Etiopia - TOAssociati
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SALE NERO LA VIA DEL SALE DI AHMED ELA di Stefano Pensotti Un tempo feroci guerrieri, oggi gli ultimi Afar sopravvivono estraendo il sale di un mare fossile in uno dei luoghi più torridi e ostili del pianeta. Nel 1974 il paleoantropologo americano Donald Johanson, in Etiopia per delle ricerche, rinviene nei pressi di Semerà, nell’estremo nord-est del paese, i resti fossili di un ominide mai visto prima, un adulto di sesso femminile, che viene battezzata Lucy: pare infatti che mentre i resti fossili venivano alla luce l’equipe di Johanson stesse ascoltando la canzone “Lucy in the Sky with Diamonds” dei Beatles. Questa scoperta rivoluzionò le teorie dell’epoca sull’evoluzione dell’uomo. Lucy, un ominide del genere Australopithecus, morì sulle rive di una vasta palude almeno 3 milioni di anni fa, in quella che è oggi la depressione Afar, nel deserto infernale della Dancalia. Molto probabilmente 200.000 anni fa i pronipoti di Lucy partirono proprio da queste terre, diventate nel frattempo sempre più aride, per andare a disperdersi nel resto del mondo. Della depressione Dancalia, uno dei luoghi più inospitali della terra, diviso dalle frontiere di Etiopia, Eritrea e Gibuti, fino al 1928 si conosceva ben poco. Le scarne notizie arrivavano dai vaghi racconti di qualche mercante che si era spinto in quei luoghi, a cui la sorte benevola aveva concesso di ritornare. Le loro storie descrivevano una regione arida e torrida, abitata da bellicose tribù nomadi, gli Afar, tanto poveri quanto feroci. Due spedizioni italiane, quella di Giulietti e Biglieri nel 1881 e quella di Bianchi nel 1884, avevano tentato di attraversare quelle terre sconosciute, ma furono entrambe massacrate, dopo pochi giorni dalla loro partenza, dai bellicosi guerrieri Afar. Di quelle spedizioni, nessuna relazione, nessun diario era giunto in patria, se non la certezza della loro tragica fine. Da allora, fino al 1928, nessuno si inoltrò più nella Dancalia, che rimase così uno degli ultimi spazi vuoti sulle carte geografiche dell’Abissinia. La Dancalia venne raccontata per la prima volta nel 1935 da un italiano di origine inglese, Ludovico Nesbitt, nel libro “La Dancalia inesplorata” (Bemporad Edizioni), in cui riporta la relazione della sua spedizione del 1928. Un testo a suo modo interessante, che tra avventure alla “Indiana Jones” e note di carattere geologico ed etnografico, racconta di un immenso deserto di sale, dove in estate si raggiungono temperature di 50° C. Racconta degli Afar, popolazione orgogliosa, dura e pericolosa. Racconta la marcia durata 106 giorni nel vuoto del deserto dancalo, in un calvario di 1.300 chilometri tra sabbie ardenti e rocce vulcaniche dove non piove praticamente mai. E racconta dei drammi della spedizione: uomini uccisi negli scontri con gli Afar, altri impazziti per il caldo e per l’orrore, per la sete e la stanchezza. Nesbit ed i pochi superstiti riuscirono ad arrivare sul Mar Rosso. La spedizione porterà comunque ai sopravvissuti fama e successo, per aver domato il “mostro” Dancalia. Ancora oggi, dopo tanti anni, dopo la fine della guerra tra Etiopia ed Eritrea, che dal 1998 ha infiammato la regione provocando 80.000 morti, la Dancalia rimane uno dei luoghi più inaccessibili e inospitali della Terra, una possibile ambientazione metafisica per una grande saga gotica sullo stile del “Signore degli anelli”, una terra di Mordor, dove ancora regnano il nulla ed il mistero assoluto. La depressione di Afar è una fossa tettonica che sprofonda sotto il livello del mare e presenta il punto più basso dell'Africa, ad una altezza di -155 metri slm. Qui si registrano le temperature più alte della terra, con valori medi di 34°C e punte di oltre 50°. Dal punto di vista geologico, la Dancalia è una giunzione tripla, cioè il punto di incontro di tre placche tettoniche in continua espansione, che hanno formato il mar Rosso e il golfo di Aden, e che nel triangolo di Afar emergono in superficie. La Great Rift Valley, che si estende per 6.500 chilometri, dal nord della Siria arriva fino al triangolo Afar e da qui prosegue fino al Mozambico. L'unico altro luogo al mondo dove una dorsale oceanica può essere studiata in superficie si trova in Islanda. Oggi la piana di Afar si sta lentamente allargando, ad una velocità di 1-2 cm l'anno. In poco più di 200 km si trovano dieci vulcani, allineati lungo la fossa tettonica. Il più conosciuto è l’Erta Ale, un vulcano a scudo alto 500 metri, con un diametro di base di 30 km. Nella sua vasta caldera ci sono due crateri. Il maggiore (400 mt. Di diametro) nella parte settentrionale, è inattivo e interessato dalla presenza di numerose fumarole. Uno spettacolare lago di lava attivo si trova invece nell'altro cratere, più centrale e più piccolo (100 mt. di diametro): è uno dei quattro vulcani della terra con lago di lava perenne nel cratere. Un altro fenomeno geologico di questa regione è la progressiva riduzione di spessore della crosta continentale, oggi ad un valore di circa la metà rispetto alla media, provocata della spinta del magma, che è causa anche dei frequenti fenomeni tellurici. Lo scenario che si prospetta è che la somma dei diversi fenomeni geologici in atto, trasformerà la depressione di Afar, in un periodo di circa un milione di anni, in un nuovo oceano. La depressione della Dancalia è scossa, oltre che dai fenomeni geologici, anche dalle tensioni dall’instabile frontiera tra Eritrea ed Etiopia. Ancora oggi le due nazioni si contendono questo deserto di sale e lava. Adividere gli eserciti c’è solo una sottile striscia di terra di nessuno, presidiata dai caschi blu delle Nazioni Unite. Periodicamente, gruppi di militari sbandati dell’esercito eritreo e guerriglieri del Movimento separatista Afar, che negli anni ’90 avevano lottato con le armi per l’indipendenza dei loro territori, compiono incursioni nel nulla della Dancalia. Nel 1995, nove viaggiatori italiani vennero sequestrati, e poi rilasciati, dai guerriglieri separatisti. Più recentemente, nel febbraio del 2007, tre inglesi e un’italiana, insieme ad otto guide etiopiche, vengono sequestrati da un gruppo di uomini armati: gli occidentali saranno poi liberati in Eritrea. L’ultimo e più grave incidente risale all’aprile del 2009, quando l’esplosione di una mina, nei pressi del vulcano Erta Ale, ha causato la morte di un turista tedesco. La Dancalia ha una brutta fama e un paesaggio da fantascienza. Viaggiatori, scrittori, avventurieri, hanno sempre descritto questa terra come inospitale e pericolosa. Così come il popolo che la abita, gli Afar, “pronti a castrare od ammazzare ogni estraneo in cui si imbattono” come scriveva nei suoi diari Ludovico Nesbitt. Forse, più realisticamente, il carattere brusco e bellicoso degli Afar rispecchia semplicemente l’ambiente estremo in cui vivono, è il loro modo di resistere in una terra così difficile e ostile, per gli uomini e per gli animali. Di sicuro basta guardarli mentre si baciano le mani nel lungo rituale del saluto per iniziare a capire qualcosa di più della loro bellezza. Oggi gli Afar sono poco più di 1,3 milioni di individui. Etnia seminomade di origine cuscitica, da sempre musulmani, vivono di allevamento spostandosi secondo i ritmi dei loro animali, alla costante ricerca di nuovi pascoli, in un ambiente che presenta difficoltà estreme, scarsa vegetazione e pochissimi pozzi d’acqua. Quando le greggi necessitano di un nuovo pascolo, smontano l’accampamento di “burre”, piccoli rifugi a cupola fatti di legni ricurvi e stuoie, caricano i dromedari e partono con le loro poche cose. I capofamiglia in testa, avvolti nei sarong di cotone grezzo, alla guida del gruppo. Fieri, con l’immancabile Jile, un coltellaccio ricurvo, legato ai fianchi e, se possono permetterselo, un kalashnikov in spalla. L’Etiopia, dal 1995, riconosce l’autonomia dei territori Afar, e nella cittadina araba di Asaita, antica sede di un sultanato, ha sede il centro amministrativo della regione. Gli organici di Polizia e il personale amministrativo qui è tutto Afar, con il chiaro intento di combattere le idee del Movimento separatista. Lontani da Asaita, tuttavia, si scopre presto che l’attraversamento della Dancalia è regolato dai vari “capi locali” più che dai permessi della Polizia Afar. Soltanto pagando i tanti pedaggi imposti si può procedere con rapidità e in relativa sicurezza. Dai tempi di Nesbitt il rapporto con gli “esterni”, con i non Afar, è naturalmente cambiato. Il popolo del deserto ha capito che non è possibile impedire l’ingresso dei visitatori nel loro territorio e si sono organizzati per gestire questo piccolo flusso, poche centinaia di persone, che è alla base di una piccola economia per i villaggi locali. Tutto si paga al capo villaggio che più o meno impone ospitalità, protezione e guide locali per i rari turisti che si spingono da queste parti. Un’altra voce importante nella povera economia degli Afar è l’estrazione del sale, che in Dancalia si effettua sulle sponde del Lago Afdera, con tecniche quasi moderne, e ad Ahmed Ela, dove i metodi di lavorazione del sale nella cava a cielo aperto sono rimasti immutati, fedeli alla tradizione che qui si perde nei tempi. Una sorta di rituale che coinvolge gli Afar musulmani e i cammellieri cristiano ortodossi, che dall’altopiano del Tigray arrivano qui per caricare il sale. Da millenni il sale Afar arriva nei mercati dell’altopiano etiopico dove viene pagato 3 Bir per chilogrammo (1 Euro: 22 Bir). Ogni giorno, migliaia di dromedari, di muli, di asini, fra l’autunno e la tarda primavera, trasportano 300 tonnellate di sale fino ad Agula, Wukro, Makallé, Hawzien, dove il prezioso carico verrà venduto. In quattro giorni di viaggio, da Makalle i commercianti del Tigray scendono in Dancalia, lungo le piste settentrionali delle carovane del sale. Dai 2.000 metri dell’altopiano etiopico si scende in poco più di 170 chilometri alla piana del Sale, un deserto accecante dove in un remoto passato si sono verificate periodiche inondazioni del Mar Rosso, che depositando strati di sale in fasi successive ne ha creato uno spessore di circa mille metri. Questo mare fossile, che oggi permette la vita di migliaia di famiglie, in un lontano futuro tornerà probabilmente a vivere, con il progressivo aprirsi delle faglie tettoniche e la formazione di un nuovo braccio di mare che separerà l’Africa orientale dal resto del continente. Le carovane di dromedari che arrivano alla piana del sale si fermano al villaggio di Ahmed Ela, “il pozzo di Ahmed”, a quattro chilometri della cava. Qui passano l’ultima notte prima di incontrare la squadra di lavoratori che fornirà il sale del nuovo carico. Ahmed Ela, in effetti, ricorda molto vagamente un villaggio, perso com’è nei pressi del letto riarso del Saba, un fiume temporaneo che con l’acqua delle piogge che cadono annualmente sull’altopiano scava da millenni i meandri del canyon che le carovane seguono per arrivare alla piana. Sono poche decine di baracche, alzate alla meno peggio con rami sconnessi, che non offrono nessun riparo al sole e ai venti. Una baracca più grande funge da bar, e a volte ha delle bibite tiepide da offrire ai lavoratori e ai rari passanti. Un piccolo edificio di fango è invece il locale dove si pagano le tasse per accedere alla cava del sale. Il villaggio, così come si presenta oggi, è sorto circa 20 anni fa, costruito dai ribelli zigrini che combattevano il potere di Menghistu. Oggi ospita i lavoratori del sale, qualche combattente e una postazione militare dell’esercito etiope, attori in una guerra finita solo a parole, e che continua strisciante per il controllo di una fetta di deserto conteso dai politici che siedono ad Asmara e ad Addis Abeba. I lavoratori della cava, tigrini e afar, con la piccola comunità che ruota attorno a loro, sono in tutto circa 500 persone, tra donne, uomini e bambini, che vivono qui per 8 mesi all’anno. Il loro è un lavoro elementare ma scandito da una precisa organizzazione. I lavoratori tigrini cristiano ortodossi, originari dell’altopiano, hanno il compito di rompere la crosta del sale. Lavorano in piccoli gruppi di due o tre uomini, scrutando il fondale dell’antico mare alla ricerca delle fratture che permettano loro di sollevare, con lunghe pertiche, le spesse lastre di sale. Ai mussulmani Afar è riservato invece il compito di lavorare i lastroni per ricavarne i ganfur, le mattonelle di sale che vengono realizzate in tre diverse dimensioni, dai 3 ai 6 kg. Sono abili e precisi, dall’alba al tramonto, accucciati sul sale sotto un sole crudele, ripetono la stessa scultura: precise mattonelle di duro sale levigato. Lavorano con una strana piccozza dal manico ricurvo, il gadmo, e realizzano i ganfur nel numero e nelle dimensioni che sono state commissionate loro dai carovanieri. Poi, è compito dei cammellieri sistemare i ganfur in perfetto equilibrio sulla gobba dei dromedari, 100 kg per animale. E’ un altro miracolo di questo luogo: questo sorprendente equilibrio sociale tra musulmani e cristiani è un esempio per l’occidente, non ci sono rivalità. Cristiani e musulmani, nella depressione Dancala scossa dai sussulti geologici della terra e dall’insensato confronto militare per una landa sterile, hanno trovato un’intesa attorno a questa preziosa economia. Lavorano e faticano nell’accecante candore di un deserto perfetto, rispettando le festività delle due religioni, il lavoro si ferma per il venerdì musulmano e la domenica dei cristiani; migliaia le famiglie che vivono dell’estrazione e commercializzazione del sale, una straordinaria economia solidale in una terra così difficile. Nessuno dei diversi gruppi di lavoratori che partecipano a questo commercio pensa ad organizzarsi in altro modo, cosa farebbero gli “altri” privati del loro lavoro? Come sopravvivrebbero? Verrebbero alterati preziosi equilibri economici e i risultanti costi sociali sarebbero insopportabili. Per tutti.