di essere vicino alla condizione esistenziale e culturale ligure. Torna in lui il tema dell’esperienza religiosa, che si dibatte tra la speranza e la stessa alienazione. Nel genovese Mario Schiaffino l’inconfondibile matrice della tradizione ligustica inserisce il poeta in una chiara scelta culturale. Perfino l’amore si colloca nella consueta visione del mondo, partecipa delle stesse angosce e non lascia sperare in una soluzione del dramma esistenziale; si è soli, mentre la vista trascorre spietata. La breve indagine nel campo della poesia ligure del Novecento consente di affermare che molti versi composti da quanti sono stati citati nella rassegna potrebbero servire come riflessione. Certo, non sarebbe facile presentare l’angoscioso senso dell’esistere in Montale, il meriggio di una giornata ligure nel significato esistenziale del “Meriggiare pallido e assorto”. Ma da Novaro a Boine, da Ceccardi a Sbarbaro la scelta è grande e tutta incentrata su motivi semplici, essenziali, eterni: la natura, il vento il mare, gli uccelli, la terra: oppure la paternità, l’amore familiare, l’attaccamento al proprio paese. E’ una scelta vasta, tanto vasta, quella della linea ligustica, quanto densa di suggestione per chi legge e per chi ascolta. Ad essa si può attingere tranquillamente, senza nemmeno preoccuparsi troppo delle difficoltà di contenuti: si sa che il tema della sofferenza ha sempre un’eco profonda nell’animo dei giovani anche perché usa un linguaggio, in definitiva, semplice e scarno, accessibile a tutti. Come il linguaggio dei poveri.