(prime considerazioni sull`edilizia residenziale sociale come

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(prime considerazioni sull`edilizia residenziale sociale come
LE NUOVE NORME SULL’EDILIZIA PUBBLICO/SOCIALE:
IL SUPERAMENTO DELLE NORMATIVE
DELLA EDILIZIA ECONOMICA E POPOLARE
(prim e consider azioni sull’edilizia residenziale sociale come
standard urbanistico nei commi 258 e 259 dell’art. 1 della Legge
finanziaria 2008 – L. 24.12.2007 n. 244)
di
Benedetto Graziosi
(Avvocato amministrativista del Foro di Bologna)
Sommario: 1.Premessa: edilizia residenziale sociale e edilizia residenziale
pubblica. 2. Equiparazione ex lege agli standards urbanistici ? 3. Una nuova
destinazione di zona .... 4 e suo raffronto con la normati va dei PEEP. 5. La
correlazione con il “valore della trasformazione” e la sua differenza con la
cessione degli standards. 6. L’indice “premiale”: sua natura di compensazione
perequativa e 7 ... sua coessenzialità all’istituto. 8. De-costruzione e integrazione
procedimentale e contenutistica degli Ambiti ERP/S.
1.
La finanziaria, ancora una volta(1), contiene norme urbanistiche che segnano una svolta molto importante negli
stessi principi di diritto urbanistico.
Lo ha fatto con i commi 258 e 259 dell’art. 1 che così dispongono:
258. Fino alla definizione della riforma organica del governo del territorio, in aggiunta alle aree necessarie per
le superfici minime di spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi di cui al
decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e alle relative leggi regionali, negli strumenti
urbanistici sono definiti ambiti la cui trasformazione è subordinata alla cessione gratuita da parte dei proprietari,
singoli o in forma consortile, di aree o immobili da destinare a edilizia residenziale sociale, in rapporto al
fabbisogno locale e in relazione all’entità e al valore della trasformazione. In tali ambiti è possibile prevedere,
inoltre, l’eventuale fornitura di alloggi a canone calmierato, concordato e sociale.
259. Ai fini dell’attuazione di interventi finalizzati alla realizzazione di edilizia residenziale sociale, di rinnovo
urbanistico ed edilizio, di riqualificazione e miglioramento della qualità ambientale degli insediamenti, il comune
può, nell’ambito delle previsioni degli strumenti urbanistici, consentire un aumento di volumetria premiale nei
limiti di incremento massimi della capacità edificatoria prevista per gli ambiti di cui al comma 258.
Le disposizioni si preannunciano come anticipazione della riforma organica della legislazione urbanistica(2),
(1)
Nella stessa finanziaria 2008 vi sono molte altre norme urbanistiche di grande portata come i commi 89
e 90 dell’art. 2 sulla indennità di esproprio, i commi 315-318 sui Programmi Unitari di Valorizzazione, il
comma 289 dell’art. 1 sull’obbligo di installazione di impianti di energia elettrica da fonti rinnovabili.
(2)
I due commi in questione paiono una specie di stralcio di alcune disposizioni dell’art. 9 del D.D.L. 3519
approvato dalla Camera il 28.6.05. Sul punto si vedano le considerazioni svolte alla nota 9.
1
secondo la collaudata prassi delle normative “ponte” – che invariabilmente diventano invece stabili – ma, fin dalla
nomenclatura utilizzata (“edilizia residenziale sociale”) mostra una incertezza e una ambiguità che già
preliminarmente richiedono precisazioni e chiarimenti.
Il primo problema è se con questo termine si vuol far riferimento alla edilizia residenziale pubblica, così come
definita in via legislativa e come intesa da dottrina e giurisprudenza(3).
Sembra inevitabile dare al quesito una risposta positiva. Gli argomenti in questo senso sono testuali e possono
rinvenirsi nell’intero filone normativo che a partire dal T.U. n. 1165 del 1938, e anche prima, dalla legge Luzzatti
del 1903 (31.5.1903 n. 254) identifica il bisogno sociale di edilizia residenziale come presupposto, normativo e
soprattutto procedimentale delle azioni amministrative volte a soddisfare questa esigenza. D’altra parte ipotizzare
l’esistenza di una “edilizia residenziale sociale” parallela ed appaiata alla edilizia residenziale pubblica, ovvero
che ne è una sua species, è privo di senso comune prima ancora che di una specifica base normativa statale(4).
La prima conclusione che si deve quindi trarre è che le norme in esame disciplinano il momento, la fase della
pianificazione/programmazione urbanistica della edilizia residenziale pubblica ed altresì la sua acquisizione alla
mano pubblica.
2.
Dall’esame del meccanismo previsto quanto a questi aspetti si può quindi dedurre se il precedente sistema
normativo è rimasto in vita o se siamo davanti ad una ipotesi di abrogazione virtuale complessiva.
La nuova normativa appare inequivocabilmente ispirata dalla ratio di equiparare le aree od immobili da destinare a
edilizia residenziale sociale/pubblica alle aree per gli standards previsti dal .M. 2.4.1968 n. 1444, o meglio,
dall’art. 17, 8° c. L. 6.8.1967 n. 765. E’ da notare che la norma parla di “obbligatoria cessione gratuita” delle aree
per l’edilizia residenziale pubblica, in tal modo equiparandola agli standards urbanistici, per i quali peraltro né la
legge n. 765/1967 né il D.M. n. 1444/1968 parlavano in verità di cessione gratuita. In effetti la gratuità della
cessione degli standards derivava, nel sistema della L. n. 1150/1942, dall’art. 28, e cioè dal regime degli interventi
urbanistici preventivi convenzionati, valevole, però, di massima, solo per le zone di espansione, assoggettate ad
(3)
Si veda, per tutti, DOMENICHELLI, voce Edilizia Residenziale pubblica in Digesto discipline
pubblicistiche, Milano, 2005, pp. 4 e ss., NIGRO, L’edilizia economica popolare come servizio pubblico,
Rass. Trim. Dir. Pubbl. 1957. La locuzione edilizia residenziale pubblica non ha valore definitorio
preciso, ma è “espressione sintetica che riassume l’insieme delle forme di intervento pubblico
nell’edilizia residenziale, in definitiva tra tipologie di intervento: l’edilizia sovvenzionata, che si sostanzia
nella realizzazione, da parte di soggetti pubblici di alloggi da assegnare in locazione con finanziamenti
integralmente pubblici; l’edilizia agevolata, consistente nelle facilitazioni concesse a soggetti privati e
alle cooperative per l’accesso a mutui edilizi, mediante assunzione da parte dello Stato di una parte
degli interessi; l’edilizia convenzionata che (unita frequentemente alle agevolazioni creditizie) mira alla
realizzazione di alloggi sulla base di convenzioni (di norma) intercorrenti fra il Comune che concede
l’area in diritto di superficie e gli enti o i privati che si impegnano a realizzarvi alloggi da cedere o locare
a certi prezzi e a favore di soggetti aventi determinati requisiti”. L’uso del termine “edilizia sociale” come
equivalente di edilizia residenziale pubblica è risalente: cfr. PALLOTTINO, Edilizia sociale, in Novissimo
Digesto Italiano App. III, 1982, 269 e ss..
(4)
Vale però la pena di segnalare che una semplice prassi pianificatoria – anche qui “in anticipo” di norme
inesistenti – che, esattamente nella prospettiva della disposizione in esame, prevede la cessione
gratuita di aree per “alloggi di edilizia residenziale sociale”. Così anche dispone il Progetto di legge della
Regione Emilia-Romagna di modifica della L. n. 20/2000 (art. 7, art. A-6 bis, ter) con una norma che
parrebbe intervenire indebitamente in una competenza legislativa statale.
2
intervento urbanistico preventivo.
E’ cionondimeno ben noto che nella prassi urbanistica, come pure nella percezione comune degli operatori, la
cessione delle aree standards ex D.M. n. 1444/1968 doveva avvenire a titolo gratuito con ciò intendendosi non
tanto una causa di liberalità, ma la assenza di un corrispettivo, e cioè una causa urbanistica. In questo contesto la
norma in esame sembra voler unificare, sotto l’egida dell’obbligo (onere) di cessione gratuita le “superfici minime
di spazi pubblici destinati ad attività collettive, a verde pubblico e a parcheggi” alle “aree od immobili destinati a
edilizia residenziale pubblica”.
Ne risulta evidentemente ampliato il concetto di standard urbanistico – o, secondo la terminologia in corso di
affermazione nella legislazione regionale – il concetto di dotazione territoriale.
Che si tratti non di un obbligo ma di un onere in senso tecnico-giuridico(5) risulta chiaro dalla formulazione del
meccanismo attuativo: esso consiste nella definizione “di ambiti la cui trasformazione è subordinata alla cessione
gratuita”. Occorre, quindi, che uno strumento urbanistico generale definisca l’ambito di trasformazione che,
fissando i parametri quantitativi, valga come parametro di riferimento all’onere dei proprietari; e occorre poi, di
seguito, uno strumento attuativo che fissi il quadro, sia tecnico-urbanistico che giuridico-convenzionale, per la
realizzazione dei fini previsti dalla norma.
3.
Si può osservare, peraltro, che la norma contiene un riferimento, il “rapporto al fabbisogno locale” che rinvia a
valutazioni di grande scala sia in senso spaziale che in senso diacronico.
Su questo punto la lettura della norma va fatta nel suo contenuto complessivo; essa cioè rende possibile la
previsione di ambiti urbanistici in cui si provvede e si soddisfa, per il tempo prefissato, il fabbisogno locale di
edilizia residenziale pubblico/sociale mediante l’accollo ai proprietari, quale standard specifico in aggiunta a quelli
di urbanizzazione generale, dell’obbligo/onere di cedere senza corrispettivo le aree necessarie.
Concretamente, quindi, i nuovi strumenti urbanistici, all’interno delle varie zonizzazioni (o classificazioni per
“ambiti”, secondo la nuova prassi di uso corrente) prevederanno una classificazione, per così dire, promiscua: aree
con destinazione all’utilizzazione privata, aree da destinare a edilizia residenziale pubblico/sociale, da cedere
gratuitamente al Comune.
Si può pensare che questa scelta possa essere fatta anche in modo non sistematico e cioè per progetti singoli legati
a necessità estemporanee, ma è evidente che, come dianzi osservato, il fabbisogno cui dare risposta deve essere
valutato strutturalmente, come elemento del quadro conoscitivo e dei fini specifici della pianificazione generale.
E’ lecito quindi affermare che la norma in questione, ha figuratamente inserito oltre a quelle previste dal D.M.
1.4.68 n. 1444 una nuova zona che si potrebbe definire E.R.P.(S.) – edilizia residenziale pubblico/sociale – per cui
l’intervento urbanistico preventivo – sempre necessario – è soggetto all’onere della cessione gratuita di aree per
tale fine.
La pianificazione urbanistica generale, quindi, si amplia perché può (deve) ricorrere a una destinazione di zona
(5)
E cioè di un comportamento del soggetto che è libero, ma necessita per la finalità del raggiungimento di
un interesse proprio (cfr. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine formali del diritto Civile, Napoli, 1962, p.
74).
3
che consente di acquisire senza spese, le aree per l’edilizia pubblica.
4.
Raffrontando questa – embrionale – normativa che ha come oggetto specifico le disposizioni concernenti le
acquisizioni di aree per l’edilizia residenziale “sociale”, con il sistema dei piani PEEP di cui alla L. n. 167/1962, si
possono formulare le seguenti osservazioni:
a)
vi è una pressoché totale coincidenza e quindi sovrapposizione quanto al fine dichiarato e agli scopi
perseguibili, e cioè l’acquisizione di aree da destinare, tramite e nel quadro di una previsione urbanistica
“speciale”, ad alloggi di edilizia residenziale pubblica.
Sotto questi aspetti le differenze con i dati normativi testuali precedenti si riducono a ben vedere, alla
definizione formale “Economica e popolare” (utilizzata dal legislatore del 1962) che è da ricollegare al filone
normativo del T.U. 28.4.1938 n. 1161, ma che non ha ulteriore, specifico, valore giuridico.
La legge n. 162 del 1967, aveva il fine specifico di “riportare nel controllo delle autorità urbanistiche locali
la scelta e la provvista delle aree in precedenza lasciate all’unilaterale iniziativa dei costruttori” mediante
un piano di acquisizione di aree, e costituì il primo esempio di necessaria confluenza della edilizia economica
e popolare all’urbanistica(6).
La distinzione tra case economiche e case popolari derivava dalla distinzione contenuta nel T.U. n.
1165/1938 tra alloggi costruiti da alcuni Enti di cui all’art. 16 (Enti pubblici e società cooperative) da
assegnare in locazione o proprietà (“popolari”) ai sensi dell’art. 49, e quelli costruiti sempre dagli Enti di cui
all’art. 16 per essere assegnati solo in locazione, per i quali vigevano dei limiti di superficie (art. 48). La
distinzione è stata superata dalla stessa L. n. 167/1962.
b)
Vi è, invece, una significativa differenza quanto alla concreta disciplina.
In effetti il piano di zona PEEP, configurato dalla legge e poi dalla giurisprudenza come mero strumento
attuativo (piano particolareggiato di iniziativa pubblica) ne scontava il modello contenutistico e procedurale
specifico (art. 6 L. n. 167/1962), comprensivo degli elementi tecnici e di quelli finanziari (artt. 4 e 5 L. n.
167/1962). E costituiva, come si è detto, per certi Comuni (quelli obbligati alla redazione) elemento
costitutivo necessario dello strumento urbanistico generale, cui doveva comunque sempre accedere.
Non solo.
Il piano aveva dei fisiologici termini finali di efficacia (prima 10+2 anni poi prorogati fino a 18+2: art. 10 L.
n. 167/1962 e successive modificazioni fino all’art. 5 L. n. 457/1978), la cui scadenza privava il piano della
possibilità di attuazione coattiva.
La giurisprudenza, come noto, ha sottolineato da una parte la garanzia procedurale, oltre alla necessità della
preesistenza di un vigente strumento urbanistico generale, di cui il PEEP è mera attuazione, dall’altra la
necessità di una istruttoria costituita da adeguate “analisi e ricerche sul fabbisogno” (Cons. Stato, Sez. IV,
(6)
Cfr. per tutti, DOMENICHELLI, Dall’edilizia popolare ed economica all’edilizia residenziale pubblica.
Profili giuridici dell’intervento pubblico, Padova, 1984, p. 173. In giurisprudenza, sulla necessità del
coordinamento “urbanistico” dei PEEP, si veda, da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 22.5.2006 n. 2993.
4
21.11.94 n. 979; ecc. ecc.) e sulla sua correlazione con il dimensionamento (Cons. Stato, Sez. IV, 27.3.1995
n. 190; ecc. ecc.).
Il “nuovo” istituto è, invece de-procedimentalizzato in termini, vuoi formali che sostanziali, tali da creare
problemi sia sistematici che di sua concreta definizione.
Nell’Ambito descritto dalle norme in esame, che si potrà chiamare di “localizzazione di aree per l’edilizia
residenziale pubblico/sociale” non si prevedono limiti né soggettivi né quantitativi (presenti invece nella
Legge n. 167/62, art. 3)(7). La discrezionalità pianificatoria sotto questo profilo, non soggiace a presupposti né
incontra limiti di sorta se non nel principio di adeguatezza e proporzionalità a cui garanzia parrebbe sussistere
il solo presidio dell’onere di motivazione e di correlata previa istruttoria.
Questa grande dilatazione dell’area delle scelte discrezionali non pare del tutto in linea – come si dirà – con
le esigenze fondamentali del principio di legalità, soprattutto se si tiene nel debito conto il contenuto
complessivo della norma che pone alla scelta del Comune un solo ulteriore parametro di congruità delle
cessioni gratuite di aree oltre a quelle del fabbisogno: la “relazione all’entità e al valore della
trasformazione”.
5.
Questo secondo parametro merita un particolare approfondimento.
Essendo l’onere di cessione delle aree quali standard definito espressamente come “gratuito” e cioè senza obbligo
per la Amministrazione di procedere alla espropriazione, la previsione di P.R.G. dell’Ambito in questione non
costituisce vincolo espropriativo, non soggiace a decadenza, non deve essere indennizzato e così via.
Resta quindi da chiedersi perché la norma in questione istituisce una “correlazione” (id est: necessaria
proporzione) tra misura delle aree da cedere gratuitamente e “entità e valore della trasformazione”, e cosa intenda
con quest’ultima locuzione.
Merita di essere sottolineato che questa non è affatto la stessa correlazione che intercorre tra la misura della
cessione degli standards di cui al D.M. 2.4.1968 e l’intervento urbanistico di cui costituiscono il presupposto, che è
un caso in cui la misura – e cioè la proporzione – è data dagli oggettivi carichi urbanistici che debbono essere
“assolti” dalle cessioni, del tutto indipendentemente dai “valori”.
Le due “cessioni gratuite” non sono quindi affatto uguali.
Pare che l’unica interpretazione possibile della locuzione sia quella che l’entità della cessione debba essere
correlata (anche) alla entità del valore della trasformazione della proprietà dei soggetti tenuti alla cessione
gratuita; e ciò secondo, ovviamente, una proporzione diretta: a maggior valore deve corrispondere maggiore
cessione.
Così interpretata, la nuova normativa non sfuggirebbe a gravissimi dubbi di illegittimità costituzionale: il prelievo
patrimoniale imposto – ancorché come onere – a carico del soggetto proprietario di un determinato ambito di
(7)
I primi – soggettivi – riguardavano l’obbligatorietà del piano per i Comuni con più di 500.000 abitanti (art.
1 L. n. 167/1962); i secondi, oggettivi, riguardano la percentuale del fabbisogno complessivo di edilizia
abitativa passibile di soddisfazione con il PEEP (dal 40 al 70% fissato dall’art. 2 L. n. 10/1977).
5
trasformazione sovviene ad un fabbisogno che è, indivisibilmente, dell’intera comunità che pianifica il territorio.
Quel che appare dal tenore testuale della norma, è che le aree per l’edilizia residenziale pubblico/sociale
verrebbero reperite solo negli specifici Ambiti a ciò deputati, e come standard aggiuntivi a carico – esclusivo – dei
proprietari delle aree site in questi ambiti.
La violazione del principio di ragionevolezza nella discriminazione di fattispecie – urbanisticamente e
contributivamente – uguali, è difficilmente contestabile.
Si potrebbe superare la obbiezione ipotizzando che tutti gli ambiti di trasformazione debbono concorrere – in
questo caso, ovviamente, secondo il rispettivo valore della c.d. “rendita fondiaria” – all’onere di cessione delle
aree per – sinteticamente – l’edilizia sociale (in proprietà o convenzionata).
Ma non pare questa la lettera e la ratio della norma; non lo è la lettera ma soprattutto non lo è la ratio, se si
coordina il comma 258 con quello successivo che prevede “l’aumento di volumetria premiale”. L’indice c.d.
“premiale”(8) viene previsto dal comma 259 “ai fini” della attuazione degli interventi finalizzati alla realizzazione
dell’edilizia sociale, “nei limiti di incremento della capacità edificatoria previsti per gli ambiti di cui al comma
258”.
I due commi possono essere letti e interpretati disgiuntamente, in primo luogo come identificativi di due
fattispecie diverse, parallele, di acquisizione di aree, l’una relativa a interventi singoli, estemporanei, simili a quelli
di cui all’art. 51 L. n. 865/1941, l’altra relativa all’edilizia ERP/S programmata nel P.R.G..
Possono invece essere letti e interpretati come un vero e proprio combinato disposto volto a disciplinare il
procedimento di acquisizione delle aree nel contesto di una edilizia sociale pianificata a programmata.
Ci pare preferibile la seconda ipotesi, perché la prima ipotizzerebbe un doppio regime di interventi di ERP/S che
risulta contraddetto dal riferimento, nel corpo del comma 259, alle necessità di un riferimento “alle previsioni
degli strumenti urbanistici”.
Il comma 259 pare, quindi, essere “servente” al disposto del comma 258; ma anche così considerato occorre
chiarirne senso e portata, perché resta ambigua l’attribuzione del surplus di cubatura quanto al beneficiario e alla
sua “causa” urbanistica.
6.
Riteniamo che la risposta più plausibile sia che l’indice “premiale” spetti – come dice la sua definizione che allude
ad una sorta di compenso – al proprietario che deve cedere le aree, e che ciò trova conferma nel “tetto” di questo
aumento di cubatura (“i limiti di incremento massimo della capacità edificatoria previsto per gli ambiti di cui al
comma 258”).
(8)
Nella prassi urbanistica ormai diffusa, che precede la legislazione e, come in questo caso, la ispira,
l’indice premiale è per lo più un diritto edificatorio (che può essere scisso da una superficie immobiliare
edificabile, può essere cioè, già dal suo sorgere de-reificato) che viene attribuito come incentivazione a
trasferimenti di cubatura ovvero a titolo di compensazione perequativa, come chiarito nel testo. Su tali
questioni sia consentito rinviare a GRAZIOSI, Figure polimorfe di perequazioni urbanistiche e principio
di legalità, in Riv. Giur. ed., 2007, II, pp. 147 e ss.. Per una rassegna delle legislazioni urbanistiche
regionali che, in vario modo, hanno introdotto il principio perequativo, si veda per tutti COLONNA,
Nuovo modello di pianificazione e perequazione urbanistica nella legislazione regionale dell’ultimo
decennio, in Riv. Giur. ed., 2007, II, pp. 63 e ss..
6
Il modello ipotizzato, ancorché descritto in modo lacunoso e confuso, sembra essere questo: agli Ambiti di
trasformazione in cui sono localizzate aree da cedere gratuitamente per l’ERP/S viene attribuita una capacità
edificatoria maggiorata dell’indice “premiale” che spetta al proprietario che deve cedere gratuitamente le aree, alle
quali, a loro volta, spetta l’indice edificatorio di base. Il tutto legato, come dice il comma 258, da una correlazione
di proporzionalità con il valore della trasformazione.
Il meccanismo, insomma, è quello – ormai noto nella prassi pianificatoria “anticipatrice” di cui si è detto – alla
c.d. “perequazione compensativa”.
Se è così, come pare ragionevole ritenere anche per la difficoltà di ipotizzare altre opzioni interpretative, è chiaro
che non siamo in presenza di una cessione gratuita di aree a titolo di concorso negli oneri per gli standards
urbanistici. Siamo, invece, in presenza di un procedimento indiretto finalizzato alla acquisizione di aree destinate
ad opere di pubblico interesse – che, nel sistema pre-vigente, erano oggetto di una dichiarazione ex lege di
pubblica utilità (art. 9 L. n. 167/1962) ed alla necessaria acquisizione in via espropriativa – mediante il ricorso
all’istituto della attribuzione “perequativa” di diritti edificatori. Diritti edificatori che, stando alla norma, sorgono
dall’(nell’) Ambito di trasformazione, ma di cui si potrà ipotizzare la cessione e il trasferimento.
E’ indubbio che se questa normativa viene intesa in questi termini, interferisce in modo molto significativo con
l’istituto della espropriazione per pubblica utilità, di cui diviene di fatto, un capitolo speciale, concernente la
ipotesi di espropriazione per l’attuazione di ERP/S(9).
Vero è che la disposizione “servente” dell’art. 259 dice, letteralmente che ai detti fini il Comune “può” prevedere
il riconoscimento dell’indice premiale, non che “deve” prevederlo.
Ma se si tiene conto del sistema nelle sue singole articolazioni si può anche sostenere che, di fronte al problema
del reperimento delle aree per l’edilizia residenziale sociale, la norma potrebbe essere interpretata nel senso che il
Comune ha davanti a sé due strade.
1)
Prevedere in ogni ambito di trasformazione con destinazione urbanistica residenziale di espansione
l’obbligo/onere di cessione di aree a tale fine. Se tale onere è generalizzato e grava indifferentemente su tutti
i proprietari delle aree di trasformazione residenziali previste in piano può senza dubbio parlarsi di un
(nuovo) standards urbanistico “sociale” e la cessione gratuita trova un titolo giuridico legittimo oltre che una
giustificazione etico/politica.
2)
Prevedere invece solo per alcuni di questi ambiti tale obbligo/onere di cessione “gratuita”. Ma in questo
caso, per ovviare alla seria obbiezione che ciò viola il principio di uguaglianza nell’accollo di costi sociali
che dobbono gravare indistintamente su tutti i cittadini, è allora necessario prevedere o l’espropriazione per
(9)
E’ molto importante osservare, a questo proposito, che se questa ratio “compensativa” è da correlarsi
alla sua funzione di vicariare l’espropriazione, quest’ultima diviene un parametro del valore dell’indice
premiale: non potrà mai essere superiore all’indennità di esproprio. Ma allora a questo proposito si apre
un grave interrogativo: il parametro indennitario cui far riferimento è quello del valore venale ovvero
quello venale ridotto del 25% (art. 2, c. 89, n. 1 della Legge finanziaria 2008). Ciò dipende dal
riconoscere o meno al comma 259 il valore di norma di riforma economico-sociale. Si può forse
sostenere la soluzione positiva perché il comma 258 configura il nuovo istituto proprio come
anticipazione della “riforma organica del governo del territorio”. La stretta parentela con la norma del
D.D.L. n. 3519/2005 sottolineata alla nota 2 sembrerebbe favorire una risposta positiva.
7
pubblica utilità (ma la normativa che stiamo esaminando non pare prevederla, a differenza del previgente
sistema dei piani di zona PEEP) o, come dice il combinato disposto dei due commi, la perequazione
(urbanistica) compensativa.
7.
Così interpretata la normativa consentirebbe una doppia scelta tra queste due opzioni: quella che, in via di sintesi
verbale possiamo chiamare della imposizione dello standard generale di edilizia sociale e quella dell’inserimento
dell’onere di cessione nella c.d. “perequazione compensativa”.
Sul piano strettamente letterale l’antinomia potrebbe essere superata, argomentando dal termine “può” del comma
259, come attributivo di una libera facoltà di scelta discrezionale.
La conclusione non è però affatto soddisfacente sotto il profilo della coerenza logico-giuridica. Un sistema di
gestione pianificatoria del territorio in cui il modo di acquisizione di aree pubbliche per l’edilizia sociale avviene
indifferentemente – a scelta del Comune – senza indennizzo e con indennizzo, è in contrasto con il principio di
buon andamento e di imparzialità.
Il punto – e cioè la scelta del sistema – è poi reso ancor più problematico dal fatto che l’acquisizione delle aree non
si conclude con l’uso diretto da parte della Amministrazione per la realizzazione di un’opera pubblica, ma con
l’assegnazione – diretta o mediata dall’intervento di soggetti pubblici operanti nel settore dell’edilizia residenziale
pubblica – a privati che sono i beneficiari finali dei beni immobili acquisiti(10).
Costoro, hanno evidentemente interesse all’acquisto delle aree sociali a costo zero(11) e, quindi alla prima opzione,
all’edilizia sociale come standard di trasformazione.
Non ci si può sbarazzare del problema rinviandone la soluzione alla futura legge sulla “riforma organica del
governo del territorio” di cui parla la prima parte del comma 258, anche perché la normativa che stiamo
esaminando sarà con ogni probabilità utilizzata senza indugi; e neppure può dirsi che la coesistenza delle due
diverse opzioni è compatibile con il principio di legalità solo perché la relativa scelta deve comunque essere
congruamente motivata.
Quel che fa propendere a una interpretazione che porta alla conclusione della unitarietà del nuovo istituto è che la
indubbia antinomia tra i due commi, in cui il primo esprime chiaramente l’opzione a favore dello standard
generale gratuito di edilizia sociale, mentre il secondo lo contraddice proprio cancellando la gratuità della cessione
prevendendo l’indice premiale compensativo, quest’ultimo ha certamente un maggiore valore, non solo perché si
(10)
E’ noto che nel sistema dei piani di zona di cui alla L. n. 167/1962 e successive modificazioni, in cui la
acquisizione delle aree era, per il Comune, onerosa, è rimasto a lungo in vigore un meccanismo – l’art.
35 della L. n. 865/1971 – che tendeva ad evitare, in sostanza, il trasferimento della rendita fondiaria dal
soggetto espropriato al beneficiario finale dell’area di edilizia residenziale pubblica. E’ noto, poi, che una
legislazione successiva, confusa e contraddittoria, ha in parte cancellato questo principio, consentendo
agli assegnatari di aree PEEP di corrispondere ai Comuni importi nettamente inferiori agli oneri/costi di
esproprio da questi sopportati.
(11)
Non pare però ammissibile che l’assegnazione delle aree, anche se acquisite a costo zero, possa
avvenire senza corrispettivo in favore della Amministrazione, perché il plusvalore costituito
dall’incidenza del terreno sull’edificato è esso stesso una rendita fondiaria che l’assegnatario potrebbe
lucrare; il risultato sarebbe paradossale: il “valore” degli standards gratuiti delle cessioni di aree sociali
non sarebbe della collettività ma, incorporato nell’immobile, verrebbe privatizzato quale rendita fondiaria
dell’assegnatario.
8
configura come precetto di chiusura della norma, ma soprattutto perché è certamente più coerente con i principi
generali in materia di espropriazione per finalità di interessi generali, quali sono quelli della edilizia residenziale
pubblica. Dovendosi, necessariamente, comporre l’antinomia in una interpretazione univoca sembra necessario,
quindi, concludere che il meccanismo compensativo “premiaIe” è coessenziale al nuovo istituto.
A favore di questa conclusione sta indubbiamente anche l’ampiezza della previsione dell’indice premiale
compensativo, che va ben oltre (forse troppo oltre) l’edilizia residenziale sociale; la dizione letterale della norma
che lo prevede come strumento attuativo (“rinnovo urbanistico ... riqualificazione e miglioramento della qualità
ambientale”) ricomprende praticamente ogni intervento, pubblico o privato, in termini tali che considerarlo come
eventuale proprio soltanto nel caso di interventi di edilizia residenziale sociale sarebbe contraddittorio.
Può anche osservarsi che, come rammentato alla nota 2, la norma di cui ai commi 258 e 259 ricalca quasi
testualmente il 3° e il 4° c. dell’art. 9 del D.D.L. n. 3519 approvato dalla Camera di Deputati il 28.6.2005 (c.d.
“Lupi e altri”) in cui la natura di perequazione compensativa della “incrementabilità dei diritti edificatori” è
chiarissima.
8.
Si è detto che la nuova disciplina dell’edilizia residenziale pubblico/sociale si sovrappone – quanto alle finalità
dell’istituto (la semplice programmazione/acquisizione delle aree) – alla preesistente corrispondente normativa
relativa alla programmazione urbanistica e acquisizione delle aree per l’edilizia residenziale pubblica, che ne
risulta certamente abrogata, in forza di una c.d. abrogazione virtuale complessiva.
E’ infatti evidente che non sarebbe più possibile, oggi, dar corso ad un piano particolareggiato di iniziativa
pubblica finalizzato all’acquisizione di aree per edifici economici e popolari; a tacer d’altro, l’onerosità del
procedimento del PEEP a fronte della gratuità dell’acquisizione degli Ambiti previsti dal nuovo istituto, rende di
per sé impraticabile la vecchia procedura. E’ vero, peraltro, che questa abrogazione si ferma alla procedura di
acquisizione, e non tocca le norme sulla assegnazione delle aree, la cui natura concessoria non viene toccata, anche
se il relativo regime di onerosità, già disciplinato dall’art. 35 della L. n. 865/1971, non potrà che risentirne.
Si tratta dunque di una abrogazione parziale e da ridefinire nel dettaglio quanto agli effetti riflessi che derivano dal
nuovo meccanismo di acquisizione alla fase successiva di assegnazione/utilizzazione delle aree.
Ma anche per quanto riguarda la nuova disciplina si è visto che essa è, rispetto a quella corrispondente che la
precedeva, solo abbozzata, e quindi così esile da potersi parlare non solo di de-procedimentalizzazione della
materia, ma di vera de-costruzione dell’istituto sul piano sostanziale. Si considerino, ad esempio, questi elementi
oggetto di una normativa specifica nel sistema dei PEEP della L. n. 167/1962 e successive modifiche: a) le aree
incluse nei piani debbono comprendere “opere e servizi complementari urbani e sociali” (art. 1, 1° c.); b) i sintomi
rivelatori del fabbisogno, che sono costituiti dall’indice di affollamento, dalla percentuale di abitazioni malsane,
dall’incremento demografico (art. 1, 3° c.); c) la possibilità di piani consortili; d) la previsione di un limite, sia
massimo che minimo, rispetto alla edilizia residenziale complessiva (art. 3, 1° c); e) la possibilità di includere aree
edificate (art. 3, 2° c.); f) il preciso livello di analiticità (art. 4) e di contenuto (elaborati) dei piani, tra cui la
previsione di spesa; g) il valore di dichiarazione di p.u. dei piani la cui durata è pari alla loro efficacia (18+2 anni)
(art. 9, 2° c.) e la loro idoneità a costituire varianti alla pianificazione generale (art. 3, 4° c.); h) unica eccezione
alla regola della necessaria inclusione nei PEEP di ogni intervento di edilizia residenziale pubblica, la
9
localizzazione in aree con destinazione residenziale previo convenzionamento ex artt. 7 e 8 L. n. 10/77 (artt. 22,
2° c. L. n. 179/1992 e 1, 10° c. L. n. 136/1999).
La povertà della nuova norma colpisce sfavorevolmente, in primo luogo in relazione al fatto che, così come
formulata sembra ridurre l’edilizia residenziale pubblica/sociale a (semplice) parte dell’urbanistica, con ciò
creando, però problemi di competenza legislativa. Mentre infatti l’urbanistica è di competenza legislativa
concorrente l’edilizia residenziale pubblica appartiene alla competenza esclusiva dello Stato, cui spettano anche le
funzioni amministrative quanto ai principi e alle finalità di carattere generale e unitario nella materia e alle
definizioni dei livelli minimi del servizio abitativo (art. 59 D. Lgs. 31.3.1998 n. 112)(12). Si apre, con ciò, uno
spazio per possibili conflitti.
In secondo luogo questa, corrispondente, eccezionale dilatazione degli ambiti di discrezionalità lasciati alle scelte
puramente urbanistiche di scala comunale che (si pensi, ad esempio, alla rilevazione del fabbisogno, al
dimensionamento quantitativo degli Ambiti, al suo adeguamento nel tempo) non sembra poter essere
sufficientemente ricondotta entro limiti certi, non arbitrari, solo richiamandosi alla clausola generale del principio
di adeguatezza e proporzionalità(13).
Ci sembra che la necessità di tener conto, nella istruttoria e nella motivazione, degli elementi che la codificazione
previgente aveva fissato come specifici e propri (identitari) dell’edilizia residenziale pubblica emerge con
chiarezza, al di là della avvenuta abrogazione del relativo corpo normativo, come necessario e indefettibile
nocciolo di ogni scelta in materia. In sostanza molti degli elementi costitutivi del sistema dei piani di zona vi
sopravvivono (come si trattasse, per così dire, ancora oggi di fonti di “etero integrazione”) quali parametri sia
procedimentali che delle motivazioni degli atti di pianificazione urbanistica che prevederanno questi (nuovi)
Ambiti con zone ERP/S.
A regime, in difetto di un ulteriore intervento legislativo nazionale che detti norme specifiche sugli aspetti propri
dell’edilizia residenziale pubblica, gli strumenti urbanistici che daranno attuazione alla nuova normativa
soggiaceranno, per esigenze “di sistema”, a questi oneri sia istruttori che di motivazione, per così dire “rinforzati”.
In estrema sintesi: non si potrà fare a meno di ispirarsi, in una sorta di necessitata analogia iuris, alla normativa
dei (non più vigenti) piani di zona.
(12)
I rapporti tra Stato e Regione nell’edilizia residenziale pubblica hanno dato luogo, come noto, a vari
interventi della Corte Costituzionale (n. 221 del 8.7.1975; n. 727 del 30.1.88; n. 1115 del 20.12.88;
ecc.).
(13 )
Sul principio di adeguatezza e proporzionalità cfr. per tutti, D.U. GALETTA, Discrezionalità
amministrativa e principio di costituzionalità, in Riv. It. dir. pubbl. comunit., 1994, pp. 142 e ss.;
SANDULLI, La proporzionalità nell’azione amministrativa, Padova, 1998. Che si tratti di “norma di
chiusura” è affermazione ormai pacifica, come la sua derivazione dai principi costituzionali (“costola del
principio di buon andamento”). La giurisprudenza amministrativa, come ben noto oltre a considerarlo
principio generale dell’ordinamento (Cons. Stato, Sez. IV, 22.3.2005 n. 1195; Sez. V, 14.4.2006 n.
2087; ecc.) ha individuato tre profili in cui si articola: “a) idoneità del mezzo impiegato rispetto
all’obiettivo perseguito; b) necessarietà: assenza di qualsiasi altro mezzo idoneo che comporti il minor
sacrificio al privato; c) adeguatezza dell’esercizio del potere rispetto agli interessi in gioco” (Cons. Stato,
Sez. VI, 17.4.2007 n. 1736).
Si tratta di una regola particolarmente importante in un contesto in cui il dato normativo storico è così
impoverito dalla ultima novella.
10
L’urbanistica consensuale. I privati e la pianificazione
di Domenico Lavermicocca
(Avvocato amministrativista del Foro di Bologna)
1. I moduli negoziali - consensuali nell'urbanistica
Il tema dell’urbanistica “contrattata” o “consensuale”, di una urbanistica quindi che si
fondi sulla programmazione negoziata degli usi del territorio, rappresenta oggi un
argomento di grande attualità ed interesse e problematicità, per una pluralità di ragioni.
L'esigenza avvertita è quella di assicurare una coerenza fra gli obiettivi perseguiti
dall’ente locale e le risorse disponibili e, quindi, che contemporaneamente alle
trasformazioni edilizie siano realizzate le opere di urbanizzazione e di interesse pubblico.
Questo fa si che oggi alcuni contenuti dei piani regolatori siano il risultato di una
trattativa condotta dal Comune con gli operatori del settore per raggiungere, attraverso la
partecipazione del privato interessato alle trasformazioni previste dal piano urbanistico, il
miglior assetto degli usi del territorio.
Ciò si inquadra in una più generale tendenza dell’ordinamento verso forme di ricerca
del consenso in cui l’esercizio della funzione amministrativa non viene più inteso come
mera attuazione di un potere di supremazia in nome della cura di un generico interesse
pubblico ma come necessario confronto tra l’Amministrazione ed i soggetti (pubblici e
privati).
Tale negoziabilità è stata riconosciuta da alcuna giurisprudenza anche nel caso di
repressione di abusi edilizi in merito alle modalità di esecuzione (1).
Inoltre suscita interesse l’utilizzo di moduli negoziali - consensuali in un ambito (quello
del diritto pubblico) caratterizzato dal dogma dell’indisponibilità delle pubbliche funzioni,
quali quelle attinenti alla definizione dell’assetto urbanistico del territorio, con l’utilizzo di
istituti civilistici in fattispecie in cui proprio non può dirsi che sussista una pari posizione
contrattuale.
------(1) In caso di repressione di abusi edilizi un nucleo di negozialità consensuale, riconducibile all'archetipo
concettuale disegnato all'art. 11 l. n. 241 del 1990, è pur sempre rintracciabile laddove l'amministrazione ed il
privato individuano le misure ripristinatorie, graduano le modalità di esecuzione di esse, stabilendo che, una
volta adempiute, sarà rilasciato il permesso di costruire in sanatoria (T.A.R. Liguria Genova, sez. I, 13 giugno
2006, n. 542
11
2. Il modello convenzionale
L’esistenza e lo stesso rilievo di moduli consensuali non rappresenta una novità in
campo urbanistico, se si considera l’importanza che fin dalla nascita della stessa disciplina
urbanistica ebbero i cd. “piani di ampliamento di iniziativa privata”, veri e propri strumenti
di determinazione “convenzionale” della pianificazione, concordati tra l’amministrazione
ed i privati interessati.
Anche dopo l‘approvazione della L. n. 1150/1942, gli accordi con i privati per la
lottizzazione di ampie zone del territorio comunale rappresentarono uno degli strumenti più
utilizzati e più importanti della trasformazione del territorio e le “convenzioni di
lottizzazione” hanno rappresentato il prototipo di una serie di modelli convenzionali che
hanno trovato grande successo nella legislazione successiva (si pensi alle convenzioni
nell’edilizia residenziale pubblica ed alle convenzioni nei piani per gli insediamenti
produttivi di cui alla L. n. 865/1971, alle convenzioni per il recupero del patrimonio
edilizio esistente di cui alla L. 457/1978, alle convenzioni per la realizzazione di parcheggi
di cui alla L. 122/1989) (2).
Lo schema che caratterizza il modulo convenzionale consiste in un contenuto
obbligatorio e determinato per legge ed in una parte eventuale il cui scopo è comunque
nella realizzazione di opere pubbliche di urbanizzazione con il coinvolgimento delle risorse
private: questa è la causa urbanistica dell'accordo, che trova il limite nella proporzionalità
delle prestazioni concordate con il privato.
Inizialmente ci si chiedeva se, specialmente dopo la modifica introdotta dall’art. 8 della
L. n. 765/1967 che ha vietato la lottizzazione dei terreni a scopo edilizio prima
dell’approvazione del P.R.G., le ipotesi di convenzionamento attenessero solo ed
esclusivamente alla fase di “attuazione” delle scelte già effettuate dalla P.A. negli strumenti
urbanistici generali, senza possibilità alcuna di incidere sulle scelte (generali) relative
all’assetto del territorio.
--------(2) La giurisprudenza del Cons. di Stato affermava che "alle convenzioni urbanistiche, quando manchi
una compiuta disciplina della figura negoziale, si applica in via analogica, in quanto è compatibile, la
disciplina dei piani di lottizzazione di cui all'art. 28 l. 17 agosto 1942 n. 1150, ai fini dell’applicazione della
norma di cui al comma 5 del citato articolo che impone la trascrizione della convenzione ex art. 2645 c.c.
(Conferma Tar Lombardia, Milano, sez. II, 31 luglio 2001 n. 5326 ). (Consiglio Stato , sez. IV, 30 maggio
2002, n. 3016.
Tale convenzione urbanistica "rientra tra gli accordi sostitutivi del provvedimento rispetto ai quali l'art.
11, comma 5, l. n. 241 del 1990 prevede la giurisdizione esclusiva del G.A. per le controversie relative alla
formazione, conclusione ed esecuzione di detti accordi" (Cassazione civile , sez. un., 20 novembre 2007, n.
24009).
12
Peraltro numerose leggi regionali (tra queste, ad esempio, la L.R. Emilia-Romagna n.
47/1978, art. 25) prevedevano la possibilità di presentare Piani Particolareggiati di
iniziativa privata, e l’art. 25 della L. 47/1985 prevede la possibilità per gli strumenti
attuativi di costituire “variante” al P.R.G.. Per cui, anche implicitamente, tale ipotetico
limite risulta ormai superato.
Successivamente la legislazione degli anni ’90 ha introdotto alcune innovazioni con cui
la partecipazione dei privati all’azione pianificatoria trova definitiva consacrazione in
istituti che espressamente sanciscono la possibilità di accordi tra amministrazione e privati
aventi ad oggetto direttamente la potestà di pianificazione urbanistica. Di questi possiamo
citare i Programmi Integrati di Intervento, disciplinati dall’art. 16 della L. 179/1992 e da
numerose Leggi regionali; i Programmi di recupero urbano di cui alla L. 493/1993; i
Programmi di riqualificazione urbana, disciplinati dall’art. 2, secondo comma della L.
179/1992, i Programmi o Progetti d’ area, etc....).
Tali piani-programma sono caratterizzati dalla possibilità di derogare al PRG, che entra
(a pieno titolo) in una sorta di “sinallagma” contrattuale al fine di valutare gli obblighi
gravanti sui proponenti e la valorizzazione (fondiaria) che essi conseguono.
Da un punto di vista strettamente urbanistico, il fenomeno in esame ha rappresentato il
tentativo di superare le carenze ed i limiti del P.R.G. con il progressivo passaggio da
un’“urbanistica per Piani” ad un’“urbanistica per progetti” le cui caratteristiche sono
rappresentate:
a) dal superamento della rigida zonizzazione monofunzionale a favore di una
plurifunzionalità degli interventi e di una integrazione delle diverse tipologie;
b) dal superamento della logica dell’espansione a favore di interventi di recupero degli
insediamenti esistenti e delle zone degradate;
c) dalla possibilità di modificare, con moduli semplificati e duttili (quale, ad esempio,
l’accordo di programma), le previsioni urbanistiche esistenti;
d) dal riconoscimento del ruolo e dell’importanza degli operatori privati, anche al fine
di garantire una effettiva e sollecita attuazione degli interventi previsti;
e) da una attenta considerazione del dato economico-finanziario, che parte dalla
riconosciuta limitatezza delle risorse esistenti, e dalla conseguente necessità di una corretta
concertazione degli investimenti e dei finanziamenti disponibili.
In sostanza i programmi complessi si caratterizzano per il trasferire sul piano negoziale
i rapporti tra soggetti pubblici e tra soggetti pubblici e privati, attraverso un accordo,
13
riconducibile come modello alle convenzioni di lottizzazione (per la parte relativa alla
disciplina degli obblighi assunti dal privato), sulla base del quale l’attuazione al programma
si fonda sostanzialmente su uno scambio di prestazioni: a fronte del riconoscimento al
soggetto privato di diritti edificatori vengono cedute dallo stesso privato aree e/o realizzate
opere di adeguamento infrastrutturale e di trasformazione del territorio.
Di questi strumenti si avvale la pianificazione urbanistica dettata dalla L.R. della
Basilicata n. 23/1999 che li prevede tra gli strumenti non istituzionali nei quali la
componente privatistica, quindi consensuale, è presente con l’attribuzione di una premialità
a fronte dell’attuazione di opere pubbliche (cessione di aree nonchè realizzazione di
manufatti), con attribuzione di quantità premiali trasferibili negli ambiti ad attuazione
indiretta all’interno dei quali l’amministrazione comunale dispone di diritti di edificazione
per compensazione.
3. Programmi complessi ed opere di urbanizzazione a scomputo
I programmi complessi, sopra citati (Programmi integrati di intervento ed altri) sono
uno strumento attuativo e pianificatorio, previsto anche dalla L.R. Basilicata n. 23/1999, il
cui contenuto contrattuale viene peraltro interferito dalla disciplina dettata a seguito della
decisione della Corte di giustizia europea sulla realizzazione delle opere di urbanizzazione
a scomputo da sottoporre a gara. Anche se ciò attiene ad una fase attuativa dell'accordo PA.
- Privato.
Di recente l’Autority per la vigilanza dei contratti pubblici ha esaminato le procedure
da seguire per la realizzazione di opere pubbliche nell’ambito di accordi convenzionali
stipulati con amministrazioni pubbliche, in particolare nell’ambito dei piani di
riqualificazione urbana e dei programmi integrati, per verificare se tali opere siano da
ritenere assoggettate alla disciplina comunitarie e nazionale come già affermato dalla Corte
di giustizia europea 12.7.2001 per la realizzazione di opere a scomputo di oneri di
urbanizzazione.
In relazione a tale fattispecie l'Autority afferma che:
1) può sostenersi la natura negoziale del rapporto pubblico – privato in quanto le
convenzioni urbanistiche hanno indubbia natura contrattuale, disciplinando il rapporto tra
le parti con valore vincolante sulla base di uno scambio sinallagmatico.
2) il carattere oneroso della prestazione deve ritenersi sussistere in qualunque caso in
cui, a fronte di una prestazione, vi sia il riconoscimento di un corrispettivo che puo' essere,
a titolo esemplificativo, in denaro, ovvero nel riconoscimento del diritto di sfruttamento
14
dell'opera (concessione) o ancora mediante la cessione in proprieta' o in godimento di beni.
3) quindi, che le convenzioni urbanistiche mediante le quali i privati si obbligano a
realizzare opere pubbliche presentano elementi e natura tali da essere riconducibili allo
stesso genus dei piani di lottizzazione, ancorche' si configurino come tipi differenti di piani
attuativi (i cosiddetti programmi complessi).
4) puo', pertanto, ritenersi che la realizzazione di opere ricomprese nei programmi
complessi debba essere disciplinata ai sensi dei citati articoli 32, 121 e 122 del decreto
legislativo n. 163/2006.
Questo significa l'attivazione di procedure ad evidenza pubblica per la realizzazione
delle opere che sostituiscono lo scambio dell'incremento volumetrico o della differente
destinazione.
Da tale fattispecie va tenuto distinto il caso in cui la scelta del soggetto con cui
concludere la convenzione urbanistica non discenda da un proposta autonoma del privato
interessato, ma derivi da un reale confronto concorrenziale posto in essere preventivamente
dall'amministrazione, con la fissazione dei criteri di scelta del privato contraente,
accompagnata dalla richiesta dei prescritti requisiti di qualificazione per la esecuzione dei
lavori.
Il riferimento può essere l’art. 9 della L.R. Basilicata n. 23/1999 che ammette la
partecipazione di bando alla formazione e/o approvazione dei Piani urbanistici Operativi o
attuativi, anche se la norma appare generica e non viene esattamente definita la modalità
procedurale che conduce alla proposizione ed alla individuazione dell'operatore
realizzatore.
Più precisamente il Regolamento edilizio, attualmente in discussione presso
l'amministrazione comunale, parla espressamente di un bando pubblico sulla base di un
Preliminare di programma Integrato con il quale viene definita una ipotesi di assetto
esplicitata in termini di opere pubbliche da realizzare e di possibili trasformazioni
insediative ammissibili.
In questa ipotesi, infatti, il privato formula le proprie proposte in piena concorrenza con
altri operatori economici, sulla base di un'adeguata pubblicizzazione dell'iniziativa da parte
dell'amministrazione e il soggetto che risultera' aggiudicatario potra' legittimamente
eseguire in proprio l'intervento.
4. La legge 241/1990
Per un generale inquadramento normativo riferito al tema occorre richiamare l’art. 11
della L.n. 241/1990 che ha consacrato l’introduzione nell’ordinamento degli accordi
15
pubblico – privati per la sostituzione di atti amministrativi. Ciò consente alle Pubbliche
Amministrazioni di concludere, nel corso di un procedimento amministrativo, accordi con i
privati interessati diretti a determinare, in tutto o in parte, il contenuto discrezionale del
provvedimento finale (accordi preliminari o procedimentali) o a realizzare direttamente in
via consensuale il risultato finale tipico del provvedimento (accordi sostitutivi).
Per quanto riguarda l’ambito urbanistico, la posizione iniziale di netta chiusura agli
accordi
pubblico-privati
invocava
il
principio
della
indisponibilità
del
potere
amministrativo.
Successivamente si è finito per riconoscere la possibilità generale di accordi nel nostro
ordinamento, come infine confermato dalla modifica dell'art. 11 citato ad opera della L.n.
15/2005, e come confermato dal fatto che le convenzioni di lottizzazione sono ricondotte in
questo ambito.
Si è esclusa la piena assimilazione degli accordi pubblico - privati ai contratti
disciplinati dal codice civile posto che, pur riconoscendosi gli obblighi contrattuali
discendenti
dagli
accordi
sotto
i
profili
della
interpretazione
dell’accordo
e
dell’adempimento a ciò osta la necessità di garantire all’amministrazione la possibilità di
svincolarsi dall’accordo, riconosciuto in relazione allo status soggettivo del contraente (3).
Infatti, sul tema dei rapporti tra limitazioni imposte con convenzione di lottizzazione e
le successive modifiche introdotte con lo strumento urbanistico, la giurisprudenza
amministrativa conserva una posizione uniforme quando afferma che le convenzioni
urbanistiche debbono sempre considerarsi rebus sic stantibus, e che “legittimamente
l'Amministrazione, in presenza di un interesse pubblico sopravvenuto, ha la facoltà di
introdurre nuove previsioni nel senso che, in presenza di diverse esigenze, non sussistono
preclusioni a nuovi interventi, atteso che lo ius variandi relativo alle prescrizioni di piano
regolatore generale include anche uno ius poenitendi relativo a vincoli precedentemente
assunti, rispetto ai quali il Comune non può ritenersi permanentemente vincolato in
ragione della presenza di una convenzione di lottizzazione” (4).
-----------(3) L'inadempimento del modulo consensuale perseguito dall'Amministrazione e la conseguente
qualificazione ex art. 11, l. 7 agosto 1990 n. 241, laddove non giustificato da specifiche esigenze di pubblico
interesse ovvero in assenza del legittimo esercizio del previsto diritto di recesso, deve essere oggetto di tutela
sulla scorta dei principi generali, senza che rilevi l'origine più o meno privatistica delle regole e del giudice
interessato; pertanto, l'applicazione del rimedio di cui all'art. 2932 c.c. non pare incompatibile con lo
strumento convenzionale adottato, gli obblighi conseguenti ed i comportamenti tenuti dalle parti, per cui va
ordinato all'Amministrazione di stipulare gli atti, cui si è impegnata in sede di accordo, necessari per
l'esecuzione della Convenzione (T.A.R. Liguria Genova, sez. I, 23 gennaio 2007, n. 79)
(4) cfr Cons. St., sez. IV, 25 luglio 2001, n. 4073 e 13 luglio 1993, n. 711.
16
Rimane quindi in capo all'Amministrazione l'esercizio della facoltà accordatale dall'art.
11, comma 4°, della legge 7 agosto 1990, n. 241 di sciogliersi dall'accordo per sopravvenuti
motivi di pubblico interesse (quali, nella fattispecie, diverse esigenze pianificatorie) ed a
regolare unilateralmente ed autoritativamente i rapporti e le attività oggetto della
convenzione (5).
Certo l’art. 13 della L. n. 241/1990 sembra escludere la possibilità di ricorrere a questi
strumenti negoziali nei procedimenti volti alla “emanazione di atti di pianificazione e di
programmazione”.
Se questo è vero per i piani generali, peraltro, a prescindere dal fatto che l’art. 13 si
riferiva, originariamente, solo alla disciplina della partecipazione e solo per effetto di
modifiche dell’ultima ora ha finito per “inglobare” (probabilmente senza reale
consapevolezza) anche l’art. 11, non vi è dubbio che il legame tra urbanistica e modelli
convenzionali sia ormai consolidato.
Si pensi alle “convenzioni di lottizzazione” che trovano applicazione nei programmi
complessi, o l’accordo Comune – privato per modifiche dello strumento urbanistico in
merito alla autorizzazione per insediamenti produttivi ai sensi della L.n. 112/1998.
La stessa giurisprudenza, a sua volta, ha affermato - sia pure incidentalmente - che
anche nel procedimento di formazione del Piano Regolatore sono ammissibili “accordi con
gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale”
(6).
--------------(5) La natura della convenzione urbanistica di accordo sostitutivo del provvedimento autorizza
l'amministrazione, nell'esercizio delle facoltà accordatale dall'art. 11 comma 4 l. 7 agosto 1990 n. 241, a
sciogliersi dall'accordo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse (quali nella fattispecie diverse esigenze
pianificatone) ed a regolare unilateralmente ed autoritativamente i rapporti e le attività oggetto della
convenzione (Consiglio Stato , sez. IV, 31 gennaio 2005, n. 222, in Riv. giur. edilizia 2006, 6 1254, nota
SPENA).
(6) Le osservazioni presentate dai privati, pur non configurandosi come rimedi giuridici,
rappresentano uno strumento di collaborazione alla formazione del Piano Regolatore, e tale strumento
assume efficacia rafforzata dopo l’entrata in vigore della L. 7 agosto 1990 n. 241 che, all’art. 9, ha
generalizzato la facoltà di intervento nel procedimento nell’intento di consentire la conclusione di
accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale
(T.A.R. Lazio, Sez. I, n. 763 del 16.5.1996, in Trib. Amm. Reg., 1996, p. 2229).
17
Per cui, atteso che la negoziazione delle scelte urbanistiche con i privati appare ormai
irreversibile, occorre individuare i “limiti” e le “garanzie” che costituiscano un alveo entro
il quale indirizzare tale negoziazione, per evitare che ne risultino compromessi i
fondamentali principi dell’azione amministrativa e che, attraverso una negoziazione in cui
le posizioni contrattuali non sono certo paritarie, di fatto vengano imposte ai privati
contribuzioni ed oneri non proporzionali e che esulano dalla causa urbanistica.
5. I limiti alla negoziazione
Il primo di questi è dato da quella che si può definire come la “causa urbanistica”
dell’accordo, in analogia a quanto accade nel diritto privato dove la causa è uno dei
requisiti del contratto (art. 1325 c.c.).
Anche l’accordo tra privati e P.A. deve assolvere (per quanto concerne la P.A.) a quella
funzione che l’Amministrazione deve necessariamente perseguire in base alla legge.
In pratica, riconoscere la liceità del ricorso a moduli consensuali non significa che la
P.A. possa “atteggiarsi come un soggetto privato che può proporsi nello spazio della
liceità i più diversi obiettivi, in quanto l’azione amministrativa, anche quella consensuale,
è pur sempre retta dai principi di imparzialità, buon andamento e uguaglianza, cosicché
essa deve sempre tendere al perseguimento dell’assetto funzionale più rispondente al
pubblico interesse o, più concretamente, al raggiungimento di quei fini specifici che la
norma attributiva del potere prevede".
Ciò porta, per esempio, a dubitare della legittimità di operazioni in cui le potestà
urbanistiche vengono utilizzate (mediante l’approvazione di varianti al P.R.G.) per
valorizzare determinate aree (e cioè per costituire nuovi “valori di scambio”), ovvero per
“capitalizzare” l’Ente locale, al fine di realizzare determinate opere pubbliche.
Al riguardo il Consiglio di Stato afferma che: “lo sviamento di potere sussiste anche
per falsità della causa, che si verifica quando l’amministrazione persegue un fine diverso
da quello per il quale il potere esercitato è stato effettivamente conferito, tenendo fermo il
principio che il potere di adottare atti di pianificazione è stato attribuito ai Comuni al solo
fine di disciplinare l’assetto urbanistico ed edilizio di una parte del territorio comunale.
Deve giudicarsi pertanto affetto dal vizio di eccesso di potere il provvedimento con il
quale l’amministrazione adotti una variante alla destinazione di piano, rendendo
edificabile un’area destinata a verde pubblico, al dichiarato scopo di consentire a un
soggetto privato, con il quale sussistano conflitti, la riedificazione, in questo nuovo sito,
18
dell’immobile in precedenza espropriatogli per la realizzazione di un’opera pubblica.
Sviamento si concreta allorquando la pubblica amministrazione curi, esercitando un
potere, un interesse diverso da quello tipico, anche se pubblico, anche - al limite - se di
pregio intrinseco maggiore di quello in relazione al quale le era stato attribuito il potere
esercitato” (7).
Spesso poi queste operazioni vengono effettuate con una sostanziale espropriazione dei
poteri spettanti agli organi rappresentativi (Consigli comunali), ai quali compete
istituzionalmente (anche a causa della sua particolare rilevanza), la titolarità dei poteri di
pianificazione del territorio. Detti organi si trovano infatti ad esaminare (spesso con poco
tempo a disposizione e con lo “spettro” della perdita del finanziamento) decisioni che
efficacemente sono state definite “trincerate”, difficilmente sindacabili (anche per la loro
complessità) ed ancor più difficilmente modificabili (8).
La stessa previsione di una “ratifica” da parte del Consiglio comunale prevista, ad
esempio, in ipotesi di accordo di programma in “variante” agli strumenti urbanistici
esistenti, non appare in grado di tutelare sufficientemente le fondamentali prerogative degli
organi rappresentativi.
Un presidio a tale sviamento potrebbe oggi essere fornita dalla nuova previsione del
comma 4° bis dell’ art. 11 della L. n. 241/1990 (inserita nel 2005), laddove si prevede una
sorta di “deliberazione a contrarre”, che chiama l’organo istituzionalmente competente
(preventivamente) a verificare ed a pronunciarsi su:
a) l’utilità e la necessità dell’ uso dello strumento “consensuale” ;
b) lo scopo che con l’accordo si intende perseguire (la sua “causa”) e la sua coerenza
con gli obiettivi (il “Documento preliminare”) che l’ Amministrazione si è data;
c) l’oggetto dell’accordo, la valutazione dei vantaggi della PA e le clausole ritenute
essenziali;
d) l’assetto insediativo, le destinazioni d’uso, gli indici ed i parametri urbanistici ed
edilizi, le tipologie e modalità costruttive su cui si concorda;
e) la tempistica dell’ accordo, le garanzie della PA e le garanzie dei terzi;
f) le eventuali modalità di scelta dell’ esecutore di opere (nel rispetto delle procedure
di evidenza pubblica e delle norme in materia di “qualificazione”).
Se tale previa deliberazione sia assente si pone un problema di nullità dell’accordo.
---------(7) Cons. di Stato, sez. IV, n. 5516/2004
(8) Cfr. FEDERICO GUALANDI, commento all’art. 18 L.reg. n. 20/2000, in B. GRAZIOSI (a cura di) La
pianificazione urbanistica in Emilia-Romagna, Milano, 2007, 50 e ss..
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***
Un ulteriore limite è rappresentato dalle previsioni contenute negli articoli 23, 41 e 42
della Costituzione che costituiscono un argine al tentativo di utilizzare forme di
“urbanistica consensuale” per imporre al privato determinati oneri o determinate
prestazioni (ad esempio, obbligo di cessione di una quota delle aree oggetto di intervento,
obblighi di natura patrimoniale, prestazioni accessorie, ecc...), al di fuori di un qualsiasi
contesto negoziale, senza alcun reale connotato di sinallagmaticità, nell’esercizio di un
mero potere di imperio, e non certo sulla base di previe, concordate determinazioni.
Le stesse norme regionali favoriscono forme di esproprio di fatto dei valori edificatori
di un terreno. E' stata evidenziato il dubbio della legittimità costituzionale di queste norme
di nazionalizzazione totale o parziale dello ius edificandi, in assenza di uno statuto della
proprietà fondiaria dettata a livello di legislazione nazionale, che certamente sono in
contrasto con i principi del I° Protocollo aggiuntivo della Convenzione dei Diritti
dell’Uomo richiamati nella sentenza 349/2007 dalla Corte Cost. per affermare l'illegittimità
delle norme che limitavano gli indennizzi da esproprio.
Allo stato la Giustizia amministrativa ha censurato tali previsioni, che finiscono per
imporre prestazioni o per introdurre vincoli ablatori “atipici”, al di fuori di una espressa
previsione normativa.
***
L’ultimo limite non attiene all’accordo in sé quanto alle successive vicende dello
stesso, ed in particolare allo “jus variandi” ed allo “jus poenitendi” che, da sempre, si
ritengono spettare alla P.A.
Se certamente è preclusa la possibilità di una unilaterale modifica di quanto
concordemente “convenzionato”, ciò non esclude però l’esercizio dello “jus variandi”
mediante atti di pianificazione generale, attinenti all’esercizio di funzioni amministrative
diverse, non dedotte nel rapporto, volte al perseguimento di interessi pubblici differenti.
L’esercizio di tali (diverse) funzioni, che configura una sorta di “impossibilità
sopravvenuta della prestazione” e che legittima
l’Amministrazione a recedere
unilateralmente da quanto concordato, deve essere presidiato dalla verifica del corretto
esercizio di detta funzione “urbanistica”:
a) mediante scelte urbanistiche di carattere “generale” (variante);
b) con una approfondita ponderazione e comparazione dei contrapposti interessi,
c) ed una approfondita motivazione che dia conto di tali valutazioni e che escludesse
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l’esistenza di soluzioni alternative concretamente praticabili.
Questo comunque comporterà il recesso dell’amministrazione dall’accordo e
l’applicazione della generale previsione dettata dall’art. 11 della L.241/1990, con la
corresponsione di un “indennizzo” che ristori l’operatore privato di tutti gli eventuali
pregiudizi verificatisi. In tal senso anche l’art. 21 quinquies della L.n. 241/1990.
6. Condizioni per la contrattazione
Infine, oltre ai limiti occorre che sussistano specifiche condizioni perché non si
verifichino pericolose deviazioni o “degenerazioni” del sistema.
a) Innanzitutto è fondamentale un quadro normativo che stabilisca una precisa
definizione dei cd. “confini” dell’urbanistica consensuale, che identifichi e precisi con
sufficiente chiarezza i ruoli (necessariamente) diversi spettanti rispettivamente alla P.A. ed
agli operatori privati.
Quindi, anche con riferimento alla disciplina dettata dalla L.R. Basilicata n. 23/99:
1) In primo luogo, l’esistenza del Documento Preliminare e dell’Accordo di
Pianificazione, che identifichi le scelte di fondo predeterminate e non negoziabili (cd.
invarianti) che fungano da “cornice” entro la quale trovi spazio un’attuazione per specifici
“progetti” concordati tra P.A. ed operatori.
2) Una seconda, importante “garanzia”, è rappresentata dalla partecipazione degli
operatori per realizzare una situazione di trasparenza che rappresenta la migliore garanzia
della correttezza dell’azione amministrativa.
3) L’ultimo aspetto attiene alle esigenze di trasparenza e imparzialità nella scelta degli
operatori
privati,
mediante
strumenti
(evidenza
pubblica,
confronto
pubblico
concorrenziale, ecc...) che garantiscano una effettiva “par condicio” tra i diversi
proponenti.
Ciò significa che la scelta del contraente dovrà essere improntata a modalità
“concorrenziali”, che consentano la selezione delle proposte sulla base di più parametri,
medianti i quali sia possibile valutare sia la qualità dell’offerta tecnica, sia le convenienze
economiche
che
il
perseguimento
degli
obiettivi
generali
determinati
dall’Amministrazione.
In questa direzione è la partecipazione per bando, prevista dall’art. 9 della L.R.
Basilicata n. 23/1999.
Se la scelta del contraente non significa la trasposizione di regole e di modelli nati per
disciplinare un altro contesto (contratti pubblici), comunque occorre introdurre criteri di
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valutazione e par condicio, come disciplinato dai “Programmi di recupero urbano” o i
“Programmi di riqualificazione urbana”.
In particolare, per i Programmi di recupero urbano, si stabilisce che “la procedura di
formazione dei programmi deve essere di evidenza pubblica e la selezione delle proposte
presentate dai soggetti abilitati deve avvenire attraverso un procedimento valutativo di
comparazione sulla base di criteri e modalità preventivamente definiti e resi pubblici”.
D’altronde, lo stesso Giudice amministrativo, ha giustamente sottolineato come “pur
ove non sia prescritto uno specifico procedimento concorsuale, la P.A. di norma non è
esonerata dal dovere di ricercare e comparare posizioni ed offerte diverse, al fine di poter
compiere la scelta del concessionario più idoneo e delle condizioni più convenienti, in vista
del perseguimento degli interessi affidati alle sue cure”.
Questo “confronto concorrenziale” sarà sulla base di parametri (tecnici, economici, di
raggiungimento di determinati obiettivi sociali, ecc...) desunti dal Documento Preliminare e
servirà ad individuare la proposta che presenti il miglior rapporto tra di essi.
7. Conclusione
La possibilità di accedere a forme di contrattazione nella disciplina urbanistica è una
opportunità di estrema rilevanza che consente di contemperare l'interesse della pubblica
amministrazione alla realizzazione delle previsioni urbanistiche e del privato di conseguire
l'interesse economico connesso alla esercizio dell'attività edificatoria.
Tali modalità, che trovano espressione mediante atti convenzionali redatti a corredo di
piani attuativi, devono essere utilizzati nell'ambito di precise regole che il Piano regolatore
generale, o il Piano strutturale nell'attuale distinzione dal Piano operativo, deve porre quali
invarianti delle scelte urbanistiche operate dall'amministrazione.
Anche l'attribuzione di premialità di volumetria come contropartita alla cessione di
aree, ad esempio occorrenti per l'edilizia sociale e la realizzazione di opere pubbliche, deve
esser prevista, predeterminata e limitata in tale contesto normativo e regolamentare,
diversamente divenendo un facile strumento di (illegittima) imposizione tributaria le cui
ricadute si peraltro ripercuotono sulla fiscalità generale, con l'aumento dei costi delle
abitazioni, a discapito delle classi meno agiate, e sulla stessa pianificazione e sull'assetto
urbanistico, stravolto dalla realizzazione di indici volumetrici previsti ad hoc.
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