riassunto cap. XXXVII

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riassunto cap. XXXVII
I promessi sposi – Capitolo XXXVII
La pioggia purificatrice
Appena Renzo si trova fuori del lazzaretto, cominciano a cadere goccioloni «radi e impetuosi», che si
trasformano ben presto in una pioggia battente .
Il giovane ci sguazza felice, camminando senza preoccuparsi di come o dove passerà la notte; tutto preso dal
pensiero che Lucia è ormai sua, rievoca l’angoscia con la quale aveva percorso la medesima strada la
mattina e il giorno avanti, lo sconforto dell’inutile ricerca tra i convalescenti della processione, l’odio ormai
scomparso per don Rodrigo. Sulla sera arriva a Sesto e compra due pani; «uno in tasca e l’altro alla bocca, e
avanti». A Monza e già nott: tuttavia riesce a trovare la strada giusta. L’accidentato percorso notturno,
accompagnato da ricordi e sogni, tornerà spesso nei racconti avvenire di Renzo: racconti che - osserva il
narratore - anche l’anonimo deve aver ascoltato dalla sua voce.
Renzo dall’amico, da Agnese, da Bortolo
All’alba la pioggia è divenuta un’acquerugiola fine; il «viaggiatore» si trova sulla riva dell’Adda e rivede,
con gran consolazione, il Resegone e i luoghi a lui noti e cari. È a Pescate; costeggia l’ultimo tratto del
fiume, passa il ponte ed è subito a casa dell’amico ospitale. Gli comunica tutto eccitato la lieta notizia; poi,
riscaldandosi al fuoco, si cambia gli abiti zuppi e infangati e si rifocilla con la «buona polenta» che l’amico
ha prontamente preparato. Per tutta la giornata, mentre dà una mano per i preparativi dell’imminente
vendemmia, racconta senza stancarsi le sue esperienze milanesi. Il giorno dopo, all’alba, parte per Pasturo,
dove si trova Agnese.
Nel paese gli è «insegnata» una casuccia isolata. Agnese si affaccia alla finestra ed egli previene ogni sua
domanda con notizie consolanti: «Lucia è guarita: l’ho veduta ierlaltro; vi saluta; verrà presto». Agnese
vorrebbe precipitarsi ad aprirgli, ma Renzo si è fatto cauto: «Aspettate e la peste?». La donna gli indica
allora un orto dietro casa, dove sono due panche una in faccia all’altra: il luogo ideale per parlare senza
pericolo di contagio. La conversazione è, come si può immaginare, animatissima: è tutto un «esclamare», un
«condolersi», un «rallegrarsi»: si parla di don Rodrigo e di fra Cristoforo, si avanzano progetti, come quello
di andare a vivere tutti insieme nel Bergamasco, dove Renzo è già avviato bene nel lavoro. Appena cessato il
pericolo della peste, Agnese tornerà al suo paese ad aspettare Lucia; i cinquanta scudi che Renzo aveva a
suo tempo ricevuto serviranno per metter su casa.
Renzo, lieto di aver trovato Agnese «sana e salva», torna a casa dell’amico. La mattina dopo, di buon’ora,
parte verso il paese adottivo. Qui trova Bortolo in buona salute e fiducioso: il male ha infatti perso la sua
virulenza e si manifesta al più con febbriciattole o con qualche «piccol bubbone scolorito»; la gente
comincia a uscire, «a farsi a vicenda condoglianze e congratulazioni»; si parla già di «ravviare i lavori».
Renzo trova casa e l’arreda, «chè tutto era a buon mercato, essendoci molta più roba che gente che la
comprassero».
Dopo alcuni giorni Agnese, accompagnata da Renzo, torna al paese e trova la casa come l’aveva lasciata:
questa volta, pensa, «avevan fatto la guardia gli angioli». Si mette subito in faccende per ospitare in modo
decoroso la mercantessa; poi va in cerca di seta, «e lavorando ingannava il tempo». Renzo, dal canto suo,
aiuta l’amico a coltivare il podere, e dissoda l’orticello di Agnese; del proprio, troppo inselvatichito, non si
cura. Il bando è ormai cosa passata: i decreti, se non colpivano subito, rimanevano senza effetto «come palle
di schioppo che, se non fanno colpo, restano in terra dove non danno fastidio a nessuno».
Ma come se la passa Renzo con don Abbondio? Si evitano a vicenda, per diversi motivi: don Abbondio
perché non vuol «sentire intonar qualcosa di matrimonio»; Renzo perché non vuole parlarne finché non sia
giunto il momento. «Le sue chiacchiere le faceva con Agnese», e sempre sullo stesso argomento: il ritorno
tanto atteso di Lucia.
Le vicende di alcuni personaggi
La ragazza nel frattempo è uscita dal lazzeretto insieme con la mercantessa, e nella casa di questa ha
trascorso la quarantena, preparando il corredo. A questo punto il narratore, benché voglia assecondare il
lettore nella sua fretta di arrivare in fondo al libro, non può passare sotto silenzio tre cose. Dalla mercantessa
Lucia aveva avuto «la chiave di molti misteri» su Gertrude: la monaca, trasferita per ordine del cardinale in
un monastero di Milano perché colpevole «d’atrocissimi fatti», «dopo molto infuriare e dibattersi» si era
ravveduta e viveva in un supplizio volontario e feroce. Dai cappuccini del lazzeretto Lucia aveva appreso
«con più dolore che maraviglia» la morte per peste di fra Cristoforo. Era venuta poi a sapere che anche
donna Prassede e don Ferrante erano morti. «Di donna Prassede, quando si dice che era morta, è detto tutto»;
per don Ferrante, trattandosi di un dotto, l’anonimo ha creduto opportuno dilungarsi un po’ di più.
Don Ferrante era stato «uno de’ più risoluti» a negare la peste. «In rerum natura», diceva, rifacendosi alla
sua «scienza» aristotelica, si trovano solo le «sostanze» (ciò che esiste di per sé) e gli «accidenti» (cioè gli
elementi contingenti e variabili). Ma la peste non rientra in nessuna di queste due categorie; non è sostanza
né semplice né composta («e questo contagio, chi l’ha veduto? chi l’ha toccato?»). Non è accidente: «un
accidente non può passar da un soggetto all’altro». Quindi il contagio non esiste. La vera cagione, secondo
don Ferrante, di quel «male terribile e generale» risiedeva negli astri, in «quella fatale congiunzione di
Saturno con Giove»: inutile combattere contro i corpi celesti e affannarsi a bruciar roba infetta: «Povera
gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?». Così don Ferrante, disdegnando ogni precauzione contro la
peste, era morto «prendendosela con le stelle». E la sua libreria è forse ancora dispersa per le bancarelle di
libri vecchi.