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Rocco Mazzarone
Sud,
realismo e utopia
a cura di Marco Rossi-Doria
Questo libretto è stato voluto dalla redazione di “Lo straniero”
per ricordare Rocco Mazzarone, maestro e amico
di molti suoi collaboratori, e dalla Regione Basilicata,
nella persona del suo Presidente Filippo Bubbico
e di Mario Trufelli, presidente dell’Apt (Azienda promozione turismo)
di Basilicata, poeta e giornalista.
Esso riproduce l’intervista fatta a Rocco Mazzarone da Marco Rossi-Doria.
Manlio Rossi-Doria, padre di Marco, fu con Carlo Levi,
con Rocco Scotellaro e con Mazzarone uno dei maggiori protagonisti
della storia del Sud nel dopoguerra. Essa venne pubblicata
sul supplemento della rivista “Linea d’ombra”,
“La Terra vista dalla Luna”, nel numero di marzo nel 1992.
La precede una nuova presentazione di Marco. A integrazione,
un ricordo di Rocco scritto da Filippo Bubbico,
un ritratto scritto da Franco Vitelli – curatore tra l’altro dell’opera
di Rocco Scotellaro presso Laterza e Mondadori –
e tre testi rari e introvabili dello stesso Mazzarone,
che non scriveva volentieri ma era un eccezionale narratore orale.
Hanno curato la redazione di questo opuscolo
Anna Branchi, Goffredo Fofi, Alessandro Leogrande
e Fausta Orecchio. Per l’immagine di copertina,
particolare di un dipinto lucano di Levi,
si ringraziano sentitamente Guido Sacerdoti e la Fondazione Levi.
Chi desideri ricevere copie
dell’opuscolo o riprodurne delle parti
può scrivere a:
[email protected]
Roma, aprile 2006
Stampa: Arti Grafiche La Moderna, Roma
www.lostraniero.net
Sommario
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Il medico di Tricarico
Filippo Bubbico
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Ritratto di Rocco Mazzarone
Franco Vitelli
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I racconti di Rocco
Marco Rossi-Doria
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Una vita mal spesa
Rocco Mazzarone
incontro con Marco Rossi-Doria
Tre scritti di Rocco Mazzarone
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Borghesi e contadini nel Mezzogiorno
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Un modello di sviluppo per la Basilicata
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Carlo Levi, un amico
La figura di Rocco Mazzarone (Tricarico, 1912-2005), medico e riformatore attivissimo
sul territorio lucano e nel Sud, ma figura appartata, ai margini della politica istituzionale
per scelta, è poco nota salvo che nella sua regione e tra coloro che, medici mossi
da un forte senso di responsabilità sociale inerente alla loro professione e persone
variamente partecipi delle vicende economiche, culturali, assistenziali e politiche
del Sud, lo hanno frequentato, interrogato, usato come un fondamentale punto
di riferimento per la loro conoscenza del territorio, della sua storia,
della sua composizione sociale. È proprio perché Mazzarone ha scritto poco o niente,
ma è stato protagonista e testimone di un’epoca fondamentale nella storia
del Sud e dell’Italia, che abbiamo voluto riprodurre l’intervista di Marco Rossi-Doria,
ricordando un’altra intervista pubblicata sul numero 68 di “Lo straniero”, che gli venne
fatta da Alessandro Leogrande. Per la nostra rivista è un dovere ricordare Rocco
in anni in cui la memoria è così carente e faziosa nella nostra classe dirigente,
tra i nostri intellettuali, tra i nostri storici e nel popolo. (Goffredo Fofi)
Il medico di Tricarico
di Filippo Bubbico
Presidente del Consiglio regionale della Basilicata
D
i Rocco Mazzarone avevo sentito parlare sin dall’adolescenza, quando il medico di
Tricarico era già famoso per le ricerche epidemiologiche compiute e per essere stato
punto di riferimento degli studiosi che a partire dagli anni cinquanta svolsero importantissime ricerche sulla Basilicata e sul Mezzogiorno. Ma solo nel 1995, quando ho iniziato
l’esperienza di assessore regionale alla sanità, ho avuto modo di conoscerlo personalmente e di apprezzare le sue qualità umane, la sua proverbiale discrezione e la sua straordinaria competenza.
Ricordo le lunghe conversazioni nella sua casa di Tricarico, nella quale ero sempre accolto
con cordialità. E ricordo le sue lettere appassionate, dalle quali trasparivano una forte tensione morale e una capacità non comune di aggiornare l’analisi sui sistemi sanitari. Molti
anni prima Mazzarone aveva realizzato il primo progetto pilota di riorganizzazione del servizio sanitario in Basilicata. E non aveva mai smesso di dedicare la sua attenzione a questi
temi, tanto da spronarci a costituire l’osservatorio epidemiologico regionale, che oggi
reputiamo un organismo essenziale per capire i bisogni di salute.
Proprio lui, che in anni lontani aveva legato il suo nome alla battaglia per l’ospedale a
Tricarico, amava ripetere che la tutela della salute non finisce nelle strutture sanitarie, che
la medicina non è solo una tecnica per curare le malattie, ma uno strumento per accrescere le relazioni umane e la qualità della vita. Aveva visione aperta e moderna del concetto di
salute, che oggi significa prevenzione, servizi territoriali, capacità di recepire le nuove
domande che provengono dai cittadini.
Ed è anche per questo che la sua assenza è apparsa particolarmente insopportabile quando, recentemente, abbiamo inaugurato a Tricarico la nuova struttura per la riabilitazione
gestita dalla Fondazione Don Gnocchi. Che è anche un modo per dare un futuro all’ospedale che Mazzarone aveva tanto voluto.
I l me dic o di T ric a ri c o
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Ritratto di Rocco Mazzarone
di Franco Vitelli
I
l 28 dicembre 2005 è morto a Tricarico (Matera), dov’era nato il 17 agosto 1912, Rocco
Mazzarone. Novantatré anni sono tanti, egli ha attraversato quasi per intero il secolo scorso con appendice nell’attuale.
La sua vita impone rispetto per la durata, ma soprattutto per la qualità delle esperienze. Al
grande pubblico distratto, questo nome forse non evoca granché, eppure la figura di
Mazzarone rientra con un profilo tutto suo nella storia del meridionalismo, collocandosi
come l’ultimo dei grandi. Il fascino, e direi il mistero, della sua azione è nella risposta alla
domanda di come abbia fatto a incidere tanto mantenendo sempre un atteggiamento riservato e pudico. Di questo suo essere Carlo Levi aveva colto bene la sostanza quando nel
polittico Lucania 61 lo ritrae a testa china con il volto coperto dalla mano; segno e simbolo
di estrema pensosità e ritrosia a esibirsi in prima fila, senza però retrocedere di un palmo
nelle battaglie culturali e civili.
Non è questo il momento delle analisi complete, troppo fresco è ancora il dolore per la perdita, specie per chi, come me, lo ha avuto caro come un padre; occorre elaborare il lutto per
fare un discorso sereno. E tuttavia, sarà il caso di abbozzarne qualche linea, tenendo conto
del suo insegnamento che rifiutava per principio la creazione di miti, cioè l’alterazione ad
arte dei dati del reale per precise finalità. Basti ricordare il suo modo di porsi nei confronti
di Rocco Scotellaro, cui pure era legato da amicizia profonda: strenua fedeltà alla memoria
di un giovane talento precocemente scomparso e indicazione dei dissensi e limiti quando
vi fossero stati.
Rocco Mazzarone di mestiere ha fatto il medico. Si è laureato il 12 luglio 1936 presso
l’Università di Napoli e ha conseguito poi, il 18 luglio 1939, la specializzazione in Tisiologia
presso l’Università di Milano, dove entra in dimestichezza con padre Agostino Gemelli e,
soprattutto, con Francesco Olgiati.
A Novara nel 1939 ha ricoperto per incarico il posto di assistente in un centro per la lotta
contro i tumori e frequentato la divisione di pediatria diretta da Piero Fornara, antifascista
e poi deputato socialista alla Costituente, del quale diventa amico e si sente allievo.
Richiamato alle armi e inviato nell’Africa settentrionale, è catturato dagli inglesi, che lo
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utilizzano presto con posti di responsabilità nel 19° Ospedale Generale dell’Ottava
Armata.
Nel 1943 per uno scambio di prigionieri rientra in Italia assegnato al Distretto militare di
Potenza in qualità di sottotenente medico. Qui fa le prime prove di attività politica in seno
all’Associazione “L. La Vista” a stretto contatto con Matteo Renato Pistone, comunista dissidente. Nel 1944, nello spirito del Cln, collabora a “L’ordine”, diretto di fatto dal fratello
don Angelo, svolgendovi un ruolo di mediazione con gli esponenti dell’estrema sinistra; è
significativa la manchette che dettò per il giornale: “Una necessità: fronte delle democrazie contro le dittature”.
Dal 1947 al 1982 ha diretto il Dispensario antitubercolare di Matera. Nel 1968 ha conseguito la Libera docenza in Igiene e dal 1969 al 1982 ha insegnato Statistica medica e Biometria
nella Facoltà di Medicina dell’Università di Bari.
La sua attività scientifica si compendia in una sessantina di pubblicazioni riguardanti la
demografia; l’epidemiologia generale, della tubercolosi e della istoplasmosi; la microbiologia applicata all’igiene; l’igiene delle acque; l’anatomia patologica; l’organizzazione sanitaria. A mia conoscenza, la sua prima pubblicazione risale al 1940, quando nel numero di
febbraio della “Gazzetta Medica Italiana”, auspice Alberto Pepere, uscì un articolo su I rapporti tra linfoadenite tubercolare cervicale e mediastinica e tubercolosi polmonare.
Se fosse solo per queste essenziali notizie, ci troveremmo di fronte al caso non unico di un
ottimo professionista e studioso che ha svolto con estremo impegno e dignità il proprio
lavoro. Invece, ciò che rende singolare l’esperienza è la trasformazione della competenza
scientifica in una chiave interpretativa del mondo, al servizio della necessità di conoscenza e cambiamento della realtà meridionale; in altri termini, quello di Mazzarone è un originale contributo medico alla annosa questione, per tempo studiata sui testi classici di
Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini (che aveva incontrato a Sorrento) e Francesco
Saverio Nitti, del quale avrebbe voluto fare un’antologia degli scritti per meglio diffonderne il pensiero. E a ciò si aggiunga il sodalizio fraterno con Manlio Rossi-Doria e Carlo Levi
che l’ha tenuto impegnato in una persistente progettualità meridionalista. Il capitolo della
medicina sociale nel Mezzogiorno trova in lui uno degli artefici più importanti, addirittura
un capofila sulla cui scia ancora si opera.
Al tempo delle grandi scelte, dopo il disastro della Seconda guerra mondiale, Mazzarone
“prese parte con la sinistra per stare con la povera gente”. Era chiara la scelta di campo,
ma non di partito; tant’è che amava affermare: “Se fossi in Inghilterra sarei laburista, visto
che in Italia non esiste un partito come il partito laburista inglese, non sono iscritto e non
mi iscriverò a nessun partito. Voto per chi mi promette il minimo di illibertà e di ingiustizia sociale”. La sua posizione era determinata dal timore di essere schiacciato dalle ideologie onnivore che dominavano i grandi partiti della sinistra; muovendosi tra cattolicesimo sociale e laburismo propendeva piuttosto per il costante esercizio della concretezza
operativa. Amava tenere i piedi per terra, sul saldo; del resto, in quanto biologo applicava con spirito positivo l’analisi sperimentale da laboratorio. Tra Chisciotte e Sancho parteggiava per quest’ultimo, per la virtù della prudenza e il richiamo alla realtà delle cose.
“Scusami se ti ho scritto noiosamente ‘fitto’. Non sono stato io: è stato Sancio, e tu sai
quanto mi sia cara la sua amicizia…”, scriveva nel maggio 1949 a Scotellaro sindaco.
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Questi lo sapeva così bene che pensò di inserire nell’Uva puttanella dei “Colloqui con
Sancho (Mazzarone)”.
Mazzarone non ha mai messo in discussione il ruolo dei partiti ai fini della pratica di una
corretta democrazia, ne ha, caso mai, stigmatizzato le fumisterie ideologiche e le pericolose degenerazioni che troppo spesso li hanno trasformati in “aggregati di famiglie e clientele migranti”. Per lui il modo più proprio di fare politica è quello di attivare un processo partecipativo che liberi dalle incrostazioni burocratiche ed esalti il ruolo del popolo protagonista nella duplice veste di artefice e controllore: per questo ha giudicato paradigmatica ed
esemplare la procedura tenuta da Scotellaro nella fondazione dell’ospedale di Tricarico.
E, sia detto non per inciso, Mazzarone non si è mai sottratto al rapporto con la politica, nel
senso alto dell’azione da svolgere per la corretta gestione della polis. L’ha fatto, a suo
modo, da tecnico e consulente per chi governava la cosa pubblica. Quasi sempre ne è uscito deluso; ma questo è altro discorso. In verità, con l’onestà intellettuale che lo ha sempre
contraddistinto, non ha mancato talvolta di fare autocritica, riconoscendo gli errori commessi; anzi, proprio la serena discussione su di essi dimostrava una mentalità laica e aperta a nuove prospettive.
Un nodo importante nella sua riflessione riguarda il rapporto tra borghesi e contadini con
ricadute sulle specificità di classe, le persistenze e i mutamenti, la gestione del potere. Se
n’è occupato per sessant’anni, dalla lettura del Cristo nel 1945 sino alla morte. Del libro di
Levi lo toccano appunto le pagine sui signori locali e la piccola borghesia rapace più del
grande proprietario, ma anche quelle sui contadini, della cui condizione assume coscienza,
mentre prima si era limitato a considerarli naturalmente suoi “pari” nella quotidianità.
La sua attenzione si è concentrata anche sulla identificazione di chi siano effettivamente
i contadini, “quanto si estende il loro mondo” e in che rapporti si pongono con figure che
comunque hanno a che fare con la terra: dai braccianti ai mezzadri ai proprietari. È questo l’elemento che introduce nel simposio epistolare promosso da Friedmann e pubblicato su “Comunità” nel 1956, dove peraltro sotto forma di interrogativo lascia intendere un
mutamento dei “centri di interesse” che riguarderebbero ormai non solo la terra. Cosa
spiegabile con la crisi maturata a metà anni cinquanta che porterà al torrente impetuoso
dell’emigrazione.
A sostegno di questo discorso conviene richiamare la relazione tenuta a Tricarico nel 1957
in occasione di un convegno della “Campagna europea della gioventù” e il contributo al
seminario organizzato da Donald Pitkin nel 1959-60 sul tema “L’autorità e il potere nelle
comunità rurali italiane”.
La relazione si presenta come una trattazione organica che esamina in un percorso storico i diversi passaggi della proprietà della terra, avvenuti sempre a danno dei contadini.
Evidenzia altresì, sulla scorta di Salvemini e Dorso, il ruolo nefasto della piccola borghesia intellettuale, perniciosa quanto la malaria, con la differenza che questa è stata eradicata e l’altra invece mantiene intatta la sua influenza. La svolta dopo il secondo conflitto
mondiale segnò l’assunzione di una coscienza politica da parte dei contadini che, pur con
incertezze, si resero conto che “il potere non è un dono che viene dall’alto, ma che essi
sono tra le fonti del potere e che possono diminuirlo o accrescerlo nelle mani di questo o
quel gruppo”.
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Ed è proprio questo l’angolo visuale del seminario di Pitkin, dove Mazzarone porta il risultato di interviste volanti con risposte brevi, ma talvolta estremamente significative. Questa
ad esempio: “Il potere è l’abuso di autorità”, dove si percepisce una concezione in negativo che può anche essere generalizzata. Colpisce ancor più, anche se si spiega come rivalsa degli antichi soprusi, la durezza con cui il contadino esercita il potere nei confronti di chi
appartiene alla sua stessa classe.
Mazzarone nutriva un forte disprezzo morale verso i “mediatori del potere”, in quanto
capaci di alterare le regole democratiche. Li giudicava una vera e propria categoria parassitaria che si annida nelle burocrazie amministrative e dei partiti, svolgendo una pratica
corruttrice, ammiccante e ricattatoria. Secondo lui, fiorente cresceva quella pianta nel terreno di un contesto “familistico”, esaltato dal neocentralismo regionale, giusta la profezia
di Giustino Fortunato.
Per una persona razionale e dalla mentalità scientifica come Mazzarone è giocoforza che la
programmazione assuma un ruolo importante; non, evidentemente, come imposizione
“sovietica” dall’alto, ma come attività tesa a far entrare in un alveo di coerenza le componenti molteplici dello sviluppo, allontanando quanto più possibile lo spettro delle indebite
ingerenze di individui e di oligarchie economico-sociali. Si aggiunga che ciò veniva a convergere con le posizioni di un maestro della politica di piano quale Manlio Rossi-Doria.
Non è un caso, quindi, che la sua prima esperienza attiva la realizzi a Portici, allorquando
nei primi anni cinquanta partecipa agli studi preliminari per il piano regionale di sviluppo
della Basilicata, commissionato dalla Svimez. I risultati, condensati nelle Notizie sulle condizioni sanitarie della Basilicata, uscirono qualche tempo dopo su “Nord e Sud”. Ulteriori
significative presenze sono quelle nel Comitato per lo studio delle prospettive di sviluppo
delle province lucane e nel Comitato di soprintendenza del Progetto Pilota per l’organizzazione dei servizi socio-sanitari in Basilicata, di cui è stato presidente. Non manca una trasferta all’estero in una Commissione per il piano di sviluppo della Regione sud-orientale
dell’Iran; traccia di questo lavoro è l’opuscolo Health conditions and problems. Preliminary
Report (Italconsult, 1959).
Gli elementi di sopra offerti attengono all’aspetto sanitario, ma sarebbe sbagliato interpretarli in chiave settoriale; al contrario, vi era sottesa una visione integrale e completa
dello sviluppo in cui ciascun comparto aveva un ruolo da giocare in quanto parte di un
sistema.
Per la Basilicata Mazzarone aveva un modello da proporre e si oppose con fermezza al tentativo da parte di Ursini di ubicare uno stabilimento petrolchimico nelle vicinanze dell’antica Metaponto, che avrebbe distrutto la naturale vocazione di quelle contrade che era, ed è,
agricola e turistica. Lo stesso fece per la Fiat a Melfi, perché quella collocazione marginale
avrebbe creato, come poi è stato, un impatto stravolgente sul territorio. Vedeva bene
“industrie piccole e medie operanti nel settore di una qualificata tecnologia”, nella prospettiva di uno sviluppo equilibrato, compatibile con l’ambiente, senza traumatiche migrazioni di popolazioni e conseguente abbandono dei piccoli centri storici.
Alcuni Paesi costituivano per lui modelli di organizzazione sociale e di comportamento civile; e queste sue preferenze ha trasmesso a intere generazioni. Penso all’Inghilterra, alla
Svizzera, alla Danimarca. Di quest’ultima, che aveva avuto modo di visitare nei primi anni
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cinquanta sotto la guida di Angela Zucconi, egli apprezzava il sistema delle cooperative,
che lì era nato “come un ramo del movimento educativo”. La difficoltà di attecchimento di
uno spirito cooperativo in Basilicata era un suo cruccio e ne indagava le ragioni, rinvenendole volta a volta nel carattere individualistico e diffidente dei contadini ovvero nelle difficoltà ambientali. E quando spuntava un’eccezione riversava avida la sua curiosità, come
nel caso dell’esperienza di cooperazione a Grassano, di cui fu artefice Ortensio Ruggiero,
che è poi Orlando, il celebre personaggio del Cristo.
Abile nel legare i fili, Mazzarone si fece tramite per la diffusione a Portici del modello danese. Così scrive il 24 ottobre 1952 a Scotellaro: “Mi ha risposto il delegato in Italia della
Società danese chiedendomi se avessi ‘qualche suggerimento di collaborazione tra la
Società danese e gli economisti agrari di Portici’; sarebbe ‘lieto di poter organizzare qualche cosa per loro’. La cosa migliore è che voi stessi gli scriviate, accusando ricevuta dei libri
ricevuti e chiedendogli una copia di ‘Social Service in Denmark’ e di ‘Public libraries in
Denmark’.”
Non sorprenda il richiamo qui al “mal d’Africa” di cui indubbiamente soffriva Rocco
Mazzarone; era una “malattia” che aveva contratto con segni manifesti fin dal tempo della
prigionia e si era aggravata con la coscienza di quanto la sofferenza di quel mondo fosse
da attribuire alla pervicace oppressione di uno sviluppo capitalistico distorto. Non sopportava lo spreco della nostra società, che misurava in rapporto all’indigenza patita da quelle
popolazioni; per suo conto aveva imparato nel deserto a far bastare un litro d’acqua.
Nell’elevare l’Africa a categoria dell’anima Mazzarone riversava lo stesso inquieto sentire e
simpatia umana che aveva per il mondo escluso dei contadini meridionali. O si trova il
modo per soddisfare i loro legittimi bisogni o ci invaderanno per davvero, amava ripetere
con funesto presagio. E aggiungeva che è da un pezzo maturo il tempo perché l’Africa,
come già i contadini, entri nel giuoco della storia!
Non è senza significato che in un momento di crisi e di sfiducia, per un recupero di senso e
con la piena consapevolezza dell’onere, Mazzarone sia andato a insegnare nell’università
nazionale somala le metodologie della lotta contro la tubercolosi. Da Mogadiscio tornò realizzato, pieno di idee e felice d’aver fatto qualcosa per quelle tribolate popolazioni.
Nell’ambito delle inchieste a carattere comunitario rientrano sia il lavoro della
Commissione di studio per l’Agro e la Città di Matera che quello, a cura di Gaetano Ambrico,
su Povertà e storia nella comunità di Grassano. Indagine sperimentale sulla civiltà contadina. Mazzarone partecipò a entrambi. È indubbio però che lo ha più segnato il primo; anzi,
ha avuto un ruolo fondamentale nella sua crescita culturale. In effetti, quel gruppo di studio, coordinato da Friedmann, mise in atto un’esperienza che resta nevralgica nella storia
dell’antropologia dell’Italia del secondo dopoguerra. Veniva inaugurata una metodologia
interdisciplinare del lavoro in équipe, alla quale Mazzarone darà sempre somma importanza; sempre andrà alla ricerca di ciò che lega, rifiutando le parcellizzazioni del sapere e del
conoscere. E una volta, ricordando il suo primo incontro nel Baluchistan col suo amico
archeologo Dinu Adamesteanu, dirà: “Le ricerche archeologiche, come le indagini epidemiologiche sul campo, possono ben conciliarsi col nomadismo”.
Quanto alle polemiche che imperversarono furiose nella disputa sulla civiltà contadina,
senza esitazione Mazzarone ha dichiarato che la sua posizione era molto vicina a quella di
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Friedmann, il quale, improvvidamente è stato definito il “capofila dei sostenitori dell’immobilismo”, se prevede l’incidenza dell’elemento storico nell’innesto del mutamento.
Mazzarone, molti anni dopo, guarderà a quell’avventura col distacco dello storico, facendo
un bilancio tutt’altro che positivo, almeno da un certo punto di vista. L’utopia illuministica
della cultura che si fa base dell’azione del Principe fallì nel caso di Matera; i risultati delle
ricerche condotte “non hanno avuto alcuna influenza o hanno addirittura avuto un’influenza negativa” sulle scelte politiche e amministrative. E cita il caso dell’abbandono indiscriminato delle abitazioni del Sasso e l’utilizzo dei fondi unicamente nella costruzione di
nuovi alloggi, con la conseguenza inevitabile del degrado dei quartieri storici. Nel maggio
del 1976 in una lettera di lucido sfogo a Friedmann denuncia l’incultura dei politici e il tradimento di qualche chierico, che “non hanno permesso di operare a Matera negli anni cinquanta il risanamento dei vecchi rioni secondo criteri che solo ora si vanno sperimentando
nel centro storico di Bologna”. Del resto, non mancava nel 1947 di mettere in guardia il suo
amico sindaco Scotellaro dall’azione di alcuni consiglieri che chiedevano “di deliberare
l’abbattimento del pozzo cinquecentesco e la costruzione, al posto di quello, di una fontana, naturalmente con zampillo”!
Il filone dell’educazione sanitaria muove i primi passi tra i suoi interessi nel 1950 e 1951, grazie a una iniziativa dell’“Aiuto svizzero all’Europa”, che organizza a Locarno un corso di perfezionamento per maestri elementari del Mezzogiorno, animatrice Carla Balmelli. Colà gli
viene affidato un ciclo di lezioni sull’igiene elementare e le malattie infantili che riscuote
largo consenso. Successivamente, un viaggio negli Stati Uniti allargherà il punto di vista;
l’insegnamento di educazione sanitaria negli anni 1956-57 e 1957-58 presso il Cepas di
Roma sancirà, per così dire, il momento più ufficiale. Con questi precedenti non deve stupire se in un lungo scritto intitolato Igiene, medicina preventiva e educazione sanitaria dà una
prospettiva internazionale al problema, analizzando i vari sistemi vigenti negli altri Paesi e
ovviamente anche in Italia. Qui un occhio particolare è rivolto al ruolo che l’assistente sociale può svolgere nelle comunità contadine. Per le esperienze maturate, e quasi per caso, nel
1960-62 è responsabile del programma di educazione sanitaria nel Mezzogiorno, curato
dall’Amministrazione per le attività assistenziali italiane e internazionali; e in tale ambito ha
modo di allacciare fruttuosi rapporti con il Centro sperimentale di Perugia.
Un tratto della personalità di Mazzarone da mettere in evidenza è il suo rapporto con la letteratura, che va ben oltre lo stereotipo del medico umanista. La passione per la lettura,
antica come lui stesso afferma, risale agli anni del convitto a Nocera Inferiore, quando un
preside lungimirante gli consegnò la chiave della biblioteca e fu vera full immersion tra
romanzi francesi e russi. La letteratura per lui era lo spazio in cui assumeva evidenza e pregnanza il complesso teatro della vita con l’intervallo dell’evasione e del divertimento; recitava sereno e rievocante L’amica di Nonna Speranza del Gozzano che aveva imparato ad
amare durante il soggiorno novarese e con aria sorridente intonava “Saltella e balletta/
comare Colette! Saltella e balletta!” di Palazzeschi.
Il ventaglio delle preferenze letterarie era dettato dalle consonanze ideologiche, nel senso
del ritrovamento in certi scrittori delle sue medesime esperienze.
Vale per Primo Levi, del quale sottilmente condivideva il “complesso del sopravvissuto”:
apprezzava la prosa, ma tendeva a valorizzare anche la poesia, tanto che per lungo tempo
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ha tenuto attaccata alla sua libreria La bambina di Pompei. Il marchio della presenza
incombente della morte spiega la fatale attrazione per Michelstaedter con preferenza verso
Il canto delle crisalidi.
Discorso identico per Ignazio Silone, che avrebbe voluto conoscere di persona e verso il
quale dichiarava esplicita la sua ammirazione nel segno di un socialismo cristiano che s’innervava sulle comuni origini meridionali.
“Mi sono occupato persino di letteratura. Quanto tempo ho perso dietro Levi e Scotellaro.
Mi sono occupato di troppe cose…”. Così dichiara con più di un pizzico di civetteria, perché
in realtà sapeva bene che ciò era espressione della sua weltanschauung, una visione del
mondo complessa più che eclettica che ambiva a racchiudere in termini unitari i molteplici
aspetti dell’agire umano. E quanto poi ai nomi citati, essi fanno parte integrante della sua
stessa vita, tanto forte è stato il legame.
Mazzarone fu il primo a leggere in Basilicata il Cristo si è fermato a Eboli, grazie al dono che
del libro gli fece Turati, l’avveduto industriale torinese che a Tricarico era anche grande proprietario terriero. Incontrò l’autore nel 1946 in occasione della campagna elettorale per la
Repubblica e da allora ci fu amicizia intensa sino alla morte. Eppure, al di là della “comunanza di convinzioni sui problemi cruciali del Mezzogiorno” notevole era la distanza tra i
due: Levi aveva bisogno del manto rutilante del mito per dispiegare la sua acutezza interpretativa, Mazzarone era fedele alla “identificazione delle situazioni col dato”.
Il rapporto con Scotellaro è più fermo e sicuro; l’ala protettiva del fratello maggiore, o piuttosto la sapienza del consiglio, cominciò a rivelarsi di già nel primo incontro del 1943, allorquando deciso fu l’incoraggiamento per l’attività poetica, mentre con perplessità si espresse per quella di critico cinematografico. Il giudizio sicuro e la competenza, starei per dire
tecnica, hanno fatto di Mazzarone un interlocutore costante da cui attingere suggerimenti
anche per la scrittura; ciò è valso per le poesie, per Contadini del Sud, e anche per L’uva
puttanella. A proposito di quest’ultima così scriveva in una lettera del 29 dicembre 1952:
“Sono anche contento che abbia ripreso a lavorare al tuo racconto. Fra qualche settimana
spero di venire a Napoli e voglio vedere. Io scriverei, comunque, in prima persona ma
impersonando un altro che non sia tu. In questa maniera il lavoro di decantazione riuscirebbe più facile. Ma ne parleremo a voce”. Qui, come si vede, entra nel merito della struttura dell’opera volendo intendere di trovare la giusta soluzione formale che preservi la prepotenza dell’esperienza personale senza rinunciare alla necessaria distanza.
L’amicizia con Manlio Rossi-Doria è stata prima di tutto un incontro di affinità sul piano
umano, come due “fratelli d’anima” che si trovano per avventura a dover studiare, sotto
aspetti diversi, quel mondo contadino che amavano e volevano al passo dei tempi senza
stravolgimento di antichi valori tuttora validi. Un nucleo forte di continuità che doveva
costituire l’asse portante di uno sviluppo in progress.
Ciò che li legava era un sano realismo non disgiunto da una cauta utopia; non l’ottimismo
di facciata che appanna la chiarezza dei problemi, ma direi un “pessimismo attivo” che
valuta le difficoltà e le fa superare in una progettualità che costruisce il futuro: l’ombra vigile di don Giustino sovrastava.
Erano personaggi austeri, di rara sobrietà, che mai avrebbero confuso la necessità col superfluo; mai avrebbero abdicato ai propri principi morali per la comodità della vita. Per entram12
bi l’importanza del numero come dato scientifico dell’analisi del reale era fuori discussione,
ma andava inverata nelle variabili della storia e sorretta dal conforto dell’indagine socioantropologica. Si ritrovavano nel far convergere scienza e umanesimo.
L’incontro con Henri Cartier-Bresson risale al 1952, in occasione del primo viaggio in
Basilicata, quando il grande fotografo in una lettera a Scotellaro ha modo di riconoscere
che “le Docteur Mazzarone […] a été de si grand aide pour nous”. Nel caso specifico il rapporto si è trasformato nel tempo in una cara amicizia e stima reciproca; ed esaltante si è
rivelata per entrambi la collaborazione che ha portato alla pubblicazione sulla rivista “DU”
delle foto sulla Basilicata. Bresson dichiara “parfait” lo scritto introduttivo e “quelle joie
pour moi cette collaboration”; Mazzarone si dice “très content e quelque peu orgueilleux”
d’aver dato il suo modesto nome al servizio fotografico e ne riconosce il grande valore artistico oltre che di documento storico.
Ma è interessante far emergere il modo di porsi di Bresson nei confronti delle popolazioni
visitate; non il reporter dal comportamento scientifico che fotografa con distanza, viceversa l’uomo che si lascia coinvolgere e metabolizza le pene. Così scrive a Mazzarone il 6 luglio
1974: “Il me rappelle tant d’excellent souvenir et aussi me lasse une ristesse, car me sens
si attaché au pays et aux gens que nous avons connu”; tant’è che in un’altra lettera si dimostra interessato a sapere “les réactions locales des gens”. Quindi, l’azione del fotografo
mirava anche a uno scambio emotivo e di presa di coscienza.
“Per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria” onde
poter “mediare attraverso la concretezza di questa esperienza il proprio rapporto col
mondo”. Mazzarone sembra aver fatto sua questa lezione che proviene da Ernesto De
Martino, l’illustre antropologo del quale era stato peraltro amico.
Il legame con Tricarico è stato forte fortissimo, ma non semplice; l’ha visto in tutta la complessità Ann Cornelisen nel suo romanzo Torregreca, in cui Mazzarone è personaggio protagonista. “Luca Montefalcone ha una passione, Torregreca, il suo paese natìo, e dovunque
egli vada, per qualsiasi scopo, ne parla, raccontando le sue caratteristiche e i suoi incubi”,
vi aggiunge però che “se vi abitasse, sarebbe forzato a cambiarla”, entrando in rotta di collisione con i suoi concittadini e distruggendo così il suo mito.
In effetti, per Mazzarone il paese ha la valenza contraddittoria delle cose che si amano: ne
vorrebbe fare il luogo in cui riversare tutte le sue utopie progettuali, ma s’accorge che la
materia non risponde all’intenzione dell’arte; e questo crea forte disagio con amore e odio,
partenza e ritorno. Insorge il contrasto tra il paese reale e il paese dell’anima, l’unico quest’ultimo che può essere assunto nella demartiniana elaborazione antropologica. Fu medico “nomade”; e nel suo continuo peregrinare, dettato da un’inquieta ansia di conoscenza
e apertura al mondo, conservava irremovibile il ricordo della “piccola patria”.
Il rapporto di Mazzarone coi giovani era tutto particolare: la sua persona suscitava un misto
di rispetto e familiarità. I giovani ne erano fortemente attratti, anche se non venivano loro
elargite le lusinghe delle facili promesse; al contrario, venivano esortati all’impegno e agli
studi severi. È con loro che meglio si esplicava la qualità principe del “suggeritore”; per
ognuno aveva una via da indicare, un progetto da perseguire, una persona da incontrare. Il
consiglio di “don Rocco” non era, e non poteva essere, un’imposizione, ma il momento in
cui cominciavi a riflettere e ad arrovellarti; iniziavi cioè il processo di maturazione. La fiduR it ra t to di R o c c o M az z ar o n e
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cia, ecco ciò che contrassegnava il rapporto; fiducia voleva dire la costruzione faticosa e
responsabile di un percorso autonomo per il quale aspettavi e chiedevi il confronto.
Mazzarone non ha lasciato molto di scritto, la sua autorità è di tipo socratico, poggia sulla
forza travolgente di instaurare dialogo valorizzando l’altro. Si tratta di una innata capacità
maieutica che assolve un’alta funzione educativa e didattica, e ne fa quasi un maestro d’altri tempi, della cultura orale che trae forza dalla molteplicità sconfinata delle esperienze.
Ha rimproverato a se stesso, ma se lo spiegava, di non aver tenuto un diario che fermasse
i numerosissimi incontri e fatti cui gli è capitato di assistere.
Mario Trufelli, conterraneo che gli è stato molto amico, in una poesia scritta per la morte
fissa un ritratto aderente delle posizioni anticonformiste e quasi francescane, che gli davano un’insolita libertà e acutezza nel dipanare le situazioni più complesse. Mazzarone poteva mandare “messaggi tra grovigli d’ombra”, in virtù di un’arte della discrezione di sapore
guicciardiniano, che gli consentiva di individuare gli elementi in campo, stabilendone i
nessi e le diversità.
Se lo studio di Carlo Levi è stato, secondo Italo Calvino, l’avamposto o ambasciata del
mondo contadino a Roma, il dispensario antitubercolare di Matera, con filo diretto e corrispondente, è stato il centro di smistamento sul posto. Paolo Volponi lo ricorda con affetto
e simpatia invitando Mazzarone a “raccogliere i suoi ricordi su tutte le carovane culturali
che dal primo dopoguerra hanno attraversato il Mezzogiorno facendo capo immancabilmente a Lei per… rifornimenti, indicazioni, ecc. ecc.”.
Quanto sia stato importante, quali frutti abbia prodotto questo ruolo di intermediazione
che non è solo culturale, ma socio-politico, prima o poi sarà il caso di verificare, recuperando documenti e testimonianze. Ora basti riconoscere merito all’uomo che, come singolo, si è sobbarcato questo peso enorme sulle spalle.
Rocco Mazzarone era capace di parlare col silenzio; a Giuseppe De Rita è apparso incarnare una sorta di archetipo che accomuna “Aliano e Saint-Malo”, nel nome di padre Lebret e
in virtù della “lentezza, atemporalità, capacità di silenzio”.
Le pause anche lunghe creavano talvolta imbarazzo nell’interlocutore, ma era una forma di
stazionamento nella riflessione per trovare il bandolo nei labirinti del reale. Per questo fine
ha lavorato tutta la vita, rimanendo lucido e coerente sino all’ultimo; non finirà mai di sorprendere la sua capacità di comprensione che gli consentiva una sintonia coi tempi senza
nostalgie passatiste. Sta a noi accogliere con fedeltà e silenzio un messaggio che trasmette verità scomode: è un’eredità difficile, ma densa di futuro.
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I racconti di Rocco
di Marco Rossi-Doria
Q
uando ho intervistato Rocco Mazzarone forse avevo un’ombra di senso di colpa verso
mio padre. Credo di averlo anche detto a Rocco.
Mio padre si era dedicato al racconto della sua vita (Manlio Rossi-Doria, La gioia tranquilla del ricordo, Il Mulino 1991) ma era morto prima di scrivere delle vicende pubbliche e private della sua maturità. È, infatti, un’autobiografia che è piena dei fatti del mondo e della
sua famiglia di prima della sua nascita, che racconta in dettaglio la sua infanzia, l’adolescenza e la sua giovinezza ma che è orfana dei molti passaggi della sua vita adulta. Egli
stesso, nei mesi prima della morte, se ne doleva spesso. Mia madre ha dovuto, con il sostegno degli amici e della famiglia, ricostruire, molto brevemente i decenni “mancanti”, perché il lettore sapesse. E rimaneva dentro a noi tutti un’eco della voce di mio padre, fatta di
storie orali, di giudizi sulla storia, di conversazioni a volte dense e pensose e a volte
improvvise e argute che non furono mai scritte e nemmeno raccolte. Nessuno ha pensato
per tempo a un’intervista che avrebbe facilitato la raccolta di quella voce, che, pure, sarebbe stata possibile. Non lo abbiamo fatto, non l’ho fatto: per pigrizia, disattenzione, per un
rispetto eccessivo per i tempi della sua scrittura, che procedeva a rilento.
Non volevo che questo accadesse anche per Rocco. È per questo che, ormai quasi quindici
anni fa, l’ho intervistato.
Rocco Mazzarone è stato un vero narratore. Fin da quando ero bambino io l’ho visto sempre così. Lo andavi a trovare. Parlavi delle cose dell’oggi. Chiedeva di te e dei tuoi. Poi narrava: incontri, viaggi, impegni da medico e da studioso di microbi e malattie o della sua
terra, eventi del suo tempo, evidenze statistiche, ben documentate, discorsi uditi, situazioni capitate a lui o con persone di ogni tipo, scelte fatte e non fatte da parte di quello, di
quell’altro, di se stesso.
Sì, le scelte. Le scelte delle persone: questa era una sua speciale attenzione, entro la narrazione. “Quel tale se avesse continuato, sarebbe... Mia nonna aveva un’intelligenza tale
che…”
E la stessa attenzione la rivolgeva su di sé. “Avrei potuto, magari se avessi…”. Lo diceva in
I r a c co n t i d i R o c c o
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tono malinconico e, al contempo, riflessivo. Aveva a tratti, in questo, un giudizio autocritico sulla sua vita, quello di avere fatto troppe cose. “Una vita mal spesa” – così sintetizzava, questo suo pensiero. Ma era, tutto sommato, qualcosa di pacato, senza quel rancore
che brucia dentro e determina astio, a cose ormai fatte. Piuttosto era un riflettere sulle
scelte e su cosa le determina nella vita. In questo, la narrazione di Rocco Mazzarone sembrava capace di nutrire di evidenze le parole del suo amico Rocco Scotellaro: “Uno si distrae al bivio”.
Riportava la voce viva degli altri: frasi e giudizi di uomini e di donne, prese così come sentite, tenute dentro, raccontate poi. Ne esplorava, insieme a te, il senso, lo spirito. Ne cercava le matrici, ne rivelava le diverse dimensioni, mai facili da capire – come in un’esplorazione o in una ricerca scientifica, dove la ragionevolezza della procedura è rispettata ma
viene anche lasciata la porta aperta per altro ancora. Prima cercava di capire, ragionevolmente, appunto, il perché di quella frase, di quell’atto, di quella situazione. Ripeteva poi,
di nuovo il passaggio che lo aveva colpito, il luogo, il dato o la frase che ne era l’emblema
e il fulcro e si interrogava e ti interrogava di nuovo sul senso. Ma poi lasciava intorno lo spazio bianco, i margini per l’incompreso, per il possibile. Come ognuno che sa narrare, lasciava un sospeso, qualcosa che serbasse il mondo così come è.
Così Rocco, nel raccontare, svelava quanto era affezionato alle cose di non facile lettura, a
quelli che si chiamano quesiti propri, perché non hanno – in chi li pone – una risposta già
data. Come vive davvero quel micro organismo nel nostro corpo, lo sappiamo e fino a che
punto? Dov’è che si è arrestata la ricerca sul passaggio dell’armata di Annibale per questo
valico? Cosa ci dicono i dati sull’analfabetismo di ritorno? Cosa spinse il duce ad attaccare
l’Etiopia? Ma io che l’ho vissuta, so veramente cos’è la guerra nel deserto? Che cosa ci può
essere sul confine tra la fede e la scienza?
Nell’interrogarsi, tuttavia, e nel narrare la genesi di ogni interrogazione – insieme all’interlocutore che aveva davanti – Rocco non esprimeva sgomento o angoscia ma curiosità,
sorpresa, divertimento. Coglieva spesso i paradossi e li metteva in luce scegliendo, tra
tutti gli elementi della sua stessa narrazione, lo strano, il buffo o il singolo dettaglio che
sa spaesare. Lì si arrestava, ci si soffermava. E, così, colto e disvelato proprio quel dettaglio tra i tanti possibili, subito ne sorrideva o ne rideva di cuore. Allora girava la mano a
sottolinearne il carattere curioso, divertente, sorprendente e la sua faccia si illuminava
tutta. E rideva ancora.
“Spassoso” – è forse questa la parola che più si avvicina al sentimento che ti voleva fare
cogliere quando faceva così, volta dopo volta. E ti faceva ridere anche a te. I narratori donano apprendimenti ma anche piacere e piacevolezza e divertimento.
Sta per uscire una lunga intervista e riflessione che ha visto Rocco – insieme a Pancrazio
Toscano – lavorare, negli ultimi anni e mesi della sua vita, con grande cura, su un largo
telaio di materie, di ricordi, di dense testimonianze storiche e di interrogativi. Questa narrazione ci dirà molto su Rocco Mazzarone.
La mia intervista a Rocco, che feci insieme a mia moglie Anna Maria Savarese, in quattro
tornate e delle quali conservo i nastri in qualche luogo, più semplicemente, forse, rivela
qualcosa dell’umore, della sapienza e della generosità di Rocco, narratore della vita.
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Una vita mal spesa
di Rocco Mazzarone
incontro con Marco Rossi-Doria
S
ono venuto a chiederti della tua vita...
Perché intervistate proprio me?
Una ragione c’è. In questo nostro paese, e nel Mezzogiorno, si sente tanto chi fa e disfa e
troppo poco chi svolge una attività utile, per scelta, sobriamente. Tu fai il medico in
Basilicata da quasi cinquant’anni... E non solo il medico.
Guarda, io ho cercato di fare quello che ritenevo giusto. Ma proprio in questi mesi mi sono
chiesto: quanti altri cercano di fare quello che si deve fare? E mi sono risposto: tanti.
Ricordo di un medico di Oliveto Lucano, Pierluigi Gesualdi, morto purtroppo, un ottimo
medico, un uomo di grande cultura e di grande umanità. Vedi, egli poteva andare a vivere
a Roma dove vinse un concorso e, invece, preferì rimanere a Oliveto perché era arrivato lì
ed era affezionato.
Non era di Oliveto?
No, era di un altro paese. A volte si approda in un paese vicino.
Ma molte intelligenze del Mezzogiorno si sono, invece, spese altrove e altre si sono sprecate...
Guarda che, a proposito di sprecare, se proprio la volete pubblicare questa intervista, lo
farete a condizione di titolarla “una vita mal spesa”.
Ma ora ti chiedo delle intelligenze del Mezzogiorno: molte sono andate via, molte si sono
chiuse in solitario arroccamento. Per non parlare dei tanti che si sono venduti al politicantismo e agli affari.
Distinguiamo. Andare via, sono andato via per degli anni anch’io, come sai.
Ma sei tornato.
Sono tornato, sì. Il politicantismo: la politica male intesa è una via che sta lì, è facile. Quelli
che tu chiami gli arroccati, forse è vero. Ma, in un momento o in un altro, sono stati utili. E
Un a v it a m a l s p es a
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non credere che tutti si siano chiusi, io conosco medici e ricercatori, giovani, molto preparati, in Basilicata. E poi dicevi gli affari, è un’attività economica.
Certo. Ma avevo in mente un certo modo di arricchirsi e questo è un conto, e invece guidare imprese produttive è un altro. Quanti imprenditori lucani guidano aziende valide?
Pochi. Ma qui siamo costretti a ragionare di un complicato circolo vizioso. Nel Mezzogiorno
è difficile trovare le condizioni che consentano a un individuo di riuscire nella vocazione di
imprenditore. Così si spiega come molti altamurani siano imprenditori in Lombardia. Certo,
non vale per tutto il Mezzogiorno. La Puglia, per esempio, è molto diversa, forse lì respirano aria iodata. Qui respirano aria di montagna. La stessa Bari la potremmo definire una
metastasi del nord.
Rimane la constatazione che qui “lo sviluppo industriale resta lontano dal più modesto dei
ragionevoli obiettivi che si possono porre nei suoi riguardi”...
La realtà è complessa. Per esempio, non lontano da qui, nella valle del Basento, allo scalo
di Salandra e Ferrandina, in condizioni appena favorevoli, insieme ai fallimenti da cui stanno tentando di risorgere sono nate piccole industrie guidate da lucani, che sono in attivo.
Torniamo alla tua vita. Tu sei nato a Tricarico. Che ricordi d’infanzia hai?
Sì, nel ’12. Da bambino ho vissuto qui. Andavo a scuola, ero bravo: ecco, guarda questo mio
quaderno di prima elementare che ho ritrovato, così ordinato. I ricordi mi dicono che debbo
molto ai maestri di scuola. Allora essi non erano pendolari come ora e, finita la scuola, li
incontravamo per strada dove erano punto di riferimento per noi scolari e per tutti in paese.
Era così: il rapporto educativo continuava ben oltre le lezioni. Poi ricordo che qui vennero
confinati dei prigionieri austriaci della grande guerra. Li chiamavano austriàci, con l’accento sulla a. Tutti avevano mal parlato degli austriàci e io invece li vedevo come uomini gentili. Mi ero molto affezionato a uno di questi prigionieri che si chiamava Muio e che sedeva
in questo paese lontano dai suoi e cantava così bene le sue canzoni. Poi giocavamo.
Andavamo su e giù per il paese. E a sera, dopo le scorribande, ci arrampicavamo sui campanili a vedere come i ciechi componevano la musica suonando i diversi battagli delle campane. Poi ricordo bene il giorno in cui mi spinsero a portare i fiori a Francesco Saverio Nitti
che era venuto a Tricarico. In famiglia mia erano nittiani.
Che faceva tuo padre?
Mio padre ha incominciato col fare il commerciante. E poi è diventato un piccolo bancario.
Aprirono a Tricarico una rappresentanza del Banco di Napoli, che dopo divenne agenzia.
Mio padre aveva fatto la quinta elementare; ma era un uomo molto intelligente e volitivo.
Era diventato ragioniere per corrispondenza. Ma senti, hai visto il giornale oggi? Vedi quanto è difficile ripartire ora lì, in Urss? Prima dicevamo dello sviluppo: alla fine gli imprenditori lucani che sono riusciti sono stati quelli che hanno contato soprattutto su se stessi.
Questo è il punto. Invece qui è capitato, per certi versi, in piccolo, ciò che è capitato in Urss
e nell’Est. Si è atteso l’aiuto dall’alto, da fuori; e la propria capacità, il gusto di provare da
soli si sono atrofizzati. La sovvenzione, senza criteri economici, ha prodotto terribili spre18
chi e non pochi approfittatori e, in altre zone del Sud, ha arricchito la grande malavita. Io
dico quello che vedo, che tanti altri hanno detto. Le intelligenze meridionali, come le chiami, gli imprenditori sono stati mortificati da quello che anche tuo padre, Manlio RossiDoria, definì il nuovo sistema di potere, cresciuto sulla spesa pubblica e che da decenni ha
sostituito l’antico “blocco agrario”, un freno allo sviluppo. E ha legato le forze economiche
alle fortune dei politici.
Tu dunque ritieni che l’intervento dello Stato, che la Cassa per il Mezzogiorno, per esempio, abbia frenato la crescita?
Bisogna distinguere. All’inizio questo aiuto fu importante, era giusto aprire il rubinetto per
poter partire e uscire dalla miseria. Personalmente ritengo che, poi, il rubinetto andasse
però chiuso. O almeno si doveva arrivare a un sistema vero e rigoroso di verifiche.
Bisognava imboccare la via della programmazione e coinvolgere così anche i giovani, le
intelligenze meridionali.
Ma non è che questa via non fu tentata. Tu stesso hai dedicato tante energie ai diversi tentativi di programmazione.
E ora dico che ho disperso energie. Penso al progetto pilota. Ogni settimana ricevevo dettagliati rappori su tutta la situazione sanitaria in Basilicata e facevo le mie considerazioni; cercavo di capire di cosa davvero si aveva bisogno, come organizzare senza sprechi. A che pro?
Non dipendevano da te le decisioni finali, non era colpa tua.
Ma io non sono stato intelligente abbastanza da capire che il mio era un semplice esercizio
a cui potevo dedicare un decimo del tempo, lasciandolo ad altre cose. Per esempio alla ricerca sui micobatteri. Ero arrivato a un buon livello. Avrei potuto dedicarmi completamente a
questo argomento. Avrei fatto cosa più utile. Ho sperperato e, alla fine, mi dispiace.
Ma è poi giusto prendersela con la propria passione civile?
Io faccio un consuntivo. Vediamo la programmazione che poteva essere una via per la
Basilicata. Tu sai che io ho creduto nella programmazione. Il primo tentativo fu negli anni
cinquanta, patrocinato dalla Svimez e diretto da tuo padre. Furono costituiti dei gruppi di
lavoro formati da esperti e funzionari. Rocco Scotellaro fu segretario di redazione. Il sottogruppo per i problemi sanitari fu formato da due medici provinciali, due ingegneri civili e,
tra gli altri, anche da me.
Furono fatte analisi e proposte?
Certo. La documentazione, con proposte che avrebbero evitato lo spreco di molto denaro
pubblico, è stata pubblicata solo in piccola parte: la mia relazione su “Nord e Sud” e anche
quella di Scotellaro, sulla scuola, postuma. Nel ’64-’65 fu fatto un secondo tentativo. Le
camere dell’Industria e del Commercio della Basilicata fecero costituire dei gruppi di lavoro. Vi partecipai insieme ad altri, tra cui vari professori di Portici. Le relazioni e le conclusioni basta leggerle, furono pubblicate allora e ripubblicate recentemente. È evidente la
distanza tra un progetto razionale di uso delle risorse e quello che invece è accaduto.
Un a v it a m a l s p es a
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All’inizio degli anni settanta la neonata regione accettò di portare avanti un ultimo tentativo. Per la parte dedicata alla sanità il Ministero della programmazione offrì alla Basilicata
la possibilità di studiare un progetto pilota, appunto, e fui presidente del comitato di
sovraintendenza a questo. È stata per me un’esperienza intensa, ma mi ha lasciato l’amaro in bocca. Tutto è stato pubblicato ma il consiglio regionale non lo ha mai neanche discusso e nessuna indicazione fu presa in considerazione dal legislatore regionale.
Coma concludere?
Nella sua ultima intervista alla Rai-Basilicata tuo padre l’ha detto chiaro: “i politici se ne
fregano”. Non so se per miopia o per calcolo i politici non sono stati all’altezza della sfida
della programmazione. Hanno preferito cercare voti tenendo aperto il rubinetto. E gli stessi industriali del Nord, che anche essi hanno attinto a quel rubinetto, una volta rinvestiti gli
utili complessivi al Nord, non sono stati più disposti a investire anche al Sud, se non in
minima parte. Ma tornando ai politici: penso che non sia ancora chiaro, in Lucania ma
anche altrove, quello che noi elettori dobbiamo attenderci dagli eletti, siano essi parlamentari, nazionali o regionali, consiglieri o amministratori locali. Questa mancanza di chiarezza su cosa sia, in ultima analisi, la democrazia finisce per alimentare il clientelismo.
Come? Fai un esempio?
Se è veramente necessario costruire una strada non c’è motivo che l’uomo politico telegrafi di essere “lieto di comunicare” che sono stati stanziati i fondi per costruirla. E, dall’altro
lato, non vi è ragione perché si accetti passivamente il telegramma. La questione è dunque
come si è giunti alla decisione di costruire la strada: chi ha partecipato alle scelte? Credo
che la partecipazione informata sia una delle garanzie fondamentali del corretto esercizio
della democrazia. Se sul terreno dello sviluppo i progressi sarebbero stati più incisivi se
orientati dalla programmazione, da un qualche disegno generale a cui liberamente riferirsi,
su quello democratico il nodo resta la partecipazione nelle scelte. So che non era e non è
facile questo intreccio tra progettualità razionale e partecipazione della gente alle scelte,
anche ora che approderà la Fiat in Basilicata, a Melfi, che fu una delle capitali di Federico II...
Ho sempre trovato affascinante la figura di Federico II...
Federico II fu certamente uomo di grande genialità. Ma io non credo di averlo mai amato
perché egli fu uno dei fondatori del Regno, del dominio. E io, appunto, sono avversario del
dominio.
La tua famiglia, dicevamo...
Sì, nel ’22, circa alla fine della mia scuola elementare, arrivò il fascismo. Vedi, qui non vi fu
squadrismo. Si lodava l’ordine e questo piaceva anche a mio padre che fu un uomo d’ordine.
Sarebbe interessante studiare cosa fu il fascismo qui. Ti cito un piccolo episodio. Ad
Accettura, un paese in provincia di Matera, i signori che si esercitavano nei partiti si resero
conto che, dopo la marcia su Roma, non ci sarebbero stati più nittiani né d’alessiani, dal
nome di un parlamentare che ebbe allora un suo seguito. Gli uni decisero di fondare il partito fascista e gli altri, di fazione avversa, trovandosi spiazzati, fondarono un altro fascio. Allora
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si usavano molto i canti a rampogna che i contadini componevano andando in campagna.
Allora i primi fascisti fecero una canzone il cui ritornello era questo: “Lu fasciu di Don Paolo
ie’ nu fascitidd’, / L’han fatt a sera a nott ’nda petea de Pecuridd’ / Ish, ish fò! ...”: il fascio di
don Paolo è un piccolo fascio, l’hanno costituito a notte tarda nella bottega di Pecuriddo, che
era un ciabattino. “Ish, ish” si dice al porco, vai fuori, vai fuori... Ecco: così è nato il fascismo
in Basilicata, da noi. Nei paesi al confine con la Puglia, invece, dove c’era il latifondo che si
confrontava con i braccianti, lì bastonavano. Quel fascismo lì fu una cosa seria.
Avevate proprietà?
No, noi non avevamo proprietà e neanche la casa in paese. Poi mio padre comprò un appezzamento di terra con casetta in un posto bello che scambiò in seguito con quella di uno zio,
proprietario di questa casa a Tricarico dove vivo ancora adesso con mia moglie Tina, mio
fratello Don Angelo e le mie sorelle Teresa e Filomena.
A casa tua non c’era miseria.
No, noi mangiavamo carne una volta a settimana, non eravamo ricchi né poveri. Il mio
nonno paterno faceva il sarto, mestiere che a me non piaceva. E mio padre, al tempo che io
frequentavo le scuole medie presso il convitto laico di Nocera Inferiore, soleva minacciare
di farmi diventare sarto nel caso non avessi preso la media del sette. Quel mestiere mi dava
fastidio e così...
Cosa del sarto ti dava fastidio?
Il ditale, probabilmente. Sì, il ditale. Se mi avesse detto “fai il falegname”, l’avrei fatto. Così
mi sono dato da fare. E poiché al primo trimestre presi quattro e sei in italiano, andai dal
preside e gli dissi: “Signor Preside, io vorrei imparare a scrivere bene in italiano”. “Eh figliolo – disse lui – devi leggere molto, cinquanta pagine al giorno”. Così ogni quattro, cinque
giorni avevo un libro, romanzi francesi e russi, Tolstoj, Dostoevskij; e tutto grazie a questo
preside che mi diede la chiave della biblioteca. Ma torniamo alla questione dello sviluppo.
E allora?
Dico una cosa semplice: si deve ricevere all’inizio perché si deve partire equipaggiati. Ma
poi bisogna rischiare, pagare in proprio. Ogni conquista deve essere il risultato di qualcosa dato in proprio.
Fare questo bilancio può essere amaro per la sinistra. Dobbiamo proprio accettare il detto
napoletano secondo il quale le cose non vanno bene perché “a mangiatoia è troppo
vascia”? Viene meno tutta l’idea di uno Stato che sostenga chi ha bisogno.
Il problema, ripeto, non è avere il giusto sostegno iniziale; qui è stata foraggiata l’idea che
lo Stato dovesse dare, ora qui ora là, senza criterio razionale, in cambio di voti. Guarda
ancora l’Est: volevano mantenere l’uguaglianza e creare addirittura “l’uomo nuovo” attraverso lo Stato che elargiva senza chiedere. Anche se poi la richiesta, in termini umani, è
stata altissima, terribile. L’uomo nuovo... ma cosa vuoi l’uomo nuovo? Forse lo si potrà fare
un giorno con un innesto sulla corteccia cerebrale...
Un a v it a m a l s p es a
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Noi dobbiamo domandarci allora se nel Mezzogiorno, finita la fase iniziale dell’aiuto al
primo sviluppo, la sinistra non abbia semplicemente evitato di misurarsi con le verità di cui
tu parli, e abbia così finito anch’essa per spingere le cose nella direzione del puro assistenzialismo, nato da una matrice cattolica solidaristica, ma funzionale al sistema di potere guidato dalla Dc.
Sono perfettamente d’accordo. La sinistra, salvo qualche uomo, i partiti di sinistra non
hanno chiesto di programmare l’assistenza allo sviluppo e se lo hanno fatto non hanno
mai indicato seriamente come. Ci si è limitati a dire “date troppo poco”. Su questa questione di essere di sinistra recentemente e pubblicamente fui stimolato da chi conduceva
una tavola rotonda. Si parlava di Tricarico. Mi è stato chiesto che cosa pensavo all’inizio
degli anni cinquanta della riforma agraria qui. E io ho risposto che, certo, allora, pensavo
che fosse giusto espropriare l’azienda Turati che era la grande proprietà terriera a
Tricarico. Veramente al di fuori della realtà, io allora affermavo che bisognava espropriare la terra ma non dividerla bensì cercare di gestirla in cooperative. Aggiungevo che una
parte dovesse rimanere a Turati perché fosse gestita con criteri moderni e fosse di stimolo, di esempio.
A dire il vero mi sembra, per quegli anni, una proposta ragionata; non estrema. E poi c’era
stato il grande moto per la terra e si sentiva il peso della nuova ondata di partenze migratorie e conoscevate le pene dell’emigrazione.
Invece sbagliavo. Del moto contadino, dell’emigrazione ti dirò, ma sapevamo che la gente
sarebbe partita comunque. E la cosa migliore sarebbe stata lasciare tutto a Turati che era un
industriale del Nord con proprietà qui. Egli era il padrone della Carpano e avrebbe organizzato tutto da imprenditore vero, in modo moderno e non avrebbe contato solo sui sussidi.
Dubito che Turati non avrebbe accettato aiuti dallo Stato. E poi questo è un caso particolare perché il latifondo assenteista era la maggioranza.
Sì, ma intanto, se dobbiamo fare un bilancio, è proprio questo il problema: noi non consideravamo la realtà, noi non distinguevamo caso da caso. Turati era un industriale e probabilmente avrebbe cambiato le sorti di questo paese e dall’altra parte la storia di questo pezzo di Mezzogiorno non aveva fatto sorgere una diffusa imprenditoria agraria
moderna e neanche un forte movimento cooperativo. Noi non ci confrontammo con questa realtà. D’accordo, Turati avrebbe accettato le mance della Cassa del Mezzogiorno. Ma
avrebbe continuato a comportarsi da imprenditore. Infatti quando si incominciò a parlare di cantina sociale Turati disse: “Noi entriamo ma facciamo una Spa di cui prendiamo il
51%”. Furono tutti contrari. Ma se Turati avesse avuto le uve, che sono buone, e la cantina sociale, probabilmente questa avrebbe continuato a vivere; invece durò solo tre o
quattro anni.
Intanto la Riforma formò qui la piccola proprietà contadina; le cose cambiarono comunque...
Sì. Ti ricordi il contadino citato da Rocco Scotellaro che diceva: “La terra dovrebbe figliare come gli animali”? La terra non figliò, anzi si frantumò. La proprietà nata dalla Riforma
andò bene solo quando si ingrandì a spese di chi vendette le sue quote ed emigrò al Nord.
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È vero che gli eredi degli assegnatari della Riforma che rimasero sull’ex proprietà Turati,
dove vi era stata una certa mentalità e tradizioni imprenditoriali, pur tra difficoltà, ingrandendosi, funzionarono.
Quando parli di sprechi intendi solo queste occasioni mancate o qualcos’altro?
Intendo cose concrete. Ecco: il latte. Da più di un anno le centrali del latte non pagano puntualmente. Sono state assistite, si dice. È più esatto dire che sono state sovvenzionate e
non assistite dal punto di vista tecnico. Spesso avviene questo: assistenza finanziaria
cieca, senza assistenza tecnica. Dato che si tratta di denaro pubblico l’assistenza dovrebbe garantire anche il controllo sulla gestione. Le centrali, infatti, hanno accumulato errori
di gestione. Ora mi dicono che ci sono in agricoltura e nei servizi, tante cooperative, ma formali. I soldi vi affluiscono, di meno l’assistenza tecnica. In molti paesi è pieno di trattori
acquistati con sovvenzioni; di questi trattori è probabile che ne bastino la metà, meglio
utiIizzati.
E l’organizzazione sanitaria?
Intendiamoci, si sono compiuti progressi immensi. Vedi, la Basilicata è cambiata radicalmente e in bene, lo si deve dire. Quando io tornai dalla guerra e dalla prigionia i posti letto
in ospedale, per malati acuti, non raggiungevano l’un per mille abitanti e gli stessi medici
erano pochi. A Matera, nei Sassi, i morti nel primo anno di vita erano più di cento su mille
e, come in Africa, si moriva soprattutto per malaria, malattie gastro-enteriche e respiratorie. Un giorno – è un esempio – venne da me un vecchio contadino afono. Era così da vario
tempo: cosa aveva cosa non aveva. Scoprii che aveva una sanguisuga attaccata alle corde
vocali. Sarebbe una bestemmia dire che le cose non sono cambiate in meglio. E oggi, infatti, abbiamo un numero adeguato di medici, molti preparati, abbiamo ospedali moderni con
posti letto sufficienti e le malattie legate al sottosviluppo sono state debellate. Rimane, tuttavia, elevata l’emigrazione di malati in ospedali di altre regioni.
Perché?
I motivi sono vari: sfiducia, non sempre direttamente giustificata, nelle istituzioni locali,
presenza di familiari nel centro e nel nord d’Italia ma anche mancanza di servizi adeguati.
Per il resto?
Vi sono stati degli sprechi. Per esempio furono cancellati i consultori dell’Onmi dove si trovava il buon pediatra e la gente era abituata ad andare e che sarebbero potuti diventare
luogo di educazione sanitaria. Si sono chiusi molti dispensari nati per la lotta alla tubercolosi che sarebbero potuti anche essi essere riciclati per la lotta ad altre malattie infettive.
Si è dissipata una tradizione e si è sottovalutata la formazione tecnica. Si è acquistata una
Tac a Potenza e giustamente la si è voluta anche a Matera e così per molte altre apparecchiature. A tal punto è ancora più importante la dotazione di un maggior numero di personale specializzato per utilizzare questi mezzi a pieno potenziale. E se guardiamo ai criteri
di assegnazione dei posti di medico, ho dei dubbi molto seri che nella nuova divisione si
tenga conto dell’epidemiologia che dovrebbe invece guidare le scelte.
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Ma qui tocchiamo la questione del pessimo funzionamento di tutta l’amministrazione.
È vero; c’è il problema generale del reclutamento in tutta la pubblica amministrazione. Non
è semplice superare vecchi e nuovi malcostumi. Da un lato i criteri di merito saltano continuamente a favore di questa o quella ragione di appartenenza politica. Dall’altro lato siamo
un paese legalistico fino alla paralisi: bisogna che le carte siano a posto al di là delle capacità effettive del singolo reclutando e a volte anche del bisogno impellente di personale. Ti racconto questo episodio. Tu sai che io tengo a Potenza dei corsi di statistica sanitaria ed epidemiologia per infermiere. È importante creare personale professionale, avvicinarsi ai livelli
europei. Ecco. Erano venuti qui a Tricarico, ti immagini, due ragazze del Ruanda, ospitate
dalle suore. Ho pensato che potessero frequentare questi corsi, ma per essere ammesse
dovevano superare la prova scritta di italiano. Ho proposto di ammetterle con riserva ma non
è stato possibile: era “illegale”. Tu sai che sono stato in Africa. Vedi, io so che ogni giovane
africano conosce molte lingue: la sua lingua tribale, almeno un’altra e poi il francese o l’inglese. Avrebbero imparato. Si sarebbe potuto sostituire il tema con un colloquio in italiano.
Invece non sono state ammesse perché “le carte non erano a posto”. Ho preso io carta e
penna e ho scritto all’on. Martelli per denunciare questo episodio. Non ho ricevuto risposta.
È un caso di razzismo?
Non penso. È solo che c’è una sorta di iperlegalismo che non si è potuto aggirare perché
queste due ragazze non portavano con sé i voti loro né quelli delle loro famiglie. Questo è
triste. Ma è ancor più triste che in una democrazia il cittadino non riesca a segnalare un problema in modo da correggere subito delle storture.
Mi sembra che ritorni sempre sul sistema politico.
Sì, perché è costruito in modo tale da seguire esclusivamente i consensi, il voto. E dunque
ogni decisione, ogni finanziamento non passa al vaglio di criteri razionali ma a quello del
possibile consenso. Decidono i mediatori di voti.
Torno un momento alle cooperative. Oltre a quelle recentissime, vere o fittizie, nate con la
legge cosiddetta per i giovani, vi era qui una qualche tradizione a cui vi richiamavate negli
anni cinquanta, al termine della Riforma?
Sì, ma molto debole. Qui non è potuto accadere che le cooperative divenissero grandi
imprese come in Emilia. Non ci sono anzitutto le condizioni ambientali. Nelle pianure, dove
c’era la malaria e la miseria, ora c’è un’agricoltura modernissima, europea, che è cresciuta
grazie alla bonifica e alla nascita della proprietà coltivatrice. È stata sovvenzionata, come è
stata anche nel Nord, non credere; ma a buon fine. Ma la collina e la montagna meridionali sono un’altra cosa. Tuo padre destò scandalo quando, trent’anni fa, propose un grande
demanio silvopastorale per la montagna lucana. Invece aveva ragione: forse così, intorno a
un progetto realistico, una volta chiuso il flusso migratorio, qualcosa, anche attraverso le
cooperative, si sarebbe potuto fare. Le cooperative sono nate qui sin dagli anni del fascismo, sostenute da un certo movimento cattolico sorto in Basilicata dopo la Rerum
Novarum: tentativi timidi, travolti dall’emigrazione, dalla lotta per la terra e dalla Riforma.
E poi c’è la questione della educazione, che si sottovaluta. Non scordiamoci che in
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Danimarca, paese classico della cooperazione, essa è nata come un ramo del movimento
educativo, dal ceppo del movimento di cultura popolare. Movimento per l’educazione e
cooperazione nelle campagne nacquero insieme. Nulla di simile avvenne qui. Poi vi sono
state cooperative della seconda generazione. Furono quelle dell’Ente Riforma. Ora vi sono
quelle sovvenzionate dalla Regione. Sarebbe interessante sapere quante funzionano veramente, ma non conosco nessuno studio in merito. Poi bisognerebbe soppesare il valore di
eventuali studi. Queste sono le analisi che devono fare i giovani.
Ritorniamo alla tua famiglia.
Vedi, da vecchio mi sono messo a fare delle sculture in creta; anche se gli occhi non mi assistono più tanto. Ma ecco: Nausicaa, Ulisse con il cane Argo, Laerte. Dovrei cuocerle ma non
le ho svuotate, le lascio seccare invece. È difficile fare una testa. Della mia famiglia ho scolpito la testa di mia nonna materna. I Mazzarone non erano interessati alle questioni politiche. Il lato materno invece sì. Lei fu una donna non comune, di famiglia anti-garibaldina,
borbonica. Il marito, mio nonno materno, era quello che si dice “un personaggio”, un uomo
molto alto, bello, intelligente. Credo che avesse frequentato qualcosa come il nostro ginnasio. Sapeva a memoria interi canti della Commedia. Il padre lo aveva mandato a Napoli
per diventare droghiere, allora quasi un farmacista. Ma mio nonno si distrasse, gli piacevano le donne. E imparò a fare il dolciere, mestiere che insegnò al figlio, fratello di mia
madre, il quale era un ribelle, diventò nittiano, non si adattò mai e, appena potette, emigrò. Le mie zie invece li facevano i dolci. Mestiere durissimo: sai, per fare a mano lo zucchero bianco. Tornando a mio nonno so che era di famiglia antiborbonica, si dice in un
documento che avesse partecipato a una riunione segreta...
Mazziniano?
Non so, non credo. Mi sto convincendo che queste etichette non servono a niente. Credo
piuttosto che la famiglia avesse messo gli occhi sulla proprietà della Chiesa, non gliene fregava niente né della libertà... e poi i Savoia si sono dimostrati peggiori di tutti. Ecco, la
parte della famiglia di mia madre mi aprì gli occhi sul fascismo.
Quando?
Sono stato fortunato a essere a contatto con gente che la pensava diversamente. Era il ’35’36, avevo ventiquattro anni. C’era la guerra d’Etiopia, si discuteva così, seduti al bar in piazza. Io ero ammesso tra gli uomini fatti perché studiavo, stavo terminando i miei studi di
medicina. C’era un clima patriottico, era il periodo delle sanzioni all’Italia e dall’America gli
italo-americani ci mandavano le cartoline di rame e financo Arturo Labriola tornato dall’esilio in Belgio si schierò a favore di Mussolini. Era molto difficile orientarsi, farsi un’idea propria per chi non era entrato in un gruppo particolare. C’erano l’entusiasmo e la gioventù.
Tutti i miei amici, per esempio, volevano partire volontari. Perché il male peggiore delle dittature è la mancanza di informazione: quello che leggi è quello che ti fanno leggere. Io, invece, mi ero trovato accanto a uomini grandi che raccoglievano voci. Mio zio, fratello di mia
madre, diceva per esempio: “Francesco Saverio Nitti ha scritto che il fascismo ha pochi mesi
di vita”. Erano veri o non veri questi articoli che andava citando, non lo ho mai saputo.
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Allora tu eri d’accordo con le sanzioni all’Italia?
No. Ero convinto che non avrebbero fatto niente. Ero contro la guerra d’Etiopia. Ma fu grazie
a mio zio prete, che era il fratello di mio nonno materno ed era il capo spirituale di questa
grande famiglia. È stato un po’ il mio educatore. È stato uno degli uomini più buoni che io
abbia conosciuto: cristiano nel senso che cercava di operare come predicava. Ve ne sono
ancora così. Per esempio di qui viene un altro così: padre Pancrazio che era il figlio di uno dei
“contadini del Sud” di Rocco Scotellaro. Fa il missionario e vive nelle foreste del Borneo. È un
uomo semplice che vive con niente e passa la vita ad aiutare gli altri. Non ti nascondo che
quando mi scrive esito quasi ad aprire la lettera. Quando torna si meraviglia davvero di questa opulenza. L’altra settimana è passato di qui e mi ha detto: “Avete letto che il cardinale tal
dei tali ha fatto una festa quando è stato nominato cardinale?” Si era innervosito, gli era
parso strano. Dunque questo mio zio prete si occupava dei poveri che vivevano in paese.
Chiedevano l’elemosina, non erano né contadini né braccianti, erano ciechi e altri inabili.
Aiutavano in Chiesa a suonare le campane e l’organo. Mangiavano perché andavano nelle
famiglie. Uno dei ciechi mangiava con noi. Lo chiamavano Roccocidd’, o’ ciucatidd’, piccolo
Rocco piccolo cieco. Era davvero piccolo e aveva lunghe dita ossute che muoveva sempre e
con cui suonava l’organo in chiesa accompagnandosi con una voce stridula. Non ti nascondo
che io non ero felicissimo quando lo zio invitava Roccocidd’ a sedersi a tavola accanto a me.
Ma in che modo tuo zio ti ha aiutato a farti un’idea diversa?
Come ti ho detto erano gli anni della guerra d’Etiopia e i fascisti dicevano che andavano lì
a portare il cristianesimo. Mio zio prete dopo pranzo leggeva il giornale e fumava la pipa di
terracotta con il lungo becco di canna. Era un uomo che non parlava a vanvera, prudentissimo. Ma un giorno lo sentii commentare il giornale e si lasciò sfuggire queste parole: “Ma
quelli sono già cristiani e poi il cristianesimo non deve portare le armi”. Questo commento
mi impressionò molto. Vedi, all’università i piccoli gruppi di antifascisti erano chiusi al loro
interno. Se non avessi avuto questi zii che ragionavano... Io ci pensai bene a questa storia:
la conquista dell’Etiopia, ma perché? E a un certo punto mi convinsi pure che agli inglesi
sarebbe bastato affondare una nave nel canale di Suez per fermare l’impresa d’Etiopia. Noi
non saremmo più passati.
Alcuni storici dicono che la disaffezione al regime iniziò con la guerra d’Etiopia.
In Basilicata forse in parte, nelle classi medie. Qui i contadini non sono mai stati affezionati ad alcun governo, che è sempre stato visto estraneo e lontano. Ti ho già detto poi che il
fascismo fu qui una cosa strana. Gli stessi podestà, spesso, erano brave persone. C’erano,
certo, anche i presuntuosi e i fanatici; a questi, sai, la divisa piaceva. Proprio giorni fa ho
incrociato un buon uomo che in divisa si trasformava. Diventava fanatico e severo. Altri così
li ho incontrati in guerra. Beh, costui ricordo che faceva delle lunghe lezioni sull’angolo che
il braccio destro doveva fare perché il saluto romano fosse davvero tale, regolare.
Vedendolo ora per strada, un bravo pensionato, mi è venuto anche da sorridere.
Torniamo alle scuole medie?
Sì, da Nocera Inferiore andai a Salerno per gli esami di maturità.
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E poi decidesti di fare medicina e partisti per Napoli. Come fu l’incontro con la grande
città?
Ero portato per la matematica tanto che il mio professore che conosceva Enrico Fermi mi
incoraggiava ad andare a Roma alla facoltà di fisica. Poi scelsi medicina. Mi sentii certamente spaesato, sperduto nella grande città. Fui colpito dalla grande miseria, dai bassi
napoletani, una povertà diversa da quella dei paesi. Alla periferia e sul Vomero c’era campagna: pecore per le strade, mercati coi contadini. Napoli non mi piaceva perché in quegli
anni ero isolato. Studiavo e passavo lunghe ore all’Istituto di Istologia. Non avevo contatti
vivi con i giovani della città e le domeniche ero ospite di una famiglia di compaesani.
Dove abitavi?
Fu difficile trovare una camera per studenti. Il primo anno abitai in un albergo al Vasto
dove ogni tanto mi raggiungevano i miei zii dal paese. Era un ambiente povero e per me
ostile che forse mi impauriva. Così non frequentai molto neanche gli altri studenti che
erano ammassati due o tre per camera. lo ebbi una camera ricavata da un bagno, dove
sistemarono un lettino e un piccolo tavolo. In quell’albergo abitava anche un uomo ben
vestito che diceva di aver fatto l’attore. Io certi giorni girovagavo per la città e lo incontrai
una volta a Bagnoli, travestito, che faceva l’accattone. Egli si rese conto che lo avevo visto
e quella sera, si giocava a carte con i compagni, chiese: “Che vi ha detto quel fetente?”.
Io non avevo detto niente. E i compagni insistevano: “Che gli hai fatto? Ti ha chiamato
fetente”.
Quanti studenti venivano dalla Basilicata? E come si svolsero i tuoi studi?
Non eravamo pochissimi venuti dalla Basilicata in quella facoltà, figli di piccoli e medi borghesi, artigiani, piccoli proprietari. E nessun figlio di contadini. Ora io conosco giovani
medici preparati, figli di contadini. Quel mondo per fortuna è finito. A quel tempo gli studenti di medicina erano molto meno di adesso e c’era un rapporto quotidiano con i professori. Oltre ai corsi esisteva la scuola libera. Durante gli ultimi anni le mattine andavo
all’ospedale Gesù e Maria ad assistere a un corso di semiotica medica: esercitavamo i
nostri sensi, visitavamo i pazienti sotto la guida di un libero docente. A Napoli questa
buona abitudine ebbe termine nel secondo dopoguerra. Altre volte si studiava sui cadaveri o in laboratorio. Fui interno a clinica medica con D’Amato che fu discepolo di Cardarelli.
In quegli anni in Italia si sentiva ancora il retaggio, direi ottocentesco, delle diverse scuole, ognuna con una sua filosofia: Cardarelli a Napoli, Murri a Bologna, eccetera. I miei maestri insistevano su di un’anamnesi scrupolosa: “un’anamnesi ben fatta è una diagnosi
metà fatta”. E sulla visita al paziente. Ora gli esami di laboratorio sono diffusissimi e certe
diagnosi, allora difficilissime, si ottengono rapidamente. È una cosa straordinaria. Ma così
le analisi hanno ridotto in media l’attenzione e il tempo dedicati alla visita. Penso che l’uso
delle tecnologie sia essenziale ma che vada ancora pilotato dall’anamnesi e dalla visita
rigorose. Comunque dopo la laurea si doveva, allora, passare l’esame di Stato in una città
diversa da quella della propria facoltà. Con degli amici andammo a Bologna dove vi era un
professore di patologia chirurgica di scuola napoletana. Eravamo giovani, credevamo che
ci avrebbe forse difesi. Eravamo pronti.
Un a v it a m a l s p es a
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Così diventasti medico.
Sì. E partii militare poco dopo. Fui mandato a Novara. Da quando, bambino, per la prima
volta ho lasciato Tricarico per Nocera Inferiore fino a quando vi tornai dopo la prigionia ho
fatto parte della “diaspora lucana”: sono stato fuori dal ’23 al ’43.
Voglio chiederti della preparazione, della formazione dei medici allora e oggi.
Gli studenti di medicina, anche paragonati a quelli del resto d’Europa in quegli anni, come
ho constatato dopo, viaggiando, erano di buon livello. Tu pensa a Giuseppe Levi a Torino:
dalla sua scuola sono usciti Luria, Dulbecco e Levi Montalcini, tre premi Nobel. I professori avevano un rapporto stretto con gli studenti e a volte li spingevano verso la ricerca. Io
stesso ebbi come professore uno scienziato di qualità, Diamare. Fu il primo che affermò che
le isole di Langerhans costituiscono una unità embriologica anatomica e funzionale, conducendo un’indagine forse da premio Nobel. Egli mi spingeva a studiare il timo, un organo
allora misterioso che non poteva non avere una funzione specifica.
Ma tu allora non seguisti la strada della ricerca.
No. E se c’è una cosa di cui mi sono pentito è di aver dedicato poco tempo alla ricerca.
Certo, allora, non era facile: dovevi comprare da solo gli animali, l’acool; non vi erano i
mezzi di oggi. Un giorno rividi Diamare qualche anno dopo la laurea, in funicolare a Napoli.
Mi avvicinai ed egli quasi mi redarguì: “ah il timo, il timo, il timo”. Molti anni dopo tornai
alla ricerca, ma a partire dal campo della medicina di cui mi sono occupato con regolarità:
le malattie polmonari. Posso dire che come medico mi sono onestamente dedicato a un
campo. Come ricercatore invece...
Quando ritornasti alla ricerca?
A partire dagli anni sessanta incoraggiato dai professori Parvis e Grosso sono ritornato “a
mezzadria” all’Università, a Bari; vi ho poi insegnato e ho fatto ricerca. A quel tempo ho
viaggiato molto per i convegni in microbiologia e feci conoscenza con un professore
boemo, molto acuto, che dirigeva il gruppo di cui feci parte, che si occupava dei micobatteriofagi. Ci scrivevamo delle nostre ricerche, come si usa. Una volta ci trovammo in Olanda.
Egli mi chiese come andavano le mie indagini, parlammo. A un tratto disse: “Rocco, tu ti
occupi di troppe cose”. Aveva ragione.
Spesso però i ricercatori sono chiusi in specialismi univoci.
Anch’io in America ho visto un medico che sapeva tutto dello streptococco e non conosceva il tracoma. Mi scandalizzai; poi, a ripensarci, certamente un tropicalista potrebbe
dirmi di una malattia che io non conosco... Ecco io credo che sia un errore occuparsi di
una sola cosa se è una piccola cosa, ma è un errore occuparsi di tutto. In questi mesi sto
cercando di mandare al macero la carta inutile, così ho rivisto alcuni dei miei lavori. E mi
sono chiesto: ma era proprio necessario scrivere cinquecento, seicento pagine? Ne bastavano dieci o quindici. Ho disperso tempo con la programmazione, mi sono occupato persino di letteratura. Quanto tempo ho perso dietro Levi e Scotellaro. Mi sono occupato di
troppe cose...
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E tuttavia hai lavorato all’università. Come sei ritornato alla ricerca?
Durante gli anni in cui mi occupai di malattia nei Sassi di Matera e altrove capii che, finita
la malaria e avviata la battaglia contro le malattie gastrointestinali che avevano flagellato
soprattutto l’infanzia, restava il problema della tubercolosi e delle malattie polmonari. In
verità scoprimmo anche una grande incidenza delle cardiopatie, cosa che non ci aspettavamo. Naturalmente tenemmo conto di tutto ciò nei nostri tentativi di programmare l’assistenza sanitaria. E lavorando nel campo della lotta alla tubercolosi, prima al dispensario di
Matera e poi a Bari, mi sono occupato oltre che del bacillo tubercolare anche di micobatteri non tubercolari e quindi delle loro fagotipie. Così, oltre al lavoro di laboratorio, dal ’58’59 ho tenuto i corsi di specializzazione sulla tubercolosi. E nel ’68-’69 ebbi l’incarico a Bari
per Statistica medica e Biometria fino all’82 quando lasciai. Durante quel periodo ho viaggiato e mi sono fatto un’idea delle università straniere e dei diversi sistemi sanitari.
E hai fatto un paragone con quello che accade da noi.
Sì. Vedi: c’è la questione degli studi di medicina e la questione della carriera di medico. E, poi,
naturalmente, c’è la questione dei farmaci. Ecco: noi facemmo l’esame di Stato a Bologna, io
ripristinerei una cosa del genere, magari a livello europeo. Ma bisognerebbe prima cambiare
altre cose negli studi di medicina: essi dovrebbero essere finalizzati. Se si deve fare il medico generico è bene avere un certo tipo di preparazione, in un altro caso, un altro.
Ma a 18 o 19 anni come fai a sapere se sarai medico generico o neurochirurgo?
Non ho una ricetta in tasca ma grossomodo direi che, nei primi quattro anni, si faccia una
preparazione generale per tutti, per orientare. Poi andrebbero approfondite di più certe
materie in preparazione della specializzazione. Ti faccio un esempio: io ho studiato l’anatomia sul Testut, questo bellissimo trattato. Sono andato benissimo, ho preso trenta. Ma
se tu oggi mi chiedi quali sono le ossa del piede io non te le so dire. L’ortopedico, il chirurgo devono sapere tutti i particolari di tutte le ossa, di tutte le arterie, dei nervi. Gli altri
durante il quadriennio iniziale, dovrebbero fare istituzioni di anatomia. Cioè io riformerei il
volume degli studi preparatori e, però, al contempo, farei trascorrere molte ore in ospedale, guidati. In America feci visita a un professore, un cardiologo, che mi mostrò come in quel
momento 12 studenti stessero seguendo l’internato in ospedale, seguiti per molte ore al
giorno, dagli assistenti e gli aiuti. Egli passeggiava con me e spesso lo chiamavano perché
desse agli studenti ogni ulteriore spiegazione. Era, per certi versi come la libera scuola
napoletana, ma in tutt’altro ospedale. L’importante è che si conosca ciò che è utile ai fini
diagnostici: è questo, secondo me, l’obiettivo di una riforma degli studi.
E la carriera di medico?
Intanto i medici sono troppi; bisognerebbe escogitare un ulteriore blocco alla fine delle
superiori oppure, in alternativa, una più seria presenza lì dove c’è bisogno, nel Terzo
Mondo, di una persona preparata. Ma ammettiamo che uno è bravo: si laurea, assolve agli
obblighi militari, entra in ospedale. Guardiamo al caso medio. Se tu oggi, in Italia, entri in
ospedale come assistente, ne puoi uscire quaranta anni dopo, a sessantacinque anni,
senza grandi cambiamenti. È terribile: tutto si è fatto per garantire l’inamovibilità, il posto.
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Chi ha voluto questo? Anche i sindacati che spesso sono stati delle corporazioni: è una
forza, in Italia, che è divenuta per vari aspetti, veramente conservatrice. Se fosse qui mia
moglie, che è stata operaia, lei difenderebbe i sindacati per la forza e la dignità che hanno
dato a chi lavora. Ma ciò non vale dappertutto. Questa corporazione dei medici ha creduto
di difendere la categoria, garantendole in realtà un grande riposo intellettuale. Non sei
d’accordo? Perché non escogitare un sistema di stimoli e di mobilità? Pensa che oggi tutto
il viaggiare o l’aggiornarsi dei medici avviene grazie alle sovvenzioni delle case farmaceutiche. Ho spesso pensato che in questo modo, se vuoi indiretto, queste hanno comprato
quasi tutti i medici d’Italia. Ma dico anche che così almeno vanno per il mondo a fare congressi, anche se è triste che avvenga in questo modo.
A proposito di case farmaceutiche, prima avevi nominato i farmaci.
Sì. Bisogna dire innanzitutto che vi è stato un progresso straordinario, enorme. Tu immagina cosa avevamo a disposizione noi per curare al tempo in cui uscii dall’università: eravamo quasi disarmati di fronte alle malattie. E ora ho l’impressione che si stia per aprire una
ulteriore frontiera di cure e farmaci validi per molte malattie. Ma contemporaneamente c’è
un grande abuso e spreco di farmaci, e questo incide sul deficit della sanità. Le cose sono
complicate perché tu sai che la base farmacologica di una medicina è spesso identica mentre i nomi cambiano a seconda delle case farmaceutiche, che fanno il loro interesse. Forse
è anche vero che una certa differenziazione sia utile. Però io ritengo che il servizio sanitario nazionale, che è una vera conquista di civiltà, dovrebbe dare gratuitamente solo i farmaci – e c’è un elenco ufficiale di circa trecento medicine – considerati essenziali
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Una volta c’era il chinino di Stato per la malaria.
Ecco: a volte mi sono domandato perché non fare una scelta razionale e dare gratis solo
certi antibiotici, sulfamidici, aspirina, cortisone eccetera, di Stato. Questi dovrebbero essere forniti dalle case allo Stato, senza troppo penalizzare le case dunque. E gli altri farmaci:
chi li vuole se li compra. Bisogna certo anche educare medici e pazienti. Per esempio Gianni
Tognoni e gli altri autori di Bambini e farmaci hanno informato dettagliatamente sull’uso
eccessivo e sul cattivo uso dei farmaci presso i bambini. Nel progetto pilota noi stessi ipotizzammo i canali di informazione sanitaria per la Basilicata. L’altra questione è come vengono dati i farmaci. In Inghilterra, in America, intanto ti danno il numero contato di dosi o
di pillole da prendere per i giorni prescritti dal medico e non la confezione.
Ma si dice che c’è una grande pressione delle case farmaceutiche.
Ma anche lì c’è. Eppure con questo banale sistema nelle case inglesi non si accumulano
medicinali che poi magari vengono mal utilizzati in seguito o gettati, sprecati. Lì il legislatore ha posto un argine, ha fatto sì che la legge mitigasse gli interessi costituiti. In Italia non
si vuol fare.
Perché?
Non c’è un motivo razionale. I motivi rimangono politici, nel senso deteriore. C’è una commissione preposta a questo e in questa commissione non sempre si fanno le cose come
andrebbero fatte. Molte volte, non credere, le proposte, fatte da competenti, arrivano a chi
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decide e se ne discute anche. Ma poi prevalgono gli interessi forti o anche, appunto, gli
interessi a non modificare. È un fatto di malcostume.
Avviene dappertutto. E il problema per la mia generazione è capire perché nel nostro paese
sia così difficile, in ogni ambito, fare quello che si chiama “l’interesse generale”.
A volte sono anch’io pessimista. Quando ero prigioniero degli inglesi mi persuasi che,
caduto il fascismo, anche da noi si sarebbero formati due grandi schieramenti, l’uno conservatore e l’altro progressista. Tornato in Basilicata, io decisi di partecipare a quello progressista stando dalla parte dei contadini e non solo dei contadini. Pensavo a un sistema
con un governo e un’opposizione entrambi al lavoro per dare soluzioni differenti ai problemi e entrambi responsabili davanti agli elettori. Invece da un lato le forze conservatrici insegnarono a tutti a difendere innanzitutto il patrimonio di voti e non a dare soluzioni ai problemi. E dall’altro lato quel che ha impedito la dialettica in Italia è stato il Pci che
ha capeggiato lo schieramento progressista propagandando una alternativa di sistema:
tutto o niente. Questo è stato sempre il miglior modo per non proporre niente. Il Pci per
decenni ha avuto il torto di mettere in frigorifero milioni di intelligenze. Gli rimprovero
anche di non aver mai fatto opposizione pur essendo l’unico partito in grado di farlo,
dato che il Psi non è mai stato un partito di opposizione. In Basilicata il Pci ci ha parlato
del Vietnam ma mai delle cose da fare. Una volta sono stato invitato a presentarmi alle
elezioni regionali, credo nel ’72, nelle sue liste. Mi stavo quasi convincendo. Mi stavano
lusingando. Tu sai, noi tutti ci lasciamo lusingare. Venivano molti giovani a trovarmi: “facciamo noi la campagna elettorale”. Allora dissi a uno dei capi: “Ma io voglio fare l’opposizione, e mi dovete far trovare ogni mattina sul tavolo quali sono le posizioni prese dalla
maggioranza, fuori e dentro la Basilicata. Se sono giuste le difenderò. Se no dobbiarno
fare un’opposizione, mobilitando la gente, con delle nuove proposte”. Mi disse: “Ma sì,
certo”. Poi vidi che non era più molto convinto. Un giorno raccontai al presidente della
regione, un democristiano, ma persona seria, quel che sto raccontando a te. Ed egli mi
disse: “perché non l’hai fatto?” Un presidente di giunta serio ha bisogno in effetti di una
buona opposizione, altrimenti è costretto a mediare con gli interessi localistici o, peggio,
imposti da dentro la maggioranza. Forse se il Partito d’azione avesse trovato la base
popolare questo sarebbe stato un paese diverso. Ma con i se... Anche qui da noi vi fu una
stagione, subito dopo la guerra, in cui alcuni ipotizzarono soluzioni. Sarebbe interessante chiamare i sopravvissuti a parlarne. Oggi quando sento e vedo i partiti che non pensano che a difendere innanzitutto se stessi e i meccanismi di occupazione del potere, io
mi domando se il fascismo non sia una sorta di malattia ereditaria italiana. Tu conosci il
tifo addominale classico? Ecco, nella prima settimana c’è la febbre e nella seconda settimana c’è la fase delirante. Forse il ventennio fascista fu la fase delirante del male italiano che purtroppo non è passato. È triste parlare così, ma credo che sia consentito dire
quello che si pensa.
Altre volte sei più ottimista?
Sì. Altre volte mi dico che bisogna insistere perché non è facile, in così pochi anni, in un
paese affetto da una simile malattia, portare a compimento la democrazia. Pensa a quanUn a v it a m a l s p es a
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do l’Inghilterra, che per me fu allora il modello, ha iniziato l’esercizio della democrazia;
eppure anche lì ancora... E in Italia non c’è stata quasi mai democrazia. La democrazia prefascista? Anche se Salvemini aveva un po’ attenuato i suoi giudizi su Giolitti, rimaneva il
ministro di malavita, e comandavano i prefetti e, tra i deputati, solo qualche grande personalità riusciva ad affermare democrazia. Poi fu il ventennio e poi la stagione repubblicana,
relativamente pochi anni.
Tu dici che bisogna insistere. Ma come?
Non è una cosa facile; io stesso, vedi, ripeto che ho perso tempo, che la mia è stata una vita
mal spesa. Oltre al mio mestiere mi sono illuso di far altro, di incidere sulle scelte sociali in
medicina, per esempio. E mi sono accorto che è spesso illusorio perché tu le cose incisive
le puoi attuare solo se hai la forza. E io per forza intendo forza politica. Un isolato, come io
sono stato, rischia di fare il profeta disarmato.
AIlora magari avresti fatto meglio a legarti a un carro politico. Credi che avresti realizzato
di più? O avresti perso semplicemente in dignità?
Non so. Tuo padre, per esempio, forse ha voluto utilizzare i partiti perché vi aderì sempre
per fare le cose. Ma quanto lo ascoltarono? E poi bisogna avere un certo tipo di carattere.
Poi dicevi perdere la dignità. Oggi dico che la dignità l’avrei salvata lo stesso, magari rimanendo in America dove mi offrirono una possibilità o continuando la ricerca o a Novara dove
ero emigrato dopo la laurea.
Torniamo indietro a Novara.
lo ho sempre avuto la grande fortuna di incontrare persone intelligenti. Arrivai a Novara,
ufficiale medico. E subito espressi il desiderio di frequentare l’ospedale civile e il colonnello mi disse: “Certo, io tengo ad avere un medico ufficiale e non un ufficiale medico”. Così mi
trovai a lavorare all’ospedale di Novara e lì conobbi un grande pediatra, Piero Fornara, che
considero un mio maestro. Fornara era un uomo che non predicava ma era antifascista, tutti
lo sapevano. Le mie frequentazioni familiari avevano fatto di me un afascista, non un antifascista. E ora incontravo questa persona di grande competenza, nettissima e antifascista
che mi fece una grande impressione. Se, alla fine della guerra non fossi stato preso da quello che avveniva in Basilicata, sarei tornato lì, a lavorare con Fornara. Dopo una borsa di studio, che spesi studiando per oltre un anno anatomia patologica a Milano, fui richiamato alle
armi nel settembre del ’39 e partii per l’Africa. Ho un ricordo nitido del vapore che arriva a
Tripoli. Il mio distacco dal fascismo era avvenuto. Seguivo con spirito indipendente i fatti
d’armi. E devo dirti che nel mio comando, che frequentavo in quanto ufficiale medico, vi era
gente anche di una certa apertura, gente che capiva che molti generali si erano formati nella
grande guerra e che quella invece era una guerra nel deserto, una guerra di movimento in
cui noi andavamo a piedi e gli inglesi no. Era gente che credeva poco ai piani di controffensiva. Ti racconto un episodio di cui fui testimone e che credo sia inedito. Ero sotto il comando del generale Bergonzoli detto Barbaelettrica. Mi faceva pensare a un capitano di ventura, piccolo, magro e con gli occhi azzurri, che aveva capito che la guerra nel deserto è come
la guerra in mare e si barcamenava come poteva. Aveva fatto montare dei cannoncini sui
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piccoli camion e li muoveva avanti e indietro finché gli inglesi non li scambiarono per carri
armati camuffati. Aveva giurato fedeltà, “Credere, obbedire, combattere” e non era un
uomo da tradire la parola data. Ma un giorno, alla presenza di Scorza, ultimo segretario del
partito fascista, durante il pranzo con noi ufficiali, si levò e dettò il suo testamento. Disse
queste parole: “Io vado all’ultima battaglia senza entusiasmo, combatterò perché devo
obbedire, ma non credo. Se muoio seppellitemi nel cimitero da campo più vicino, insieme
ai miei soldati. Non gridatemi presente, tanto non risponderò”. Quella guerra nel deserto
era stata quasi senza vittime civili, una guerra quasi pulita se così si può dire di una guerra. Io era a Bardia che, dopo quaranta giorni d’assedio e tre di battaglia, cadde. Era il gennaio del ’41. Cercammo di raggiungere Tobruk e in quel tentativo fui catturato. Gli inglesi
applicarono le convenzioni di Ginevra e io fui affidato al diciannovesimo ospedale generale
di guerra inglese. Facevo il medico, curavo i dissenterici e i tifosi e appresi molto da tre patologi inglesi di cui uno era bravissimo. Mi dispiaceva, certo, che l’Italia stesse perdendo ma
non era una malattia mortale e io non ne piansi. Incominciavo a non credere nella patria così
come la intendevano i nazionalisti. Ti ricordi la poesia di Rocco Scotellaro: “io sono un filo
d’erba, un filo d’erba che trema e la mia patria è dove l’erba trema”.
E poi?
Fui liberato con uno scambio e arrivai qui. L’esperienza della prigionia mi aveva avvicinato
alle aspirazioni dei contadini. Come per me, in qualche modo, la diaspora e la prigionia mi
hanno stimolato a battermi per condizioni di vita migliori nella mia terra, così è stato anche
per i contadini. La guerra è una grande esperienza umana e ci cambia dentro. Cosa avvenne? In una ricostruzione schematica e forse tinta di malignità, io ripartirei dalle guerre fasciste, dall’Etiopia, dalla Spagna. Molti disoccupati e contadini poveri meridionali, e anche
lucani, partirono e non per “conquistare l’Impero” ma perché davano loro una paga, o
meglio una sottopaga, e alle famiglie rimaste a casa un sussidio, una fonte certa di minima
sussistenza. Sarebbe interessante studiare questo momento perché forse si può far risalire
ad allora la trama dell’assistenzialismo. Rischiavano per un po’ di tempo la pelle, costruivano ponti, canali, strade in Africa. In cambio avevano questo aiuto. Alcuni storici dicono che
l’assistenza nacque con la nittiana legge speciale su Napoli ma per la Basilicata questo è
avvenuto alla fine degli anni trenta. Molti, durante la prigionia hanno fatto esperienze
importanti, hanno visto aprirsi gli orizzonti. Questo è vero soprattutto per quelli prigionieri
in Africa, India, Inghilterra, America, Australia, che vennero trattati meglio. Per quelli che
finirono in Germania fu diverso. Ecco: capirono che il mondo non era tutto come a casa loro.
E al ritorno si organizzarono nelle associazioni combattenti o anche nei risorgenti partiti
politici o unendosi spontaneamente. Posso dire che, dal ’48 in poi, fui testimone di questo
fervore e che esso fu spontaneo. All’inizio le terre vennero occupate autonomamente. I partiti politici capirono più tardi e cercarono di impossessarsi di questo moto, chi in una maniera chi in un’altra. Furono insieme l’esperienza della diaspora e il grande immiserimento che
seguì alla guerra, che scatenarono tutto. E io fui preso da questa nuova situazione.
Ma prima, appena ritornato, cosa facesti?
Cercavo di fare il medico e di capire il mio paese. In fondo ero partito ragazzino e solo alloUn a v it a m a l s p es a
33
ra conobbi il Mezzogiorno. L’Italia era divisa. Cercai di istruirmi. Andavo a Potenza.
Frequentavo la biblioteca, parlavo con i non fascisti di Potenza. E lessi Fortunato,
Salvemini, Nitti e anche Marx e Engels. A un certo punto avevo anche aderito a una idea,
mai realizzata, di insurrezione a Potenza. L’esercito era smembrato e io, in qualità di ufficiale medico, avrei dovuto smobilitare la caserma, con altri impossessarmi dei telefoni e
dei telegrafi e controllare la questura, che si trovava chiusa in una stretta via, in attesa di
presunti insorti tra cui un gruppo di operai di Melfi. Lo scopo era quello di cacciare il re dal
Mezzogiorno. Ma poi gli altri cospiratori mi dissero che gli inglesi erano contrari. Comunque
presi parte con la sinistra per stare con la povera gente ma né allora né in seguito volli iscrivermi ad alcun partito politico.
A quel tempo risale il tuo ri-incontro con Rocco Scotellaro?
Nel ’43 rincontrai Rocco Scotellaro che era un ragazzo del mio paese. Qualche anno fa ritrovai la lista dei candidati che Rocco organizzò per le elezioni comunali di Tricarico nel ’46
sotto il simbolo dell’aratro. Questa lista dimostra che egli ebbe presto una idea chiara della
complessità della società di Tricarico che non era divisa classe contro classe. Questa lista
era una sorta di tavolo a intarsio dove erano rappresentati contadini, piccoli e medi proprietari, calzolai e falegnami, muratori, alcuni con piccole imprese. Tu sai che Rocco era
figlio di un calzolaio e poiché un’arte si riteneva superiore a un’altra, a volte, per disprezzare, anche a lui sfuggiva dire: “quello è un falegname”. Era una società in evoluzione: c’erano fabbri che erano quasi veterinari per come conoscevano i cavalli; lo stesso padre di
Rocco sapeva tagliare le tomaie e fabbricare scarpe belle e pronte e finì poi per diventare
un commerciante di cuoio. Noi osservavamo questi cambiamenti, Rocco li sapeva interpretare e conosceva Tricarico. Nella lista vi erano socialisti, comunisti e repubblicani. Certo, io
partecipai a tutte quelle battaglie, ci vedevamo tutti i giorni ma non entrai nella lista, forse
perché non ho mai avuto la vocazione di capopopolo. Rocco fu un bravo sindaco. Si occupava ogni giorno di questioni concrete e realizzò l’ospedale. Ma il vero merito di Rocco non
fu quello di “inventare” un ospedale a Tricarico ma di trasformare una operazione che poteva rimanere solo amministrativa in un episodio di partecipazione popolare, in una prova di
democrazia. Su questo io fui totalmente d’accordo con lui.
Ma a tanti anni di distanza dimmi perché l’iconografia ha appiattito Rocco Scotellaro: “il
sindaco dei contadini”.
Lo dipingono così perché c’è la mania di inquadrare. Ma se leggi le sue lettere trovi un
Rocco più complesso, vero, diverso da quella immagine. E poi è morto a trent’anni, era un
giovane in formazione. E vero che ogni tanto diceva di essere marxista e io con lui polemizzavo. Il nostro fu un rapporto dialettico. Aveva letto pochissimo di Marx. Non voglio
essere presuntuoso ma a quel tempo, ti assicuro, a parte Bonelli, un bordighista di
Montemurro e un uomo integro, in Basilicata, sono forse tra quelli che lesse il numero maggiore di pagine di Marx e Engels.
E non ne fosti entusiasta?
All’inizio forse. Ma mi disillusi precocemente. Lessi l’Anti-Dühring e subito dopo, sotto
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consiglio di un amico, un libro in francese, Biologie et Marxisme di Marcel Prenant.
All’inizio ne fui impressionato. Poi mi misi a tradurlo e sai, traducendolo, mi accorsi che
era inaccettabile e così rividi anche l’Anti-Dühring e mi allontanai dal marxismo. E anche
in politica io ero stato contento per la vittoria della Repubblica e sapevo che i contadini
della Basilicata avevano votato contro la monarchia e lo avevano fatto prima della riforma, come per istinto. Ma quando fu sconfitto il frontismo, il 18 aprile 1948 non fui dispiaciuto. Il mio modello di democrazia era quello anglosassone e accettavo perciò il
risultato.
E la poesia di Rocco sul 18 aprile: “Carte abbaglianti e pozzanghere nere...”
In fondo io ringrazio e ho sempre ringraziato il 18 aprile. Non ero d’accordo con Rocco. E del
resto allora non lo fu neanche Carlo Levi che solo dopo si riavvicinò al Pci. Fu nel ’46 che
incontrai Carlo Levi e poi tuo padre.
Dopo quel risultato riprese l’emigrazione.
Penso che al ritorno, tornata la grande miseria, i contadini vollero la terra perché, nel loro
inconscio, il possesso della terra equivaleva alla sicurezza. Le classi medie non erano tutte
contrarie. I nittiani non furono contrari ai contadini. E i cattolici, che dopo gestirono la
riforma, avevano qui posizioni avanzate. Nell’immediato dopoguerra uscì un periodico
cattolico, “L’ordine”, che pubblicò un articolo di mio fratello, La fine del salariato, che
suscitò qualche polemica dalla parte dei possidenti. Il movimento contadino fu sconfitto.
Ma i contadini avevano occupato le terre e ottenuto la riforma. Presto, però, si resero
conto che, pur con la terra, non potevano avere la sicurezza che avevano i grandi proprietari che erano stati il loro modello. Sì, può sembrare cinico dirlo ma credo che sia vero: il
modello dei contadini fu il proprietario di terre. Quando capirono che in Basilicata anche
il possesso di venti ettari di terra non risolveva il loro problema, forse anche razionalmente, imboccarono la via dell’emigrazione. Scoprirono il passaporto e anche il modo
facile di ottenerlo, senza ricorrere agli intermediari, che sono da sempre una delle piaghe
del Mezzogiorno. E partirono.
A tanti anni di distanza che bilancio fai dell’emigrazione?
I costi umani dell’emigrazione furono altissimi. Ma alla fine, però, il tenore di vita è migliorato, e per quelli rimasti e per chi è partito. Sono d’accordo con tuo padre su questo: è
stato un male necessario che, però, la Repubblica avrebbe dovuto mitigare assistendo gli
emigrati. Ora un certo numero di emigrati è rientrato. Ne ho conosciuti più di uno.
Conoscono le lingue, hanno imparato un certo mestiere, a volte cercano di far fruttare uno
spirito imprenditoriale. Per esempio qualche mese fa, uno mi ha detto che per la sua
impresa aveva bisogno di una seria indagine di mercato ma che non si fidava di questi
pennivendoli. Sapeva anche che doveva tenersi buoni gli uomini politici, altrimenti gli
bloccavano i contributi. La classe politica non fu preparata alle partenze e non si è preparata, se non così, ai pochi ritorni. Comunque ora il problema non è più qui. Noi facciamo
parte della piccola porzione fortunata dell’umanità. Tu hai visto che oggi, anche qui, si
vive in un certo agio.
Un a v it a m a l s p es a
35
Tu sei stato nel Terzo Mondo già prima, come esperto della sanità nelle situazioni di sottosviluppo.
Sono stato in Somalia e più volte in Persia, già negli anni cinquanta. Lavoravamo al confine con il Pakistan, c’era un solo ospedale abbastanza buono. Poiché l’area era molto estesa proposi di costruire diversi ospedali. Ma presto mi accorsi che era meglio preparare personale locale specializzato nelle malattie predominanti che si spostasse con automezzi in
modo da moltiplicare gli interventi, dato che i medici erano pochissimi. Mi ero reso conto
che le mie prime proposte erano inquinate dai nostri modelli ma quando cercai di correggerle non trovai tutti consenzienti. In Persia, per esempio, gli esperti volevano fare grandi
dighe. C’erano lì i canali sotterranei che scorrevano a qualche metro di profondità. Ciò limitava l’evaporazione ma durante i temporali stagionali le pareti dei canali a valle crollavano
e così aumentava il deserto. Bisognava migliorare i canali e non costruire dighe. In altre
zone, in cui il nomadismo aveva le sue ragioni d’essere, volevano costruire case, fare diventare la gente stanziale, un errore.
Non credi che questi “errori” servano per fare rientrare in Occidente una parte dei soldi dati
per il sottosviluppo?
Può essere. Ma credo che si possa fare qualcosa. Sono andato nelle campagne in Somalia
per capire come combattere la tubercolosi che è molto diffusa. In Europa si fa l’anamnesi,
l’esame obiettivo, quello radiografico, quello batteriologico. In Africa questo si può fare al
massimo per una parte della popolazione nei capoluoghi. Non puoi pensare a medici e tecnologie nei piccoli villaggi. Cosa fare? Nel caso della tubercolosi esiste l’esame dell’espettorato che si può effettuare anche nel posto più sperduto: bastano un microscopio e i coloranti. Può essere insegnato anche a un analfabeta. Chi ha espettorato positivo si cura e così
si fa anche prevenzione. Si può aiutare la gente. Se non fossi già anziano, penso che mi
sarei deciso a partire e finire i miei giorni in Africa. Del resto cosa ci faccio qui.
Tu spesso parli di aiutare la gente e hai avuto una formazione cristiana. La scienza ti ha
allontanato dalla fede?
La scienza certamente pone dei dubbi. Ma sai, la scienza spiega molte cose ma neanche
essa risolve. E così puoi spiegarti come tanti grandi scienziati siano diventati credenti ed
altri, come Popper, agnostici.
E tu ti definiresti agnostico?
Non lo so. È un problema che ho sempre evitato di affrontare e pochi me lo domandano.
Forse non mi dispiacerebbe essere veramente credente. E sul piano etico, ecco, io cerco i
principi cristiani. Qualche volta vado in chiesa: ci andava mia madre.
Ti interessi a questioni filosofiche o teologiche?
Leggo con piacere i libri di “confine” tra riflessione sulla scienza, filosofia e fede.
Rocco, cosa consiglieresti tu a un giovane?
Consiglierei innanzitutto di imparare un mestiere e di farlo nel modo migliore possibile.
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Borghesi e contadini
nel Mezzogiorno
di Rocco Mazzarone
I
n un convegno in cui la borghesia meridionale si annuncia – ed è stata già fatta – oggetto di critica, deve essere parso opportuno al Segretariato della Campagna far ascoltare
anche la voce di un piccolo borghese meridionale. Non ho altro titolo, infatti, a intrattenervi su questo tema a eccezione di quello che mi deriva dalle origini familiari e dalla professione e dal luogo in cui la esercito.
Pe meglio intendere i rapporti tra la borghesia meridionale, i contadini e il potere e l’ampiezza della loro crisi attuale è opportuno ricordare alcuni precedenti storici.
L’inizio della decadenza dell’Italia meridionale si fa coincidere con la caduta di
Costantinopoli e la scoperta dell’America, epoca in cui, avendo il Mediterraneo centrale
cessato di essere la grande via di comunicazione del mondo, l’Italia meridionale perdette
una delle fonti maggiori della sua relativa ricchezza. Ma altra causa, ugualmente importante e più antica, è l’ordinamento feudale e le sue degenerazioni, contro cui fallirono tutti
i tentativi di Alfonso D’Aragona e dei suoi successori. Ché, anzi, i baroni, nelle alterne vicende della storia di quel periodo, riuscirono a strappare ai loro re altri privilegi.
Sempre pronti a esercitare pressioni di ogni genere sui sudditi, sempre occupati nelle usurpazioni più diverse, i baroni erano essi stessi assai spesso in lite tra loro soprattutto per il
possesso dei beni demaniali.
In quelle liti trovavano le occasioni per affermarsi, forti del denaro di cui disponevano, gli
elementi più attivi e più spregiudicati della nascente borghesia, che traevano le loro fonti
di guadagno dall’industria, dal commercio, dall’agricoltura – soprattutto attraverso la
affittanza nelle sue diverse fonti – e dalle arti liberali – e tra questi ultimi soprattutto gli
avvocati, avvantaggiati, tra l’altro, da un ordinamento in cui gli imputati erano a volte
anche giudici.
Né quando finalmente agli inizi del secolo scorso furono aboliti i privilegi feudali la situazione si modificò sostanzialmente, perché le leggi eversive della feudalità invece di risolversi in uno strumento di livellamento sociale contribuirono a far passare le terre nelle
mani dei più ricchi e a far diventare i poveri ancora più poveri. Il feudalismo era stato eliB or g h e s i e c o n t a d i n i n e l M e z z o g i o r n o
37
minato come ordinamento politico, ma la terra non andò a quelli che la coltivavano, e le
prestazioni dei contadini, prima legate da diritti feudali, rimanevano ugualmente pesanti
per via contrattuale.
Né l’unificazione nazionale contribuì a modificare tale situazione, ché anzi con l’incameramento dei beni della Chiesa, i ricchi diventarono ancora più ricchi e la frattura tra la borghesia terriera e i contadini si approfondì e i meno rassegnati di questi ultimi, tragicamente giocati anche questa volta, avendo fame di terra, si dettero al brigantaggio – la lotta contadina, come è stato ripetutamente affermato – sedato, dopo alcuni anni, dall’esercito piemontese e dalla Guardia Nazionale, la milizia locale formata da elementi della borghesia.
Così, come nel periodo feudale, in quello successivo, fino ai nostri giorni, salvo poche eccezioni, i rapporti tra i proprietari terrieri e i contadini sono rapporti di sudditanza da parte
dei secondi verso i primi; e tanto più sono duri quanto più i proprietari o i grandi fittuari
vivono nelle loro terre. Con la borghesia di città i contadini, come con i baroni che vivevano in città, hanno rapporti migliori, comunque non li hanno mai diretti, ma attraverso i fittuari o soprattutto la piccola borghesia intellettuale.
Né la borghesia intellettuale ha, nella sua grande maggioranza, un atteggiamento diverso
da quella terriera. Il giudizio di Gaetano Salvemini su di essa è severissimo:
L’azione politica della piccola borghesia intellettuale, e più specialmente di quella parte di essa che
non riesce a collocarsi comodamente al banchetto della vita, ha una grandissima importanza nella
società moderna. Perché è questa classe che dà a tutti i partiti i giornalisti, i libellisti, i galoppini elettorali, i conferenzieri, i propagandisti. E gli spostati della piccola borghesia intellettuale finiscono quasi
tutti col diventare professionisti della politica peggiore: non avendo niente da fare, possono dedicare
tutto il loro tempo alla vita pubblica; conquistando i primi posti nelle file dei partiti, diventano gli uomini di fiducia, i depositari dei segreti, i guardiani ed i padroni delle posizioni strategiche più delicate.
Anche nell’Italia settentrionale costoro fanno ai partiti politici e alle organizzazioni economiche tutto il
male che possono. Ma, non essendo l’elemento predominante e dovendo contribuire al gioco dei partiti politici e amministrativi in compagnia di tutti gli altri gruppi sociali – borghesia agraria, industriale,
commerciale; piccoli esercenti; artigianato; piccoli proprietari rurali; proletariato industriale e rurale –,
sono costretti a subordinare la propria azione ai bisogni dei gruppi sociali e delle organizzazioni, a cui
devono aderire per essere qualcosa. Si fanno pagare, troppe volte, più che non meritino; ma rendono
dei servigi. Sono servitori, spesso fedeli; ma possono essere licenziati caso per caso dagli interessati.
Nel Mezzogiorno dell’Italia la potenza sociale, politica, morale della piccola borghesia intellettuale è
assai più grande e più malefica che nel Nord. Ed è questi, insieme alla malaria, il flagello più rovinoso
del Mezzogi0rno. Si può dire che nel Mezzogiorno la piccola borghesia intellettuale è nella vita morale quel che è nella vita fisica la malaria.
Ora la malaria è scomparsa, ma la piccola borghesia intellettuale occupa ancora un posto
dominante nella vita del Mezzogiorno e il giudizio di Salvemini è in gran parte ancora valido. Scrive ancora Guido Dorso:
Essendosi sviluppata a latere di quella della terra la borghesia professionista e intellettuale ha anch’essa contribuito a mantenere l’immobilità del paese, perché, subordinata agli interessi fondamentali
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della classe agraria, cui presta i suoi servigi, non è riuscita a superare decisamente l’orizzonte ideale di
quella. Se collateralmente a queste due sezioni della borghesia fosse nata e si fosse sviluppata anche
la borghesia capitalistica, industriale e commerciale, da una parte, gli intellettuali e i professionisti si
sarebbero sempre più emancipati dai dati storici e psicologici della classe terriera, e, dall’altra parte,
quest’ultima, scadendo d’importanza e di prestigio, avrebbe dovuto necessariamente modificare la sua
mentalità e la sua struttura. Ma questo processo di creazione della borghesia del lavoro del
Mezzogiorno o non si è proprio prodotto, o, se si è prodotto, ha avuto insufficiente sviluppo.
In realtà mancavano anche le condizioni per un diverso sviluppo. Sia per la scarsa disponibilità di capitali, sia per l’insicurezza e la povertà dei redditi terrieri infatti, solo in condizioni particolarmente favorevoli, a volte attingendo denaro da fonti diverse dall’agricoltura
– si tratta spesso di commercianti, di artigiani – la proprietà, in alcune zone, migliora, grazie pure all’introduzione di nuovi mezzi tecnici: all’attività di questo strato della borghesia
rurale si deve, tra l’altro, la diffusione delle culture legnose da frutto che hanno portato un
relativo benessere in alcune zone del Mezzogiorno.
Ma la situazione rimane in generale immutata: il grande proprietario il più delle volte è
assente e non di rado è assente dalla sua terra anche il medio proprietario, tutti soddisfatti di vivere dal ricavato dei fitti, nell’esercizio della rapina, essi sui fittuari, questi sui contadini e tutti sulla terra; rapina esercitata con il disboschimento indiscriminato e con l’estensione della cultura cerealicola e con lo sfruttamento della mano d’opera. Immutata,
anzi peggiorata, la situazione nel campo industriale; immutata nel campo commerciale.
Immutata la condizione dei contadini.
Se l’Italia meridionale non fosse stata in Europa la sua situazione sociale non si sarebbe
mai sbloccata. Dice Guido Dorso:
È la vicinanza dell’Europa, sono i contraccolpi della vita continentale che, a distanza di anni, finiscono
per influenzare il rapporto base tra la borghesia terriera e il contadino; sono le correnti migratorie, le
guerre e i rivolgimenti monetari che, ogni tanto, danno la ruota al movimento.
E qui bisogna subito e una volta per tutte riconoscere che alla frazione più avanzata della
borghesia intellettuale in gran parte si deve se il Mezzogiorno è rimasto, per così dire, in
Europa, dalla Repubblica Partenopea del 1779 – e qui conviene ricordare tra gli altri un
lucano, Francesco Lomonaco, la cui vocazione europea, se così può chiamarsi, traspare da
alcune pagine del suo Rapporto al Cittadino Carnot –, dai primi moti risorgimentali alle
prime lotte contadine nel movimento socialista e in quello cattolico.
Con l’emigrazione, dunque, soprattutto con la grande emigrazione oltre Atlantico, da una
parte, infatti diminuiscono le richieste di affittanza, dall’altra le prime rimesse degli emigranti permettono una disponibilità di denaro a chi non ne aveva mai disposto, e con essa
riceve una spinta l’attacco alla proprietà e la formazione di nuove medie, piccole e, purtroppo, piccolissime proprietà terriere. Gli emigranti di ritorno, inoltre, portano nei paesi di
origine nuove idee. E nuove idee e nuove aspirazioni portano i reduci dalla Guerra
Mondiale, in cui per la prima volta erano stati vicini gli uni agli altri gli italiani di tutte le
regioni. I primi sintomi della crisi dei rapporti tra borghesi e contadini risalgono a quel
B or g h e s i e c o n t a d i n i n e l M e z z o g i o r n o
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periodo. Non che prima i contadini non avessero mai tentato di ribellarsi alle prepotenze
padronali: sono note le esplosioni che di tanto in tanto hanno scosso il mondo contadino
meridionale, ora per il possesso della terra demaniale, ora per il mantenimento degli usi
civici, ma si tratta di moti della durata di qualche giorno, assai spesso sanguinosi, senza
alcuna preparazione, senza alcuna possibilità di riuscita. Ora, di ritorno dalla trincea, in cui
hanno avuto contatto con gli operai settentrionali, i contadini sono più pronti a raccogliere
la propaganda dei socialisti e dei popolari. Allo stesso movimento combattentista, del
resto, essi aderiscono nella speranza di ottenere la terra.
Poi viene il fascismo. Importato dal Settentrione, trova rapidamente i suoi alleati naturali
nella borghesia meridionale, e i contadini che non trovano da lavorare nel Mezzogiorno,
chiusa l’emigrazione, si occupano nelle varie guerre d’oltremare: era per i contadini, questa, l’unica maniera per assicurare il pane alla propria famiglia e per i borghesi la via per la
gloria, gli onori e un posto migliore.
La seconda guerra mondiale vede i contadini disseminati in tutto il mondo, a contatto delle
civiltà più diverse, e nelle lotte partigiane.
Partiti indifferenti al gioco della politica, finora riservato ai borghesi, sono costretti dagli
avvenimenti a entrare in esso e si accorgono di poter disporre di un arma di cui presentono l’importanza e intendono sempre più l’uso, quella del voto. La conquista del suffragio
universale si rivela, a distanza di oltre un ventennio, di importanza decisiva.
Sia che accettino di rimanere nelle attività agricole, tentando di accedere come possono
alla terra, sia che tentino di uscire dal proprio stato, passando nell’industria, che, data la
quasi assenza di industria nel Mezzogiorno è manovalanza edilizia, o passando nei gradi
più bassi della burocrazia, o emigrando, essi non sono più rassegnati e comprendon0, sempre più chiaramente e in strati sempre più vasti, che il potere non è un dono che viene dall’alto, ma che essi stessi sono tra le fonti del potere e che possono diminuirlo o accrescerlo nelle mani di questo o di quel gruppo. Non mancano, come si comprende facilmente, in
una situazione in movimento e carica di fermenti, come voi stessi avete potuto direttamente constatare, tentazioni di imitare costumi di altre classi, e motivi di smarrimento.
Bisogna tuttavia riconoscere che mai come ora nella storia del Mezzogiorno si è presentata l’occasione e sono presenti le premesse per l’affermazione di un rapporto diverso tra
borghesia – soprattutto tra quella destinata alla mediazione del potere – e contadini e bisogna anche riconoscere che questi ultimi, a volte anche con la loro vivacità, e pur tra le contraddizioni, gli arresti e gli errori, contribuiscono alla risoluzione di questo che è uno dei
problemi fondamentali del Mezzogiorno. I contadini sono entrati finalmente nella storia e
non hanno nessuna intenzione, e nessun motivo, di tornare indietro.
I primi contraccolpi del movimento contadino avete potuto constatarli, direi fisicamente,
nelle visite che siete andati compiendo in questi giorni e potrete meglio valutarli negli
incontri che certamente solleciterete e nella lettura delle pagine di “quello che doveva
essere un immenso affresco degno dei grandi pittori messicani”, come ha definito René
Nouat, un cattolico francese, i Contadini del Sud, l’inchiesta che Rocco Scotellaro stava per
completare quando, giovanissimo, fu colpito dalla morte. Se la posizione di indipendenza
dei contadini rispetto ai borghesi si svilupperà e si consoliderà, se le loro speranze non
andranno deluse, ciò dipenderà, in gran parte, dall’Europa.
(inedito, 1957)
40
Un modello di sviluppo
per la Basilicata
di Rocco Mazzarone
S
i ritiene, quale base di elaborazione del modello, indispensabile tenere presente i
seguenti punti:
a) necessità di preservare gli insediamenti umani nella loro unità sociale e fisica;
b) le iniziative industriali devono presentare flessibilità di dimensione e ubicazione;
c) tutela dell’ambiente.
In base a tali esigenze una struttura costituita da una rete di medie e piccole industrie operante in settori di una tecnologia a medio o alto valore aggiunto e opportunamente diversificata appare un primo modello suscettibile di studio. Ciò comporta la esclusione dei
grandi insediamenti industriali operanti per lo più in settori di base, sia per le difficoltà
ambientali di ubicazione (necessità di ampi spazi, vicinanza al mare, porti eccetera) sia
anche per l’azione di richiamo che essi susciterebbero con il conseguente svuotamento
degli attuali insediamenti di modeste dimensioni.
A titolo di esempio settori come quello interessante la produzione di leghe e acciai speciali (a completamento della produzione metallurgica di massa del centro di Taranto), oppure
settore delle fibre sintetiche (in collegamento con le attività dell’Anic) o settori interessanti prodotti farmaceutici convenzionali, prodotti minerari particolari, eccetera.
Il modello di sviluppo tecnologico potrebbe interessare il 30% della popolazione nell’arco
di dieci anni con un impegno annuale programmato di circa tremila unità.
Vi è da rilevare che il costo per insediamenti interessanti una produzione del tipo immaginato è inferiore di un ordine di circa un fattore 5 di quello richiesto per l’industria di base
(acciaierie, raffinerie eccetera).
Naturalmente tale programma dovrebbe essere accompagnato da un parallelo sforzo nella
istruzione superiore e qualificazione tecnologica della comunità lucana. Vale a dire occorrerà dare priorità e impulso alle facoltà scientifiche cercando di caratterizzarle nei settori di
tecnologia più vicini alle scelte degli indirizzi industriali del modello elaborato.
Inoltre occorrerà promuovere l’istituzione di centri di ricerca del Cnr sulla base di una equa
distribuzione nazionale, finalizzandone l’attività ai settori effettivamente operanti o possibili di insediamento nella regione lucana.
U n m od e l l o d i s v i l u p p o p e r l a B as i l i c at a
41
Le scelte di indirizzi di attività industriale dovranno essere suggerite, oltre che dalle reali
possibilità offerte dalla regione, dalla necessità di concorrere a sanare alcune carenze rilevabili a livello nazionale. In particolare l’analisi del forte deficit della bilancia tecnologica
dei pagamenti che lamenta il nostro paese, può costituire un punto di riferimento per la
scelta dei settori operativi anche nella nostra regione.
Un altro spunto di interesse potrebbe riguardare la proposta a livello europeo di sperimentazione di un tale modello (che naturalmente dovrebbe accogliere anche critiche e suggerimenti da parte delle sedi comunitarie qualificate) che interessa una comunità assai
rappresentativa della situazione in aree arretrate della Comunità europea.
Peraltro l’indicazione di industrie piccole e medie operanti nel settore di una qualificata
tecnologia è una scelta che trova riscontro nella realizzazione di analogo modello, a livelli
invero molto avanzati, in regioni come la Svizzera, la Baviera, l’alto Tirolo con situazioni
(inedito)
ambientali che ricordano le nostre regioni.
42
Carlo Levi, un amico
di Rocco Mazzarone
M
i trovo a moderare quest’incontro in forza di un’amicizia. Raccontarla equivale a una
sorta di confessione pubblica, non inutile, spero, ai lavori della tavola rotonda.
Un’amicizia che non affonda le radici nell’infanzia e nell’adolescenza può nascere, in persone che sono naturalmente disposte ad accettarsi, perché sono legate da interessi comuni, perché si somigliano culturalmente, perché inseguono gli stessi ideali.
Carlo Levi si presenta da solo nei messaggi affidati alla sua produzione letteraria e pittorica; non conoscono invece me. In realtà, la mia vita e le sue tappe non sono molto diverse
da quelle di molti miei coetanei. Attraverso la mia testimonianza, quindi, gli organizzatori
devono aver inteso fermarsi non certo sulla singolarità di un’amicizia, ma sulla maniera di
porsi di un rapporto tra un meridionale di media cultura – come io sono – e un uomo di cultura europea, per giunta geniale, di radici ed esperienze diverse dalle mie.
Come è naturale, commetterò qualche peccato di omissione, di cui comunque mi ritengo
fin da ora perdonato, e cercherò di non indulgere nella facile aneddotica. Sono medico, laureato più di mezzo secolo fa, a Napoli, in nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re
d’Italia e Imperatore d’Etiopia, quando Carlo Levi aveva oramai lasciato Aliano.
Ma, a differenza di lui, non mi ero mai fermato a riflettere sulle condizioni delle nostre
popolazioni, io, nato e vissuto nel Mezzogiorno; forse perché avevo trascorso l’infanzia e
l’adolescenza con compagni figli di contadini e li avevo naturalmente considerati miei pari,
come essi consideravano me; forse anche per la mancanza di informazioni che mi permettessero di spingere lo sguardo oltre gli orizzonti consentiti dal fascismo. In realtà la mia perspicacia doveva essere veramente scarsa se, preso da altri interessi, pur sollecitato da
familiari e amici a guardare il fascismo con occhio critico, non andavo oltre l’indifferenza o,
come nel corso della guerra d’Africa, la diffidenza e l’insofferenza: l’Inghilterra – dicevo –
chiuderà con una barcaccia il canale di Suez, e faccetta nera non sarà italiana. Ma dovetti
subito convincermi che la mia povera logica non coincideva con quella della Storia: presto,
infatti, fui costretto a salutare anch’io l’Impero che sorgeva “sui colli fatali di Roma”.
Al rifiuto del fascismo fui infine tacitamente convinto da Piero Fornara, il grande pediatra
novarese, mio compianto maestro. Il mio rifiuto, tuttavia, si conservò, negli anni successiCa r l o L e v i , u n a mi c o
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vi, inespresso, dissimulato in silenzi poco coraggiosi o, peggio, in ipocriti sorrisi compiacenti. Poi venne la guerra, e la prigionia trascorsa in Egitto in un grande ospedale fianco a
fianco con medici e infermieri inglesi, e quindi la scoperta della democrazia, il ritorno in
Italia, la caduta del fascismo, l’incontro con i “fuorusciti”: si tratta, come si vede, di esperienze simili a quelle di molti miei coetanei. Dagli scenari planetari cui la tragedia della
guerra mi aveva abituato, mi calò nei problemi del Mezzogiorno la lettura di Fontamara,
nella sua prima povera disadorna edizione italiana. Ne fui sconvolto.
Alcuni mesi più tardi – era il Natale del 1945 – amici torinesi mi offrirono il Cristo si è fermato a Eboli. Lo lessi d’un fiato. Dico subito che non mi attrassero, di questo libro, le pagine folkloriche, inutili digressioni – mi sembrarono – nell’economia del racconto. Fui invece
colpito dalla somiglianza di facce a me ben note con “le facce ottuse, maligne e avidamente soddisfatte” dei signori di cui Carlo Levi aveva fatto la conoscenza sulla piazza di Aliano.
“Le loro passioni – leggevo nelle prime pagine del libro – avevano l’urgenza e la miseria del
bisogno quotidiano del cibo e del denaro, si rivestivano, senza nascondersi, del formalismo
dei galantuomini”.
“I signori erano tutti iscritti al Partito, anche quei pochi che la pensavano diversamente,
perché il Partito era il Governo, era lo Stato, era il Potere, ed essi, naturalmente, si sentivano partecipi di questo Potere. Nessuno dei contadini, per la ragione opposta, era iscritto”. Proprio come al mio paese.
Lo Stato, dai contadini di Aliano, era considerato alla stessa stregua delle frane, della siccità, della malaria: “sono dei mali inevitabili” dicevano, “ci sono sempre stati, e ci saranno
sempre”. E l’autore del libro concludeva: “la sola possibile difesa contro lo Stato e la propaganda era la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione senza speranza, che curvava
le loro schiene sotto i mali della natura”.
Come non accettare le verità contenute in quelle pagine? e che fare per strapparli dalla loro
rassegnazione?
Il problema, secondo l’autore del libro, presentava diversi aspetti. Il primo derivava dalla
coesistenza di “due civiltà diversissime, nessuna delle quali in grado di assimilare l’altra.
Campagna e città, civiltà precristiana e civiltà non più cristiana”. L’altro aspetto era quello
economico, il problema della miseria.
Infine c’era il lato sociale.
“Si usa dire – scriveva – che il grande nemico è il latifondo, il grande proprietario; e certamente, là dove il latifondo esiste, esso è tutt’altro che una istituzione benefica. Ma se il
grande proprietario che sta a Napoli, a Roma o a Palermo è un nemico dei contadini, non è
tuttavia il maggiore né il più gravoso. Egli almeno è lontano, e non pesa quotidianamente
sulla vita di tutti. Il vero nemico, quello che impedisce ogni libertà ed ogni possibilità di esistenza civile ai contadini è la piccola borghesia dei paesi. È una classe degenerata, fisicamente e moralmente: incapace di adempiere la sua funzione e che solo vive di piccole rapine e della tradizione imbastardita di un diritto feudale. Finché questa classe non sarà soppressa e sostituita non si potrà pensare di risolvere il problema meridionale”. Posto in questi termini il problema meridionale, Carlo Levi non nascondeva il timore che, in un paese
come il nostro, “le nuove istituzioni avrebbero perpetuato, sotto nuovi nomi e nuove bandiere, l’eterno fascismo italiano”.
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Secondo lui, “per uscire dal giro vizioso di fascismo e antifascismo”, bisognava rifondare
lo Stato come “insieme di infinite autonomie, una organica federazione”, in cui, accanto
alla “autonomia del comune rurale” avrebbe dovuto esistere “l’autonomia delle fabbriche,
delle scuole, delle città, di tutte le forme della vita sociale”.
E, a conclusione del disegno riformatore: “il problema meridionale non si risolve dentro lo
Stato attuale e con le sole forze del Mezzogiorno: ché, in questo caso, avremmo una guerra civile, un nuovo atroce brigantaggio che finirebbe al solito, con la sconfitta contadina e il
disastro generale; ma soltanto con l’opera di tutta l’Italia, e il suo radicale rinnovamento”.
Purtroppo, nei mesi in cui Carlo Levi, a Firenze – dal dicembre 1943 al luglio 1944 –, scriveva quelle pagine, l’Italia era divisa in due e, grazie agli inglesi – “interessati a conservare e
restaurare e non a riformare” – e ai partiti – riluttanti a disobbedire agli alleati, russi compresi –, le deboli forze della democrazia erano state di fatto messe a tacere nel
Mezzogiorno. La proposta leviana non poteva quindi tradursi oramai in progetto politico,
ancora una volta l’orologio della Storia aveva segnato tempi diversi nel Nord e nel Sud, l’occasione storica era mancata. Sarebbe stato – pensavo – interessante avvicinare l’autore di
questo libro rivelatore.
Ero quindi disposto a diventargli, se mi avesse accettato, amico quando giunse al mio
paese, nella primavera del 1946, candidato alla Costituente.
Mi presentai come “medicaciucci e nipote di don Traiella”. Con un sorriso che mi sembrò
tradire un certo imbarazzo stava per precisarmi che “in realtà non intendeva offendere”,
quando Michele Cifarelli, interrompendolo, gli disse di non darmi retta, ché celiavo. Mi sorrise divertito. Così ebbe inizio la nostra amicizia.
Probabilmente – ci ho pensato dopo – quella mia presentazione nascondeva un certo
inconscio disappunto misto al fondato timore di diventare anch’io, negli anni, un “medicaciucci”, e un senso di solidarietà e comprensione – che sapevo del resto condiviso da Carlo
Levi – per don Traiella, anch’egli confinato in partibus infidelium.
Con me, quel giorno, c’era anche Rocco Scotellaro, c’erano altri, c’era Leonardo Sacco che
lo accompagnava negli itinerari elettorali, c’era anche Mario Trufelli. Mario, meno che ventenne, era uno dei maggiori attori – si esercitava in comizi a favore della repubblica – sul
palcoscenico che era la piazza del nostro paese, brulicante – allora – di anime vive. Quello
che accadde quel giorno e nei giorni successivi può raccontarlo Mario con colori più vivaci
di quelli in mio possesso: il libro passava di mano in mano, pochissimi l’avevano letto, e
alcuni di questi sostenevano che il suo autore ci denigrava, in piazza c’era il “popolo” che
giurava sul giudizio di questi ultimi e il “popolo” che sosteneva il giudizio degli altri, per i
quali Carlo Levi era invece un nostro sicuro amico.
E tuttavia, anche tra quelli disposti ad accettarlo, alcuni mi chiedevano se li amasse poi
davvero i contadini.
Sì, li amava: se lo lascia sfuggire, quasi con pudicizia, in una delle ultime pagine del libro:
“mi avevano preparato i cibi migliori, il latte e il formaggio fresco, e mi offrivano appena
arrivato, con quella non servile ospitalità antica, che mette gli uomini alla pari: amavo quei
contadini”.
Nei mesi successivi a quel primo incontro, l’amicizia tra Rocco e Carlo si scopre, “per l’amore della somiglianza”, sempre più intima e calda; la nostra, nata e alimentata da una
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certa comunanza di convinzioni sui problemi cruciali del Mezzogiorno, si consolida anche
per la presenza di Rocco nella vita di entrambi.
Nei miei brevi trasferimenti romani, oggetto degli incontri con Carlo era infatti, oltre alla
Lucania, il confronto sul talento di Rocco, sul suo impegno nell’amministrazione del
Comune, sulle sue scelte politiche. Rocco aveva aderito al Fronte popolare e Carlo era contro e io ero d’accordo con Carlo; non lo ero invece quando contestava a Rocco la decisione
di trasferirsi a Portici per consolidarvi, alla Scuola di Manlio Rossi-Doria, la sua cultura e
cimentarsi in esperienze impegnative purtroppo interrotte dalla morte prematura.
Coinvolto nelle nostre cose, è presente in tutte le vicende, anche le più drammatiche, che
si susseguono nel Mezzogiorno. Interessato a conoscere in particolare gli avvenimenti
lucani ne sollecita i resoconti agli amici che lo frequentano. I miei resoconti su quanto accadeva – o non accadeva – in Lucania, a differenza di quelli di Rocco, coloriti ed estrosi, dovevano apparirgli, proprio perché confortati da dati, opachi e ragioniereschi. Carlo, infatti,
non gradiva “la identificazione delle situazioni col dato”. Polemicamente, perciò, gli dedicai come “ragionieresca” una mia nota, in cui necessariamente erano riportati dei dati sulle
condizioni igieniche dei Sassi. Ne fu divertito per la mia “fuga nell’oggettività”.
Per decongestionare i vecchi rioni materani, non lontano da essi si costruisce, nei primi
anni cinquanta, La Martella.
Al suo occhio non sfuggono le contraddizioni di questo intervento, che poteva essere
esemplare e per certi versi lo era. Rocco gli aveva raccontato di questo villaggio e delle
“riunioni contadine, con le discussioni sulle vacche e sui muli, discussioni interminabili e
serie sui problemi veri”. Carlo visita La Martella – Rocco non c’era più – e trova le case del
nuovo villaggio “costruite con lo schema contadino degli architetti” (gli dissi che gli architetti non potevano progettare meglio, che anzi avevano discusso con i contadini i progetti
e apportato le modifiche da essi richieste); trova le stalle “splendide di pulizia e di ordine”
e, in mezzo a una di esse, una vacca “che ruminava, oziosa e altera come una regina”. Il
contadino gli spiegò che “gli costava assai cara, non soltanto perché gli era stata addebitata dall’Ente Riforma che gliela aveva forzosamente assegnata, ma perché doveva mantenerla, comprare il foraggio, nutrirla, e non poteva servirsene”.
Era una vacca da lavoro e non poteva farla camminare – le terre assegnate erano a quattro
ore di distanza – e poi lavorare. Il contadino l’aveva chiamata Bellavita, perché era la sola
persona che facesse la bella vita in quel villaggio.
Ironica, la sua maniera di denunciare poteva sembrare a volte ingenerosa, era comunque
sempre rivelatrice di disfunzioni. Così, quando si rende conto che il risanamento dei Sassi
continua a operarsi al di fuori di essi interviene, nelle sedi più diverse, al Senato, perché
siano conservati e restituiti a Matera, “città bellissima”.
Nella sua ultima visita in Lucania gli fecero, finalmente, festa, ad Aliano e altrove e a
Matera. Notò la mia assenza. Luigi Guerricchio gli disse che andavo dicendo che in questo
secondo dopoguerra le cose più importanti accadute in Lucania erano due: la pubblicazione del Cristo si è fermato a Eboli e lo spargimento del Ddt. Egli sapeva bene cosa era la
malaria, “una vera maledizione”, e il Ddt l’aveva sconfitta.
Molte cose sono cambiate. I contadini se ne sono andati; non si sono dati questa volta al
brigantaggio; sono emigrati; sono andati a costruire altrove la loro esistenza, finalmente
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liberati dalla “cupa disperazione”, ma a costo di enormi sacrifici umani (Carlo ne aveva
compreso il dramma); l’agricoltura, liberata dalle forze di lavoro esuberanti, è cambiata
grazie alla introduzione di tecnologie che hanno alleggerito la fatica dei contadini: la
terra, per essi, non è più, come era prima, bassa; il livello di vita delle nostre popolazioni
è notevolmente migliorato, e con esso sono aumentati i consumi. Ma non sono scomparse le disfunzioni. I numerosi interventi – ordinari e straordinari – hanno mancato di articolarsi in un organico progetto di sviluppo. Si sperava che questo sarebbe stato innescato dalle regioni, ma, di fatto, finora al centralismo statale si è affiancato quello regionale,
i cui poteri sono amministrati attraverso numerosi organismi intermedi e le relative affollate burocrazie. Nel 1913, Gaetano Salvemini esprimeva la speranza che “un funzionario
coraggioso” scrivesse “la storia della carriera politica e burocratica dei protettori e dei
protetti, illustrandola coi rapporti di parentela, di amicizia e di clientela affaristica fra i
gros bonnets della politica e della burocrazia e i parassiti minori, nel cui interesse vengono creati via via i posti di lavoro”. Ma la speranza riposta da Gaetano Salvemini nell’improbabile “funzionario coraggioso”, è andata finora delusa. In compenso pochi oramai
dubitano che nelle burocrazie – comprese ovviamente quelle dei partiti – e ai loro margini, in un contesto diverso da quello dell’avventura leviana, “sotto nuovi nomi e nuove bandiere”, operano i piccoli e meno piccoli mediatori del potere, subdoli e, all’occorrenza,
arroganti, attivi come prima, corrotti e corruttori, come i loro protettori, “i veri nemici” li
aveva definiti Carlo Levi, perché costituiscono l’anello funzionale all’uso perverso del
potere. Fino a quando il Mezzogiorno non si libererà di loro – prodotto e rivelatori delle
secolari disfunzioni della società meridionale –, fino a quando cioè gli elettori continueranno ad accettarli, le regole della democrazia non potranno essere correttamente esercitate, la partecipazione popolare continuerà a esaurirsi nei riti periodici dei comizi elettorali, il progetto delle autonomie locali rimarrà confinato nell’utopia leviana.
Fortunatamente confinato, almeno per ora. Perché, con l’attribuzione di più ampie funzioni deliberative ed esecutive alle regioni e agli organismi cosiddetti intermedi, nelle società
“familistiche” come le nostre, non si va dimostrando infondato il pericolo paventato, fin dal
1896, da Giustino Fortunato, quello cioè “di veder crescere l’infeudamento e il prepotere
delle consorterie locali, e il loro non equo ed anche iniquo procedere in tutte le manifestazioni della vita amministrativa”.
La strada della democrazia è difficile, passa attraverso un lungo e faticoso processo educativo. Non si può dire che non sia incominciato. Ma gli ostacoli, intelligentemente camuffati, ne contrastano lo sviluppo.
Le divagazioni sulle condizioni attuali del Mezzogiorno, cui mi sono lasciato andare, sono
sicuro che egli le avrebbe largamente condivise.
(Questo testo è apparso per la prima volta nel volume Il germoglio sotto la scorza. Carlo Levi vent’anni dopo, a cura di Franco Vitelli, Avagliano Editore 1998.)
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