Leggi le prime pagine

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Michel Layaz è nato nel 1963 a Friburgo e vive tra Losanna e Parigi.
È unanimemente considerato uno dei più importanti scrittori svizzeri
della sua generazione. I suoi libri di maggiore successo sono stati Les
larmes de ma mère (2003) e questo Due sorelle (2011), che gli ha
fatto vincere il premio Helvetia. Barbès Editore ha già pubblicato il suo
La Dimora.
Gare du Nord
La frenesia e la multiculturalità della parigina Gare du Nord raccontano il
carattere composito della collana di narrativa contemporanea di Edizioni
Clichy, dedicata alla scrittura di stampo letterario, principalmente
francofona ma non solo: storie, esseri umani, vite, colori, suoni, silenzi,
tematiche forti, autori dal linguaggio inconfondibile, senza timore di
assumere posizioni di rottura di fronte all’establishment culturale e sociale o
di raccontare abissi, sperdimenti, discese ardite ma anche voli e flâneries.
«Deux soeurs»
de Michel Layaz
© 2011 Éditions Zoé - Genève
Per l’edizione italiana:
© 2013 Edizioni Clichy - Firenze
Edizioni Clichy
Via Pietrapiana, 32
50121 - Firenze
www.edizioniclichy.it
Isbn: 978-88-6799-019-1
Michel Layaz
Due sorelle
Traduzione di Tommaso Gurrieri
Edizioni Clichy
Il giudice ha deciso.
Il padre è pazzo e deve rimanere nel manicomio in cui
è rinchiuso da due mesi. Ipnotizzava le mosche con gli
occhi. Le api, anche. È pazzo, hanno detto i medici. Non
per via delle mosche. Né per via delle api. Per quella mattina in cui ha incollato le labbra all’orecchio del capo. Un
urlo che è durato quasi tre minuti. Un urlo magnifico che
ha immobilizzato tutte le macchine, un urlo senza paura
e senza odio che ha disegnato sui volti degli impiegati dei
sorrisi di estasi. Il capo aveva cercato di dibattersi, ma il
padre lo teneva incollato a sé perché sentisse l’urlo fino
alla fine, e alla fine dell’urlo c’è stato un timpano perforato. Ha dovuto accontentarsi di un timpano solo.
Umana era la rivolta del padre.
Al capo, loro, le due sorelle, avrebbero volentieri perforato entrambi i timpani, strappato mezzo labbro, o
mezzo orecchio, gli avrebbero volentieri tagliato i capezzoli, spaccato il naso, addentato il pomo d’Adamo, frantumato i coglioni, perché le due sorelle a volte hanno la
foga dei leoncini e la rabbia degli uccelli predatori.
E adesso il giudice, un po’ stanco, ha deciso: tutte le
volte che vorranno, le due sorelle potranno fare visita al
padre, una bella fortuna, e buonanotte...
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Con una voce che rasenta i muri, con una voce che
vorrebbe spegnersi prima ancora di essersi accesa, il cancelliere ha evocato la madre. Vive da due anni a New
York. Con un politico. Lavorava come interprete quando
ha incontrato il politico. E visto che la madre non intende lasciare né il politico né New York, le due sorelle non
la vedranno più canticchiare sorseggiando il caffè nella
sua tazza ornata di bianche farfalle, non la vedranno più
lasciare cadere ai suoi piedi i baby-doll di seta che profumano di sesso dopo la notte. Per voler bene alla madre,
non c’è bisogno - addio mamma! addio! e basta parole -,
non c’è bisogno di vederla.
Le due sorelle non sono come la gente che piange per
un nonnulla.
Non sono come la gente che blatera per un sì o per un
no.
Il giudice dice che la madre continuerà a inviare i soldi
che serviranno alle due sorelle per vivere. Lei e il politico
hanno abbastanza soldi. Il giudice dice che il caso è complesso ma ha deciso. Le due sorelle sono grandi abbastanza per cavarsela da sole. Metterle in un istituto sarebbe
fuori luogo. Sarebbe incongruo. Il giudice dice anche che
un’assistente sociale le andrà a trovare ogni quindici giorni, che se le cose non dovessero funzionare verrà comunicato. Il giudice non dubita che la sua scelta sia la scelta
migliore.
Funzionerà, funzionerà! sussurrano le due sorelle sorridendo e chiedendosi a cosa può somigliare un’assistente
sociale.
Dopodiché il giudice tace, deglutisce, tira su col naso,
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si gratta le narici, e gli occhiali ballano sul suo naso, e gli
occhi si ingrandiscono dietro le lenti.
Poi il giudice chiede alle due sorelle se sono d’accordo.
Loro rispondono sì, sì, siamo d’accordo, siamo d’accordo.
Il caso è chiuso.
Ancora una cosa, prima di uscire: la casa appartiene
alle due sorelle.
Andandosene, le due sorelle fanno un piccolo inchino
davanti al giudice, come hanno fatto entrando. Le due
sorelle conoscono da molto tempo l’effetto degli inchini
eseguiti con il sorriso e la grazia di circostanza.
Dietro la porta ci sono quattro persone che aspettano.
Il caso delle due sorelle è un caso come tanti altri.
*
La casa adesso è la casa delle due sorelle, anche se questo non significa niente. Prima di essere rinchiuso in manicomio, il padre ha firmato dei documenti per far avere
la casa a loro, e questo fin da subito, fin dal momento
delle firme, dei timbri, dei bolli ad hoc e dei sigilli senza
hic. Nessuna persona sana di mente si è opposta, anche
se si trattava della firma di un pazzo, di un probabile pazzo, di un possibile pazzo. E anche le due sorelle hanno
dovuto firmare quei fogli, di fronte al muso del notaio
che taceva e aveva l’aria di non conoscere la rugiada e la
primavera, l’aria di chi, fortuna fatta e disfatta, calcola e
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ricalcola, parcelle giornaliere e parcelle orarie, per sapere
ciò che le parcelle giornaliere e le parcelle orarie gli permetteranno di possedere: gonfiare il mucchio, ingrossare il monticello. Nell’ufficio aleggiava un odore di fave
rosse e di piscio, niente di nobile, nemmeno l’ombra di
qualcosa di eccelso. Le due sorelle sono state contente
che non ci sia voluto troppo tempo, che non ci siano
volute troppe parole.
Chiudendo la porta del notaio, le due sorelle si dicono che la casa adesso è loro ma che questo non significa
niente. Le due sorelle hanno tenuto i mobili che da sempre occupano la casa: un tavolo con un lungo ripiano di
marmo, dieci sedie, quattro poltrone di velluto, una credenza, un divano giallo, il letto della madre e i loro letti.
Hanno tenuto anche il letto del padre, anche se non c’è
da aspettarsi un suo ritorno.
I medici si sono pronunciati sulla sua follia.
È una follia che si aggrappa, che s’incolla al cervello,
che ostruisce il pensiero e impedisce ogni scappatoia. Ci
vorrà del tempo per vincerla, sempre se sarà possibile. Il
mondo del padre è separato dal mondo degli altri uomini
da una lama gigantesca che squarta e sgozza. È l’immagine
che ha usato il direttore psichiatrico, che si considera anche poeta.
Ciò che taglia non ha mai spaventato le due sorelle.
Ciò che taglia le attira quanto ciò che accarezza, o grattugia, o spezza, o schiaccia, o stringe.
Di comune accordo, le due sorelle preferiscono tacere
di fronte allo psichiatra-poeta seduto su un fiocco di neve
gigante a forma di sedia. Lo psichiatra-poeta non manca
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di fascino sul suo fiocco. Parla, somma le frasi, sciorina
spiegazioni, e anche immagini. Chiacchierando, accarezza con lo sguardo i mobili del suo studio. Un arredamento opposto rispetto a quello che le sorelle conoscono. Stile
dada, dice lo psichiatra-poeta quando nota l’effetto che
l’arredamento esercita sulle due sorelle. Almeno, da lui,
c’è un buon odore, un profumo di inizio autunno che arriva dal fiume: misto di bosso e di rocce umide. Con voce
cantilenante le due sorelle lasciano lo psichiatra-poeta a
splendere tra le sue formule e i suoi nuovi astri.
*
Quasi tutte le camere rimangono vuote. La casa è vecchia e veramente troppo grande. È un vuoto benevolo. Le
due sorelle hanno tolto le porte delle camere e le hanno
appoggiate, a volte in un equilibrio precario, contro le
pareti. Se accade che una porta o l’altra si schianti a terra,
una piccola nuvola di polvere si solleva. Un po’ dappertutto nella casa, lembi interi di carta da parati si sono
scollati. Le due sorelle possono, tutte nude, infilarsi tra il
muro e la carta da parati. Sono quelli i luoghi che preferiscono. Perché non uscire così, non percorrere le strade dei
negozi, attraversare i parchi pubblici, sedersi alle fermate
degli autobus o sulle terrazze dei caffè?
Accade che sottili polveri di gesso le facciano starnutire.
Le due sorelle infilano la testa sott’acqua e si scuotono
come cagnolini. Amano l’odore dell’acqua sulle assi del
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pavimento, amano le macchie che l’acqua lascia sul pavimento, come un cielo a rovescio, un’eternità sulla quale
saltano a piedi uniti. Le due sorelle hanno uno specchio
sbrecciato agli angoli che spostano spesso. Lo lasciano
per terra, qui o là, o addossato a una parete. Da piccole,
quando la madre gli regalava un vestito, o un accessorio,
un fermaglio o una fascia, orecchini o collane, lo indossavano subito e correvano allo specchio per, come dicevano
loro, far vedere allo specchio se gli stava bene, se le rendeva
più belle. La madre adorava quell’espressione, far vedere
allo specchio, la ripeteva sorridendo, stringeva le figlie tra
le braccia, diceva che quella era la felicità, ascoltare le sue
bambine e abbracciarle. Le due sorelle hanno quattro maschere: alla prima manca la bocca, alla seconda gli occhi,
alla terza il naso, alla quarta le orecchie. Hanno un ombrello rosa che rimane aperto dov’è. Se piove non usano
mai l’ombrello rosa, piuttosto un cappuccio, o qualunque altra cosa. Le due sorelle hanno delle cornici vuote e
due chiodi d’oro, hanno dei pezzetti d’ambra e di mirra
conservate in delle scatole di resina di un bel colore arancio, hanno anche - prigioniera dentro una bottiglia - una
piccola ballerina con un vestito rosso e a sbuffo disseminato di stelle, una ballerina che gira su un piedistallo se
si carica il meccanismo nascosto sotto la bottiglia, hanno
dei guanti da cucina di tutti i colori, pieni d’acqua e attaccati a un filo con degli acchiappini, hanno dei sacchi
di juta vuoti che profumano di caffè e sui quali è scritto, in lettere maiuscole e con inchiostro marrone: Cuba,
Guatemala, Venezuela. C’è da temere che abbiano altri
oggetti ancora, molti altri.
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