Il vescovo del deserto

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Il vescovo del deserto
Il Vescovo del deserto
Intervista a mons. Claude Rault, vescovo a Laghouat-Ghardaia in Algeria
Quando gli chiedono cosa fa un vescovo di 150 anime in una diocesi di 2 milioni di kmq e 4 milioni
di abitanti, quella di Laghouat-Ghardaia in Algeria, mons. Claude Rault sorride e dice: “Fa come il
granellino di senape”.
Parla, e le sue parole trasudano di Vangelo. Racconta di cristiani in minoranza, di amicizia con i
musulmani, di urgenza della testimonianza nei luoghi del quotidiano, di libertà di coscienza e di
responsabilità. Di passaggio in Italia nelle scorse settimane, si è fermato a Treviso dove ha potuto
condividere la sua esperienza di sacerdote e di pastore in terra africana.
Mons. Claude Rault è il vescovo di una delle più grandi diocesi al mondo nell'Algeria del sud, terza
per dimensioni dopo le due siberiane, e della più piccola al mondo per numero di cristiani.
TRACCE DELLA SUA STORIA: IL LAVORO LUOGO DI INCONTRO E DI TESTIMONIANZA
Padre Bianco, francese d'origine algerino d'adozione, punto di riferimento per l’associazione
“famiglia spirituale del Beato Charles de Foucauld”. E' arrivato ad Algeri nel 1970 mentre il Paese,
appena raggiunta l'indipendenza, stava intraprendendo il suo percorso di ricostruzione e di
crescita. “La Chiesa era evidentemente molto sensibile a sostenere la sviluppo umano, civile,
culturale, dopo 130 anni di colonizzazione”. In quegli anni mons. Claude Rault ha assunto l'incarico
di direttore di un centro di formazione professionale: “Non avevo competenze specifiche in
materia, non ero preparato. Tuttavia - prosegue - nella vita è l'urgenza che fa la competenza e la
responsabilità è la risposta ai bisogni immediati che ci vengono davanti agli occhi”. Così, tra le
altre cose, si è messo ad approfondire la cultura del Paese che lo stava ospitando e a studiare
l'arabo perché non si possono stringere relazioni cordiali e di amicizia se non si parla la lingua del
posto. “Quando nel 1975 i centri di formazione professionale vennero nazionalizzati, cercai lavoro
come insegnante statale. Ero l'unico cristiano tra tutti i giovani docenti musulmani. Con loro ho
stretto significativi legami di affetto, che ancora oggi mi accompagnano”. Non esita, mons. Rault, a
ribadirlo: “Il lavoro è uno dei luoghi privilegiati di incontro e di convivialità con l'altro, in cui dare
testimonianza della propria fede e del proprio essere cristiani senza doverlo per forza esplicitare
a parole e provando a costruire relazioni cordiali con il mondo musulmano”. Tra le esperienze
lavorative del Vescovo, c'è anche quella di operaio presso un artigiano che produceva vassoi in
rame. “Prima ero insegnante, poi sono diventato alunno; garzone di bottega” per imparare il
mestiere. Mons. Rault ricorda questo periodo come un tempo propizio per la sua formazione
umana: “Devo ai miei colleghi algerini di aver imparato ad essere uomo tra di loro, un po' come
Gesù a Nazareth, prima del suo ministero pubblico. Sempre – ribadisce – mi sono sentito rispettato
nella mia fede”. Dopo alcune missioni in Svizzera e in Burkina Faso, nel '97 è diventato vicario
generale della diocesi di Laghouat-Ghardaia e nel '99 provinciale dei Padri Bianchi in Algeria e
Tunisia. “Nel 2004 una mitra mi è caduta sulla testa. Non mi sono fatto male - assicura -. Ho avuto
la Grazia, come Vescovo, di guidare una diocesi dove conosco tutti, per nome”.
150 CRISTIANI IN 4 MILIONI DI ABITANTI
Come si vive, allora, da cristiani in minoranza nell'Algeria di oggi? “Come testimoni autentici di
Gesù e della buona novella nella propria quotidianità. Così ci ha insegnato Charles de Foucauld:
essere umilmente una pagina vivente del Vangelo ed una presenza viva del Signore in mezzo al
popolo. E' importante per noi stare qui a Laghouat-Ghardaia per testimoniare il Vangelo,
riconoscere i segni del Regno di Dio nelle persone che incontrano Gesù, celebrare le meraviglie che
lo Spirito opera anche in chi non conosce il Signore ma ascolta la propria coscienza ed agisce di
conseguenza. L'essenziale, dunque, non è “fare numero” ma riuscire a ridurre sempre di più la
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distanza tra ciò che predichiamo e ciò che viviamo”.
“In Algeria - prosegue ancora mons. Rault - proviamo a dimostrare che è possibile costruire solidi
legami di amicizia fra cristiani e musulmani”. Esita il Vescovo a definire questo cristianesimo
“adulto”, piuttosto pensa “che non ci sia altra scelta”. Sottolinea che “è la strada tracciata dai fatti e
dallo Spirito Santo”. Del resto, non si tratta di un cammino costruito dall'uomo ma di un percorso
donato, nella radicalità che caratterizza chi vive in minoranza”.
Tuttavia, il pensiero comune, qui in Italia, è che l'Algeria sia ancora un Paese pericoloso per i
cristiani; tanti conoscono cosa accadde nel '96 ai 7 monaci trappisti di Tibhrine, non fosse altro che
per il successo del film “Uomini di Dio” che conquistò Cannes nel 2010. “Si corrono maggiori rischi,
oggi, a camminare per le vie di Roma che ad attraversare il deserto – precisa mons. Rault -. I fatti
dei monaci uccisi dai terroristi risalgono ad oltre 16 anni fa. Tra il '90 e il '97 sono morte in modo
violento oltre 150 mila persone in Algeria, 19 membri della Chiesa sono stati assassinati, 93 imam
che avevano parlato contro la violenza islamista, 70 giornalisti che si erano opposti al terrorismo.
Da allora le cose sono molto cambiate, ma non c'è dubbio che a soffrire di più sia stato il popolo
algerino. In qualsiasi caso – conclude su questo punto il vescovo - io preferisco sapere in che modo
e perché quei monaci hanno vissuto in mezzo ai musulmani, piuttosto che come sono morti”.
AMICI MUSULMANI
A questo proposito aggiunge: “L'Islam troppo spesso è mal rappresentato e scarsamente
conosciuto nel mondo occidentale, se non nella sua forma deformata del fondamentalismo. La
nostra esperienza in Algeria, lo voglio ribadire chiaramente, è quella di una piccola chiesa
accettata, accolta e rispettata”.
Mons. Rault non ha dubbi: il confronto con i fedeli musulmani aiuta i cristiani a vivere il proprio
credo religioso: “La loro testimonianza della preghiera è per noi motivo di riflessione; l'importanza
dell'elemosina ai poveri ci interroga sulla nostra effettiva carità. Certo, nella professione di fede
molto ci divide; è evidente che il punto di incontro non può essere a questo livello”.
“Cerchiamo piuttosto di costruire legami di amicizia e fraternità, dimostrando così al mondo che la
convivialità è la base di ogni dialogo interreligioso”. Questo significa, molto semplicemente,
salutare quando ci si incontra, conoscere le date delle feste musulmane, coltivare relazioni cordiali,
scrivere una lettera di buon augurio nelle occasioni importanti.... imparare a vivere insieme,
insomma. “Dipende solo da noi che la vita, qui, sia un luogo di amicizia o un vero inferno. Noi
siamo oggi condotti – a volte condannati – a vivere insieme. Dobbiamo convertire questa
condanna in una felice occasione di umanità plurale”. Il dialogo interreligioso, sostiene il Vescovo,
deve promuovere un cammino di condivisione spirituale, dove ad unirci è l'interiorità e non il
dogma. Nel rispetto, nella reciproca conoscenza, nell'accoglienza di ciascuno.
CHARLES DE FOUCAULD E IL SAHARA
Per mons. Rault è impossibile parlare della sua esperienza in terra di Algeria e non riferirsi spesso a
Charles de Foucauld: “E' una grande gioia e una grande responsabilità essere vescovo nei luoghi
che lui ha conosciuto ed amato, perchè la vita di fratel Carlo e la sua esperienza hanno segnato
profondamente questa nostra chiesa d'Algeria”.
1. Imparare dall'altro.
Chi conosce le vicende della vita di Charles de Foucauld sa bene che è stato l'incontro con i fratelli
musulmani ad interrogarlo sul senso della propria vita, già fin dai tempi delle sue avventure in
Marocco. Nelle lettere racconta quale forte impressione lo aveva colpito vedendo i musulmani
pregare e riconoscendo l'intimo abbandono a Dio di cui sono capaci. Sono stati loro, di fatto, ad
averlo riportato alla fede in Cristo, persa nel tempo dell'infanzia.
“Capite come per noi, piccola chiesa del Sahara, è fondamentale ancora oggi abitare in mezzo ad
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un popolo che prega e vive in profondità la propria fede”. Per lungo tempo fratel Carlo ha vissuto
da nomade spirituale, alla ricerca di Cristo nei poveri: in Siria, a Nazaret, in Marocco... Anni che,
senza alcun dubbio, hanno preparato il suo incontro con l'Algeria e con il Sahara.
2. Vicino agli ultimi, senza finire mai
“Il secondo aspetto che ci interpella è la scelta di Charles de Foucauld di spingersi nel deserto, non
tanto per vivere da eremita e fuggire il mondo, ma per incontrare i più lontani, fossero essi gli
schiavi, i soldati francesi di stanza in Algeria, i nomadi tuareg.... In 50 anni di vita 15 li ha passati nel
Sahara; è evidente che il suo legame con l'Africa è molto solido. Dopo essersi reso conto che la sua
idea iniziale, battezzare e fare catechesi, era pressoché improponibile – prosegue Mons. Rault –
capì che l'importante era la presenza eucaristica tra quella gente, cioè la possibilità come prete di
portare Cristo eucarestia a tutti”. Ha condiviso il popolo tuareg la propria vita e se stesso, arrivando
a comprendere che, nelle circostanze in cui si trovava, il Signore continuava ad arrivare a lui
attraverso gli altri, in questo caso i fratelli musulmani.
Charles de Foucauld ha imparato la lingua tuareg (nel 1916, poco prima di essere ucciso, riuscì a
terminare il dizionario redatto a mano in 4 enormi volumi); ha conosciuto profondamente la loro
cultura (si è impegnato a mettere per iscritto oltre 6.000 versi di poesie che raccontavano
l'esaltazione di un cammello, un sogno, il desiderio di riabbracciare la propria bella dopo la
battaglia; insomma, tutt'altro che mistiche).
Benché lo abbia sempre cercato, non ha mai trovato l'ultimo posto, perché in quell’ultimo posto
sempre incontrava Gesù.
3. Il Signore si fa eucarestia nel povero.
La radicalità di fratel Carlo è sconvolgente: ad un certo punto, racconta mons. Rault, i Padri Bianchi
gli affiancarono un altro sacerdote “ E' quasi morto di fame... Probabilmente Charles de Foucauld
non se ne rendeva conto, ma vivere con lui era quasi impossibile”. E' stato un uomo attaccato a
Gesù, un discepolo fedele, mai scoraggiato nonostante i momenti difficili siano stati molti.
“Quando a Tamarasset non rimase nemmeno un cristiano – i soldati francesi di stanza lì furono
richiamati in Patria – non potè più celebrare l'eucarestia. Rimase mesi e mesi senza. Fu in quel
periodo che capì, in modo ancora più profondo e radicale, che il Corpo di Cristo era l'altro che gli
veniva incontro. Questo è il sacramento del povero. E si accorse anche che oltre alla predicazione
c'è un altro apostolato, quello della bontà. Ha voluto bene agli amici musulmani con cui ha
vissuto. E' evidentemente fratello universale”.
“Noi a Laghouat-Ghardaia siamo impregnati di Charles de Foucauld, non potrebbe essere
altrimenti. Come lui, cerchiamo di metterci alla scuola delle persone che ci accolgono, di essere
uomini e donne di comunicazione e relazione. Per questo le tre caratteristiche che la chiesa del
Sahara cerca di vivere sono la contemplazione, la cultura e la carità”. Dimensioni che hanno
segnato la vita di Gesù, di fratel Carlo, della comunità di 150 anime di Laghouat-Ghardaia.
Francesca Gagno
* Si ringrazia la comunità delle Discepole del Vangelo di Treviso per la gentile concessione del testo
dell’intervista.
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