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Rocco Mazzarone Sud, realismo e utopia a cura di Marco Rossi-Doria Questo libretto è stato voluto dalla redazione di “Lo straniero” per ricordare Rocco Mazzarone, maestro e amico di molti suoi collaboratori, e dalla Regione Basilicata, nella persona del suo Presidente Filippo Bubbico e di Mario Trufelli, presidente dell’Apt (Azienda promozione turismo) di Basilicata, poeta e giornalista. Esso riproduce l’intervista fatta a Rocco Mazzarone da Marco Rossi-Doria. Manlio Rossi-Doria, padre di Marco, fu con Carlo Levi, con Rocco Scotellaro e con Mazzarone uno dei maggiori protagonisti della storia del Sud nel dopoguerra. Essa venne pubblicata sul supplemento della rivista “Linea d’ombra”, “La Terra vista dalla Luna”, nel numero di marzo nel 1992. La precede una nuova presentazione di Marco. A integrazione, un ricordo di Rocco scritto da Filippo Bubbico, un ritratto scritto da Franco Vitelli – curatore tra l’altro dell’opera di Rocco Scotellaro presso Laterza e Mondadori – e tre testi rari e introvabili dello stesso Mazzarone, che non scriveva volentieri ma era un eccezionale narratore orale. Hanno curato la redazione di questo opuscolo Anna Branchi, Goffredo Fofi, Alessandro Leogrande e Fausta Orecchio. Per l’immagine di copertina, particolare di un dipinto lucano di Levi, si ringraziano sentitamente Guido Sacerdoti e la Fondazione Levi. Chi desideri ricevere copie dell’opuscolo o riprodurne delle parti può scrivere a: [email protected] Roma, aprile 2006 Stampa: Arti Grafiche La Moderna, Roma www.lostraniero.net Sommario 5 Il medico di Tricarico Filippo Bubbico 6 Ritratto di Rocco Mazzarone Franco Vitelli 15 I racconti di Rocco Marco Rossi-Doria 17 Una vita mal spesa Rocco Mazzarone incontro con Marco Rossi-Doria Tre scritti di Rocco Mazzarone 37 Borghesi e contadini nel Mezzogiorno 41 Un modello di sviluppo per la Basilicata 43 Carlo Levi, un amico La figura di Rocco Mazzarone (Tricarico, 1912-2005), medico e riformatore attivissimo sul territorio lucano e nel Sud, ma figura appartata, ai margini della politica istituzionale per scelta, è poco nota salvo che nella sua regione e tra coloro che, medici mossi da un forte senso di responsabilità sociale inerente alla loro professione e persone variamente partecipi delle vicende economiche, culturali, assistenziali e politiche del Sud, lo hanno frequentato, interrogato, usato come un fondamentale punto di riferimento per la loro conoscenza del territorio, della sua storia, della sua composizione sociale. È proprio perché Mazzarone ha scritto poco o niente, ma è stato protagonista e testimone di un’epoca fondamentale nella storia del Sud e dell’Italia, che abbiamo voluto riprodurre l’intervista di Marco Rossi-Doria, ricordando un’altra intervista pubblicata sul numero 68 di “Lo straniero”, che gli venne fatta da Alessandro Leogrande. Per la nostra rivista è un dovere ricordare Rocco in anni in cui la memoria è così carente e faziosa nella nostra classe dirigente, tra i nostri intellettuali, tra i nostri storici e nel popolo. (Goffredo Fofi) Il medico di Tricarico di Filippo Bubbico Presidente del Consiglio regionale della Basilicata D i Rocco Mazzarone avevo sentito parlare sin dall’adolescenza, quando il medico di Tricarico era già famoso per le ricerche epidemiologiche compiute e per essere stato punto di riferimento degli studiosi che a partire dagli anni cinquanta svolsero importantissime ricerche sulla Basilicata e sul Mezzogiorno. Ma solo nel 1995, quando ho iniziato l’esperienza di assessore regionale alla sanità, ho avuto modo di conoscerlo personalmente e di apprezzare le sue qualità umane, la sua proverbiale discrezione e la sua straordinaria competenza. Ricordo le lunghe conversazioni nella sua casa di Tricarico, nella quale ero sempre accolto con cordialità. E ricordo le sue lettere appassionate, dalle quali trasparivano una forte tensione morale e una capacità non comune di aggiornare l’analisi sui sistemi sanitari. Molti anni prima Mazzarone aveva realizzato il primo progetto pilota di riorganizzazione del servizio sanitario in Basilicata. E non aveva mai smesso di dedicare la sua attenzione a questi temi, tanto da spronarci a costituire l’osservatorio epidemiologico regionale, che oggi reputiamo un organismo essenziale per capire i bisogni di salute. Proprio lui, che in anni lontani aveva legato il suo nome alla battaglia per l’ospedale a Tricarico, amava ripetere che la tutela della salute non finisce nelle strutture sanitarie, che la medicina non è solo una tecnica per curare le malattie, ma uno strumento per accrescere le relazioni umane e la qualità della vita. Aveva visione aperta e moderna del concetto di salute, che oggi significa prevenzione, servizi territoriali, capacità di recepire le nuove domande che provengono dai cittadini. Ed è anche per questo che la sua assenza è apparsa particolarmente insopportabile quando, recentemente, abbiamo inaugurato a Tricarico la nuova struttura per la riabilitazione gestita dalla Fondazione Don Gnocchi. Che è anche un modo per dare un futuro all’ospedale che Mazzarone aveva tanto voluto. I l me dic o di T ric a ri c o 5 Ritratto di Rocco Mazzarone di Franco Vitelli I l 28 dicembre 2005 è morto a Tricarico (Matera), dov’era nato il 17 agosto 1912, Rocco Mazzarone. Novantatré anni sono tanti, egli ha attraversato quasi per intero il secolo scorso con appendice nell’attuale. La sua vita impone rispetto per la durata, ma soprattutto per la qualità delle esperienze. Al grande pubblico distratto, questo nome forse non evoca granché, eppure la figura di Mazzarone rientra con un profilo tutto suo nella storia del meridionalismo, collocandosi come l’ultimo dei grandi. Il fascino, e direi il mistero, della sua azione è nella risposta alla domanda di come abbia fatto a incidere tanto mantenendo sempre un atteggiamento riservato e pudico. Di questo suo essere Carlo Levi aveva colto bene la sostanza quando nel polittico Lucania 61 lo ritrae a testa china con il volto coperto dalla mano; segno e simbolo di estrema pensosità e ritrosia a esibirsi in prima fila, senza però retrocedere di un palmo nelle battaglie culturali e civili. Non è questo il momento delle analisi complete, troppo fresco è ancora il dolore per la perdita, specie per chi, come me, lo ha avuto caro come un padre; occorre elaborare il lutto per fare un discorso sereno. E tuttavia, sarà il caso di abbozzarne qualche linea, tenendo conto del suo insegnamento che rifiutava per principio la creazione di miti, cioè l’alterazione ad arte dei dati del reale per precise finalità. Basti ricordare il suo modo di porsi nei confronti di Rocco Scotellaro, cui pure era legato da amicizia profonda: strenua fedeltà alla memoria di un giovane talento precocemente scomparso e indicazione dei dissensi e limiti quando vi fossero stati. Rocco Mazzarone di mestiere ha fatto il medico. Si è laureato il 12 luglio 1936 presso l’Università di Napoli e ha conseguito poi, il 18 luglio 1939, la specializzazione in Tisiologia presso l’Università di Milano, dove entra in dimestichezza con padre Agostino Gemelli e, soprattutto, con Francesco Olgiati. A Novara nel 1939 ha ricoperto per incarico il posto di assistente in un centro per la lotta contro i tumori e frequentato la divisione di pediatria diretta da Piero Fornara, antifascista e poi deputato socialista alla Costituente, del quale diventa amico e si sente allievo. Richiamato alle armi e inviato nell’Africa settentrionale, è catturato dagli inglesi, che lo 6 utilizzano presto con posti di responsabilità nel 19° Ospedale Generale dell’Ottava Armata. Nel 1943 per uno scambio di prigionieri rientra in Italia assegnato al Distretto militare di Potenza in qualità di sottotenente medico. Qui fa le prime prove di attività politica in seno all’Associazione “L. La Vista” a stretto contatto con Matteo Renato Pistone, comunista dissidente. Nel 1944, nello spirito del Cln, collabora a “L’ordine”, diretto di fatto dal fratello don Angelo, svolgendovi un ruolo di mediazione con gli esponenti dell’estrema sinistra; è significativa la manchette che dettò per il giornale: “Una necessità: fronte delle democrazie contro le dittature”. Dal 1947 al 1982 ha diretto il Dispensario antitubercolare di Matera. Nel 1968 ha conseguito la Libera docenza in Igiene e dal 1969 al 1982 ha insegnato Statistica medica e Biometria nella Facoltà di Medicina dell’Università di Bari. La sua attività scientifica si compendia in una sessantina di pubblicazioni riguardanti la demografia; l’epidemiologia generale, della tubercolosi e della istoplasmosi; la microbiologia applicata all’igiene; l’igiene delle acque; l’anatomia patologica; l’organizzazione sanitaria. A mia conoscenza, la sua prima pubblicazione risale al 1940, quando nel numero di febbraio della “Gazzetta Medica Italiana”, auspice Alberto Pepere, uscì un articolo su I rapporti tra linfoadenite tubercolare cervicale e mediastinica e tubercolosi polmonare. Se fosse solo per queste essenziali notizie, ci troveremmo di fronte al caso non unico di un ottimo professionista e studioso che ha svolto con estremo impegno e dignità il proprio lavoro. Invece, ciò che rende singolare l’esperienza è la trasformazione della competenza scientifica in una chiave interpretativa del mondo, al servizio della necessità di conoscenza e cambiamento della realtà meridionale; in altri termini, quello di Mazzarone è un originale contributo medico alla annosa questione, per tempo studiata sui testi classici di Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini (che aveva incontrato a Sorrento) e Francesco Saverio Nitti, del quale avrebbe voluto fare un’antologia degli scritti per meglio diffonderne il pensiero. E a ciò si aggiunga il sodalizio fraterno con Manlio Rossi-Doria e Carlo Levi che l’ha tenuto impegnato in una persistente progettualità meridionalista. Il capitolo della medicina sociale nel Mezzogiorno trova in lui uno degli artefici più importanti, addirittura un capofila sulla cui scia ancora si opera. Al tempo delle grandi scelte, dopo il disastro della Seconda guerra mondiale, Mazzarone “prese parte con la sinistra per stare con la povera gente”. Era chiara la scelta di campo, ma non di partito; tant’è che amava affermare: “Se fossi in Inghilterra sarei laburista, visto che in Italia non esiste un partito come il partito laburista inglese, non sono iscritto e non mi iscriverò a nessun partito. Voto per chi mi promette il minimo di illibertà e di ingiustizia sociale”. La sua posizione era determinata dal timore di essere schiacciato dalle ideologie onnivore che dominavano i grandi partiti della sinistra; muovendosi tra cattolicesimo sociale e laburismo propendeva piuttosto per il costante esercizio della concretezza operativa. Amava tenere i piedi per terra, sul saldo; del resto, in quanto biologo applicava con spirito positivo l’analisi sperimentale da laboratorio. Tra Chisciotte e Sancho parteggiava per quest’ultimo, per la virtù della prudenza e il richiamo alla realtà delle cose. “Scusami se ti ho scritto noiosamente ‘fitto’. Non sono stato io: è stato Sancio, e tu sai quanto mi sia cara la sua amicizia…”, scriveva nel maggio 1949 a Scotellaro sindaco. R it ra t to di R o c c o M az z ar o n e 7 Questi lo sapeva così bene che pensò di inserire nell’Uva puttanella dei “Colloqui con Sancho (Mazzarone)”. Mazzarone non ha mai messo in discussione il ruolo dei partiti ai fini della pratica di una corretta democrazia, ne ha, caso mai, stigmatizzato le fumisterie ideologiche e le pericolose degenerazioni che troppo spesso li hanno trasformati in “aggregati di famiglie e clientele migranti”. Per lui il modo più proprio di fare politica è quello di attivare un processo partecipativo che liberi dalle incrostazioni burocratiche ed esalti il ruolo del popolo protagonista nella duplice veste di artefice e controllore: per questo ha giudicato paradigmatica ed esemplare la procedura tenuta da Scotellaro nella fondazione dell’ospedale di Tricarico. E, sia detto non per inciso, Mazzarone non si è mai sottratto al rapporto con la politica, nel senso alto dell’azione da svolgere per la corretta gestione della polis. L’ha fatto, a suo modo, da tecnico e consulente per chi governava la cosa pubblica. Quasi sempre ne è uscito deluso; ma questo è altro discorso. In verità, con l’onestà intellettuale che lo ha sempre contraddistinto, non ha mancato talvolta di fare autocritica, riconoscendo gli errori commessi; anzi, proprio la serena discussione su di essi dimostrava una mentalità laica e aperta a nuove prospettive. Un nodo importante nella sua riflessione riguarda il rapporto tra borghesi e contadini con ricadute sulle specificità di classe, le persistenze e i mutamenti, la gestione del potere. Se n’è occupato per sessant’anni, dalla lettura del Cristo nel 1945 sino alla morte. Del libro di Levi lo toccano appunto le pagine sui signori locali e la piccola borghesia rapace più del grande proprietario, ma anche quelle sui contadini, della cui condizione assume coscienza, mentre prima si era limitato a considerarli naturalmente suoi “pari” nella quotidianità. La sua attenzione si è concentrata anche sulla identificazione di chi siano effettivamente i contadini, “quanto si estende il loro mondo” e in che rapporti si pongono con figure che comunque hanno a che fare con la terra: dai braccianti ai mezzadri ai proprietari. È questo l’elemento che introduce nel simposio epistolare promosso da Friedmann e pubblicato su “Comunità” nel 1956, dove peraltro sotto forma di interrogativo lascia intendere un mutamento dei “centri di interesse” che riguarderebbero ormai non solo la terra. Cosa spiegabile con la crisi maturata a metà anni cinquanta che porterà al torrente impetuoso dell’emigrazione. A sostegno di questo discorso conviene richiamare la relazione tenuta a Tricarico nel 1957 in occasione di un convegno della “Campagna europea della gioventù” e il contributo al seminario organizzato da Donald Pitkin nel 1959-60 sul tema “L’autorità e il potere nelle comunità rurali italiane”. La relazione si presenta come una trattazione organica che esamina in un percorso storico i diversi passaggi della proprietà della terra, avvenuti sempre a danno dei contadini. Evidenzia altresì, sulla scorta di Salvemini e Dorso, il ruolo nefasto della piccola borghesia intellettuale, perniciosa quanto la malaria, con la differenza che questa è stata eradicata e l’altra invece mantiene intatta la sua influenza. La svolta dopo il secondo conflitto mondiale segnò l’assunzione di una coscienza politica da parte dei contadini che, pur con incertezze, si resero conto che “il potere non è un dono che viene dall’alto, ma che essi sono tra le fonti del potere e che possono diminuirlo o accrescerlo nelle mani di questo o quel gruppo”. 8 Ed è proprio questo l’angolo visuale del seminario di Pitkin, dove Mazzarone porta il risultato di interviste volanti con risposte brevi, ma talvolta estremamente significative. Questa ad esempio: “Il potere è l’abuso di autorità”, dove si percepisce una concezione in negativo che può anche essere generalizzata. Colpisce ancor più, anche se si spiega come rivalsa degli antichi soprusi, la durezza con cui il contadino esercita il potere nei confronti di chi appartiene alla sua stessa classe. Mazzarone nutriva un forte disprezzo morale verso i “mediatori del potere”, in quanto capaci di alterare le regole democratiche. Li giudicava una vera e propria categoria parassitaria che si annida nelle burocrazie amministrative e dei partiti, svolgendo una pratica corruttrice, ammiccante e ricattatoria. Secondo lui, fiorente cresceva quella pianta nel terreno di un contesto “familistico”, esaltato dal neocentralismo regionale, giusta la profezia di Giustino Fortunato. Per una persona razionale e dalla mentalità scientifica come Mazzarone è giocoforza che la programmazione assuma un ruolo importante; non, evidentemente, come imposizione “sovietica” dall’alto, ma come attività tesa a far entrare in un alveo di coerenza le componenti molteplici dello sviluppo, allontanando quanto più possibile lo spettro delle indebite ingerenze di individui e di oligarchie economico-sociali. Si aggiunga che ciò veniva a convergere con le posizioni di un maestro della politica di piano quale Manlio Rossi-Doria. Non è un caso, quindi, che la sua prima esperienza attiva la realizzi a Portici, allorquando nei primi anni cinquanta partecipa agli studi preliminari per il piano regionale di sviluppo della Basilicata, commissionato dalla Svimez. I risultati, condensati nelle Notizie sulle condizioni sanitarie della Basilicata, uscirono qualche tempo dopo su “Nord e Sud”. Ulteriori significative presenze sono quelle nel Comitato per lo studio delle prospettive di sviluppo delle province lucane e nel Comitato di soprintendenza del Progetto Pilota per l’organizzazione dei servizi socio-sanitari in Basilicata, di cui è stato presidente. Non manca una trasferta all’estero in una Commissione per il piano di sviluppo della Regione sud-orientale dell’Iran; traccia di questo lavoro è l’opuscolo Health conditions and problems. Preliminary Report (Italconsult, 1959). Gli elementi di sopra offerti attengono all’aspetto sanitario, ma sarebbe sbagliato interpretarli in chiave settoriale; al contrario, vi era sottesa una visione integrale e completa dello sviluppo in cui ciascun comparto aveva un ruolo da giocare in quanto parte di un sistema. Per la Basilicata Mazzarone aveva un modello da proporre e si oppose con fermezza al tentativo da parte di Ursini di ubicare uno stabilimento petrolchimico nelle vicinanze dell’antica Metaponto, che avrebbe distrutto la naturale vocazione di quelle contrade che era, ed è, agricola e turistica. Lo stesso fece per la Fiat a Melfi, perché quella collocazione marginale avrebbe creato, come poi è stato, un impatto stravolgente sul territorio. Vedeva bene “industrie piccole e medie operanti nel settore di una qualificata tecnologia”, nella prospettiva di uno sviluppo equilibrato, compatibile con l’ambiente, senza traumatiche migrazioni di popolazioni e conseguente abbandono dei piccoli centri storici. Alcuni Paesi costituivano per lui modelli di organizzazione sociale e di comportamento civile; e queste sue preferenze ha trasmesso a intere generazioni. Penso all’Inghilterra, alla Svizzera, alla Danimarca. Di quest’ultima, che aveva avuto modo di visitare nei primi anni R it ra t to di R o c c o M az z ar o n e 9 cinquanta sotto la guida di Angela Zucconi, egli apprezzava il sistema delle cooperative, che lì era nato “come un ramo del movimento educativo”. La difficoltà di attecchimento di uno spirito cooperativo in Basilicata era un suo cruccio e ne indagava le ragioni, rinvenendole volta a volta nel carattere individualistico e diffidente dei contadini ovvero nelle difficoltà ambientali. E quando spuntava un’eccezione riversava avida la sua curiosità, come nel caso dell’esperienza di cooperazione a Grassano, di cui fu artefice Ortensio Ruggiero, che è poi Orlando, il celebre personaggio del Cristo. Abile nel legare i fili, Mazzarone si fece tramite per la diffusione a Portici del modello danese. Così scrive il 24 ottobre 1952 a Scotellaro: “Mi ha risposto il delegato in Italia della Società danese chiedendomi se avessi ‘qualche suggerimento di collaborazione tra la Società danese e gli economisti agrari di Portici’; sarebbe ‘lieto di poter organizzare qualche cosa per loro’. La cosa migliore è che voi stessi gli scriviate, accusando ricevuta dei libri ricevuti e chiedendogli una copia di ‘Social Service in Denmark’ e di ‘Public libraries in Denmark’.” Non sorprenda il richiamo qui al “mal d’Africa” di cui indubbiamente soffriva Rocco Mazzarone; era una “malattia” che aveva contratto con segni manifesti fin dal tempo della prigionia e si era aggravata con la coscienza di quanto la sofferenza di quel mondo fosse da attribuire alla pervicace oppressione di uno sviluppo capitalistico distorto. Non sopportava lo spreco della nostra società, che misurava in rapporto all’indigenza patita da quelle popolazioni; per suo conto aveva imparato nel deserto a far bastare un litro d’acqua. Nell’elevare l’Africa a categoria dell’anima Mazzarone riversava lo stesso inquieto sentire e simpatia umana che aveva per il mondo escluso dei contadini meridionali. O si trova il modo per soddisfare i loro legittimi bisogni o ci invaderanno per davvero, amava ripetere con funesto presagio. E aggiungeva che è da un pezzo maturo il tempo perché l’Africa, come già i contadini, entri nel giuoco della storia! Non è senza significato che in un momento di crisi e di sfiducia, per un recupero di senso e con la piena consapevolezza dell’onere, Mazzarone sia andato a insegnare nell’università nazionale somala le metodologie della lotta contro la tubercolosi. Da Mogadiscio tornò realizzato, pieno di idee e felice d’aver fatto qualcosa per quelle tribolate popolazioni. Nell’ambito delle inchieste a carattere comunitario rientrano sia il lavoro della Commissione di studio per l’Agro e la Città di Matera che quello, a cura di Gaetano Ambrico, su Povertà e storia nella comunità di Grassano. Indagine sperimentale sulla civiltà contadina. Mazzarone partecipò a entrambi. È indubbio però che lo ha più segnato il primo; anzi, ha avuto un ruolo fondamentale nella sua crescita culturale. In effetti, quel gruppo di studio, coordinato da Friedmann, mise in atto un’esperienza che resta nevralgica nella storia dell’antropologia dell’Italia del secondo dopoguerra. Veniva inaugurata una metodologia interdisciplinare del lavoro in équipe, alla quale Mazzarone darà sempre somma importanza; sempre andrà alla ricerca di ciò che lega, rifiutando le parcellizzazioni del sapere e del conoscere. E una volta, ricordando il suo primo incontro nel Baluchistan col suo amico archeologo Dinu Adamesteanu, dirà: “Le ricerche archeologiche, come le indagini epidemiologiche sul campo, possono ben conciliarsi col nomadismo”. Quanto alle polemiche che imperversarono furiose nella disputa sulla civiltà contadina, senza esitazione Mazzarone ha dichiarato che la sua posizione era molto vicina a quella di 10 Friedmann, il quale, improvvidamente è stato definito il “capofila dei sostenitori dell’immobilismo”, se prevede l’incidenza dell’elemento storico nell’innesto del mutamento. Mazzarone, molti anni dopo, guarderà a quell’avventura col distacco dello storico, facendo un bilancio tutt’altro che positivo, almeno da un certo punto di vista. L’utopia illuministica della cultura che si fa base dell’azione del Principe fallì nel caso di Matera; i risultati delle ricerche condotte “non hanno avuto alcuna influenza o hanno addirittura avuto un’influenza negativa” sulle scelte politiche e amministrative. E cita il caso dell’abbandono indiscriminato delle abitazioni del Sasso e l’utilizzo dei fondi unicamente nella costruzione di nuovi alloggi, con la conseguenza inevitabile del degrado dei quartieri storici. Nel maggio del 1976 in una lettera di lucido sfogo a Friedmann denuncia l’incultura dei politici e il tradimento di qualche chierico, che “non hanno permesso di operare a Matera negli anni cinquanta il risanamento dei vecchi rioni secondo criteri che solo ora si vanno sperimentando nel centro storico di Bologna”. Del resto, non mancava nel 1947 di mettere in guardia il suo amico sindaco Scotellaro dall’azione di alcuni consiglieri che chiedevano “di deliberare l’abbattimento del pozzo cinquecentesco e la costruzione, al posto di quello, di una fontana, naturalmente con zampillo”! Il filone dell’educazione sanitaria muove i primi passi tra i suoi interessi nel 1950 e 1951, grazie a una iniziativa dell’“Aiuto svizzero all’Europa”, che organizza a Locarno un corso di perfezionamento per maestri elementari del Mezzogiorno, animatrice Carla Balmelli. Colà gli viene affidato un ciclo di lezioni sull’igiene elementare e le malattie infantili che riscuote largo consenso. Successivamente, un viaggio negli Stati Uniti allargherà il punto di vista; l’insegnamento di educazione sanitaria negli anni 1956-57 e 1957-58 presso il Cepas di Roma sancirà, per così dire, il momento più ufficiale. Con questi precedenti non deve stupire se in un lungo scritto intitolato Igiene, medicina preventiva e educazione sanitaria dà una prospettiva internazionale al problema, analizzando i vari sistemi vigenti negli altri Paesi e ovviamente anche in Italia. Qui un occhio particolare è rivolto al ruolo che l’assistente sociale può svolgere nelle comunità contadine. Per le esperienze maturate, e quasi per caso, nel 1960-62 è responsabile del programma di educazione sanitaria nel Mezzogiorno, curato dall’Amministrazione per le attività assistenziali italiane e internazionali; e in tale ambito ha modo di allacciare fruttuosi rapporti con il Centro sperimentale di Perugia. Un tratto della personalità di Mazzarone da mettere in evidenza è il suo rapporto con la letteratura, che va ben oltre lo stereotipo del medico umanista. La passione per la lettura, antica come lui stesso afferma, risale agli anni del convitto a Nocera Inferiore, quando un preside lungimirante gli consegnò la chiave della biblioteca e fu vera full immersion tra romanzi francesi e russi. La letteratura per lui era lo spazio in cui assumeva evidenza e pregnanza il complesso teatro della vita con l’intervallo dell’evasione e del divertimento; recitava sereno e rievocante L’amica di Nonna Speranza del Gozzano che aveva imparato ad amare durante il soggiorno novarese e con aria sorridente intonava “Saltella e balletta/ comare Colette! Saltella e balletta!” di Palazzeschi. Il ventaglio delle preferenze letterarie era dettato dalle consonanze ideologiche, nel senso del ritrovamento in certi scrittori delle sue medesime esperienze. Vale per Primo Levi, del quale sottilmente condivideva il “complesso del sopravvissuto”: apprezzava la prosa, ma tendeva a valorizzare anche la poesia, tanto che per lungo tempo R it ra t to di R o c c o M az z ar o n e 11 ha tenuto attaccata alla sua libreria La bambina di Pompei. Il marchio della presenza incombente della morte spiega la fatale attrazione per Michelstaedter con preferenza verso Il canto delle crisalidi. Discorso identico per Ignazio Silone, che avrebbe voluto conoscere di persona e verso il quale dichiarava esplicita la sua ammirazione nel segno di un socialismo cristiano che s’innervava sulle comuni origini meridionali. “Mi sono occupato persino di letteratura. Quanto tempo ho perso dietro Levi e Scotellaro. Mi sono occupato di troppe cose…”. Così dichiara con più di un pizzico di civetteria, perché in realtà sapeva bene che ciò era espressione della sua weltanschauung, una visione del mondo complessa più che eclettica che ambiva a racchiudere in termini unitari i molteplici aspetti dell’agire umano. E quanto poi ai nomi citati, essi fanno parte integrante della sua stessa vita, tanto forte è stato il legame. Mazzarone fu il primo a leggere in Basilicata il Cristo si è fermato a Eboli, grazie al dono che del libro gli fece Turati, l’avveduto industriale torinese che a Tricarico era anche grande proprietario terriero. Incontrò l’autore nel 1946 in occasione della campagna elettorale per la Repubblica e da allora ci fu amicizia intensa sino alla morte. Eppure, al di là della “comunanza di convinzioni sui problemi cruciali del Mezzogiorno” notevole era la distanza tra i due: Levi aveva bisogno del manto rutilante del mito per dispiegare la sua acutezza interpretativa, Mazzarone era fedele alla “identificazione delle situazioni col dato”. Il rapporto con Scotellaro è più fermo e sicuro; l’ala protettiva del fratello maggiore, o piuttosto la sapienza del consiglio, cominciò a rivelarsi di già nel primo incontro del 1943, allorquando deciso fu l’incoraggiamento per l’attività poetica, mentre con perplessità si espresse per quella di critico cinematografico. Il giudizio sicuro e la competenza, starei per dire tecnica, hanno fatto di Mazzarone un interlocutore costante da cui attingere suggerimenti anche per la scrittura; ciò è valso per le poesie, per Contadini del Sud, e anche per L’uva puttanella. A proposito di quest’ultima così scriveva in una lettera del 29 dicembre 1952: “Sono anche contento che abbia ripreso a lavorare al tuo racconto. Fra qualche settimana spero di venire a Napoli e voglio vedere. Io scriverei, comunque, in prima persona ma impersonando un altro che non sia tu. In questa maniera il lavoro di decantazione riuscirebbe più facile. Ma ne parleremo a voce”. Qui, come si vede, entra nel merito della struttura dell’opera volendo intendere di trovare la giusta soluzione formale che preservi la prepotenza dell’esperienza personale senza rinunciare alla necessaria distanza. L’amicizia con Manlio Rossi-Doria è stata prima di tutto un incontro di affinità sul piano umano, come due “fratelli d’anima” che si trovano per avventura a dover studiare, sotto aspetti diversi, quel mondo contadino che amavano e volevano al passo dei tempi senza stravolgimento di antichi valori tuttora validi. Un nucleo forte di continuità che doveva costituire l’asse portante di uno sviluppo in progress. Ciò che li legava era un sano realismo non disgiunto da una cauta utopia; non l’ottimismo di facciata che appanna la chiarezza dei problemi, ma direi un “pessimismo attivo” che valuta le difficoltà e le fa superare in una progettualità che costruisce il futuro: l’ombra vigile di don Giustino sovrastava. Erano personaggi austeri, di rara sobrietà, che mai avrebbero confuso la necessità col superfluo; mai avrebbero abdicato ai propri principi morali per la comodità della vita. Per entram12 bi l’importanza del numero come dato scientifico dell’analisi del reale era fuori discussione, ma andava inverata nelle variabili della storia e sorretta dal conforto dell’indagine socioantropologica. Si ritrovavano nel far convergere scienza e umanesimo. L’incontro con Henri Cartier-Bresson risale al 1952, in occasione del primo viaggio in Basilicata, quando il grande fotografo in una lettera a Scotellaro ha modo di riconoscere che “le Docteur Mazzarone […] a été de si grand aide pour nous”. Nel caso specifico il rapporto si è trasformato nel tempo in una cara amicizia e stima reciproca; ed esaltante si è rivelata per entrambi la collaborazione che ha portato alla pubblicazione sulla rivista “DU” delle foto sulla Basilicata. Bresson dichiara “parfait” lo scritto introduttivo e “quelle joie pour moi cette collaboration”; Mazzarone si dice “très content e quelque peu orgueilleux” d’aver dato il suo modesto nome al servizio fotografico e ne riconosce il grande valore artistico oltre che di documento storico. Ma è interessante far emergere il modo di porsi di Bresson nei confronti delle popolazioni visitate; non il reporter dal comportamento scientifico che fotografa con distanza, viceversa l’uomo che si lascia coinvolgere e metabolizza le pene. Così scrive a Mazzarone il 6 luglio 1974: “Il me rappelle tant d’excellent souvenir et aussi me lasse une ristesse, car me sens si attaché au pays et aux gens que nous avons connu”; tant’è che in un’altra lettera si dimostra interessato a sapere “les réactions locales des gens”. Quindi, l’azione del fotografo mirava anche a uno scambio emotivo e di presa di coscienza. “Per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria” onde poter “mediare attraverso la concretezza di questa esperienza il proprio rapporto col mondo”. Mazzarone sembra aver fatto sua questa lezione che proviene da Ernesto De Martino, l’illustre antropologo del quale era stato peraltro amico. Il legame con Tricarico è stato forte fortissimo, ma non semplice; l’ha visto in tutta la complessità Ann Cornelisen nel suo romanzo Torregreca, in cui Mazzarone è personaggio protagonista. “Luca Montefalcone ha una passione, Torregreca, il suo paese natìo, e dovunque egli vada, per qualsiasi scopo, ne parla, raccontando le sue caratteristiche e i suoi incubi”, vi aggiunge però che “se vi abitasse, sarebbe forzato a cambiarla”, entrando in rotta di collisione con i suoi concittadini e distruggendo così il suo mito. In effetti, per Mazzarone il paese ha la valenza contraddittoria delle cose che si amano: ne vorrebbe fare il luogo in cui riversare tutte le sue utopie progettuali, ma s’accorge che la materia non risponde all’intenzione dell’arte; e questo crea forte disagio con amore e odio, partenza e ritorno. Insorge il contrasto tra il paese reale e il paese dell’anima, l’unico quest’ultimo che può essere assunto nella demartiniana elaborazione antropologica. Fu medico “nomade”; e nel suo continuo peregrinare, dettato da un’inquieta ansia di conoscenza e apertura al mondo, conservava irremovibile il ricordo della “piccola patria”. Il rapporto di Mazzarone coi giovani era tutto particolare: la sua persona suscitava un misto di rispetto e familiarità. I giovani ne erano fortemente attratti, anche se non venivano loro elargite le lusinghe delle facili promesse; al contrario, venivano esortati all’impegno e agli studi severi. È con loro che meglio si esplicava la qualità principe del “suggeritore”; per ognuno aveva una via da indicare, un progetto da perseguire, una persona da incontrare. Il consiglio di “don Rocco” non era, e non poteva essere, un’imposizione, ma il momento in cui cominciavi a riflettere e ad arrovellarti; iniziavi cioè il processo di maturazione. La fiduR it ra t to di R o c c o M az z ar o n e 13 cia, ecco ciò che contrassegnava il rapporto; fiducia voleva dire la costruzione faticosa e responsabile di un percorso autonomo per il quale aspettavi e chiedevi il confronto. Mazzarone non ha lasciato molto di scritto, la sua autorità è di tipo socratico, poggia sulla forza travolgente di instaurare dialogo valorizzando l’altro. Si tratta di una innata capacità maieutica che assolve un’alta funzione educativa e didattica, e ne fa quasi un maestro d’altri tempi, della cultura orale che trae forza dalla molteplicità sconfinata delle esperienze. Ha rimproverato a se stesso, ma se lo spiegava, di non aver tenuto un diario che fermasse i numerosissimi incontri e fatti cui gli è capitato di assistere. Mario Trufelli, conterraneo che gli è stato molto amico, in una poesia scritta per la morte fissa un ritratto aderente delle posizioni anticonformiste e quasi francescane, che gli davano un’insolita libertà e acutezza nel dipanare le situazioni più complesse. Mazzarone poteva mandare “messaggi tra grovigli d’ombra”, in virtù di un’arte della discrezione di sapore guicciardiniano, che gli consentiva di individuare gli elementi in campo, stabilendone i nessi e le diversità. Se lo studio di Carlo Levi è stato, secondo Italo Calvino, l’avamposto o ambasciata del mondo contadino a Roma, il dispensario antitubercolare di Matera, con filo diretto e corrispondente, è stato il centro di smistamento sul posto. Paolo Volponi lo ricorda con affetto e simpatia invitando Mazzarone a “raccogliere i suoi ricordi su tutte le carovane culturali che dal primo dopoguerra hanno attraversato il Mezzogiorno facendo capo immancabilmente a Lei per… rifornimenti, indicazioni, ecc. ecc.”. Quanto sia stato importante, quali frutti abbia prodotto questo ruolo di intermediazione che non è solo culturale, ma socio-politico, prima o poi sarà il caso di verificare, recuperando documenti e testimonianze. Ora basti riconoscere merito all’uomo che, come singolo, si è sobbarcato questo peso enorme sulle spalle. Rocco Mazzarone era capace di parlare col silenzio; a Giuseppe De Rita è apparso incarnare una sorta di archetipo che accomuna “Aliano e Saint-Malo”, nel nome di padre Lebret e in virtù della “lentezza, atemporalità, capacità di silenzio”. Le pause anche lunghe creavano talvolta imbarazzo nell’interlocutore, ma era una forma di stazionamento nella riflessione per trovare il bandolo nei labirinti del reale. Per questo fine ha lavorato tutta la vita, rimanendo lucido e coerente sino all’ultimo; non finirà mai di sorprendere la sua capacità di comprensione che gli consentiva una sintonia coi tempi senza nostalgie passatiste. Sta a noi accogliere con fedeltà e silenzio un messaggio che trasmette verità scomode: è un’eredità difficile, ma densa di futuro. 14 I racconti di Rocco di Marco Rossi-Doria Q uando ho intervistato Rocco Mazzarone forse avevo un’ombra di senso di colpa verso mio padre. Credo di averlo anche detto a Rocco. Mio padre si era dedicato al racconto della sua vita (Manlio Rossi-Doria, La gioia tranquilla del ricordo, Il Mulino 1991) ma era morto prima di scrivere delle vicende pubbliche e private della sua maturità. È, infatti, un’autobiografia che è piena dei fatti del mondo e della sua famiglia di prima della sua nascita, che racconta in dettaglio la sua infanzia, l’adolescenza e la sua giovinezza ma che è orfana dei molti passaggi della sua vita adulta. Egli stesso, nei mesi prima della morte, se ne doleva spesso. Mia madre ha dovuto, con il sostegno degli amici e della famiglia, ricostruire, molto brevemente i decenni “mancanti”, perché il lettore sapesse. E rimaneva dentro a noi tutti un’eco della voce di mio padre, fatta di storie orali, di giudizi sulla storia, di conversazioni a volte dense e pensose e a volte improvvise e argute che non furono mai scritte e nemmeno raccolte. Nessuno ha pensato per tempo a un’intervista che avrebbe facilitato la raccolta di quella voce, che, pure, sarebbe stata possibile. Non lo abbiamo fatto, non l’ho fatto: per pigrizia, disattenzione, per un rispetto eccessivo per i tempi della sua scrittura, che procedeva a rilento. Non volevo che questo accadesse anche per Rocco. È per questo che, ormai quasi quindici anni fa, l’ho intervistato. Rocco Mazzarone è stato un vero narratore. Fin da quando ero bambino io l’ho visto sempre così. Lo andavi a trovare. Parlavi delle cose dell’oggi. Chiedeva di te e dei tuoi. Poi narrava: incontri, viaggi, impegni da medico e da studioso di microbi e malattie o della sua terra, eventi del suo tempo, evidenze statistiche, ben documentate, discorsi uditi, situazioni capitate a lui o con persone di ogni tipo, scelte fatte e non fatte da parte di quello, di quell’altro, di se stesso. Sì, le scelte. Le scelte delle persone: questa era una sua speciale attenzione, entro la narrazione. “Quel tale se avesse continuato, sarebbe... Mia nonna aveva un’intelligenza tale che…” E la stessa attenzione la rivolgeva su di sé. “Avrei potuto, magari se avessi…”. Lo diceva in I r a c co n t i d i R o c c o 15 tono malinconico e, al contempo, riflessivo. Aveva a tratti, in questo, un giudizio autocritico sulla sua vita, quello di avere fatto troppe cose. “Una vita mal spesa” – così sintetizzava, questo suo pensiero. Ma era, tutto sommato, qualcosa di pacato, senza quel rancore che brucia dentro e determina astio, a cose ormai fatte. Piuttosto era un riflettere sulle scelte e su cosa le determina nella vita. In questo, la narrazione di Rocco Mazzarone sembrava capace di nutrire di evidenze le parole del suo amico Rocco Scotellaro: “Uno si distrae al bivio”. Riportava la voce viva degli altri: frasi e giudizi di uomini e di donne, prese così come sentite, tenute dentro, raccontate poi. Ne esplorava, insieme a te, il senso, lo spirito. Ne cercava le matrici, ne rivelava le diverse dimensioni, mai facili da capire – come in un’esplorazione o in una ricerca scientifica, dove la ragionevolezza della procedura è rispettata ma viene anche lasciata la porta aperta per altro ancora. Prima cercava di capire, ragionevolmente, appunto, il perché di quella frase, di quell’atto, di quella situazione. Ripeteva poi, di nuovo il passaggio che lo aveva colpito, il luogo, il dato o la frase che ne era l’emblema e il fulcro e si interrogava e ti interrogava di nuovo sul senso. Ma poi lasciava intorno lo spazio bianco, i margini per l’incompreso, per il possibile. Come ognuno che sa narrare, lasciava un sospeso, qualcosa che serbasse il mondo così come è. Così Rocco, nel raccontare, svelava quanto era affezionato alle cose di non facile lettura, a quelli che si chiamano quesiti propri, perché non hanno – in chi li pone – una risposta già data. Come vive davvero quel micro organismo nel nostro corpo, lo sappiamo e fino a che punto? Dov’è che si è arrestata la ricerca sul passaggio dell’armata di Annibale per questo valico? Cosa ci dicono i dati sull’analfabetismo di ritorno? Cosa spinse il duce ad attaccare l’Etiopia? Ma io che l’ho vissuta, so veramente cos’è la guerra nel deserto? Che cosa ci può essere sul confine tra la fede e la scienza? Nell’interrogarsi, tuttavia, e nel narrare la genesi di ogni interrogazione – insieme all’interlocutore che aveva davanti – Rocco non esprimeva sgomento o angoscia ma curiosità, sorpresa, divertimento. Coglieva spesso i paradossi e li metteva in luce scegliendo, tra tutti gli elementi della sua stessa narrazione, lo strano, il buffo o il singolo dettaglio che sa spaesare. Lì si arrestava, ci si soffermava. E, così, colto e disvelato proprio quel dettaglio tra i tanti possibili, subito ne sorrideva o ne rideva di cuore. Allora girava la mano a sottolinearne il carattere curioso, divertente, sorprendente e la sua faccia si illuminava tutta. E rideva ancora. “Spassoso” – è forse questa la parola che più si avvicina al sentimento che ti voleva fare cogliere quando faceva così, volta dopo volta. E ti faceva ridere anche a te. I narratori donano apprendimenti ma anche piacere e piacevolezza e divertimento. Sta per uscire una lunga intervista e riflessione che ha visto Rocco – insieme a Pancrazio Toscano – lavorare, negli ultimi anni e mesi della sua vita, con grande cura, su un largo telaio di materie, di ricordi, di dense testimonianze storiche e di interrogativi. Questa narrazione ci dirà molto su Rocco Mazzarone. La mia intervista a Rocco, che feci insieme a mia moglie Anna Maria Savarese, in quattro tornate e delle quali conservo i nastri in qualche luogo, più semplicemente, forse, rivela qualcosa dell’umore, della sapienza e della generosità di Rocco, narratore della vita. 16 Una vita mal spesa di Rocco Mazzarone incontro con Marco Rossi-Doria S ono venuto a chiederti della tua vita... Perché intervistate proprio me? Una ragione c’è. In questo nostro paese, e nel Mezzogiorno, si sente tanto chi fa e disfa e troppo poco chi svolge una attività utile, per scelta, sobriamente. Tu fai il medico in Basilicata da quasi cinquant’anni... E non solo il medico. Guarda, io ho cercato di fare quello che ritenevo giusto. Ma proprio in questi mesi mi sono chiesto: quanti altri cercano di fare quello che si deve fare? E mi sono risposto: tanti. Ricordo di un medico di Oliveto Lucano, Pierluigi Gesualdi, morto purtroppo, un ottimo medico, un uomo di grande cultura e di grande umanità. Vedi, egli poteva andare a vivere a Roma dove vinse un concorso e, invece, preferì rimanere a Oliveto perché era arrivato lì ed era affezionato. Non era di Oliveto? No, era di un altro paese. A volte si approda in un paese vicino. Ma molte intelligenze del Mezzogiorno si sono, invece, spese altrove e altre si sono sprecate... Guarda che, a proposito di sprecare, se proprio la volete pubblicare questa intervista, lo farete a condizione di titolarla “una vita mal spesa”. Ma ora ti chiedo delle intelligenze del Mezzogiorno: molte sono andate via, molte si sono chiuse in solitario arroccamento. Per non parlare dei tanti che si sono venduti al politicantismo e agli affari. Distinguiamo. Andare via, sono andato via per degli anni anch’io, come sai. Ma sei tornato. Sono tornato, sì. Il politicantismo: la politica male intesa è una via che sta lì, è facile. Quelli che tu chiami gli arroccati, forse è vero. Ma, in un momento o in un altro, sono stati utili. E Un a v it a m a l s p es a 17 non credere che tutti si siano chiusi, io conosco medici e ricercatori, giovani, molto preparati, in Basilicata. E poi dicevi gli affari, è un’attività economica. Certo. Ma avevo in mente un certo modo di arricchirsi e questo è un conto, e invece guidare imprese produttive è un altro. Quanti imprenditori lucani guidano aziende valide? Pochi. Ma qui siamo costretti a ragionare di un complicato circolo vizioso. Nel Mezzogiorno è difficile trovare le condizioni che consentano a un individuo di riuscire nella vocazione di imprenditore. Così si spiega come molti altamurani siano imprenditori in Lombardia. Certo, non vale per tutto il Mezzogiorno. La Puglia, per esempio, è molto diversa, forse lì respirano aria iodata. Qui respirano aria di montagna. La stessa Bari la potremmo definire una metastasi del nord. Rimane la constatazione che qui “lo sviluppo industriale resta lontano dal più modesto dei ragionevoli obiettivi che si possono porre nei suoi riguardi”... La realtà è complessa. Per esempio, non lontano da qui, nella valle del Basento, allo scalo di Salandra e Ferrandina, in condizioni appena favorevoli, insieme ai fallimenti da cui stanno tentando di risorgere sono nate piccole industrie guidate da lucani, che sono in attivo. Torniamo alla tua vita. Tu sei nato a Tricarico. Che ricordi d’infanzia hai? Sì, nel ’12. Da bambino ho vissuto qui. Andavo a scuola, ero bravo: ecco, guarda questo mio quaderno di prima elementare che ho ritrovato, così ordinato. I ricordi mi dicono che debbo molto ai maestri di scuola. Allora essi non erano pendolari come ora e, finita la scuola, li incontravamo per strada dove erano punto di riferimento per noi scolari e per tutti in paese. Era così: il rapporto educativo continuava ben oltre le lezioni. Poi ricordo che qui vennero confinati dei prigionieri austriaci della grande guerra. Li chiamavano austriàci, con l’accento sulla a. Tutti avevano mal parlato degli austriàci e io invece li vedevo come uomini gentili. Mi ero molto affezionato a uno di questi prigionieri che si chiamava Muio e che sedeva in questo paese lontano dai suoi e cantava così bene le sue canzoni. Poi giocavamo. Andavamo su e giù per il paese. E a sera, dopo le scorribande, ci arrampicavamo sui campanili a vedere come i ciechi componevano la musica suonando i diversi battagli delle campane. Poi ricordo bene il giorno in cui mi spinsero a portare i fiori a Francesco Saverio Nitti che era venuto a Tricarico. In famiglia mia erano nittiani. Che faceva tuo padre? Mio padre ha incominciato col fare il commerciante. E poi è diventato un piccolo bancario. Aprirono a Tricarico una rappresentanza del Banco di Napoli, che dopo divenne agenzia. Mio padre aveva fatto la quinta elementare; ma era un uomo molto intelligente e volitivo. Era diventato ragioniere per corrispondenza. Ma senti, hai visto il giornale oggi? Vedi quanto è difficile ripartire ora lì, in Urss? Prima dicevamo dello sviluppo: alla fine gli imprenditori lucani che sono riusciti sono stati quelli che hanno contato soprattutto su se stessi. Questo è il punto. Invece qui è capitato, per certi versi, in piccolo, ciò che è capitato in Urss e nell’Est. Si è atteso l’aiuto dall’alto, da fuori; e la propria capacità, il gusto di provare da soli si sono atrofizzati. La sovvenzione, senza criteri economici, ha prodotto terribili spre18 chi e non pochi approfittatori e, in altre zone del Sud, ha arricchito la grande malavita. Io dico quello che vedo, che tanti altri hanno detto. Le intelligenze meridionali, come le chiami, gli imprenditori sono stati mortificati da quello che anche tuo padre, Manlio RossiDoria, definì il nuovo sistema di potere, cresciuto sulla spesa pubblica e che da decenni ha sostituito l’antico “blocco agrario”, un freno allo sviluppo. E ha legato le forze economiche alle fortune dei politici. Tu dunque ritieni che l’intervento dello Stato, che la Cassa per il Mezzogiorno, per esempio, abbia frenato la crescita? Bisogna distinguere. All’inizio questo aiuto fu importante, era giusto aprire il rubinetto per poter partire e uscire dalla miseria. Personalmente ritengo che, poi, il rubinetto andasse però chiuso. O almeno si doveva arrivare a un sistema vero e rigoroso di verifiche. Bisognava imboccare la via della programmazione e coinvolgere così anche i giovani, le intelligenze meridionali. Ma non è che questa via non fu tentata. Tu stesso hai dedicato tante energie ai diversi tentativi di programmazione. E ora dico che ho disperso energie. Penso al progetto pilota. Ogni settimana ricevevo dettagliati rappori su tutta la situazione sanitaria in Basilicata e facevo le mie considerazioni; cercavo di capire di cosa davvero si aveva bisogno, come organizzare senza sprechi. A che pro? Non dipendevano da te le decisioni finali, non era colpa tua. Ma io non sono stato intelligente abbastanza da capire che il mio era un semplice esercizio a cui potevo dedicare un decimo del tempo, lasciandolo ad altre cose. Per esempio alla ricerca sui micobatteri. Ero arrivato a un buon livello. Avrei potuto dedicarmi completamente a questo argomento. Avrei fatto cosa più utile. Ho sperperato e, alla fine, mi dispiace. Ma è poi giusto prendersela con la propria passione civile? Io faccio un consuntivo. Vediamo la programmazione che poteva essere una via per la Basilicata. Tu sai che io ho creduto nella programmazione. Il primo tentativo fu negli anni cinquanta, patrocinato dalla Svimez e diretto da tuo padre. Furono costituiti dei gruppi di lavoro formati da esperti e funzionari. Rocco Scotellaro fu segretario di redazione. Il sottogruppo per i problemi sanitari fu formato da due medici provinciali, due ingegneri civili e, tra gli altri, anche da me. Furono fatte analisi e proposte? Certo. La documentazione, con proposte che avrebbero evitato lo spreco di molto denaro pubblico, è stata pubblicata solo in piccola parte: la mia relazione su “Nord e Sud” e anche quella di Scotellaro, sulla scuola, postuma. Nel ’64-’65 fu fatto un secondo tentativo. Le camere dell’Industria e del Commercio della Basilicata fecero costituire dei gruppi di lavoro. Vi partecipai insieme ad altri, tra cui vari professori di Portici. Le relazioni e le conclusioni basta leggerle, furono pubblicate allora e ripubblicate recentemente. È evidente la distanza tra un progetto razionale di uso delle risorse e quello che invece è accaduto. Un a v it a m a l s p es a 19 All’inizio degli anni settanta la neonata regione accettò di portare avanti un ultimo tentativo. Per la parte dedicata alla sanità il Ministero della programmazione offrì alla Basilicata la possibilità di studiare un progetto pilota, appunto, e fui presidente del comitato di sovraintendenza a questo. È stata per me un’esperienza intensa, ma mi ha lasciato l’amaro in bocca. Tutto è stato pubblicato ma il consiglio regionale non lo ha mai neanche discusso e nessuna indicazione fu presa in considerazione dal legislatore regionale. Coma concludere? Nella sua ultima intervista alla Rai-Basilicata tuo padre l’ha detto chiaro: “i politici se ne fregano”. Non so se per miopia o per calcolo i politici non sono stati all’altezza della sfida della programmazione. Hanno preferito cercare voti tenendo aperto il rubinetto. E gli stessi industriali del Nord, che anche essi hanno attinto a quel rubinetto, una volta rinvestiti gli utili complessivi al Nord, non sono stati più disposti a investire anche al Sud, se non in minima parte. Ma tornando ai politici: penso che non sia ancora chiaro, in Lucania ma anche altrove, quello che noi elettori dobbiamo attenderci dagli eletti, siano essi parlamentari, nazionali o regionali, consiglieri o amministratori locali. Questa mancanza di chiarezza su cosa sia, in ultima analisi, la democrazia finisce per alimentare il clientelismo. Come? Fai un esempio? Se è veramente necessario costruire una strada non c’è motivo che l’uomo politico telegrafi di essere “lieto di comunicare” che sono stati stanziati i fondi per costruirla. E, dall’altro lato, non vi è ragione perché si accetti passivamente il telegramma. La questione è dunque come si è giunti alla decisione di costruire la strada: chi ha partecipato alle scelte? Credo che la partecipazione informata sia una delle garanzie fondamentali del corretto esercizio della democrazia. Se sul terreno dello sviluppo i progressi sarebbero stati più incisivi se orientati dalla programmazione, da un qualche disegno generale a cui liberamente riferirsi, su quello democratico il nodo resta la partecipazione nelle scelte. So che non era e non è facile questo intreccio tra progettualità razionale e partecipazione della gente alle scelte, anche ora che approderà la Fiat in Basilicata, a Melfi, che fu una delle capitali di Federico II... Ho sempre trovato affascinante la figura di Federico II... Federico II fu certamente uomo di grande genialità. Ma io non credo di averlo mai amato perché egli fu uno dei fondatori del Regno, del dominio. E io, appunto, sono avversario del dominio. La tua famiglia, dicevamo... Sì, nel ’22, circa alla fine della mia scuola elementare, arrivò il fascismo. Vedi, qui non vi fu squadrismo. Si lodava l’ordine e questo piaceva anche a mio padre che fu un uomo d’ordine. Sarebbe interessante studiare cosa fu il fascismo qui. Ti cito un piccolo episodio. Ad Accettura, un paese in provincia di Matera, i signori che si esercitavano nei partiti si resero conto che, dopo la marcia su Roma, non ci sarebbero stati più nittiani né d’alessiani, dal nome di un parlamentare che ebbe allora un suo seguito. Gli uni decisero di fondare il partito fascista e gli altri, di fazione avversa, trovandosi spiazzati, fondarono un altro fascio. Allora 20 si usavano molto i canti a rampogna che i contadini componevano andando in campagna. Allora i primi fascisti fecero una canzone il cui ritornello era questo: “Lu fasciu di Don Paolo ie’ nu fascitidd’, / L’han fatt a sera a nott ’nda petea de Pecuridd’ / Ish, ish fò! ...”: il fascio di don Paolo è un piccolo fascio, l’hanno costituito a notte tarda nella bottega di Pecuriddo, che era un ciabattino. “Ish, ish” si dice al porco, vai fuori, vai fuori... Ecco: così è nato il fascismo in Basilicata, da noi. Nei paesi al confine con la Puglia, invece, dove c’era il latifondo che si confrontava con i braccianti, lì bastonavano. Quel fascismo lì fu una cosa seria. Avevate proprietà? No, noi non avevamo proprietà e neanche la casa in paese. Poi mio padre comprò un appezzamento di terra con casetta in un posto bello che scambiò in seguito con quella di uno zio, proprietario di questa casa a Tricarico dove vivo ancora adesso con mia moglie Tina, mio fratello Don Angelo e le mie sorelle Teresa e Filomena. A casa tua non c’era miseria. No, noi mangiavamo carne una volta a settimana, non eravamo ricchi né poveri. Il mio nonno paterno faceva il sarto, mestiere che a me non piaceva. E mio padre, al tempo che io frequentavo le scuole medie presso il convitto laico di Nocera Inferiore, soleva minacciare di farmi diventare sarto nel caso non avessi preso la media del sette. Quel mestiere mi dava fastidio e così... Cosa del sarto ti dava fastidio? Il ditale, probabilmente. Sì, il ditale. Se mi avesse detto “fai il falegname”, l’avrei fatto. Così mi sono dato da fare. E poiché al primo trimestre presi quattro e sei in italiano, andai dal preside e gli dissi: “Signor Preside, io vorrei imparare a scrivere bene in italiano”. “Eh figliolo – disse lui – devi leggere molto, cinquanta pagine al giorno”. Così ogni quattro, cinque giorni avevo un libro, romanzi francesi e russi, Tolstoj, Dostoevskij; e tutto grazie a questo preside che mi diede la chiave della biblioteca. Ma torniamo alla questione dello sviluppo. E allora? Dico una cosa semplice: si deve ricevere all’inizio perché si deve partire equipaggiati. Ma poi bisogna rischiare, pagare in proprio. Ogni conquista deve essere il risultato di qualcosa dato in proprio. Fare questo bilancio può essere amaro per la sinistra. Dobbiamo proprio accettare il detto napoletano secondo il quale le cose non vanno bene perché “a mangiatoia è troppo vascia”? Viene meno tutta l’idea di uno Stato che sostenga chi ha bisogno. Il problema, ripeto, non è avere il giusto sostegno iniziale; qui è stata foraggiata l’idea che lo Stato dovesse dare, ora qui ora là, senza criterio razionale, in cambio di voti. Guarda ancora l’Est: volevano mantenere l’uguaglianza e creare addirittura “l’uomo nuovo” attraverso lo Stato che elargiva senza chiedere. Anche se poi la richiesta, in termini umani, è stata altissima, terribile. L’uomo nuovo... ma cosa vuoi l’uomo nuovo? Forse lo si potrà fare un giorno con un innesto sulla corteccia cerebrale... Un a v it a m a l s p es a 21 Noi dobbiamo domandarci allora se nel Mezzogiorno, finita la fase iniziale dell’aiuto al primo sviluppo, la sinistra non abbia semplicemente evitato di misurarsi con le verità di cui tu parli, e abbia così finito anch’essa per spingere le cose nella direzione del puro assistenzialismo, nato da una matrice cattolica solidaristica, ma funzionale al sistema di potere guidato dalla Dc. Sono perfettamente d’accordo. La sinistra, salvo qualche uomo, i partiti di sinistra non hanno chiesto di programmare l’assistenza allo sviluppo e se lo hanno fatto non hanno mai indicato seriamente come. Ci si è limitati a dire “date troppo poco”. Su questa questione di essere di sinistra recentemente e pubblicamente fui stimolato da chi conduceva una tavola rotonda. Si parlava di Tricarico. Mi è stato chiesto che cosa pensavo all’inizio degli anni cinquanta della riforma agraria qui. E io ho risposto che, certo, allora, pensavo che fosse giusto espropriare l’azienda Turati che era la grande proprietà terriera a Tricarico. Veramente al di fuori della realtà, io allora affermavo che bisognava espropriare la terra ma non dividerla bensì cercare di gestirla in cooperative. Aggiungevo che una parte dovesse rimanere a Turati perché fosse gestita con criteri moderni e fosse di stimolo, di esempio. A dire il vero mi sembra, per quegli anni, una proposta ragionata; non estrema. E poi c’era stato il grande moto per la terra e si sentiva il peso della nuova ondata di partenze migratorie e conoscevate le pene dell’emigrazione. Invece sbagliavo. Del moto contadino, dell’emigrazione ti dirò, ma sapevamo che la gente sarebbe partita comunque. E la cosa migliore sarebbe stata lasciare tutto a Turati che era un industriale del Nord con proprietà qui. Egli era il padrone della Carpano e avrebbe organizzato tutto da imprenditore vero, in modo moderno e non avrebbe contato solo sui sussidi. Dubito che Turati non avrebbe accettato aiuti dallo Stato. E poi questo è un caso particolare perché il latifondo assenteista era la maggioranza. Sì, ma intanto, se dobbiamo fare un bilancio, è proprio questo il problema: noi non consideravamo la realtà, noi non distinguevamo caso da caso. Turati era un industriale e probabilmente avrebbe cambiato le sorti di questo paese e dall’altra parte la storia di questo pezzo di Mezzogiorno non aveva fatto sorgere una diffusa imprenditoria agraria moderna e neanche un forte movimento cooperativo. Noi non ci confrontammo con questa realtà. D’accordo, Turati avrebbe accettato le mance della Cassa del Mezzogiorno. Ma avrebbe continuato a comportarsi da imprenditore. Infatti quando si incominciò a parlare di cantina sociale Turati disse: “Noi entriamo ma facciamo una Spa di cui prendiamo il 51%”. Furono tutti contrari. Ma se Turati avesse avuto le uve, che sono buone, e la cantina sociale, probabilmente questa avrebbe continuato a vivere; invece durò solo tre o quattro anni. Intanto la Riforma formò qui la piccola proprietà contadina; le cose cambiarono comunque... Sì. Ti ricordi il contadino citato da Rocco Scotellaro che diceva: “La terra dovrebbe figliare come gli animali”? La terra non figliò, anzi si frantumò. La proprietà nata dalla Riforma andò bene solo quando si ingrandì a spese di chi vendette le sue quote ed emigrò al Nord. 22 È vero che gli eredi degli assegnatari della Riforma che rimasero sull’ex proprietà Turati, dove vi era stata una certa mentalità e tradizioni imprenditoriali, pur tra difficoltà, ingrandendosi, funzionarono. Quando parli di sprechi intendi solo queste occasioni mancate o qualcos’altro? Intendo cose concrete. Ecco: il latte. Da più di un anno le centrali del latte non pagano puntualmente. Sono state assistite, si dice. È più esatto dire che sono state sovvenzionate e non assistite dal punto di vista tecnico. Spesso avviene questo: assistenza finanziaria cieca, senza assistenza tecnica. Dato che si tratta di denaro pubblico l’assistenza dovrebbe garantire anche il controllo sulla gestione. Le centrali, infatti, hanno accumulato errori di gestione. Ora mi dicono che ci sono in agricoltura e nei servizi, tante cooperative, ma formali. I soldi vi affluiscono, di meno l’assistenza tecnica. In molti paesi è pieno di trattori acquistati con sovvenzioni; di questi trattori è probabile che ne bastino la metà, meglio utiIizzati. E l’organizzazione sanitaria? Intendiamoci, si sono compiuti progressi immensi. Vedi, la Basilicata è cambiata radicalmente e in bene, lo si deve dire. Quando io tornai dalla guerra e dalla prigionia i posti letto in ospedale, per malati acuti, non raggiungevano l’un per mille abitanti e gli stessi medici erano pochi. A Matera, nei Sassi, i morti nel primo anno di vita erano più di cento su mille e, come in Africa, si moriva soprattutto per malaria, malattie gastro-enteriche e respiratorie. Un giorno – è un esempio – venne da me un vecchio contadino afono. Era così da vario tempo: cosa aveva cosa non aveva. Scoprii che aveva una sanguisuga attaccata alle corde vocali. Sarebbe una bestemmia dire che le cose non sono cambiate in meglio. E oggi, infatti, abbiamo un numero adeguato di medici, molti preparati, abbiamo ospedali moderni con posti letto sufficienti e le malattie legate al sottosviluppo sono state debellate. Rimane, tuttavia, elevata l’emigrazione di malati in ospedali di altre regioni. Perché? I motivi sono vari: sfiducia, non sempre direttamente giustificata, nelle istituzioni locali, presenza di familiari nel centro e nel nord d’Italia ma anche mancanza di servizi adeguati. Per il resto? Vi sono stati degli sprechi. Per esempio furono cancellati i consultori dell’Onmi dove si trovava il buon pediatra e la gente era abituata ad andare e che sarebbero potuti diventare luogo di educazione sanitaria. Si sono chiusi molti dispensari nati per la lotta alla tubercolosi che sarebbero potuti anche essi essere riciclati per la lotta ad altre malattie infettive. Si è dissipata una tradizione e si è sottovalutata la formazione tecnica. Si è acquistata una Tac a Potenza e giustamente la si è voluta anche a Matera e così per molte altre apparecchiature. A tal punto è ancora più importante la dotazione di un maggior numero di personale specializzato per utilizzare questi mezzi a pieno potenziale. E se guardiamo ai criteri di assegnazione dei posti di medico, ho dei dubbi molto seri che nella nuova divisione si tenga conto dell’epidemiologia che dovrebbe invece guidare le scelte. Un a v it a m a l s p es a 23 Ma qui tocchiamo la questione del pessimo funzionamento di tutta l’amministrazione. È vero; c’è il problema generale del reclutamento in tutta la pubblica amministrazione. Non è semplice superare vecchi e nuovi malcostumi. Da un lato i criteri di merito saltano continuamente a favore di questa o quella ragione di appartenenza politica. Dall’altro lato siamo un paese legalistico fino alla paralisi: bisogna che le carte siano a posto al di là delle capacità effettive del singolo reclutando e a volte anche del bisogno impellente di personale. Ti racconto questo episodio. Tu sai che io tengo a Potenza dei corsi di statistica sanitaria ed epidemiologia per infermiere. È importante creare personale professionale, avvicinarsi ai livelli europei. Ecco. Erano venuti qui a Tricarico, ti immagini, due ragazze del Ruanda, ospitate dalle suore. Ho pensato che potessero frequentare questi corsi, ma per essere ammesse dovevano superare la prova scritta di italiano. Ho proposto di ammetterle con riserva ma non è stato possibile: era “illegale”. Tu sai che sono stato in Africa. Vedi, io so che ogni giovane africano conosce molte lingue: la sua lingua tribale, almeno un’altra e poi il francese o l’inglese. Avrebbero imparato. Si sarebbe potuto sostituire il tema con un colloquio in italiano. Invece non sono state ammesse perché “le carte non erano a posto”. Ho preso io carta e penna e ho scritto all’on. Martelli per denunciare questo episodio. Non ho ricevuto risposta. È un caso di razzismo? Non penso. È solo che c’è una sorta di iperlegalismo che non si è potuto aggirare perché queste due ragazze non portavano con sé i voti loro né quelli delle loro famiglie. Questo è triste. Ma è ancor più triste che in una democrazia il cittadino non riesca a segnalare un problema in modo da correggere subito delle storture. Mi sembra che ritorni sempre sul sistema politico. Sì, perché è costruito in modo tale da seguire esclusivamente i consensi, il voto. E dunque ogni decisione, ogni finanziamento non passa al vaglio di criteri razionali ma a quello del possibile consenso. Decidono i mediatori di voti. Torno un momento alle cooperative. Oltre a quelle recentissime, vere o fittizie, nate con la legge cosiddetta per i giovani, vi era qui una qualche tradizione a cui vi richiamavate negli anni cinquanta, al termine della Riforma? Sì, ma molto debole. Qui non è potuto accadere che le cooperative divenissero grandi imprese come in Emilia. Non ci sono anzitutto le condizioni ambientali. Nelle pianure, dove c’era la malaria e la miseria, ora c’è un’agricoltura modernissima, europea, che è cresciuta grazie alla bonifica e alla nascita della proprietà coltivatrice. È stata sovvenzionata, come è stata anche nel Nord, non credere; ma a buon fine. Ma la collina e la montagna meridionali sono un’altra cosa. Tuo padre destò scandalo quando, trent’anni fa, propose un grande demanio silvopastorale per la montagna lucana. Invece aveva ragione: forse così, intorno a un progetto realistico, una volta chiuso il flusso migratorio, qualcosa, anche attraverso le cooperative, si sarebbe potuto fare. Le cooperative sono nate qui sin dagli anni del fascismo, sostenute da un certo movimento cattolico sorto in Basilicata dopo la Rerum Novarum: tentativi timidi, travolti dall’emigrazione, dalla lotta per la terra e dalla Riforma. E poi c’è la questione della educazione, che si sottovaluta. Non scordiamoci che in 24 Danimarca, paese classico della cooperazione, essa è nata come un ramo del movimento educativo, dal ceppo del movimento di cultura popolare. Movimento per l’educazione e cooperazione nelle campagne nacquero insieme. Nulla di simile avvenne qui. Poi vi sono state cooperative della seconda generazione. Furono quelle dell’Ente Riforma. Ora vi sono quelle sovvenzionate dalla Regione. Sarebbe interessante sapere quante funzionano veramente, ma non conosco nessuno studio in merito. Poi bisognerebbe soppesare il valore di eventuali studi. Queste sono le analisi che devono fare i giovani. Ritorniamo alla tua famiglia. Vedi, da vecchio mi sono messo a fare delle sculture in creta; anche se gli occhi non mi assistono più tanto. Ma ecco: Nausicaa, Ulisse con il cane Argo, Laerte. Dovrei cuocerle ma non le ho svuotate, le lascio seccare invece. È difficile fare una testa. Della mia famiglia ho scolpito la testa di mia nonna materna. I Mazzarone non erano interessati alle questioni politiche. Il lato materno invece sì. Lei fu una donna non comune, di famiglia anti-garibaldina, borbonica. Il marito, mio nonno materno, era quello che si dice “un personaggio”, un uomo molto alto, bello, intelligente. Credo che avesse frequentato qualcosa come il nostro ginnasio. Sapeva a memoria interi canti della Commedia. Il padre lo aveva mandato a Napoli per diventare droghiere, allora quasi un farmacista. Ma mio nonno si distrasse, gli piacevano le donne. E imparò a fare il dolciere, mestiere che insegnò al figlio, fratello di mia madre, il quale era un ribelle, diventò nittiano, non si adattò mai e, appena potette, emigrò. Le mie zie invece li facevano i dolci. Mestiere durissimo: sai, per fare a mano lo zucchero bianco. Tornando a mio nonno so che era di famiglia antiborbonica, si dice in un documento che avesse partecipato a una riunione segreta... Mazziniano? Non so, non credo. Mi sto convincendo che queste etichette non servono a niente. Credo piuttosto che la famiglia avesse messo gli occhi sulla proprietà della Chiesa, non gliene fregava niente né della libertà... e poi i Savoia si sono dimostrati peggiori di tutti. Ecco, la parte della famiglia di mia madre mi aprì gli occhi sul fascismo. Quando? Sono stato fortunato a essere a contatto con gente che la pensava diversamente. Era il ’35’36, avevo ventiquattro anni. C’era la guerra d’Etiopia, si discuteva così, seduti al bar in piazza. Io ero ammesso tra gli uomini fatti perché studiavo, stavo terminando i miei studi di medicina. C’era un clima patriottico, era il periodo delle sanzioni all’Italia e dall’America gli italo-americani ci mandavano le cartoline di rame e financo Arturo Labriola tornato dall’esilio in Belgio si schierò a favore di Mussolini. Era molto difficile orientarsi, farsi un’idea propria per chi non era entrato in un gruppo particolare. C’erano l’entusiasmo e la gioventù. Tutti i miei amici, per esempio, volevano partire volontari. Perché il male peggiore delle dittature è la mancanza di informazione: quello che leggi è quello che ti fanno leggere. Io, invece, mi ero trovato accanto a uomini grandi che raccoglievano voci. Mio zio, fratello di mia madre, diceva per esempio: “Francesco Saverio Nitti ha scritto che il fascismo ha pochi mesi di vita”. Erano veri o non veri questi articoli che andava citando, non lo ho mai saputo. Un a v it a m a l s p es a 25 Allora tu eri d’accordo con le sanzioni all’Italia? No. Ero convinto che non avrebbero fatto niente. Ero contro la guerra d’Etiopia. Ma fu grazie a mio zio prete, che era il fratello di mio nonno materno ed era il capo spirituale di questa grande famiglia. È stato un po’ il mio educatore. È stato uno degli uomini più buoni che io abbia conosciuto: cristiano nel senso che cercava di operare come predicava. Ve ne sono ancora così. Per esempio di qui viene un altro così: padre Pancrazio che era il figlio di uno dei “contadini del Sud” di Rocco Scotellaro. Fa il missionario e vive nelle foreste del Borneo. È un uomo semplice che vive con niente e passa la vita ad aiutare gli altri. Non ti nascondo che quando mi scrive esito quasi ad aprire la lettera. Quando torna si meraviglia davvero di questa opulenza. L’altra settimana è passato di qui e mi ha detto: “Avete letto che il cardinale tal dei tali ha fatto una festa quando è stato nominato cardinale?” Si era innervosito, gli era parso strano. Dunque questo mio zio prete si occupava dei poveri che vivevano in paese. Chiedevano l’elemosina, non erano né contadini né braccianti, erano ciechi e altri inabili. Aiutavano in Chiesa a suonare le campane e l’organo. Mangiavano perché andavano nelle famiglie. Uno dei ciechi mangiava con noi. Lo chiamavano Roccocidd’, o’ ciucatidd’, piccolo Rocco piccolo cieco. Era davvero piccolo e aveva lunghe dita ossute che muoveva sempre e con cui suonava l’organo in chiesa accompagnandosi con una voce stridula. Non ti nascondo che io non ero felicissimo quando lo zio invitava Roccocidd’ a sedersi a tavola accanto a me. Ma in che modo tuo zio ti ha aiutato a farti un’idea diversa? Come ti ho detto erano gli anni della guerra d’Etiopia e i fascisti dicevano che andavano lì a portare il cristianesimo. Mio zio prete dopo pranzo leggeva il giornale e fumava la pipa di terracotta con il lungo becco di canna. Era un uomo che non parlava a vanvera, prudentissimo. Ma un giorno lo sentii commentare il giornale e si lasciò sfuggire queste parole: “Ma quelli sono già cristiani e poi il cristianesimo non deve portare le armi”. Questo commento mi impressionò molto. Vedi, all’università i piccoli gruppi di antifascisti erano chiusi al loro interno. Se non avessi avuto questi zii che ragionavano... Io ci pensai bene a questa storia: la conquista dell’Etiopia, ma perché? E a un certo punto mi convinsi pure che agli inglesi sarebbe bastato affondare una nave nel canale di Suez per fermare l’impresa d’Etiopia. Noi non saremmo più passati. Alcuni storici dicono che la disaffezione al regime iniziò con la guerra d’Etiopia. In Basilicata forse in parte, nelle classi medie. Qui i contadini non sono mai stati affezionati ad alcun governo, che è sempre stato visto estraneo e lontano. Ti ho già detto poi che il fascismo fu qui una cosa strana. Gli stessi podestà, spesso, erano brave persone. C’erano, certo, anche i presuntuosi e i fanatici; a questi, sai, la divisa piaceva. Proprio giorni fa ho incrociato un buon uomo che in divisa si trasformava. Diventava fanatico e severo. Altri così li ho incontrati in guerra. Beh, costui ricordo che faceva delle lunghe lezioni sull’angolo che il braccio destro doveva fare perché il saluto romano fosse davvero tale, regolare. Vedendolo ora per strada, un bravo pensionato, mi è venuto anche da sorridere. Torniamo alle scuole medie? Sì, da Nocera Inferiore andai a Salerno per gli esami di maturità. 26 E poi decidesti di fare medicina e partisti per Napoli. Come fu l’incontro con la grande città? Ero portato per la matematica tanto che il mio professore che conosceva Enrico Fermi mi incoraggiava ad andare a Roma alla facoltà di fisica. Poi scelsi medicina. Mi sentii certamente spaesato, sperduto nella grande città. Fui colpito dalla grande miseria, dai bassi napoletani, una povertà diversa da quella dei paesi. Alla periferia e sul Vomero c’era campagna: pecore per le strade, mercati coi contadini. Napoli non mi piaceva perché in quegli anni ero isolato. Studiavo e passavo lunghe ore all’Istituto di Istologia. Non avevo contatti vivi con i giovani della città e le domeniche ero ospite di una famiglia di compaesani. Dove abitavi? Fu difficile trovare una camera per studenti. Il primo anno abitai in un albergo al Vasto dove ogni tanto mi raggiungevano i miei zii dal paese. Era un ambiente povero e per me ostile che forse mi impauriva. Così non frequentai molto neanche gli altri studenti che erano ammassati due o tre per camera. lo ebbi una camera ricavata da un bagno, dove sistemarono un lettino e un piccolo tavolo. In quell’albergo abitava anche un uomo ben vestito che diceva di aver fatto l’attore. Io certi giorni girovagavo per la città e lo incontrai una volta a Bagnoli, travestito, che faceva l’accattone. Egli si rese conto che lo avevo visto e quella sera, si giocava a carte con i compagni, chiese: “Che vi ha detto quel fetente?”. Io non avevo detto niente. E i compagni insistevano: “Che gli hai fatto? Ti ha chiamato fetente”. Quanti studenti venivano dalla Basilicata? E come si svolsero i tuoi studi? Non eravamo pochissimi venuti dalla Basilicata in quella facoltà, figli di piccoli e medi borghesi, artigiani, piccoli proprietari. E nessun figlio di contadini. Ora io conosco giovani medici preparati, figli di contadini. Quel mondo per fortuna è finito. A quel tempo gli studenti di medicina erano molto meno di adesso e c’era un rapporto quotidiano con i professori. Oltre ai corsi esisteva la scuola libera. Durante gli ultimi anni le mattine andavo all’ospedale Gesù e Maria ad assistere a un corso di semiotica medica: esercitavamo i nostri sensi, visitavamo i pazienti sotto la guida di un libero docente. A Napoli questa buona abitudine ebbe termine nel secondo dopoguerra. Altre volte si studiava sui cadaveri o in laboratorio. Fui interno a clinica medica con D’Amato che fu discepolo di Cardarelli. In quegli anni in Italia si sentiva ancora il retaggio, direi ottocentesco, delle diverse scuole, ognuna con una sua filosofia: Cardarelli a Napoli, Murri a Bologna, eccetera. I miei maestri insistevano su di un’anamnesi scrupolosa: “un’anamnesi ben fatta è una diagnosi metà fatta”. E sulla visita al paziente. Ora gli esami di laboratorio sono diffusissimi e certe diagnosi, allora difficilissime, si ottengono rapidamente. È una cosa straordinaria. Ma così le analisi hanno ridotto in media l’attenzione e il tempo dedicati alla visita. Penso che l’uso delle tecnologie sia essenziale ma che vada ancora pilotato dall’anamnesi e dalla visita rigorose. Comunque dopo la laurea si doveva, allora, passare l’esame di Stato in una città diversa da quella della propria facoltà. Con degli amici andammo a Bologna dove vi era un professore di patologia chirurgica di scuola napoletana. Eravamo giovani, credevamo che ci avrebbe forse difesi. Eravamo pronti. Un a v it a m a l s p es a 27 Così diventasti medico. Sì. E partii militare poco dopo. Fui mandato a Novara. Da quando, bambino, per la prima volta ho lasciato Tricarico per Nocera Inferiore fino a quando vi tornai dopo la prigionia ho fatto parte della “diaspora lucana”: sono stato fuori dal ’23 al ’43. Voglio chiederti della preparazione, della formazione dei medici allora e oggi. Gli studenti di medicina, anche paragonati a quelli del resto d’Europa in quegli anni, come ho constatato dopo, viaggiando, erano di buon livello. Tu pensa a Giuseppe Levi a Torino: dalla sua scuola sono usciti Luria, Dulbecco e Levi Montalcini, tre premi Nobel. I professori avevano un rapporto stretto con gli studenti e a volte li spingevano verso la ricerca. Io stesso ebbi come professore uno scienziato di qualità, Diamare. Fu il primo che affermò che le isole di Langerhans costituiscono una unità embriologica anatomica e funzionale, conducendo un’indagine forse da premio Nobel. Egli mi spingeva a studiare il timo, un organo allora misterioso che non poteva non avere una funzione specifica. Ma tu allora non seguisti la strada della ricerca. No. E se c’è una cosa di cui mi sono pentito è di aver dedicato poco tempo alla ricerca. Certo, allora, non era facile: dovevi comprare da solo gli animali, l’acool; non vi erano i mezzi di oggi. Un giorno rividi Diamare qualche anno dopo la laurea, in funicolare a Napoli. Mi avvicinai ed egli quasi mi redarguì: “ah il timo, il timo, il timo”. Molti anni dopo tornai alla ricerca, ma a partire dal campo della medicina di cui mi sono occupato con regolarità: le malattie polmonari. Posso dire che come medico mi sono onestamente dedicato a un campo. Come ricercatore invece... Quando ritornasti alla ricerca? A partire dagli anni sessanta incoraggiato dai professori Parvis e Grosso sono ritornato “a mezzadria” all’Università, a Bari; vi ho poi insegnato e ho fatto ricerca. A quel tempo ho viaggiato molto per i convegni in microbiologia e feci conoscenza con un professore boemo, molto acuto, che dirigeva il gruppo di cui feci parte, che si occupava dei micobatteriofagi. Ci scrivevamo delle nostre ricerche, come si usa. Una volta ci trovammo in Olanda. Egli mi chiese come andavano le mie indagini, parlammo. A un tratto disse: “Rocco, tu ti occupi di troppe cose”. Aveva ragione. Spesso però i ricercatori sono chiusi in specialismi univoci. Anch’io in America ho visto un medico che sapeva tutto dello streptococco e non conosceva il tracoma. Mi scandalizzai; poi, a ripensarci, certamente un tropicalista potrebbe dirmi di una malattia che io non conosco... Ecco io credo che sia un errore occuparsi di una sola cosa se è una piccola cosa, ma è un errore occuparsi di tutto. In questi mesi sto cercando di mandare al macero la carta inutile, così ho rivisto alcuni dei miei lavori. E mi sono chiesto: ma era proprio necessario scrivere cinquecento, seicento pagine? Ne bastavano dieci o quindici. Ho disperso tempo con la programmazione, mi sono occupato persino di letteratura. Quanto tempo ho perso dietro Levi e Scotellaro. Mi sono occupato di troppe cose... 28 E tuttavia hai lavorato all’università. Come sei ritornato alla ricerca? Durante gli anni in cui mi occupai di malattia nei Sassi di Matera e altrove capii che, finita la malaria e avviata la battaglia contro le malattie gastrointestinali che avevano flagellato soprattutto l’infanzia, restava il problema della tubercolosi e delle malattie polmonari. In verità scoprimmo anche una grande incidenza delle cardiopatie, cosa che non ci aspettavamo. Naturalmente tenemmo conto di tutto ciò nei nostri tentativi di programmare l’assistenza sanitaria. E lavorando nel campo della lotta alla tubercolosi, prima al dispensario di Matera e poi a Bari, mi sono occupato oltre che del bacillo tubercolare anche di micobatteri non tubercolari e quindi delle loro fagotipie. Così, oltre al lavoro di laboratorio, dal ’58’59 ho tenuto i corsi di specializzazione sulla tubercolosi. E nel ’68-’69 ebbi l’incarico a Bari per Statistica medica e Biometria fino all’82 quando lasciai. Durante quel periodo ho viaggiato e mi sono fatto un’idea delle università straniere e dei diversi sistemi sanitari. E hai fatto un paragone con quello che accade da noi. Sì. Vedi: c’è la questione degli studi di medicina e la questione della carriera di medico. E, poi, naturalmente, c’è la questione dei farmaci. Ecco: noi facemmo l’esame di Stato a Bologna, io ripristinerei una cosa del genere, magari a livello europeo. Ma bisognerebbe prima cambiare altre cose negli studi di medicina: essi dovrebbero essere finalizzati. Se si deve fare il medico generico è bene avere un certo tipo di preparazione, in un altro caso, un altro. Ma a 18 o 19 anni come fai a sapere se sarai medico generico o neurochirurgo? Non ho una ricetta in tasca ma grossomodo direi che, nei primi quattro anni, si faccia una preparazione generale per tutti, per orientare. Poi andrebbero approfondite di più certe materie in preparazione della specializzazione. Ti faccio un esempio: io ho studiato l’anatomia sul Testut, questo bellissimo trattato. Sono andato benissimo, ho preso trenta. Ma se tu oggi mi chiedi quali sono le ossa del piede io non te le so dire. L’ortopedico, il chirurgo devono sapere tutti i particolari di tutte le ossa, di tutte le arterie, dei nervi. Gli altri durante il quadriennio iniziale, dovrebbero fare istituzioni di anatomia. Cioè io riformerei il volume degli studi preparatori e, però, al contempo, farei trascorrere molte ore in ospedale, guidati. In America feci visita a un professore, un cardiologo, che mi mostrò come in quel momento 12 studenti stessero seguendo l’internato in ospedale, seguiti per molte ore al giorno, dagli assistenti e gli aiuti. Egli passeggiava con me e spesso lo chiamavano perché desse agli studenti ogni ulteriore spiegazione. Era, per certi versi come la libera scuola napoletana, ma in tutt’altro ospedale. L’importante è che si conosca ciò che è utile ai fini diagnostici: è questo, secondo me, l’obiettivo di una riforma degli studi. E la carriera di medico? Intanto i medici sono troppi; bisognerebbe escogitare un ulteriore blocco alla fine delle superiori oppure, in alternativa, una più seria presenza lì dove c’è bisogno, nel Terzo Mondo, di una persona preparata. Ma ammettiamo che uno è bravo: si laurea, assolve agli obblighi militari, entra in ospedale. Guardiamo al caso medio. Se tu oggi, in Italia, entri in ospedale come assistente, ne puoi uscire quaranta anni dopo, a sessantacinque anni, senza grandi cambiamenti. È terribile: tutto si è fatto per garantire l’inamovibilità, il posto. Un a v it a m a l s p es a 29 Chi ha voluto questo? Anche i sindacati che spesso sono stati delle corporazioni: è una forza, in Italia, che è divenuta per vari aspetti, veramente conservatrice. Se fosse qui mia moglie, che è stata operaia, lei difenderebbe i sindacati per la forza e la dignità che hanno dato a chi lavora. Ma ciò non vale dappertutto. Questa corporazione dei medici ha creduto di difendere la categoria, garantendole in realtà un grande riposo intellettuale. Non sei d’accordo? Perché non escogitare un sistema di stimoli e di mobilità? Pensa che oggi tutto il viaggiare o l’aggiornarsi dei medici avviene grazie alle sovvenzioni delle case farmaceutiche. Ho spesso pensato che in questo modo, se vuoi indiretto, queste hanno comprato quasi tutti i medici d’Italia. Ma dico anche che così almeno vanno per il mondo a fare congressi, anche se è triste che avvenga in questo modo. A proposito di case farmaceutiche, prima avevi nominato i farmaci. Sì. Bisogna dire innanzitutto che vi è stato un progresso straordinario, enorme. Tu immagina cosa avevamo a disposizione noi per curare al tempo in cui uscii dall’università: eravamo quasi disarmati di fronte alle malattie. E ora ho l’impressione che si stia per aprire una ulteriore frontiera di cure e farmaci validi per molte malattie. Ma contemporaneamente c’è un grande abuso e spreco di farmaci, e questo incide sul deficit della sanità. Le cose sono complicate perché tu sai che la base farmacologica di una medicina è spesso identica mentre i nomi cambiano a seconda delle case farmaceutiche, che fanno il loro interesse. Forse è anche vero che una certa differenziazione sia utile. Però io ritengo che il servizio sanitario nazionale, che è una vera conquista di civiltà, dovrebbe dare gratuitamente solo i farmaci – e c’è un elenco ufficiale di circa trecento medicine – considerati essenziali dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Una volta c’era il chinino di Stato per la malaria. Ecco: a volte mi sono domandato perché non fare una scelta razionale e dare gratis solo certi antibiotici, sulfamidici, aspirina, cortisone eccetera, di Stato. Questi dovrebbero essere forniti dalle case allo Stato, senza troppo penalizzare le case dunque. E gli altri farmaci: chi li vuole se li compra. Bisogna certo anche educare medici e pazienti. Per esempio Gianni Tognoni e gli altri autori di Bambini e farmaci hanno informato dettagliatamente sull’uso eccessivo e sul cattivo uso dei farmaci presso i bambini. Nel progetto pilota noi stessi ipotizzammo i canali di informazione sanitaria per la Basilicata. L’altra questione è come vengono dati i farmaci. In Inghilterra, in America, intanto ti danno il numero contato di dosi o di pillole da prendere per i giorni prescritti dal medico e non la confezione. Ma si dice che c’è una grande pressione delle case farmaceutiche. Ma anche lì c’è. Eppure con questo banale sistema nelle case inglesi non si accumulano medicinali che poi magari vengono mal utilizzati in seguito o gettati, sprecati. Lì il legislatore ha posto un argine, ha fatto sì che la legge mitigasse gli interessi costituiti. In Italia non si vuol fare. Perché? Non c’è un motivo razionale. I motivi rimangono politici, nel senso deteriore. C’è una commissione preposta a questo e in questa commissione non sempre si fanno le cose come andrebbero fatte. Molte volte, non credere, le proposte, fatte da competenti, arrivano a chi 30 decide e se ne discute anche. Ma poi prevalgono gli interessi forti o anche, appunto, gli interessi a non modificare. È un fatto di malcostume. Avviene dappertutto. E il problema per la mia generazione è capire perché nel nostro paese sia così difficile, in ogni ambito, fare quello che si chiama “l’interesse generale”. A volte sono anch’io pessimista. Quando ero prigioniero degli inglesi mi persuasi che, caduto il fascismo, anche da noi si sarebbero formati due grandi schieramenti, l’uno conservatore e l’altro progressista. Tornato in Basilicata, io decisi di partecipare a quello progressista stando dalla parte dei contadini e non solo dei contadini. Pensavo a un sistema con un governo e un’opposizione entrambi al lavoro per dare soluzioni differenti ai problemi e entrambi responsabili davanti agli elettori. Invece da un lato le forze conservatrici insegnarono a tutti a difendere innanzitutto il patrimonio di voti e non a dare soluzioni ai problemi. E dall’altro lato quel che ha impedito la dialettica in Italia è stato il Pci che ha capeggiato lo schieramento progressista propagandando una alternativa di sistema: tutto o niente. Questo è stato sempre il miglior modo per non proporre niente. Il Pci per decenni ha avuto il torto di mettere in frigorifero milioni di intelligenze. Gli rimprovero anche di non aver mai fatto opposizione pur essendo l’unico partito in grado di farlo, dato che il Psi non è mai stato un partito di opposizione. In Basilicata il Pci ci ha parlato del Vietnam ma mai delle cose da fare. Una volta sono stato invitato a presentarmi alle elezioni regionali, credo nel ’72, nelle sue liste. Mi stavo quasi convincendo. Mi stavano lusingando. Tu sai, noi tutti ci lasciamo lusingare. Venivano molti giovani a trovarmi: “facciamo noi la campagna elettorale”. Allora dissi a uno dei capi: “Ma io voglio fare l’opposizione, e mi dovete far trovare ogni mattina sul tavolo quali sono le posizioni prese dalla maggioranza, fuori e dentro la Basilicata. Se sono giuste le difenderò. Se no dobbiarno fare un’opposizione, mobilitando la gente, con delle nuove proposte”. Mi disse: “Ma sì, certo”. Poi vidi che non era più molto convinto. Un giorno raccontai al presidente della regione, un democristiano, ma persona seria, quel che sto raccontando a te. Ed egli mi disse: “perché non l’hai fatto?” Un presidente di giunta serio ha bisogno in effetti di una buona opposizione, altrimenti è costretto a mediare con gli interessi localistici o, peggio, imposti da dentro la maggioranza. Forse se il Partito d’azione avesse trovato la base popolare questo sarebbe stato un paese diverso. Ma con i se... Anche qui da noi vi fu una stagione, subito dopo la guerra, in cui alcuni ipotizzarono soluzioni. Sarebbe interessante chiamare i sopravvissuti a parlarne. Oggi quando sento e vedo i partiti che non pensano che a difendere innanzitutto se stessi e i meccanismi di occupazione del potere, io mi domando se il fascismo non sia una sorta di malattia ereditaria italiana. Tu conosci il tifo addominale classico? Ecco, nella prima settimana c’è la febbre e nella seconda settimana c’è la fase delirante. Forse il ventennio fascista fu la fase delirante del male italiano che purtroppo non è passato. È triste parlare così, ma credo che sia consentito dire quello che si pensa. Altre volte sei più ottimista? Sì. Altre volte mi dico che bisogna insistere perché non è facile, in così pochi anni, in un paese affetto da una simile malattia, portare a compimento la democrazia. Pensa a quanUn a v it a m a l s p es a 31 do l’Inghilterra, che per me fu allora il modello, ha iniziato l’esercizio della democrazia; eppure anche lì ancora... E in Italia non c’è stata quasi mai democrazia. La democrazia prefascista? Anche se Salvemini aveva un po’ attenuato i suoi giudizi su Giolitti, rimaneva il ministro di malavita, e comandavano i prefetti e, tra i deputati, solo qualche grande personalità riusciva ad affermare democrazia. Poi fu il ventennio e poi la stagione repubblicana, relativamente pochi anni. Tu dici che bisogna insistere. Ma come? Non è una cosa facile; io stesso, vedi, ripeto che ho perso tempo, che la mia è stata una vita mal spesa. Oltre al mio mestiere mi sono illuso di far altro, di incidere sulle scelte sociali in medicina, per esempio. E mi sono accorto che è spesso illusorio perché tu le cose incisive le puoi attuare solo se hai la forza. E io per forza intendo forza politica. Un isolato, come io sono stato, rischia di fare il profeta disarmato. AIlora magari avresti fatto meglio a legarti a un carro politico. Credi che avresti realizzato di più? O avresti perso semplicemente in dignità? Non so. Tuo padre, per esempio, forse ha voluto utilizzare i partiti perché vi aderì sempre per fare le cose. Ma quanto lo ascoltarono? E poi bisogna avere un certo tipo di carattere. Poi dicevi perdere la dignità. Oggi dico che la dignità l’avrei salvata lo stesso, magari rimanendo in America dove mi offrirono una possibilità o continuando la ricerca o a Novara dove ero emigrato dopo la laurea. Torniamo indietro a Novara. lo ho sempre avuto la grande fortuna di incontrare persone intelligenti. Arrivai a Novara, ufficiale medico. E subito espressi il desiderio di frequentare l’ospedale civile e il colonnello mi disse: “Certo, io tengo ad avere un medico ufficiale e non un ufficiale medico”. Così mi trovai a lavorare all’ospedale di Novara e lì conobbi un grande pediatra, Piero Fornara, che considero un mio maestro. Fornara era un uomo che non predicava ma era antifascista, tutti lo sapevano. Le mie frequentazioni familiari avevano fatto di me un afascista, non un antifascista. E ora incontravo questa persona di grande competenza, nettissima e antifascista che mi fece una grande impressione. Se, alla fine della guerra non fossi stato preso da quello che avveniva in Basilicata, sarei tornato lì, a lavorare con Fornara. Dopo una borsa di studio, che spesi studiando per oltre un anno anatomia patologica a Milano, fui richiamato alle armi nel settembre del ’39 e partii per l’Africa. Ho un ricordo nitido del vapore che arriva a Tripoli. Il mio distacco dal fascismo era avvenuto. Seguivo con spirito indipendente i fatti d’armi. E devo dirti che nel mio comando, che frequentavo in quanto ufficiale medico, vi era gente anche di una certa apertura, gente che capiva che molti generali si erano formati nella grande guerra e che quella invece era una guerra nel deserto, una guerra di movimento in cui noi andavamo a piedi e gli inglesi no. Era gente che credeva poco ai piani di controffensiva. Ti racconto un episodio di cui fui testimone e che credo sia inedito. Ero sotto il comando del generale Bergonzoli detto Barbaelettrica. Mi faceva pensare a un capitano di ventura, piccolo, magro e con gli occhi azzurri, che aveva capito che la guerra nel deserto è come la guerra in mare e si barcamenava come poteva. Aveva fatto montare dei cannoncini sui 32 piccoli camion e li muoveva avanti e indietro finché gli inglesi non li scambiarono per carri armati camuffati. Aveva giurato fedeltà, “Credere, obbedire, combattere” e non era un uomo da tradire la parola data. Ma un giorno, alla presenza di Scorza, ultimo segretario del partito fascista, durante il pranzo con noi ufficiali, si levò e dettò il suo testamento. Disse queste parole: “Io vado all’ultima battaglia senza entusiasmo, combatterò perché devo obbedire, ma non credo. Se muoio seppellitemi nel cimitero da campo più vicino, insieme ai miei soldati. Non gridatemi presente, tanto non risponderò”. Quella guerra nel deserto era stata quasi senza vittime civili, una guerra quasi pulita se così si può dire di una guerra. Io era a Bardia che, dopo quaranta giorni d’assedio e tre di battaglia, cadde. Era il gennaio del ’41. Cercammo di raggiungere Tobruk e in quel tentativo fui catturato. Gli inglesi applicarono le convenzioni di Ginevra e io fui affidato al diciannovesimo ospedale generale di guerra inglese. Facevo il medico, curavo i dissenterici e i tifosi e appresi molto da tre patologi inglesi di cui uno era bravissimo. Mi dispiaceva, certo, che l’Italia stesse perdendo ma non era una malattia mortale e io non ne piansi. Incominciavo a non credere nella patria così come la intendevano i nazionalisti. Ti ricordi la poesia di Rocco Scotellaro: “io sono un filo d’erba, un filo d’erba che trema e la mia patria è dove l’erba trema”. E poi? Fui liberato con uno scambio e arrivai qui. L’esperienza della prigionia mi aveva avvicinato alle aspirazioni dei contadini. Come per me, in qualche modo, la diaspora e la prigionia mi hanno stimolato a battermi per condizioni di vita migliori nella mia terra, così è stato anche per i contadini. La guerra è una grande esperienza umana e ci cambia dentro. Cosa avvenne? In una ricostruzione schematica e forse tinta di malignità, io ripartirei dalle guerre fasciste, dall’Etiopia, dalla Spagna. Molti disoccupati e contadini poveri meridionali, e anche lucani, partirono e non per “conquistare l’Impero” ma perché davano loro una paga, o meglio una sottopaga, e alle famiglie rimaste a casa un sussidio, una fonte certa di minima sussistenza. Sarebbe interessante studiare questo momento perché forse si può far risalire ad allora la trama dell’assistenzialismo. Rischiavano per un po’ di tempo la pelle, costruivano ponti, canali, strade in Africa. In cambio avevano questo aiuto. Alcuni storici dicono che l’assistenza nacque con la nittiana legge speciale su Napoli ma per la Basilicata questo è avvenuto alla fine degli anni trenta. Molti, durante la prigionia hanno fatto esperienze importanti, hanno visto aprirsi gli orizzonti. Questo è vero soprattutto per quelli prigionieri in Africa, India, Inghilterra, America, Australia, che vennero trattati meglio. Per quelli che finirono in Germania fu diverso. Ecco: capirono che il mondo non era tutto come a casa loro. E al ritorno si organizzarono nelle associazioni combattenti o anche nei risorgenti partiti politici o unendosi spontaneamente. Posso dire che, dal ’48 in poi, fui testimone di questo fervore e che esso fu spontaneo. All’inizio le terre vennero occupate autonomamente. I partiti politici capirono più tardi e cercarono di impossessarsi di questo moto, chi in una maniera chi in un’altra. Furono insieme l’esperienza della diaspora e il grande immiserimento che seguì alla guerra, che scatenarono tutto. E io fui preso da questa nuova situazione. Ma prima, appena ritornato, cosa facesti? Cercavo di fare il medico e di capire il mio paese. In fondo ero partito ragazzino e solo alloUn a v it a m a l s p es a 33 ra conobbi il Mezzogiorno. L’Italia era divisa. Cercai di istruirmi. Andavo a Potenza. Frequentavo la biblioteca, parlavo con i non fascisti di Potenza. E lessi Fortunato, Salvemini, Nitti e anche Marx e Engels. A un certo punto avevo anche aderito a una idea, mai realizzata, di insurrezione a Potenza. L’esercito era smembrato e io, in qualità di ufficiale medico, avrei dovuto smobilitare la caserma, con altri impossessarmi dei telefoni e dei telegrafi e controllare la questura, che si trovava chiusa in una stretta via, in attesa di presunti insorti tra cui un gruppo di operai di Melfi. Lo scopo era quello di cacciare il re dal Mezzogiorno. Ma poi gli altri cospiratori mi dissero che gli inglesi erano contrari. Comunque presi parte con la sinistra per stare con la povera gente ma né allora né in seguito volli iscrivermi ad alcun partito politico. A quel tempo risale il tuo ri-incontro con Rocco Scotellaro? Nel ’43 rincontrai Rocco Scotellaro che era un ragazzo del mio paese. Qualche anno fa ritrovai la lista dei candidati che Rocco organizzò per le elezioni comunali di Tricarico nel ’46 sotto il simbolo dell’aratro. Questa lista dimostra che egli ebbe presto una idea chiara della complessità della società di Tricarico che non era divisa classe contro classe. Questa lista era una sorta di tavolo a intarsio dove erano rappresentati contadini, piccoli e medi proprietari, calzolai e falegnami, muratori, alcuni con piccole imprese. Tu sai che Rocco era figlio di un calzolaio e poiché un’arte si riteneva superiore a un’altra, a volte, per disprezzare, anche a lui sfuggiva dire: “quello è un falegname”. Era una società in evoluzione: c’erano fabbri che erano quasi veterinari per come conoscevano i cavalli; lo stesso padre di Rocco sapeva tagliare le tomaie e fabbricare scarpe belle e pronte e finì poi per diventare un commerciante di cuoio. Noi osservavamo questi cambiamenti, Rocco li sapeva interpretare e conosceva Tricarico. Nella lista vi erano socialisti, comunisti e repubblicani. Certo, io partecipai a tutte quelle battaglie, ci vedevamo tutti i giorni ma non entrai nella lista, forse perché non ho mai avuto la vocazione di capopopolo. Rocco fu un bravo sindaco. Si occupava ogni giorno di questioni concrete e realizzò l’ospedale. Ma il vero merito di Rocco non fu quello di “inventare” un ospedale a Tricarico ma di trasformare una operazione che poteva rimanere solo amministrativa in un episodio di partecipazione popolare, in una prova di democrazia. Su questo io fui totalmente d’accordo con lui. Ma a tanti anni di distanza dimmi perché l’iconografia ha appiattito Rocco Scotellaro: “il sindaco dei contadini”. Lo dipingono così perché c’è la mania di inquadrare. Ma se leggi le sue lettere trovi un Rocco più complesso, vero, diverso da quella immagine. E poi è morto a trent’anni, era un giovane in formazione. E vero che ogni tanto diceva di essere marxista e io con lui polemizzavo. Il nostro fu un rapporto dialettico. Aveva letto pochissimo di Marx. Non voglio essere presuntuoso ma a quel tempo, ti assicuro, a parte Bonelli, un bordighista di Montemurro e un uomo integro, in Basilicata, sono forse tra quelli che lesse il numero maggiore di pagine di Marx e Engels. E non ne fosti entusiasta? All’inizio forse. Ma mi disillusi precocemente. Lessi l’Anti-Dühring e subito dopo, sotto 34 consiglio di un amico, un libro in francese, Biologie et Marxisme di Marcel Prenant. All’inizio ne fui impressionato. Poi mi misi a tradurlo e sai, traducendolo, mi accorsi che era inaccettabile e così rividi anche l’Anti-Dühring e mi allontanai dal marxismo. E anche in politica io ero stato contento per la vittoria della Repubblica e sapevo che i contadini della Basilicata avevano votato contro la monarchia e lo avevano fatto prima della riforma, come per istinto. Ma quando fu sconfitto il frontismo, il 18 aprile 1948 non fui dispiaciuto. Il mio modello di democrazia era quello anglosassone e accettavo perciò il risultato. E la poesia di Rocco sul 18 aprile: “Carte abbaglianti e pozzanghere nere...” In fondo io ringrazio e ho sempre ringraziato il 18 aprile. Non ero d’accordo con Rocco. E del resto allora non lo fu neanche Carlo Levi che solo dopo si riavvicinò al Pci. Fu nel ’46 che incontrai Carlo Levi e poi tuo padre. Dopo quel risultato riprese l’emigrazione. Penso che al ritorno, tornata la grande miseria, i contadini vollero la terra perché, nel loro inconscio, il possesso della terra equivaleva alla sicurezza. Le classi medie non erano tutte contrarie. I nittiani non furono contrari ai contadini. E i cattolici, che dopo gestirono la riforma, avevano qui posizioni avanzate. Nell’immediato dopoguerra uscì un periodico cattolico, “L’ordine”, che pubblicò un articolo di mio fratello, La fine del salariato, che suscitò qualche polemica dalla parte dei possidenti. Il movimento contadino fu sconfitto. Ma i contadini avevano occupato le terre e ottenuto la riforma. Presto, però, si resero conto che, pur con la terra, non potevano avere la sicurezza che avevano i grandi proprietari che erano stati il loro modello. Sì, può sembrare cinico dirlo ma credo che sia vero: il modello dei contadini fu il proprietario di terre. Quando capirono che in Basilicata anche il possesso di venti ettari di terra non risolveva il loro problema, forse anche razionalmente, imboccarono la via dell’emigrazione. Scoprirono il passaporto e anche il modo facile di ottenerlo, senza ricorrere agli intermediari, che sono da sempre una delle piaghe del Mezzogiorno. E partirono. A tanti anni di distanza che bilancio fai dell’emigrazione? I costi umani dell’emigrazione furono altissimi. Ma alla fine, però, il tenore di vita è migliorato, e per quelli rimasti e per chi è partito. Sono d’accordo con tuo padre su questo: è stato un male necessario che, però, la Repubblica avrebbe dovuto mitigare assistendo gli emigrati. Ora un certo numero di emigrati è rientrato. Ne ho conosciuti più di uno. Conoscono le lingue, hanno imparato un certo mestiere, a volte cercano di far fruttare uno spirito imprenditoriale. Per esempio qualche mese fa, uno mi ha detto che per la sua impresa aveva bisogno di una seria indagine di mercato ma che non si fidava di questi pennivendoli. Sapeva anche che doveva tenersi buoni gli uomini politici, altrimenti gli bloccavano i contributi. La classe politica non fu preparata alle partenze e non si è preparata, se non così, ai pochi ritorni. Comunque ora il problema non è più qui. Noi facciamo parte della piccola porzione fortunata dell’umanità. Tu hai visto che oggi, anche qui, si vive in un certo agio. Un a v it a m a l s p es a 35 Tu sei stato nel Terzo Mondo già prima, come esperto della sanità nelle situazioni di sottosviluppo. Sono stato in Somalia e più volte in Persia, già negli anni cinquanta. Lavoravamo al confine con il Pakistan, c’era un solo ospedale abbastanza buono. Poiché l’area era molto estesa proposi di costruire diversi ospedali. Ma presto mi accorsi che era meglio preparare personale locale specializzato nelle malattie predominanti che si spostasse con automezzi in modo da moltiplicare gli interventi, dato che i medici erano pochissimi. Mi ero reso conto che le mie prime proposte erano inquinate dai nostri modelli ma quando cercai di correggerle non trovai tutti consenzienti. In Persia, per esempio, gli esperti volevano fare grandi dighe. C’erano lì i canali sotterranei che scorrevano a qualche metro di profondità. Ciò limitava l’evaporazione ma durante i temporali stagionali le pareti dei canali a valle crollavano e così aumentava il deserto. Bisognava migliorare i canali e non costruire dighe. In altre zone, in cui il nomadismo aveva le sue ragioni d’essere, volevano costruire case, fare diventare la gente stanziale, un errore. Non credi che questi “errori” servano per fare rientrare in Occidente una parte dei soldi dati per il sottosviluppo? Può essere. Ma credo che si possa fare qualcosa. Sono andato nelle campagne in Somalia per capire come combattere la tubercolosi che è molto diffusa. In Europa si fa l’anamnesi, l’esame obiettivo, quello radiografico, quello batteriologico. In Africa questo si può fare al massimo per una parte della popolazione nei capoluoghi. Non puoi pensare a medici e tecnologie nei piccoli villaggi. Cosa fare? Nel caso della tubercolosi esiste l’esame dell’espettorato che si può effettuare anche nel posto più sperduto: bastano un microscopio e i coloranti. Può essere insegnato anche a un analfabeta. Chi ha espettorato positivo si cura e così si fa anche prevenzione. Si può aiutare la gente. Se non fossi già anziano, penso che mi sarei deciso a partire e finire i miei giorni in Africa. Del resto cosa ci faccio qui. Tu spesso parli di aiutare la gente e hai avuto una formazione cristiana. La scienza ti ha allontanato dalla fede? La scienza certamente pone dei dubbi. Ma sai, la scienza spiega molte cose ma neanche essa risolve. E così puoi spiegarti come tanti grandi scienziati siano diventati credenti ed altri, come Popper, agnostici. E tu ti definiresti agnostico? Non lo so. È un problema che ho sempre evitato di affrontare e pochi me lo domandano. Forse non mi dispiacerebbe essere veramente credente. E sul piano etico, ecco, io cerco i principi cristiani. Qualche volta vado in chiesa: ci andava mia madre. Ti interessi a questioni filosofiche o teologiche? Leggo con piacere i libri di “confine” tra riflessione sulla scienza, filosofia e fede. Rocco, cosa consiglieresti tu a un giovane? Consiglierei innanzitutto di imparare un mestiere e di farlo nel modo migliore possibile. 36 Borghesi e contadini nel Mezzogiorno di Rocco Mazzarone I n un convegno in cui la borghesia meridionale si annuncia – ed è stata già fatta – oggetto di critica, deve essere parso opportuno al Segretariato della Campagna far ascoltare anche la voce di un piccolo borghese meridionale. Non ho altro titolo, infatti, a intrattenervi su questo tema a eccezione di quello che mi deriva dalle origini familiari e dalla professione e dal luogo in cui la esercito. Pe meglio intendere i rapporti tra la borghesia meridionale, i contadini e il potere e l’ampiezza della loro crisi attuale è opportuno ricordare alcuni precedenti storici. L’inizio della decadenza dell’Italia meridionale si fa coincidere con la caduta di Costantinopoli e la scoperta dell’America, epoca in cui, avendo il Mediterraneo centrale cessato di essere la grande via di comunicazione del mondo, l’Italia meridionale perdette una delle fonti maggiori della sua relativa ricchezza. Ma altra causa, ugualmente importante e più antica, è l’ordinamento feudale e le sue degenerazioni, contro cui fallirono tutti i tentativi di Alfonso D’Aragona e dei suoi successori. Ché, anzi, i baroni, nelle alterne vicende della storia di quel periodo, riuscirono a strappare ai loro re altri privilegi. Sempre pronti a esercitare pressioni di ogni genere sui sudditi, sempre occupati nelle usurpazioni più diverse, i baroni erano essi stessi assai spesso in lite tra loro soprattutto per il possesso dei beni demaniali. In quelle liti trovavano le occasioni per affermarsi, forti del denaro di cui disponevano, gli elementi più attivi e più spregiudicati della nascente borghesia, che traevano le loro fonti di guadagno dall’industria, dal commercio, dall’agricoltura – soprattutto attraverso la affittanza nelle sue diverse fonti – e dalle arti liberali – e tra questi ultimi soprattutto gli avvocati, avvantaggiati, tra l’altro, da un ordinamento in cui gli imputati erano a volte anche giudici. Né quando finalmente agli inizi del secolo scorso furono aboliti i privilegi feudali la situazione si modificò sostanzialmente, perché le leggi eversive della feudalità invece di risolversi in uno strumento di livellamento sociale contribuirono a far passare le terre nelle mani dei più ricchi e a far diventare i poveri ancora più poveri. Il feudalismo era stato eliB or g h e s i e c o n t a d i n i n e l M e z z o g i o r n o 37 minato come ordinamento politico, ma la terra non andò a quelli che la coltivavano, e le prestazioni dei contadini, prima legate da diritti feudali, rimanevano ugualmente pesanti per via contrattuale. Né l’unificazione nazionale contribuì a modificare tale situazione, ché anzi con l’incameramento dei beni della Chiesa, i ricchi diventarono ancora più ricchi e la frattura tra la borghesia terriera e i contadini si approfondì e i meno rassegnati di questi ultimi, tragicamente giocati anche questa volta, avendo fame di terra, si dettero al brigantaggio – la lotta contadina, come è stato ripetutamente affermato – sedato, dopo alcuni anni, dall’esercito piemontese e dalla Guardia Nazionale, la milizia locale formata da elementi della borghesia. Così, come nel periodo feudale, in quello successivo, fino ai nostri giorni, salvo poche eccezioni, i rapporti tra i proprietari terrieri e i contadini sono rapporti di sudditanza da parte dei secondi verso i primi; e tanto più sono duri quanto più i proprietari o i grandi fittuari vivono nelle loro terre. Con la borghesia di città i contadini, come con i baroni che vivevano in città, hanno rapporti migliori, comunque non li hanno mai diretti, ma attraverso i fittuari o soprattutto la piccola borghesia intellettuale. Né la borghesia intellettuale ha, nella sua grande maggioranza, un atteggiamento diverso da quella terriera. Il giudizio di Gaetano Salvemini su di essa è severissimo: L’azione politica della piccola borghesia intellettuale, e più specialmente di quella parte di essa che non riesce a collocarsi comodamente al banchetto della vita, ha una grandissima importanza nella società moderna. Perché è questa classe che dà a tutti i partiti i giornalisti, i libellisti, i galoppini elettorali, i conferenzieri, i propagandisti. E gli spostati della piccola borghesia intellettuale finiscono quasi tutti col diventare professionisti della politica peggiore: non avendo niente da fare, possono dedicare tutto il loro tempo alla vita pubblica; conquistando i primi posti nelle file dei partiti, diventano gli uomini di fiducia, i depositari dei segreti, i guardiani ed i padroni delle posizioni strategiche più delicate. Anche nell’Italia settentrionale costoro fanno ai partiti politici e alle organizzazioni economiche tutto il male che possono. Ma, non essendo l’elemento predominante e dovendo contribuire al gioco dei partiti politici e amministrativi in compagnia di tutti gli altri gruppi sociali – borghesia agraria, industriale, commerciale; piccoli esercenti; artigianato; piccoli proprietari rurali; proletariato industriale e rurale –, sono costretti a subordinare la propria azione ai bisogni dei gruppi sociali e delle organizzazioni, a cui devono aderire per essere qualcosa. Si fanno pagare, troppe volte, più che non meritino; ma rendono dei servigi. Sono servitori, spesso fedeli; ma possono essere licenziati caso per caso dagli interessati. Nel Mezzogiorno dell’Italia la potenza sociale, politica, morale della piccola borghesia intellettuale è assai più grande e più malefica che nel Nord. Ed è questi, insieme alla malaria, il flagello più rovinoso del Mezzogi0rno. Si può dire che nel Mezzogiorno la piccola borghesia intellettuale è nella vita morale quel che è nella vita fisica la malaria. Ora la malaria è scomparsa, ma la piccola borghesia intellettuale occupa ancora un posto dominante nella vita del Mezzogiorno e il giudizio di Salvemini è in gran parte ancora valido. Scrive ancora Guido Dorso: Essendosi sviluppata a latere di quella della terra la borghesia professionista e intellettuale ha anch’essa contribuito a mantenere l’immobilità del paese, perché, subordinata agli interessi fondamentali 38 della classe agraria, cui presta i suoi servigi, non è riuscita a superare decisamente l’orizzonte ideale di quella. Se collateralmente a queste due sezioni della borghesia fosse nata e si fosse sviluppata anche la borghesia capitalistica, industriale e commerciale, da una parte, gli intellettuali e i professionisti si sarebbero sempre più emancipati dai dati storici e psicologici della classe terriera, e, dall’altra parte, quest’ultima, scadendo d’importanza e di prestigio, avrebbe dovuto necessariamente modificare la sua mentalità e la sua struttura. Ma questo processo di creazione della borghesia del lavoro del Mezzogiorno o non si è proprio prodotto, o, se si è prodotto, ha avuto insufficiente sviluppo. In realtà mancavano anche le condizioni per un diverso sviluppo. Sia per la scarsa disponibilità di capitali, sia per l’insicurezza e la povertà dei redditi terrieri infatti, solo in condizioni particolarmente favorevoli, a volte attingendo denaro da fonti diverse dall’agricoltura – si tratta spesso di commercianti, di artigiani – la proprietà, in alcune zone, migliora, grazie pure all’introduzione di nuovi mezzi tecnici: all’attività di questo strato della borghesia rurale si deve, tra l’altro, la diffusione delle culture legnose da frutto che hanno portato un relativo benessere in alcune zone del Mezzogiorno. Ma la situazione rimane in generale immutata: il grande proprietario il più delle volte è assente e non di rado è assente dalla sua terra anche il medio proprietario, tutti soddisfatti di vivere dal ricavato dei fitti, nell’esercizio della rapina, essi sui fittuari, questi sui contadini e tutti sulla terra; rapina esercitata con il disboschimento indiscriminato e con l’estensione della cultura cerealicola e con lo sfruttamento della mano d’opera. Immutata, anzi peggiorata, la situazione nel campo industriale; immutata nel campo commerciale. Immutata la condizione dei contadini. Se l’Italia meridionale non fosse stata in Europa la sua situazione sociale non si sarebbe mai sbloccata. Dice Guido Dorso: È la vicinanza dell’Europa, sono i contraccolpi della vita continentale che, a distanza di anni, finiscono per influenzare il rapporto base tra la borghesia terriera e il contadino; sono le correnti migratorie, le guerre e i rivolgimenti monetari che, ogni tanto, danno la ruota al movimento. E qui bisogna subito e una volta per tutte riconoscere che alla frazione più avanzata della borghesia intellettuale in gran parte si deve se il Mezzogiorno è rimasto, per così dire, in Europa, dalla Repubblica Partenopea del 1779 – e qui conviene ricordare tra gli altri un lucano, Francesco Lomonaco, la cui vocazione europea, se così può chiamarsi, traspare da alcune pagine del suo Rapporto al Cittadino Carnot –, dai primi moti risorgimentali alle prime lotte contadine nel movimento socialista e in quello cattolico. Con l’emigrazione, dunque, soprattutto con la grande emigrazione oltre Atlantico, da una parte, infatti diminuiscono le richieste di affittanza, dall’altra le prime rimesse degli emigranti permettono una disponibilità di denaro a chi non ne aveva mai disposto, e con essa riceve una spinta l’attacco alla proprietà e la formazione di nuove medie, piccole e, purtroppo, piccolissime proprietà terriere. Gli emigranti di ritorno, inoltre, portano nei paesi di origine nuove idee. E nuove idee e nuove aspirazioni portano i reduci dalla Guerra Mondiale, in cui per la prima volta erano stati vicini gli uni agli altri gli italiani di tutte le regioni. I primi sintomi della crisi dei rapporti tra borghesi e contadini risalgono a quel B or g h e s i e c o n t a d i n i n e l M e z z o g i o r n o 39 periodo. Non che prima i contadini non avessero mai tentato di ribellarsi alle prepotenze padronali: sono note le esplosioni che di tanto in tanto hanno scosso il mondo contadino meridionale, ora per il possesso della terra demaniale, ora per il mantenimento degli usi civici, ma si tratta di moti della durata di qualche giorno, assai spesso sanguinosi, senza alcuna preparazione, senza alcuna possibilità di riuscita. Ora, di ritorno dalla trincea, in cui hanno avuto contatto con gli operai settentrionali, i contadini sono più pronti a raccogliere la propaganda dei socialisti e dei popolari. Allo stesso movimento combattentista, del resto, essi aderiscono nella speranza di ottenere la terra. Poi viene il fascismo. Importato dal Settentrione, trova rapidamente i suoi alleati naturali nella borghesia meridionale, e i contadini che non trovano da lavorare nel Mezzogiorno, chiusa l’emigrazione, si occupano nelle varie guerre d’oltremare: era per i contadini, questa, l’unica maniera per assicurare il pane alla propria famiglia e per i borghesi la via per la gloria, gli onori e un posto migliore. La seconda guerra mondiale vede i contadini disseminati in tutto il mondo, a contatto delle civiltà più diverse, e nelle lotte partigiane. Partiti indifferenti al gioco della politica, finora riservato ai borghesi, sono costretti dagli avvenimenti a entrare in esso e si accorgono di poter disporre di un arma di cui presentono l’importanza e intendono sempre più l’uso, quella del voto. La conquista del suffragio universale si rivela, a distanza di oltre un ventennio, di importanza decisiva. Sia che accettino di rimanere nelle attività agricole, tentando di accedere come possono alla terra, sia che tentino di uscire dal proprio stato, passando nell’industria, che, data la quasi assenza di industria nel Mezzogiorno è manovalanza edilizia, o passando nei gradi più bassi della burocrazia, o emigrando, essi non sono più rassegnati e comprendon0, sempre più chiaramente e in strati sempre più vasti, che il potere non è un dono che viene dall’alto, ma che essi stessi sono tra le fonti del potere e che possono diminuirlo o accrescerlo nelle mani di questo o di quel gruppo. Non mancano, come si comprende facilmente, in una situazione in movimento e carica di fermenti, come voi stessi avete potuto direttamente constatare, tentazioni di imitare costumi di altre classi, e motivi di smarrimento. Bisogna tuttavia riconoscere che mai come ora nella storia del Mezzogiorno si è presentata l’occasione e sono presenti le premesse per l’affermazione di un rapporto diverso tra borghesia – soprattutto tra quella destinata alla mediazione del potere – e contadini e bisogna anche riconoscere che questi ultimi, a volte anche con la loro vivacità, e pur tra le contraddizioni, gli arresti e gli errori, contribuiscono alla risoluzione di questo che è uno dei problemi fondamentali del Mezzogiorno. I contadini sono entrati finalmente nella storia e non hanno nessuna intenzione, e nessun motivo, di tornare indietro. I primi contraccolpi del movimento contadino avete potuto constatarli, direi fisicamente, nelle visite che siete andati compiendo in questi giorni e potrete meglio valutarli negli incontri che certamente solleciterete e nella lettura delle pagine di “quello che doveva essere un immenso affresco degno dei grandi pittori messicani”, come ha definito René Nouat, un cattolico francese, i Contadini del Sud, l’inchiesta che Rocco Scotellaro stava per completare quando, giovanissimo, fu colpito dalla morte. Se la posizione di indipendenza dei contadini rispetto ai borghesi si svilupperà e si consoliderà, se le loro speranze non andranno deluse, ciò dipenderà, in gran parte, dall’Europa. (inedito, 1957) 40 Un modello di sviluppo per la Basilicata di Rocco Mazzarone S i ritiene, quale base di elaborazione del modello, indispensabile tenere presente i seguenti punti: a) necessità di preservare gli insediamenti umani nella loro unità sociale e fisica; b) le iniziative industriali devono presentare flessibilità di dimensione e ubicazione; c) tutela dell’ambiente. In base a tali esigenze una struttura costituita da una rete di medie e piccole industrie operante in settori di una tecnologia a medio o alto valore aggiunto e opportunamente diversificata appare un primo modello suscettibile di studio. Ciò comporta la esclusione dei grandi insediamenti industriali operanti per lo più in settori di base, sia per le difficoltà ambientali di ubicazione (necessità di ampi spazi, vicinanza al mare, porti eccetera) sia anche per l’azione di richiamo che essi susciterebbero con il conseguente svuotamento degli attuali insediamenti di modeste dimensioni. A titolo di esempio settori come quello interessante la produzione di leghe e acciai speciali (a completamento della produzione metallurgica di massa del centro di Taranto), oppure settore delle fibre sintetiche (in collegamento con le attività dell’Anic) o settori interessanti prodotti farmaceutici convenzionali, prodotti minerari particolari, eccetera. Il modello di sviluppo tecnologico potrebbe interessare il 30% della popolazione nell’arco di dieci anni con un impegno annuale programmato di circa tremila unità. Vi è da rilevare che il costo per insediamenti interessanti una produzione del tipo immaginato è inferiore di un ordine di circa un fattore 5 di quello richiesto per l’industria di base (acciaierie, raffinerie eccetera). Naturalmente tale programma dovrebbe essere accompagnato da un parallelo sforzo nella istruzione superiore e qualificazione tecnologica della comunità lucana. Vale a dire occorrerà dare priorità e impulso alle facoltà scientifiche cercando di caratterizzarle nei settori di tecnologia più vicini alle scelte degli indirizzi industriali del modello elaborato. Inoltre occorrerà promuovere l’istituzione di centri di ricerca del Cnr sulla base di una equa distribuzione nazionale, finalizzandone l’attività ai settori effettivamente operanti o possibili di insediamento nella regione lucana. U n m od e l l o d i s v i l u p p o p e r l a B as i l i c at a 41 Le scelte di indirizzi di attività industriale dovranno essere suggerite, oltre che dalle reali possibilità offerte dalla regione, dalla necessità di concorrere a sanare alcune carenze rilevabili a livello nazionale. In particolare l’analisi del forte deficit della bilancia tecnologica dei pagamenti che lamenta il nostro paese, può costituire un punto di riferimento per la scelta dei settori operativi anche nella nostra regione. Un altro spunto di interesse potrebbe riguardare la proposta a livello europeo di sperimentazione di un tale modello (che naturalmente dovrebbe accogliere anche critiche e suggerimenti da parte delle sedi comunitarie qualificate) che interessa una comunità assai rappresentativa della situazione in aree arretrate della Comunità europea. Peraltro l’indicazione di industrie piccole e medie operanti nel settore di una qualificata tecnologia è una scelta che trova riscontro nella realizzazione di analogo modello, a livelli invero molto avanzati, in regioni come la Svizzera, la Baviera, l’alto Tirolo con situazioni (inedito) ambientali che ricordano le nostre regioni. 42 Carlo Levi, un amico di Rocco Mazzarone M i trovo a moderare quest’incontro in forza di un’amicizia. Raccontarla equivale a una sorta di confessione pubblica, non inutile, spero, ai lavori della tavola rotonda. Un’amicizia che non affonda le radici nell’infanzia e nell’adolescenza può nascere, in persone che sono naturalmente disposte ad accettarsi, perché sono legate da interessi comuni, perché si somigliano culturalmente, perché inseguono gli stessi ideali. Carlo Levi si presenta da solo nei messaggi affidati alla sua produzione letteraria e pittorica; non conoscono invece me. In realtà, la mia vita e le sue tappe non sono molto diverse da quelle di molti miei coetanei. Attraverso la mia testimonianza, quindi, gli organizzatori devono aver inteso fermarsi non certo sulla singolarità di un’amicizia, ma sulla maniera di porsi di un rapporto tra un meridionale di media cultura – come io sono – e un uomo di cultura europea, per giunta geniale, di radici ed esperienze diverse dalle mie. Come è naturale, commetterò qualche peccato di omissione, di cui comunque mi ritengo fin da ora perdonato, e cercherò di non indulgere nella facile aneddotica. Sono medico, laureato più di mezzo secolo fa, a Napoli, in nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia e Imperatore d’Etiopia, quando Carlo Levi aveva oramai lasciato Aliano. Ma, a differenza di lui, non mi ero mai fermato a riflettere sulle condizioni delle nostre popolazioni, io, nato e vissuto nel Mezzogiorno; forse perché avevo trascorso l’infanzia e l’adolescenza con compagni figli di contadini e li avevo naturalmente considerati miei pari, come essi consideravano me; forse anche per la mancanza di informazioni che mi permettessero di spingere lo sguardo oltre gli orizzonti consentiti dal fascismo. In realtà la mia perspicacia doveva essere veramente scarsa se, preso da altri interessi, pur sollecitato da familiari e amici a guardare il fascismo con occhio critico, non andavo oltre l’indifferenza o, come nel corso della guerra d’Africa, la diffidenza e l’insofferenza: l’Inghilterra – dicevo – chiuderà con una barcaccia il canale di Suez, e faccetta nera non sarà italiana. Ma dovetti subito convincermi che la mia povera logica non coincideva con quella della Storia: presto, infatti, fui costretto a salutare anch’io l’Impero che sorgeva “sui colli fatali di Roma”. Al rifiuto del fascismo fui infine tacitamente convinto da Piero Fornara, il grande pediatra novarese, mio compianto maestro. Il mio rifiuto, tuttavia, si conservò, negli anni successiCa r l o L e v i , u n a mi c o 43 vi, inespresso, dissimulato in silenzi poco coraggiosi o, peggio, in ipocriti sorrisi compiacenti. Poi venne la guerra, e la prigionia trascorsa in Egitto in un grande ospedale fianco a fianco con medici e infermieri inglesi, e quindi la scoperta della democrazia, il ritorno in Italia, la caduta del fascismo, l’incontro con i “fuorusciti”: si tratta, come si vede, di esperienze simili a quelle di molti miei coetanei. Dagli scenari planetari cui la tragedia della guerra mi aveva abituato, mi calò nei problemi del Mezzogiorno la lettura di Fontamara, nella sua prima povera disadorna edizione italiana. Ne fui sconvolto. Alcuni mesi più tardi – era il Natale del 1945 – amici torinesi mi offrirono il Cristo si è fermato a Eboli. Lo lessi d’un fiato. Dico subito che non mi attrassero, di questo libro, le pagine folkloriche, inutili digressioni – mi sembrarono – nell’economia del racconto. Fui invece colpito dalla somiglianza di facce a me ben note con “le facce ottuse, maligne e avidamente soddisfatte” dei signori di cui Carlo Levi aveva fatto la conoscenza sulla piazza di Aliano. “Le loro passioni – leggevo nelle prime pagine del libro – avevano l’urgenza e la miseria del bisogno quotidiano del cibo e del denaro, si rivestivano, senza nascondersi, del formalismo dei galantuomini”. “I signori erano tutti iscritti al Partito, anche quei pochi che la pensavano diversamente, perché il Partito era il Governo, era lo Stato, era il Potere, ed essi, naturalmente, si sentivano partecipi di questo Potere. Nessuno dei contadini, per la ragione opposta, era iscritto”. Proprio come al mio paese. Lo Stato, dai contadini di Aliano, era considerato alla stessa stregua delle frane, della siccità, della malaria: “sono dei mali inevitabili” dicevano, “ci sono sempre stati, e ci saranno sempre”. E l’autore del libro concludeva: “la sola possibile difesa contro lo Stato e la propaganda era la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione senza speranza, che curvava le loro schiene sotto i mali della natura”. Come non accettare le verità contenute in quelle pagine? e che fare per strapparli dalla loro rassegnazione? Il problema, secondo l’autore del libro, presentava diversi aspetti. Il primo derivava dalla coesistenza di “due civiltà diversissime, nessuna delle quali in grado di assimilare l’altra. Campagna e città, civiltà precristiana e civiltà non più cristiana”. L’altro aspetto era quello economico, il problema della miseria. Infine c’era il lato sociale. “Si usa dire – scriveva – che il grande nemico è il latifondo, il grande proprietario; e certamente, là dove il latifondo esiste, esso è tutt’altro che una istituzione benefica. Ma se il grande proprietario che sta a Napoli, a Roma o a Palermo è un nemico dei contadini, non è tuttavia il maggiore né il più gravoso. Egli almeno è lontano, e non pesa quotidianamente sulla vita di tutti. Il vero nemico, quello che impedisce ogni libertà ed ogni possibilità di esistenza civile ai contadini è la piccola borghesia dei paesi. È una classe degenerata, fisicamente e moralmente: incapace di adempiere la sua funzione e che solo vive di piccole rapine e della tradizione imbastardita di un diritto feudale. Finché questa classe non sarà soppressa e sostituita non si potrà pensare di risolvere il problema meridionale”. Posto in questi termini il problema meridionale, Carlo Levi non nascondeva il timore che, in un paese come il nostro, “le nuove istituzioni avrebbero perpetuato, sotto nuovi nomi e nuove bandiere, l’eterno fascismo italiano”. 44 Secondo lui, “per uscire dal giro vizioso di fascismo e antifascismo”, bisognava rifondare lo Stato come “insieme di infinite autonomie, una organica federazione”, in cui, accanto alla “autonomia del comune rurale” avrebbe dovuto esistere “l’autonomia delle fabbriche, delle scuole, delle città, di tutte le forme della vita sociale”. E, a conclusione del disegno riformatore: “il problema meridionale non si risolve dentro lo Stato attuale e con le sole forze del Mezzogiorno: ché, in questo caso, avremmo una guerra civile, un nuovo atroce brigantaggio che finirebbe al solito, con la sconfitta contadina e il disastro generale; ma soltanto con l’opera di tutta l’Italia, e il suo radicale rinnovamento”. Purtroppo, nei mesi in cui Carlo Levi, a Firenze – dal dicembre 1943 al luglio 1944 –, scriveva quelle pagine, l’Italia era divisa in due e, grazie agli inglesi – “interessati a conservare e restaurare e non a riformare” – e ai partiti – riluttanti a disobbedire agli alleati, russi compresi –, le deboli forze della democrazia erano state di fatto messe a tacere nel Mezzogiorno. La proposta leviana non poteva quindi tradursi oramai in progetto politico, ancora una volta l’orologio della Storia aveva segnato tempi diversi nel Nord e nel Sud, l’occasione storica era mancata. Sarebbe stato – pensavo – interessante avvicinare l’autore di questo libro rivelatore. Ero quindi disposto a diventargli, se mi avesse accettato, amico quando giunse al mio paese, nella primavera del 1946, candidato alla Costituente. Mi presentai come “medicaciucci e nipote di don Traiella”. Con un sorriso che mi sembrò tradire un certo imbarazzo stava per precisarmi che “in realtà non intendeva offendere”, quando Michele Cifarelli, interrompendolo, gli disse di non darmi retta, ché celiavo. Mi sorrise divertito. Così ebbe inizio la nostra amicizia. Probabilmente – ci ho pensato dopo – quella mia presentazione nascondeva un certo inconscio disappunto misto al fondato timore di diventare anch’io, negli anni, un “medicaciucci”, e un senso di solidarietà e comprensione – che sapevo del resto condiviso da Carlo Levi – per don Traiella, anch’egli confinato in partibus infidelium. Con me, quel giorno, c’era anche Rocco Scotellaro, c’erano altri, c’era Leonardo Sacco che lo accompagnava negli itinerari elettorali, c’era anche Mario Trufelli. Mario, meno che ventenne, era uno dei maggiori attori – si esercitava in comizi a favore della repubblica – sul palcoscenico che era la piazza del nostro paese, brulicante – allora – di anime vive. Quello che accadde quel giorno e nei giorni successivi può raccontarlo Mario con colori più vivaci di quelli in mio possesso: il libro passava di mano in mano, pochissimi l’avevano letto, e alcuni di questi sostenevano che il suo autore ci denigrava, in piazza c’era il “popolo” che giurava sul giudizio di questi ultimi e il “popolo” che sosteneva il giudizio degli altri, per i quali Carlo Levi era invece un nostro sicuro amico. E tuttavia, anche tra quelli disposti ad accettarlo, alcuni mi chiedevano se li amasse poi davvero i contadini. Sì, li amava: se lo lascia sfuggire, quasi con pudicizia, in una delle ultime pagine del libro: “mi avevano preparato i cibi migliori, il latte e il formaggio fresco, e mi offrivano appena arrivato, con quella non servile ospitalità antica, che mette gli uomini alla pari: amavo quei contadini”. Nei mesi successivi a quel primo incontro, l’amicizia tra Rocco e Carlo si scopre, “per l’amore della somiglianza”, sempre più intima e calda; la nostra, nata e alimentata da una Ca r l o L e v i , u n a mi c o 45 certa comunanza di convinzioni sui problemi cruciali del Mezzogiorno, si consolida anche per la presenza di Rocco nella vita di entrambi. Nei miei brevi trasferimenti romani, oggetto degli incontri con Carlo era infatti, oltre alla Lucania, il confronto sul talento di Rocco, sul suo impegno nell’amministrazione del Comune, sulle sue scelte politiche. Rocco aveva aderito al Fronte popolare e Carlo era contro e io ero d’accordo con Carlo; non lo ero invece quando contestava a Rocco la decisione di trasferirsi a Portici per consolidarvi, alla Scuola di Manlio Rossi-Doria, la sua cultura e cimentarsi in esperienze impegnative purtroppo interrotte dalla morte prematura. Coinvolto nelle nostre cose, è presente in tutte le vicende, anche le più drammatiche, che si susseguono nel Mezzogiorno. Interessato a conoscere in particolare gli avvenimenti lucani ne sollecita i resoconti agli amici che lo frequentano. I miei resoconti su quanto accadeva – o non accadeva – in Lucania, a differenza di quelli di Rocco, coloriti ed estrosi, dovevano apparirgli, proprio perché confortati da dati, opachi e ragioniereschi. Carlo, infatti, non gradiva “la identificazione delle situazioni col dato”. Polemicamente, perciò, gli dedicai come “ragionieresca” una mia nota, in cui necessariamente erano riportati dei dati sulle condizioni igieniche dei Sassi. Ne fu divertito per la mia “fuga nell’oggettività”. Per decongestionare i vecchi rioni materani, non lontano da essi si costruisce, nei primi anni cinquanta, La Martella. Al suo occhio non sfuggono le contraddizioni di questo intervento, che poteva essere esemplare e per certi versi lo era. Rocco gli aveva raccontato di questo villaggio e delle “riunioni contadine, con le discussioni sulle vacche e sui muli, discussioni interminabili e serie sui problemi veri”. Carlo visita La Martella – Rocco non c’era più – e trova le case del nuovo villaggio “costruite con lo schema contadino degli architetti” (gli dissi che gli architetti non potevano progettare meglio, che anzi avevano discusso con i contadini i progetti e apportato le modifiche da essi richieste); trova le stalle “splendide di pulizia e di ordine” e, in mezzo a una di esse, una vacca “che ruminava, oziosa e altera come una regina”. Il contadino gli spiegò che “gli costava assai cara, non soltanto perché gli era stata addebitata dall’Ente Riforma che gliela aveva forzosamente assegnata, ma perché doveva mantenerla, comprare il foraggio, nutrirla, e non poteva servirsene”. Era una vacca da lavoro e non poteva farla camminare – le terre assegnate erano a quattro ore di distanza – e poi lavorare. Il contadino l’aveva chiamata Bellavita, perché era la sola persona che facesse la bella vita in quel villaggio. Ironica, la sua maniera di denunciare poteva sembrare a volte ingenerosa, era comunque sempre rivelatrice di disfunzioni. Così, quando si rende conto che il risanamento dei Sassi continua a operarsi al di fuori di essi interviene, nelle sedi più diverse, al Senato, perché siano conservati e restituiti a Matera, “città bellissima”. Nella sua ultima visita in Lucania gli fecero, finalmente, festa, ad Aliano e altrove e a Matera. Notò la mia assenza. Luigi Guerricchio gli disse che andavo dicendo che in questo secondo dopoguerra le cose più importanti accadute in Lucania erano due: la pubblicazione del Cristo si è fermato a Eboli e lo spargimento del Ddt. Egli sapeva bene cosa era la malaria, “una vera maledizione”, e il Ddt l’aveva sconfitta. Molte cose sono cambiate. I contadini se ne sono andati; non si sono dati questa volta al brigantaggio; sono emigrati; sono andati a costruire altrove la loro esistenza, finalmente 46 liberati dalla “cupa disperazione”, ma a costo di enormi sacrifici umani (Carlo ne aveva compreso il dramma); l’agricoltura, liberata dalle forze di lavoro esuberanti, è cambiata grazie alla introduzione di tecnologie che hanno alleggerito la fatica dei contadini: la terra, per essi, non è più, come era prima, bassa; il livello di vita delle nostre popolazioni è notevolmente migliorato, e con esso sono aumentati i consumi. Ma non sono scomparse le disfunzioni. I numerosi interventi – ordinari e straordinari – hanno mancato di articolarsi in un organico progetto di sviluppo. Si sperava che questo sarebbe stato innescato dalle regioni, ma, di fatto, finora al centralismo statale si è affiancato quello regionale, i cui poteri sono amministrati attraverso numerosi organismi intermedi e le relative affollate burocrazie. Nel 1913, Gaetano Salvemini esprimeva la speranza che “un funzionario coraggioso” scrivesse “la storia della carriera politica e burocratica dei protettori e dei protetti, illustrandola coi rapporti di parentela, di amicizia e di clientela affaristica fra i gros bonnets della politica e della burocrazia e i parassiti minori, nel cui interesse vengono creati via via i posti di lavoro”. Ma la speranza riposta da Gaetano Salvemini nell’improbabile “funzionario coraggioso”, è andata finora delusa. In compenso pochi oramai dubitano che nelle burocrazie – comprese ovviamente quelle dei partiti – e ai loro margini, in un contesto diverso da quello dell’avventura leviana, “sotto nuovi nomi e nuove bandiere”, operano i piccoli e meno piccoli mediatori del potere, subdoli e, all’occorrenza, arroganti, attivi come prima, corrotti e corruttori, come i loro protettori, “i veri nemici” li aveva definiti Carlo Levi, perché costituiscono l’anello funzionale all’uso perverso del potere. Fino a quando il Mezzogiorno non si libererà di loro – prodotto e rivelatori delle secolari disfunzioni della società meridionale –, fino a quando cioè gli elettori continueranno ad accettarli, le regole della democrazia non potranno essere correttamente esercitate, la partecipazione popolare continuerà a esaurirsi nei riti periodici dei comizi elettorali, il progetto delle autonomie locali rimarrà confinato nell’utopia leviana. Fortunatamente confinato, almeno per ora. Perché, con l’attribuzione di più ampie funzioni deliberative ed esecutive alle regioni e agli organismi cosiddetti intermedi, nelle società “familistiche” come le nostre, non si va dimostrando infondato il pericolo paventato, fin dal 1896, da Giustino Fortunato, quello cioè “di veder crescere l’infeudamento e il prepotere delle consorterie locali, e il loro non equo ed anche iniquo procedere in tutte le manifestazioni della vita amministrativa”. La strada della democrazia è difficile, passa attraverso un lungo e faticoso processo educativo. Non si può dire che non sia incominciato. Ma gli ostacoli, intelligentemente camuffati, ne contrastano lo sviluppo. Le divagazioni sulle condizioni attuali del Mezzogiorno, cui mi sono lasciato andare, sono sicuro che egli le avrebbe largamente condivise. (Questo testo è apparso per la prima volta nel volume Il germoglio sotto la scorza. Carlo Levi vent’anni dopo, a cura di Franco Vitelli, Avagliano Editore 1998.) Ca r l o L e v i , u n a mi c o 47 LO STRANIERO è una rivista mensile nata a Roma nel 1997, diretta da Goffredo Fofi con un nutrito gruppo di collaboratori. Si occupa di arte cultura scienza società. Ha privilegiato e continuerà a privilegiare settori fondamentali per il nostro agire: movimenti e istituzioni, pubblico e privato, centri e periferie, maggioranze e minoranze, civiltà e natura, Italia e mondo, vecchio e nuovo, paure e speranze dell’umanità. La globalizzazione, la pace, l’immigrazione, l’educazione e l’espressione artistica – teatro, fotografia, fumetto e arti visive, letteratura, cinema… Nelle migliori librerie un numero 7,00 euro Abbonamento a dodici numeri: 60,00 euro per l’estero: 120,00 euro sostenitore: a partire da 120,00 euro numeri arretrati: 14,00 euro Versamenti on-line www.contrasto.it conto corrente postale n° 47440029, intestato a: Contrasto Due srl, via degli Scialoia 3, 00196 Roma Spedizione in abbonamento postale Redazione via degli Scialoia, 3 - 00196 Roma tel: 06-36002516; fax: 06-32828240 e-mail: [email protected] www.lostraniero.net