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ANNO XI NUMERO 222 - PAG 2
Sondaggidimid-term
Gli elettori americani si preparano
a cambiare, a spese dei
repubblicani, per quattro motivi
isuratelo pure in qualsiasi modo vogliate, ma non c’è dubbio che gli eletM
tori americani siano inquieti e desiderosi
di un cambiamento. L’ultimo sondaggio
THE RIGHT MAN
Gallup (effettuato tra il 7 e il 10 settembre)
ha dimostrato che il 67 per cento degli americani si dichiara generalmente insoddisfatto della situazione del paese. L’indice di
popolarità del presidente Bush continua a
rimanere al di sotto del 40 per cento: nessun presidente nella storia americana ha
mai avuto risultati così negativi nei sondaggi e per così tanto tempo. Al Congresso
va addirittura peggio: soltanto il 29 per cento degli intervistati approva l’attività del
Congresso.
L’economia statunitense continua a crescere, con un ritmo superiore al tre per
cento annuo. Il tasso di disoccupazione è
appena del quattroper cento. In tutto il corso della storia americana, il numero di cittadini proprietari della casa in cui vivono
non è mai stato così alto. Il volume delle
vendite al dettaglio continua a essere elevato. La tipica famiglia americana gode di
una sostanziale prosperità, con un reddito
medio di 60-70 mila dollari all’anno, che arriva fino a 80 mila nel caso di una famiglia
con doppio reddito. Perché lamentarsi allora? In cima alla lista ci sono quattro problemi. Primo, anche se i redditi sono alti,
non crescono con sufficiente rapidità. La
famiglia media oggi non guadagna più di
quanto guadagnava nel 2000. Il principale
responsabile: gli alti costi della sanità. Per
i datori di lavoro i costi sono aumentati significativamente (più del 25 per cento rispetto al 2000). Ma i costi che si devono accollare per l’assistenza sanitaria dei loro
dipendenti sono aumentati ancora più rapidamente. Di conseguenza, ogni centesimo
speso in più dai datori di lavoro è stato inghiottito dalle fauci dell’assistenza sanitaria. Secondo, i costi dell’energia. I prezzi sono saliti alle stelle: non soltanto quelli della benzina, ma anche quelli di metano ed
elettricità. Oggi, quasi un dollaro su dieci
del bilancio di una famiglia media viene
speso per la benzina della macchina e per
il riscaldamento della casa. Terzo, il problema dell’insicurezza. La paura del terrorismo grava pesantemente sugli americani.
Secondo un sondaggio condotto la scorsa
settimana dalla Ipsos-AP, il 43 per cento degli americani pensa che un altro attacco
terroristico sia probabile; quasi il 50 per
cento dichiara che gli attentati dell’11 settembre continuano a influenzare il modo in
cui vive. I telegiornali della sera raccontano agli americani di massacri e sconvolgimenti in Iraq e di minacce lanciate dall’Iran. Il futuro sembra avere da offrire soltanto altre guerre, altra violenza e prima o
poi anche più tasse da pagare. Quarto, come avviene regolarmente durante le Amministrazioni repubblicane, i mass media
hanno costantemente richiamato l’attenzione degli americani sul fatto che in questi ultimi anni qualcuno ha guadagnato
molto più degli altri. Senza dubbio, il divario tra il cinque o l’un per cento dei più ricchi e il resto della popolazione si è approfondito dal 2000 ad oggi. Ma non più di
quanto sia avvenuto durante gli anni Novanta. Soltanto che ora finisce sulle prime
pagine dei giornali! Un quarto degli americani dichiara che considera la crescente
ineguaglianza come uno dei principali problemi sociali del paese.
Qualche buona notizia per il Grand Old Party
Nel 2006 ci sono state comunque alcune
buone notizie per i repubblicani. Il prezzo
della benzina è sceso dopo il Labor Day, e
sembra destinato a scendere ancora. Gli
elettori repubblicani sembrano più uniti e
più determinati di quelli democratici. (Secondo un recente sondaggio, ci sono più repubblicani che democratici che conoscono
il nome del leader democratico nella Camera dei rappresentanti, Nancy Pelosi). Il
senatore repubblicano che corre il maggior rischio di perdere il proprio seggio,
Rick Santorum della Pennsylvania, ha condotto una campagna estremamente brillante. Ma malgrado i democratici non dispongano di un concreto programma politico, per i repubblicani la situazione appare piuttosto cupa, soprattutto per i repubblicani della Camera. I democratici stanno
già ansiosamente aspettando di accaparrarsi tutti i benefici e i vantaggi del potere.
Se soltanto mostrassero la stessa disponibilità e capacità di assumersene anche le
responsabilità!
David Frum
(traduzione di Aldo Piccato)
PICCOLA POSTA
di Adriano Sofri
Sono sempre stato contrario
alla rivendicazione della
“reciprocità” fra i diritti
riconosciuti o “concessi”
ai singoli musulmani e alle
loro associazioni in Italia e in
Europa, e quelli riconosciuti ai cristiani – e ad altre confessioni religiose – nei
paesi a maggioranza musulmana. I nostri diritti esistono in quanto universali,
e non possono essere riservati, e tanto
meno essere utilizzati come merce di
scambio. Si può e si deve bensì protestare contro la loro vergognosa negazione in altri paesi. Ho però una differente
opinione del “dialogo” fra le religioni.
Essendo il dialogo una scelta, certo significativa e impegnativa, non può che
risultare inficiato anche qui, anche
quando avviene e si mostra aperto e rispettoso, dalla sua assenza, se non in caricatura, nei paesi in cui l’islam è maggioranza e controlla il potere. Che non è
una ragione per rifiutarsi al dialogo qui,
ma è una ragione per diffidarne.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MERCOLEDÌ 20 SETTEMBRE 2006
S E N A T O R E D E L L’ A R I Z O N A V S B U S H S U L L A C O N V E N Z I O N E D I G I N E V R A
McCain gioca le sue carte presidenziali, ma corre un rischio
Washington. Sembra una cosa già vista:
John McCain che si smarca da George W.
Bush, cerca l’affondo, punta dritto all’obiettivo e spara. Nessuna ridefinizione della Convenzione di Ginevra sui diritti del
prigioniero, dice. E’ lo stop preventivo a
qualunque mossa del presidente americano che aveva espresso dubbi sull’efficacia
della Convenzione nel pieno della guerra
al terrorismo internazionale. McCain gioca
duro: ha rastrellato il consenso di qualche
altro senatore repubblicano e ha cominciato una campagna personale che sembra
contro la Casa Bianca. Avversario, ma non
del tutto: il senatore dell’Arizona è a caccia di una terza via, una strada di mezzo
tra il presidente e l’ala più liberal del Congresso. Così sorride: “Penso che sia possibile trovare un modo per rendere tutti soddisfatti”. E’ un vecchio pallino di McCain
che, assieme ai colleghi John Warner e
Lindsey Graham, è il firmatario di un progetto di legge che prevede molte più garanzie per gli imputati nei processi. McCain, per esempio, si oppone all’idea che i
detenuti possano essere condannati senza
aver accesso, per motivi di sicurezza nazionale, a tutto il materiale che li incrimina. “Su questo punto siamo in stallo perché stanno cercando di rivoltare completamente 200 anni di storia del diritto pena-
le di questo paese”. Il che non significa affatto, come pensano i democratici più radical, che il senatore dell’Arizona sia contro
la campagna della Casa Bianca contro al
Qaida o contro l’idea di prigioni alla Guantanamo. McCain vuole solo la certezza del
rispetto dei diritti dell’uomo anche nelle
prigioni segrete della Cia. Già l’anno scorso fece approvare una legge antitortura.
Legge che Bush firmò e che di fatto ha appoggiato. E qui il discorso si lega all’articolo tre della Convenzione di Ginevra che tocca proprio il tema della tortura. McCain, un
veterano del Vietnam sopravvissuto per sei
anni nelle prigioni di Hanoi, sull’argomento è piuttosto sensibile. Questa è la sua terza via: sì alla guerra al terrorismo, sì alla
guerra in Iraq, sì a tutti i temi cari all’America sul fronte della sicurezza. Però certezza nei limiti della guerra. Vuol dire che è
molto più vicino a Bush che ai liberal che
non vogliono il Patriot act, che si sono scagliati in un’offensiva legale (contro) sulle
intercettazioni, che chiuderebbero Guantanamo immediatamente.
Il senatore dell’Arizona è in piena campagna presidenziale. E’ il candidato numero uno repubblicano. Sconfitto alle primarie del 2000 da Bush in un confronto durissimo, sarebbe pronto a diventare presidente nel 2008, quando avrà 72 anni. Gran par-
te dell’opinione pubblica si è sempre fidata
di lui: è un uomo senza macchia, un eroe di
guerra, ha la sicurezza nazionale come punto principale della sua piattaforma. E poi le
altre idee sono quelle classiche dei repubblicani, contro l’aborto, l’utilizzo delle cellule staminali embrionali e l’espansione del
sistema sanitario. Piace anche ai democratici, però. Piace sicuramente di più lui a sinistra di qualunque altro candidato democratico a destra. In un recente sondaggio il
senatore ha incassato un gradimento del 55
per cento nell’elettorato del partito dell’Asinello. Supera tre leader democratici come
il Howard Dean (47 per cento), la capogruppo alla Camera bassa del Congresso Nancy
Pelosi (33) e il capogruppo al Senato Harry
Reid (23).
Il Washington Post e i dubbi del partito
McCain sarebbe un candidato ideale,
quindi. Un passato da esibire, un presente
da mostrare con orgoglio, un futuro da potenziale guida. Non deve confermare il seggio al Senato saldo nelle sue mani fino al
2011. Si concentra direttamente sulla corsa
presidenziale ora che altri potenziali candidati alla nomination repubblicana devono
prima vincere conservare il posto al Congresso, come il senatore della Virginia George Allen. L’ex veterano gioca le sue carte. Ri-
schia perché, secondo il Washington Post, la
base repubblicana potrebbe allontanarsi da
McCain perché ritenuto troppo morbido sul
fronte della sicurezza. Ipotesi. William Kristol, del Weekly Standard, sostiene che la
Casa Bianca “non è spaventata dall’iniziativa del senatore dell’Arizona”. E forse l’ultimo litigio con Bush non è arrivato né per caso né all’insaputa dello staff del presidente.
Nel mondo della destra americana una delle ipotesi in circolazione è che la terza via di
McCain è una strada che piace ai repubblicani. In vista delle elezioni di mid-term, Karl
Rove ha chiesto che la Casa Bianca sparisca
dalla corsa, che il partito si giochi le sue carte senza contare sul presidente. Nonostante
la presunta fronda di una parte dei suoi senatori, Bush continua a migliorare nel gradimento degli americani. McCain gioca semplicemente la sua partita in vista del 2008 ed
è difficile che faccia scelte che lo portino
lontano dalla strada maestra: dopo la sconfitta nelle primarie del 2000 ha capito che ha
bisogno dell’intero partito per avere speranze. E’ per questo che nel 2004 spese il suo
nome per sponsorizzare la rielezione di Bush, nonostante fosse amico personale di
John F. Kerry. Soprattutto è per questo che
ha costruito uno staff forte per tentare di arrivare alla Casa Bianca tra due anni. Forte e
molto repubblicano.
I LIBERAL AMERICANI E IL PROBLEMA DELLA FEDE
Anche il democratico Robert Casey vuole più religione nella politica
New York. Dopo Barack Obama, ora anche Robert Casey difende il ruolo decisivo della religione nella politica contemporanea. Obama e Casey non sono due
personaggi minori del mondo liberal
americano, né esponenti qualunque del
Partito democratico. Barack Obama è il
senatore nero dell’Illinois, considerato
dagli intellettuali di area come la nuova
speranza kennedyana del partito democratico. Casey, invece, è il candidato di
centrosinita che a novembre ha più possibilità di strappare un seggio ai repubblicani (ne servono sei per ottenere la
maggioranza), quello dell’iper cattolico
Rick Santorum, oggi junior senator della
Pennsylvania. Entrambi, Obama e Casey,
hanno spiegato alla sinistra americana
che per tornare a essere vicina agli elettori dovrà riuscire a ridurre il gap religioso con i conservatori. Nessuno dei due
propone tattiche o strategie elettorali, entrambi credono davvero che esista un
nesso tra religione e politica.
A fine giugno scorso, Obama aveva pronunciato un importante discorso (pubblicato integralmente su queste colonne) in
cui parlava di fede e di ragione e del diritto di Dio a essere presente nel dibattito
politico. La tesi del laico, liberal e pro-
gressista Obama era molto chiara: “Penso
che sia un errore non riconoscere la forza
della fede nella vita degli americani e non
addentrarsi in un dibattito su come conciliare la fede e la nostra democrazia moderna e pluralistica”. E, continuava il senatore di Chicago, “è un assurdo pratico
dire che uomini e donne non dovrebbero
far confluire la propria morale personale
nei dibattiti pubblici”, perché “il nostro
diritto è per definizione una codifica della morale, basato in larga misura sulla tradizione giudaico-cristiana: se noi progressisti riuscissimo a disfarci dei pregiudizi,
potremmo riconoscere l’esistenza di valori convergenti, condivisi da credenti e laici quando si tratta della direzione morale
e materiale del nostro paese”.
Questo discorso di Obama ha aperto un
gran dibattito dentro il partito, ripreso la
settimana scorsa da Bob Casey, il figlio
dell’ex governatore della Pennsylvania a
cui nel 1992 non fu consentito di parlare
alla Convention del partito in quanto antiabortista. Casey junior è anch’egli antiabortista, ma oggi è il fiore all’occhiello del
partito e sta costringendo il senatore in
carica Rick Santorum alla rincorsa. Santorum è la quintessenza di ciò che l’intellighenzia liberal accampata nelle pagine
degli editoriali dei grandi giornali non
sopporta del partito repubblicano, non
tanto per il suo apologetico sostegno alle
politiche di Bush, ma perché insieme con
il senatore del Kansas Sam Brownback è
considerato, a torto o a ragione, l’alfiere
del movimento che vorrebbe abbattere il
muro di separazione tra stato e chiesa. In
realtà, semmai, è vero il contrario: la grande libertà religiosa americana nasce dal
fatto che i padri fondatori degli Stati Uniti, eredi diretti di chi in Europa aveva subito persecuzioni religiose, si preoccupavano di proteggere la fede da possibili ingerenze dello stato.
La settimana scorsa, Bob Casey junior è
stato invitato a pronunciare l’annuale “Lezione Papa Giovanni XXIII” alla scuola di
legge dell’Università cattolica della Pennsylvania. Casey ha parlato per 45 minuti di
bene comune e del modo per far ritrovare
all’America la bussola morale: “So che cos’è il bene comune grazie alla mia famiglia, ma anche grazie alla mia fede, alla fede in Dio”. Casey si definisce “un democratico a favore della vita”, cioè contrario
all’aborto, perché riconosce che “la vita
comincia col concepimento e finisce quando si esala l’ultimo respiro”. Secondo Casey, il ruolo dello stato deve essere quello
di “proteggere, arricchire e valorizzare la
vita per tutti, in ogni momento, dall’inizio
alla fine”. La proposta di Casey all’America è questa: “Dobbiamo unirci come paese, democratici e repubblicani, dietro l’idea che il bene comune ci obbliga a valorizzare la vita. Per 33 anni, questo problema è stato usato principalmente come un
modo per dividere la gente, anche mentre
il numero degli aborti continua a crescere. Dobbiamo trovare una via migliore”.
Casey ha sottolineato come sia cambiato il
partito democratico dal 1992 a oggi. Allora
a suo padre non è stato permesso di esprimersi contro l’aborto alla convention nazionale che si è tenuta proprio nella sua
Filadelfia, “insultando il più coraggioso
democratico pro-vita del paese, il quale
non chiedeva altro che coloro che credevano nel diritto alla vita avessero diritto
di parola”. Ora, 14 anni dopo, il partito invia la maggioranza dei finanziamenti federali al figlio del governatore che, come
il padre, è un convinto sostenitore della
vita. Non solo. Alla Camera, ha raccontato
Casey, il partito democratico ha appena
presentato un progetto di legge per affrontare “i fattori che spesso conducono le
donne a scegliere l’aborto”.
Christian Rocca
PUBBLICA ISTRUZIONE CONTRO AL QAIDA
La scuola insegni a scrivere e far di conto. Per il resto urge il metodo Cic
i mancava soltanto questo, ma ha provC
veduto Giuseppe Fioroni. Il ministro della Pubblica istruzione ha detto che la scuola deve sconfiggere il terrorismo. Che ci vuole? A quanto pare, i docenti hanno l’obbligo
d’alleviare ogni disagio della società: spiegare ai ragazzi che devono mettersi il casco
e il preservativo, che non è bello eseguire
scippi e accoltellare i parenti, che non bisogna mangiare troppe merendine, guardare
troppa tv, desiderare troppo i videofonini, altrimenti si diventa ciccioni, scemi e consumisti. Poi, certo, si devono amare i coetanei
d’ogni colore e d’ogni fede (anche sportiva),
quindi l’insegnante deplorerà i cori razzisti
negli stadi, insieme con gli episodi di bullismo, l’uso di droghe leggere e/o pesanti, la
disaffezione per la politica e per le Buone
Letture, la frequentazione maniacale di Internet e dei videogiochi, gli ombelichi scoperti, eccetera.
Insomma, se qualche cosa dispiace, stride, minaccia e/o scandalizza, deve provvedere la scuola. Alla quale, adesso, secondo
il ministro Fioroni, si prescrive (addirittura)
di cancellare lo stragismo. Come? Semplice,
“abbattendo paure e pregiudizi”. E’ l’uovo di
Colombo: i professori dicono ai bimbi/ragazzi che è giusto rispettarsi a vicenda e, opplà,
fiorisce la pace universale, all’ombra del ve-
nerato terzetto “tolleranza/solidarietà/dialogo” sul quale, chiacchierando, sono tutti
d’accordo.
A noi sembra che il compito primario dei
docenti dovrebbe consistere nell’insegnare
a leggere, scrivere, far di conto, e nell’impartire le conoscenze ormai (spesso) contestate come odiosi nozionismi. Quando si predica che la scuola ha soprattutto il compito
di “formare” gli alunni, non si considera che
questo nobile programma contiene un rischio: il potere in carica potrebbe servirsi
della pubblica “formazione” per perpetuare la propria egemonia e i propri valori, non
sempre e non necessariamente generosi
quanto quelli di Giuseppe Fioroni.
“Paure e pregiudizi”? Non ci risulta che
nelle scuole italiane (madrasse a parte)
qualcuno coltivi queste tensioni, né che fomenti discordie interreligiose o interetniche. Anzi, ci sembra vero il contrario. Però
non è giusto scaricare sui professori la gigantesca responsabilità di capovolgere istinti e comportamenti che, purtroppo, sono
molto diffusi. Tra gli alunni (perché negarlo?) l’individuazione del capro espiatorio è
frequente e spontanea. Il bimbo/ragazzo “diverso” viene spesso sbeffeggiato e/o emarginato. Perché è troppo grasso, perché è troppo magro, perché è biondo in una classe di
bruni. E anche perché è straniero, ministro
Fioroni. Ha mai sentito parlare della crudeltà? Un ragazzo Down che conosco ha subito angherie dai suoi compagni. Quando le
autorità scolastiche hanno punito i persecutori, i loro genitori si sono presentati in presidenza con gli avvocati, per difendere la libertà dei figli mascalzoni.
Che cosa può, che cosa deve insegnare, la
scuola? I giornali ci raccontano che nei democratici istituti anglosassoni cresce in modo preoccupante il fenomeno degli alunni
che bastonano i professori. Da noi (per ora)
questa minaccia è limitata. In compenso si
vandalizzano e si bruciano parecchi edifici
scolastici. Di chi è la colpa? Della società,
dei partiti, ripetono gli stenterelli. A Napoli, dopo tante accuse contro i governi locali
antichi (dai Borbone ai fascisti, da Lauro alla Dc), oggi s’incomincia ad attribuire la responsabilità della delinquenza giovanile al
potere della sinistra, che da vent’anni guida
la città. Macché. Già nel 1804, un generale
straniero scriveva al suo sovrano: “In ogni
parte del mondo, quando c’è un delitto, la
gente aiuta i gendarmi a catturare i colpevoli. A Napoli, invece, tutti soccorrono i malfattori”. Basta leggere le cronache per accorgersi che niente è cambiato, da duecento
anni. Ancora oggi, nella capitale del sud,
molti cittadini aggrediscono i poliziotti che
vorrebbero arrestare i ladri e gli scippatori.
Si dirà che, ormai, la scuola non funziona,
che i tempi sono cambiati, che adesso c’è il
famoso “lassismo dilagante”. Nemmeno
questo è vero. Nei rigorosi anni Cinquanta,
quando l’insegnamento (così raccontano) era
serio&severo, molti liceali bene educati si
divertivano a sfondare le vetrine e i finestrini delle macchine, di notte. Tre di loro (li conoscevo) uccisero per rapina, eppure frequentavano le migliori scuole (religiose e
laiche) d’Italia. A nessuno di costoro mancava il retto insegnamento dei Valori. Nessuno
era privo delle famose Strutture (le piscine!
le palestre! i centri di aggregazione!), la cui
presunta assenza giustifica, sui giornali, ogni
ribalderia. No, quei miei compagni potevano giocare a tennis e andare al night, senza
problemi. Che c’entra la scuola? Ad Anacapri, nello scorso agosto, abbiamo letto un
cartello di protesta: “Estate 06. Noi giovani
senza un cazzo da fare. Vergogna!”. Vergognatevi voi, ragazzi. Se non vi bastano il mare, lo sport, la bellezza dell’isola, le musiche
e le speranze d’amore, potreste fare una gita in fonderia, tanto per ammazzare la noia.
Oppure ci sarebbe il metodo Cic (Calci In
Culo). Altro che scuola.
Giuliano Zincone
CATTOCOMUNISMO IMPENITENTE
Scrittore di sinistra spiega perché non ama che Fassino citi don Bosco
copro che Piero
Fassino, segretaS
rio dei Ds, già allievo
dei gesuiti, concludendo la festa di Pesaro, ha citato Antonio Gramsci, dirigente e martire comunista, ma anche don Bosco
CONFORMISMI
e don Orione, preti benefattori e istitutori
scolastici. Giusto per segnalare quali saranno i ceppi del Partito democratico. Mettiamo momentaneamente da parte il volto
ombreggiato del fondatore de “L’Ordine
nuovo” e soffermiamoci invece, con rispetto parlando, su quelli degli altri due, don
Bosco e don Orione, gli istitutori, appunto.
Cominciamo dalle suggestioni: cos’è che
fanno venire in mente i loro nomi? Direi,
d’istinto, il cordone delle punizioni di un
noto canto popolare o, gramscianamente
parlando, popolaresco, e poi la luce d’afflizione di certi refettori, ma soprattutto il
già citato cordone destinato agli allievi indisciplinati. Dunque, riassumendo: lampadine da trenta watt, refettori (con sinfonico
odore di verza), tonache, lavagne, esercizi
spirituali, campetti di pallone (già, davve-
ro molto pallone), capelli tagliati corti sopra la nuca, e molte altre cose che stanno
nelle tavole sinottiche del catechismo che
il magistrale illustratore Giovan Battista
Conti ha sadicamente compilato negli anni
Trenta.
Ora, siccome quando si parla di cose pie
e insieme profonde occorre precisione,
non resta che avvalersi dell’aiuto dell’amico che proprio sotto il busto di don Bosco
ha patito numerosi quadrimestri. Matteo
Di Gesù, professore di Letteratura italiana
all’Università di Palermo mi suggerisce infatti così: “Don Bosco ha speso la propria
vita per i poveri e per i giovani. Ciò non toglie che fosse, politicamente, un reazionario. Operava in una Torino in piena modernizzazione industriale, la quale produceva nuove, terribili povertà urbane: la sua
fu una solidarietà attiva verso i salariati indigenti e il nascente lumpenproletariat,
ma né la sua azione, tantomeno il suo pensiero implicavano (e ancor meno sostenevano) una trasformazione della società; era
piuttosto terrorizzato dal movimento socialista: la sua avversione alla modernità e
al ‘modernismo’, era appunto, in senso
stretto, conservatrice, reazionaria. Accolse
centinaia di giovani ma sul suo metodo pedagogico ci sarebbe molto da discutere”.
Di Gesù mi chiede poi di segnalare “don
Baldassare Meli, eccezionale figura per
immigrati e indigenti a Santa Chiara di Palermo. Mite ma radicale e intransigente
nel difendere e tutelare i diritti dei migranti, è stato vicino al movimento antagonista. Per questo i vertici salesiani lo hanno trasferito, credo, a Calatafimi”. Per un
caso miracoloso, intanto che scrivevo queste righe, ho scoperto un santino proprio
del fondatore dell’ordine salesiano in vista
nel portacarte, esso mostra don Bosco nell’atto di indicare la Vergine ad alcuni allievi ben vestiti e altrettanto inginocchiati.
Leggo nel verso: “In ogni pericolo invocate
Maria e sarete esauditi”. E qui ricorro a
un’altra consulenza che giunge da un amico prete, don Guglielmo, secondo il quale
da sempre il culto mariano è fra le forme
più “regressive” della prassi cattolica.
Ed eccoci forse al punto politico del problema: saranno davvero sciolti questi nodi
dal cordone nel corso delle sedute necessarie alla costituzione del Partito democratico o tutto andrà avanti come nulla fosse, come già è accaduto rispetto all’eredità
marxista in casa Pds-Ds, cioè senza mai
sbrogliare la matassa della mutazione teorica e culturale dei nuovi soggetti? Cavolo,
mi accorgo solo adesso che il discorso è di-
ventato davvero serio. Resto dunque sospeso all’apocalittico cordone che appare
nell’azzurro cielo della trasfigurazione.
Per completezza passo allora a un altro dei
volti-categorie citati dal segretario Ds, cioè
quello di Antonio Gramsci, il sardo comunista. Per farlo, visto che come affermava
Camus “si pensa soltanto per immagini”,
mi affido a un ritratto multiplo in mio possesso che ne fece Mario Schifano.
Nonostante il trattamento “pop”, i quattro Gramsci ritratti da Schifano sulla medesima tela mantengono uno sguardo doverosamente da rivoluzionario, dell’uomo
votato a un progetto di mutamento dell’esistente, persino l’ultimo che appare rovesciato ai piedi di un edificio che sta lì a
rappresentare il carcere fascista. Insomma, fra i suoi occhiali a pince-nez e le tonache di quegli altri c’è di mezzo non un
campetto di pallone bensì un cielo intero,
quello in attesa ancora dell’assalto.
Questo per dire che a voler insistere con
il cattocomunismo al tempo della postmodernità ci vuole estro, perfino fantasia, altrimenti il racconto della storia del pensiero diventa simile a un album di figurine
di Jacovitti, ma che dico, di don Mazzi,
quello di “Domenica In”. O no?
Fulvio Abbate
Diario a ritroso
Un inviato yankee al seguito del
Papa in un viaggio che ha riportato
i vaticanisti in prima pagina
omenica 17 settembre: finalmente, anche se soltanto per caso o per il semD
plice impulso fornito dalle cattive previsioni del tempo, è giunta l’occasione di visitaWILL TELL
re l’Ara Pacis. Per il cronista americano,
questo è un giorno di pausa dopo una settimana di lavoro cresciuta come un’ondata di
marea in questo mondo dove di pax ce n’è
davvero poca. Il lavoro è terminato alle tre
del mattino, dopo aver messo a letto il settimanale con una rincorsa finale per riuscire a spiegare come ha fatto il Pontefice
romano a tornare ancora una volta al centro dell’attenzione mondiale. L’ultima cosa
che si è decisa è stata il titolo da dare all’articolo, suggerito da un bravissimo redattore: “The Pontiff has a Point”. Un titolo giusto e accurato, senza dubbio. Ma
avrebbe anche potuto essere “The Pontiff
made a gaffe”. Naturalmente, a ogni nuovo
bombardamento della chiesa, la verità di
entrambi i titoli appare sempre più visibile. Ma ora, sulla via del famoso altare, si
cerca di chiarire i pensieri. Questa mattina
improvvisi scrosci di pioggia si alternano a
momenti di sole, ma il cielo è limpidissimo
nel momento in cui entra in questo nuovo e
rilucente guscio di vetro, made in America,
che protegge e al tempo stesso celebra l’antico poema in pietra dedicato alla pace dall’imperatore Augusto. Questo è forse l’incrocio tra gli imperi romano e americano?
La pace è semplicemente un più sacro bottino di conquista? Si può davvero rimediare agli errori – di ieri o di duemila anni fa?
Comunque, è sempre rassicurante stare a
guardare, in modo tipicamente romano,
uno splendido monumento dell’antichità
ancora in piedi.
Sabato 16 settembre: i piani per la cena
sono fatti. Dopo quattro giorni di servizi sul
sito web del settimanale, il cronista è pronto per rilassarsi. Ma improvvisamente gli telefona il suo direttore da New York: vuole
un “articolo di opinione” sul discorso del
Papa all’università di Regensburg. Ormai il
cronista ha una certa pratica – sia attraverso il lavoro sul sito web (in continua crescita) sia grazie a questa rubrica sul Foglio –
nello scrivere pezzi di questo genere. Ma
questo è l’incarico più scoraggiante che gli
sia mai capitato: riassumere ed esaminare
il significato della più importante (e più
complessa) storia della settimana in un articolo per la versione stampata del settimanale. Prendendo spunto da precedenti idee
espresse nei suoi servizi sul sito web, e cercando di dire qualcosa di nuovo, il cronista
scrive le sue 800 parole. Sufficiente, ma non
molto all’altezza del compito. Non c’è da
meravigliarsi se Ratzinger affronta tali questioni con gli strumenti della filosofia.
Venerdì 15 settembre: per il cardinale
Tarcisio Bertone è il primo giorno come
nuovo segretario di stato del Vaticano. Il
controllo dei danni, secondo gli standard
vaticani, finirà per essere rapido e preciso.
Sembra che ciò si debba in gran parte a
Bertone, che gode della piena fiducia di Benedetto XVI. Peccato che non abbia assunto l’incarico il giorno prima – anziché il giorno dopo – il viaggio del Pontefice.
Giovedì 14 settembre: l’aereo del Papa atterra a Ciampino. I cellulari squillano. Mentre il Santo Padre era in aereo, erano giunte le prime notizie sulle durissime reazioni
del mondo musulmano al discorso di Regensburg. Per le vignette danesi ci sono voluti 4 mesi; per il Papa sono bastate 36 ore.
Mercoledì 13 settembre: seduti al Platzl
Hotel per fare colazione, i vaticanisti stanno ancora cercando di digerire il discorso.
Improvvisamente, seguire le attività del Papa significa nuovamente occuparsi del papa
e di tutto il mondo. Da un lato, Benedetto ha
mostrato una certa indelicatezza citando
quella detestabile frase su Maometto. Ma
dall’altro, il Papa (qualsiasi Papa) doveva
prendere parte a questo dibattito nel modo
più serio possibile. Ed è ciò che Ratzinger
ha fatto. Questa è una buona notizia.
Martedì 12 settembre: in questo momento nessuno si aspetta grandi notizie. Non essendo stato inviato a seguire il Papa a Regensburg, il cronista decide di occupare la
giornata lavorando a un articolo sulla mafia. Ma alle cinque del pomeriggio si attacca alla tv. Negli occhi e nei movimenti del
Papa si poteva riconoscere una profonda
soddisfazione mentre il pubblico applaudiva. Per quanto consapevole di avere fatto un
discorso provocatorio, si godeva questa opportunità di ritornare a casa – alla cattedra
– con qualcosa di veramente importante.
Lunedì 11 settembre: meravigliosa giornata di sole a Marktl am Inn, città natale di
Benedetto XVI. Era tutto molto piacevole,
come lo era lo stesso Papa. Ma i movimenti
erano minimi, i discorsi molto prudenti
(neanche una parola sull’11 settembre), e 70
vaticanisti si domandavano se questo Papa
li avrebbe mai fatti tornare in prima pagina.
Jeff Israely
(traduzione di Aldo Piccato)
PREGHIERA
di Camillo Langone
Preghiera dell’aggredito
nell’anniversario di un’altra
aggressione. Prego per i soldati che un venti settembre di tanti anni fa caddero a Porta Pia con l’idea di difendere un versetto
del Vangelo secondo Matteo (“Tu sei Pietro
e su questa pietra edificherò la mia chiesa
e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”). Prego per gli zuavi, per i civili di Trastevere bombardati da Nino Bixio
dopo che Pio IX aveva fatto esporre la bandiera bianca, per i morti e per i sopravvissuti, in particolare per gli arabi cristiani
militanti in quella truppa pontificia pressoché simbolica (4 tunisini, 3 siriani, 1 marocchino), una speranza spenta a fucilate,
e anche allora gli assassini chiagnevano e
fottevano, parlavano di provocazioni.