Qua - Cloridrato di Sviluppina

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Qua - Cloridrato di Sviluppina
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Satana ne ha le palle piene
Il telefono mi sorprende assetato, a metà strada tra il
divano e il frigo. Scelte di vita alle quattro del mattino:
non il mio genere. Mi trascino al frigidaire mentre Sirio
continua a vociare driiiiin. Lo lascio fare. Prendo una
Guinness dal primo ripiano in alto, richiudo il ghiacciogeno, verso la Guinness in un bicchiere acconcio e butto
la lattina vuota nella pattumiera sotto al lavello. Quando
torno al divano siamo dalle parti del trentacinquesimo
squillo. Mi tocca rispondere.
– Questa è la segreteria telefonica dell’Inferno: lasciate pure recapito e numero di conto corrente e vi faremo
sapere se la vostra anima è marcia abbastanza per le Nostre esigenze.
– Sei il solito coglione, – modula una voce femminile
tutt’altro che divertita all’altro capo del telefono.
– Uhm… sì, non è mica una novità! Comunque tu saresti?
– Dài, non indovini?
– No, – e chiudo la comunicazione con un beep sommesso.
Detesto questo tipo di quiz: se hai tempo da perdere
tra indovinelli e conseguenti risatine idiote vuol dire che
non hai nulla di davvero urgente da raccontarmi. E se le cose stanno così, perché cazzo mi telefoni alle quattro del
mattino?
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favorevole glielo propongo. Almeno la smetterà di fare
commenti idioti sul mio pisellino. O li farà a ragion veduta, che è lo stesso.
– Sei solo in casa? – domanda sempre con questo tono
serioso che mal si addice alle quattro di un sabato mattina (non che andrebbe bene per le quattro di un giovedì
mattina, ma insomma).
– Sì, che succede? Hai di nuovo rimorchiato un ragazzino in discoteca e non sai dove portarlo?
– Elio è successo una volta sola cazzo, vuoi continuare
a rinfacciarmelo per tutta la vita?
– No, solo fino a quando non ti avrò vista sposata, con
un bel posto in banca e tre o quattro mocciosi che ti frignano intorno.
– Quindi per sempre.
– Be’, dipende da te. Forza, dimmi che vuoi.
Sembra imbarazzata, cerca le parole.
– Ehm… io sono in piazza, con un amico. Ti dispiace
se veniamo lì?
– Amico? Lì? E a far cosa?
– Non te lo posso dire Elio, non al telefono.
– Guarda che la linea è pulita, la controllo personalmente due volte alla settimana. Deve ancora nascere la Telecom che mi fotte…
– Non è quello: preferisco dirtelo di persona, okay?
– Zina, guarda che se è una cosa di sesso strano non sono proprio in vena.
– Niente sesso, stai tranquillo. Tra mezz’ora siamo lì,
okay?
– Okay.
Accendo lo stereo, infilo le cuffie, cerco The Dark Side
of the Moon nel changer, lo faccio partire. La tv davanti al
Mi sdraio di nuovo sul divano appoggiandomi la cornetta sul petto: so che richiamerà, è una strategia collaudata mille volte. Sorseggio la mia adorata Guinness: da
una settimana non mi nutro che di lei e di qualche sofficino Findus riscaldato nel microonde. Formaggio e spinaci, principalmente, ma anche formaggio e pomodoro. Una
volta formaggio e funghi. Per la gioia del mio epatologo.
Come da previsioni, il telefono trilla, anzi beeppa o insomma, fa un rumore che è l’equivalente post-moderno di
uno squillo.
– Questa continua a essere la segreteria telefonica di
prima, tu sei sempre in vena di indovinelli?
– Elio, sei il solito coglione, – ribadisce la sconosciuta
che dopotutto tanto sconosciuta non deve essere.
– Guarda che di questo passo hai solo un’altra battuta
e poi mi tocca di chiudere il telefono da capo…
– Sono Zina, okay? Com’è che dopo dieci anni di telefonate ancora non riconosci la mia voce?
– Non saprei… sarà che hai una voce completamente insignificante?
– L’equivalente audio del tuo pisellino?
– Zina, tu il mio pisellino lo puoi vedere al massimo in
foto. Pagando.
– Per fortuna!
– Già, su questo siamo d’accordo.
Il problema con la mia amica Zina è che ci frequentiamo da quando facevamo il liceo e non siamo mai stati a
letto insieme. Questo ci ha resi inevitabilmente acidi l’uno
nei confronti dell’altra. Il principio è quello antico e un
po’ frusto della volpe e dell’uva: quello che non puoi avere, denigralo. Che poi mica lo so di preciso perché non siamo mai stati a letto insieme: forse dovremmo farlo. Anzi,
mi sa che la prossima volta che si presenta un’occasione
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mio naso sputa documentari di fisica nucleare, del tipo:
«Come hanno fatto a far stare insieme i pezzi della prima
bomba atomica Eistein, Fermi, Oppenheimer & soci?» oppure: «Per quale motivo questo pianeta non si spacca in
due come un cocomero?»* Sparo il cd a tutto volume: è il
genere di cose che viaggia a braccetto con la Guinness,
amiche misteriose che ti telefonano nel bel mezzo di una
notte insonne di agosto, fegato ingrossato, alito pesante.
È l’inizio del millennio che mi sta distruggendo, penso:
tutto il peso di mille anni di miserie umane che precipita improvvisamente sulle mie spalle, sul mio stomaco in perenne
acidosi, sulle mie palpebre venuzzate di rossa compassione
per il mondo. Vorrei essere una zucchina come quella che
intravedo mezza affettata sul ripiano della cucina, nella luce tenue che promana dalla cappa di aspirazione. «Essere
una zucchina», una zucchina curva e sensuale che si sveglia
dimezzata da un sonno uguale a ogni altro, senza dolore,
senza tristezza dell’abbandono, senza vera morte. A volte
ho l’impressione di essere il mio miglior pubblico: chi altri
potrebbe capire il senso di essere una zucchina?
Se fossi uno scrittore una notte così la passerei a scrivere, penso, e si illumina il telefonino. Sono nel bel mezzo di
Us and Them, seconda del lato B, quando ancora esistevano cose sensate come i lati B. Ora è semplicemente la traccia numero 6, che non è la stessa cosa, ma comunque. Mi
tolgo la cuffia gettandola sul pavimento e rispondo.
– Pronto?
– Allora, mi vieni ad aprire coglione? È mezz’ora che
suono!
* Non tutti lo sanno ma la pazzia è una malattia venerea, si attacca col sesso e dopo non si può guarire più: una volta che hai fatto l’amore con una pazza una parte della sua follia rimane in te per sempre, come un sifiloma primario vituale nel cervello.
Solo che gli antibiotici non servono a nulla. Non c’è tetraciclina che regga, te la sei presa e te la tieni.
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– Arrivo! – sorrido tra me e me. Sono decisamente il
mio miglior pubblico.
Il tizio che Zina mi presenta come amico suo non promette granché bene. Sui trenta, capelli lunghi e neri, sembra un dark. Ci metto un po’ a realizzare: sono – diomio
– devono essere almeno quindici anni che non vedo una
cosa come un dark muoversi libero nel mondo delle cose
che sono. A parte Robert Smith, intendo dire, ma Robert
Smith è un cantante rock, non è come se le regole del vivere comune fossero applicabili anche a lui.
– Ciao, mi chiamo Seth, – esordisce l’amico sfoderando un sorriso dentierato e ben disinfettato a forza di Tartar-Killer 5.0. Poi prosegue:
– Zina mi ha parlato tanto di te.
Grazie Zina, grazie tante davvero: invece di farmi un
po’ di sana pubblicità presso il numero irrazionale di figone da urlo che conosci, parli tanto di me con un tizio del
genere. Grazie ancora. Me ne ricorderò per il tuo compleanno, giuro. Credo che ti regalerò un ramarro morto.
Morto da molto tempo.
– E di me ti avrà detto ogni bene, immagino –. Sorrido di circostanza o forse solo in preda a raptus ridens.
Il raptus ridens è quello che irrimediabilmente provo davanti a qualunque cosa nuova, ad esempio: assenza di mendicanti rom al semaforo, un ristorante in cui non si paga
il coperto, gli Smashing Pumpkins che si riuniscono e fanno un disco reggae. Oppure scoprire che la strada che faccio tutti i giorni da dieci anni per andare a comprare il giornale è diventata nottetempo un senso unico nel senso op-
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posto a quello in cui la faccio io. Tuttora. Mi attraversa un
leggero brivido ogni volta che ci penso. Cose come queste, cose nuove: e dato che alla fine morirò comunque, tanto vale mantenere la capacità di stupirsi, no?
– I bicchieri sono al solito posto?
– Certo, nel mobiletto del bagno, terzo ripiano…
– Nel bagno?
– Scherzo. Sono nella credenza, come al solito.
– Te l’hanno mai detto che sei proprio un tipo simpatico?
– Uhm… sì, un sacco di volte.
– Be’… mentivano.
La vedo pescare dal fondo del freezer la bottiglia di Absolut che tengo in serbo per le grandi occasioni. Zina sa
veramente tutto di me. A volte credo che sappia troppo.
– Hai qualcosa da bere? – mi distrae Zina accendendosi una sigaretta.
– Praticamente ho solo qualcosa da bere, a meno che tu
non abbia voglia di sofficini… – le indico il frigorifero. –
Serviti.
– Okay, – ripete, – tu hai capito chi sono io, vero?
– Francamente no, ma se vuoi posso tirare a indovinare… vediamo: sei la reincarnazione del Mahatma Gandhi
salvo i capelli lunghi e una spiccata propensione per la violenza?
Un vago imbarazzo compare sul viso di Zina. Il tizio,
Seth, mi guarda con occhi vuoti e duri allo stesso tempo,
taglienti come lamette.
– Davvero non hai un’idea di che cosa sono?
– Che cosa? Pensavo tu fossi una persona, o almeno
qualcosa di imparentato abbastanza da vicino con una persona, un carabiniere per esempio.
A volte so essere davvero scostante, lo so, ma è più forte di me. Mi piace mettere alla prova le persone.
– Smettila Elio, – interviene Zina, – Seth è venuto qui
per farti una proposta.
Come suo solito Zina prende in mano la situazione.
Trangugia quello che resta della vodka, appoggia rumorosamente il bicchiere sul tavolino e sputa:
– Okay, smettiamola.
Poi, tutto d’un fiato:
– Elio, il succo di questa visita è il seguente: Seth è il
Diavolo, tu sei un’anima interessante, se ti interessa l’affare
si può fare.
Vacca boia, questo sì che è parlare. Se tutti facessero
così il mondo sarebbe un posto splendido in cui vivere e
io potrei finalmente smetterla di fingere di essere questo
tizio molto ubriaco che sembra non sorprendersi di nulla
ma in realtà si sorprende di nulla.
Silenzio.
Lo interrompo io.
– Okay, – finisco a mia volta la vodka. – E io che ci
guadagno?
Ci sediamo intorno al tavolino, ciascuno con il suo bicchiere di vodka in mano. Ciascuno evidentemente avido del
cervello degli altri, ciascuno in attesa della prima mossa.
– Okay… se mi volete spiegare qualcosa io sarei… ehm,
pronto? – li invito.
Seth prende la parola: – Okay –. Pausa.
Uno che fa una pausa dopo aver detto semplicemente
«Okay» andrebbe giustiziato sul posto senza processo. Ci
dovrebbero essere leggi per questo.
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sione indecifrabile delle sue. Da brava mediatrice, vuol
star fuori dal negoziato fino a che non si parla della sua
percentuale. E chissà poi qual è la sua percentuale.
– Okay, – mi risponde alla fine, – tranne che per la discografia di Papetti. Non è che uno solo perché è il diavolo può abbassarsi a qualunque livello.
– Mi pare onesto. Discografia completa di Marilyn
Manson autografata da Karol Wojtyla?
– Affare fatto.
Estrae dalla tasca interna della giacca una pergamena
ripiegata a metà, con il sorriso – per nulla dark – del venditore di automobili usate che ha appena piazzato quella
Alfa Romeo dell’86 che dopo duecento metri perderà il tubo di scappamento.
– Hai una penna? – domanda.
– Una penna? Ma queste cose non si dovrebbero firmare tipo… con il sangue?
– Ah no. No. Abbiamo smesso negli anni Ottanta. Sai,
per via dell’Aids…
Zina estrae dalla borsa una stilografica finto-oro e gliela porge senza dire nulla. Lui l’afferra e prende a scribacchiare sulla pergamena.
– Cosa scrivi? – domando educatamente.
– Devo completare i blank: la data, l’ora, il corrispettivo, il nome del venditore… robe così. La burocrazia ci
ammazza all’Inferno. Tu non hai idea del culo che ci fanno quelli del Controllo di Gestione se la documentazione
non è completa.
– Cazzo, anche all’Inferno? Pensavo che fosse il tipo
di problema che hanno le megacorporations, tipo che ne
so… la Microsoft.
– Perché, qual è la differenza?
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– Tu ci guadagni tutto quello che ti pare, basta che tu
chieda, – fa Seth. Sorride aperto, sembra rilassarsi: siamo
in affari.
– Del tipo Porsche nera, segretaria bionda pompinara
a disposizione ventiquattr’ore al giorno e diciamo… una
piantagione di marijuana nell’orto della villa? – domando.
– Facile! – si anima ulteriormente il darkettone. –
Un’intera tenuta di diecimila ettari a marijuana, se vuoi!
Anzi, una foresta di marijuana!
Il fatto è che non saprei che farmene di una foresta di
marijuana. Una foresta? Io ne fumo molta di meno. Abbastanza di meno, in ogni caso.
– Naaa, lascia perdere… non mi interessa, – lo raffreddo.
Sembra prendersela a male e a Zina lancia un’occhiata
eloquentissima che vuole significare «Te l’avevo detto» ma
forse anche solo «Che palle il tuo amico» o «Andiamo da
qualche parte a scopare invece che stare qua a perdere tempo
con questo coglione?» o forse… Okay, non così eloquente, me certamente desiderosa di significare qualcosa. Lo incoraggio, il gioco mi prende, e poi: che altro c’è da fare a
Modena alle quattro del mattino del 13 agosto?
– Senti Seth, non è che voglio deluderti a tutti i costi…
facciamo così: elimina la piantagione di marijuana, teniamo la Porsche, la segretaria bionda pompinara, ci aggiungiamo un permesso per girare in centro con la macchina,
la discografia completa di Fausto Papetti e l’affare si può
fare, okay? – Di nuovo il raptus ridens della novità, a volte mi faccio schifo da solo.
Lui non sembra tanto convinto, forse crede che lo prenda in giro. Con l’indice della mano destra percorre e ripercorre il bordo del bicchiere di vodka ormai vuoto, poi
lancia uno sguardo a Zina che gli risponde con un’espres-
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Finito di compilare il formulario me lo porge insieme
alla penna, senza dire nulla. Sorride solamente. Sorrido a
mia volta. Ma quando ho già appoggiato la penna sul foglio, senza aver ancora versato una sola goccia d’inchiostro, lo prendo in contropiede:
– Senti, mica ti aspetterai che io firmi così, sulla fiducia. Prima me lo vorrai dare uno straccio di prova che sei
veramente il diavolo.
– Un diavolo, non il diavolo, c’è una certa differenza.
In ogni caso la richiesta mi sembra onesta. Cosa posso fare per convincerti? Vuoi che mi faccia spuntare le corna?
Che canti tutta Stairway to Heaven al contrario? Che trasformi l’acqua in Guinness? Cosa?
– Saresti capace di buttarti dall’ultimo del palazzo e poi
tornare qui salendo tranquillamente le scale?
– Quanti piani sono?
– Otto.
– No problem. Usiamo la tua amica come garante?
– Va benissimo.
– Allora facciamo così, – afferra una delle lattine semivuote che sono sul tavolino, – tu firmi e la tua anima si
trasferisce pro tempore nella lattina che consegniamo a Zina. Appena io risalgo dopo il volo dall’ottavo piano lei me
la consegna, io bevo quel po’ che c’è rimasto dentro e l’affare è concluso: la tua anima è mia. Che ne dici?
– Molto rituale come cosa, benché un po’ anticonvenzionale.
– Si vive soprattutto di rituali stupidi in questo business.
– Già, capisco.
Firmo il contratto (per sicurezza col nome di Capezzoni, l’inquilino del piano di sotto che non paga il condomi-
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nio da due anni) e lo consegno a Zina insieme alla lattina.
Lei mi flasha un sorriso aperto come l’Aquafan di Riccione il 7 dicembre e altamente sospetto, ma io sono troppo
curioso di vedere il tizio saltare dall’ottavo piano per farci caso.
Sbuchiamo sul tetto che comincia ad albeggiare: la temperatura è deliziosa, il cielo sgombro di nuvole e ancora
pieno di stelle che il sole va spegnendo a una a una. Condizioni ideali per tentare un volo di ventiquattro metri.
– Allora, pronti? – domanda Seth sfilandosi lo spolverino nero e lasciandolo cadere a terra –io mi butto!
– Non aspetto altro, – gli rispondo.
– Fagli vedere, – lo incita Zina.
La figura nera si allontana di qualche metro dal basso
parapetto, quello su cui l’assemblea di condominio si scanna da anni perché nessuno vuol tirare fuori i soldi per farlo mettere a norma. Poi parte di corsa, spicca un salto ed
è nel vuoto.
Il fruscio aerodinamico di un corpo che precipita da
quell’altezza non è nulla di emozionante: non è diverso –
per dire – da quello generato da un sacco di patate gettato sull’asfalto da un camion in corsa.
Mi sporgo per controllare: la sagoma nera è là sotto immobile, si direbbe priva di vita.
– Scendo a controllare? – domando a Zina senza girarmi.
– Non credo che serva, – risponde lei e poi si lascia andare a una lunga risata, squillante come non gliene ho mai
sentite fare.
Mi giro appena in tempo per vederla inghiottire l’ultima goccia di Guinness e schiacciare la lattina con due sole dita.
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– Cazzo, – riesco appena a dire.
– Tipo il tuo pisellino o qualcosa di meglio?
– Lascia perdere il mio pisellino, hai appena bevuto la
mia anima, stronza!
– La tua anima è affogata nella Guinness, ciccio.
– Sì, ma adesso viaggia tra il tuo fegato e il tuo piloro!
– Sei tu che hai firmato. Io ci ho solo messo la penna.
E l’iniziativa.
– Ma non ti dispiace un po’ per il tuo amico?
– Amico? Niente amici. Solo clienti.
– Clienti?
Zina si accende una Rothmans sfregando rumorosamente un fiammifero sul muro, aspira una lunga boccata
e poi getta il legnetto incendiato nei pressi del serbatoio
della nafta del gruppo elettrogeno.
– Ma sei scema? Saltiamo per aria tutti e due!
Mi lancio per terra a evitare il disastro, con una mano
arrivo per un pelo a estinguere la fiammella.
Sono ancora per terra intento a sputare e soffiare sul
palmo ustionato quando avverto un rumore veloce di passi alle spalle. Mi giro e in quel momento esatto Zina sta
spiccando a sua volta il salto fatale.
– Ma che cazz…
Troppo tardi, ormai è andata. Mi alzo e mi sporgo per
guardare giù: adesso i corpi sul selciato sono due. Fortuna che è l’alba, mi dico. Altri venti minuti di questa notte e non ne usciva vivo nessuno.
Scendo di nuovo giù in casa, l’orologio digitale rubato
alla stazione delle corriere segna le 6:22. È troppo tardi
per andare a dormire, troppo presto per chiamare qualcuno e raccontargli cosa è successo. E a parte ciò… chi potrei mai chiamare? Una notte così è il genere di argomen-
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ti che uno conserva per il confessore di fiducia. Ad averne uno.
– Padre, mi assolva perché ho tanto peccato, ho venduto l’anima al diavolo. O comunque a un diavolo. O forse a una diavolessa, non ne sono sicuro.
– Certo figliolo, e com’era questo diavolo? Un caprone puzzolente? Un Brad Pitt con l’alito cattivo? Una Naomi Campbell liberata dalla cocaina?
– Veramente assomigliava a Robert Smith dopo sei mesi ad Auschwitz.
– Con il rossetto?
– No, senza –. Pausa. – Ma sul serio il diavolo può avere l’aspetto di una Naomi Campbell liberata dalla cocaina?
– Certo. In effetti molti pensano che non esista nemmeno… comunque, ego te absolvo in nomine…
Mi siedo sul divano e scuoto qualche lattina, nella vana ricerca dell’ultimo goccio di stout della nottata. La zucchina giace più defunta che mai sul tagliere in cucina, The
Dark Side of the Moon continua a girare inascoltato nel
changer. Mi rimetto le cuffie giusto in tempo per il gran
finale: un cuore batte in background e quattro capelloni
cantano felici che tutto sotto il sole sembra apposto, ma poi
il sole viene eclissato dalla luna. Immediatamente dopo consegnano il master alla Emi Records, che ne vende venti
milioni di copie. Non diventano ricchi solo gli ottimisti,
per fortuna.
Mi tasto tra le costole e il fegato, dove ho sempre pensato che la mia anima stesse di casa. Mi sembra che sia tutto apposto. Era pazza – penso – l’ho conosciuta per
vent’anni e non mi sono mai reso conto che era completamente pazza. Fortuna che non l’ho mai scopata, – mi con-
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solo, – e lascio che il changer scivoli verso il prossimo cd.
È Beggars Banquet, dei Rolling Stones.
Nel corso della mattinata, insieme agli altri inquilini
del palazzo, vengo lungamente interrogato da un alquanto confuso commissario della Polizia di Stato. Il solerte
funzionario cerca di ricostruire i motivi del duplice suicidio avvenuto al numero 23 di via Goethe. Gli dico quel
che so, o la parte di quel che so che lui è in grado di comprendere. Se fosse stato il tipo in grado di capire dubito
che avrebbe fatto lo sbirro.
Finalmente, verso mezzogiorno, torno a casa. Mentre
cerco le chiavi del portone, noto una ragazza bionda dalle labbra molto carnose che rovista nella borsa. Ne estrae
un foglietto stropicciato, che legge sottovoce tra sé e sé.
Probabilmente cerca qualcosa, o qualcuno.
Mentre finalmente infilo la chiave nella toppa, mi si avvicina e indica un Carrera 4 nero parcheggiato vicino al
marciapiedi:
– Mi scusi, cerco il proprietario di quell’auto scura lì…
– indica la Porsche, – si chiama… aspetti un attimo, – butta l’occhio al foglietto, – Cape… Capezzoni, ecco, e io sono la sua nuova segretaria.