Dante Alighieri La tenzone con Forese Donati La tenzone è

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Dante Alighieri La tenzone con Forese Donati La tenzone è
Dante Alighieri
La tenzone con Forese Donati
La tenzone è formata da tre coppie di sonetti, scambiati fra Dante e l’amico Forese Donati. Si
tratta di uno scambio di violenti insulti, accuse e ingiurie. Rientra nella consuetudine letteraria
delle tenzoni e non è motivata da una reale ostilità.
Forese viene accusato di trascurare i suoi doveri di marito, di coltivare peccati di gola, di
avere una forte inclinazione per l’arte del furto. Dante viene accusato di vigliaccheria – poco
coraggio (o comunque di trascuratezza dei suoi doveri filiali – di figlio) e di mendicità.
Composta tra il 1283, anno della morte del padre di Dante e il 1296 (morte di Forese).
Questa tenzone rappresenta, nella vasta gamma dello sperimentalismo dantesco, l’interesse
per il filone comico-realistico o burlesco.
Dante
(disgraziata)
Chi udisse tossir la malfatata
moglie di Bicci vocato Forese,
la moglie si chiamava Nella (Purg. XXIII, 87)
potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata
(ha passato l’inverno)
ove si fa ‘l cristallo in quel paese.
Di mezzo agosto la truovi infreddata;
or sappi che de’ far d’ogni altro mese…
E non le val perché dorma calzata,
merzé del copertoio c’ha cortonese.
(proveniente da Cortona)
La tosse, ‘l freddo e l’altra mala voglia
(il raffreddore)
no l’addovien per umor ch’abbia vecchi, (non le viene perché i suoi umori siano freddi)
ma per difetto ch’ella sente al nido.
Piange la madre, c’ha più d’una doglia,
dicendo: “Lassa che per fichi secchi
(con una piccola dote)
messa l’avre’ ‘n ca’ del conte Guido.
(l’avrei messa nella casa dei conti Guidi)
Dante
Ben ti faranno il nodo Salamone
(anche Forese avrà un peccato – quello di gola)
Bicci novello, e‘ petti de le starne,
ma peggio fia la lonza del castrone,
(lombata)
ché ‘l cuoio farà vendetta de la carne;
(i debiti segnati su cartapecora)
tal che starai più presso a San Simone,
(vicino alla chiesa di San Simone si trovavano le carceri)
se tu non ti procacci de l‘andarne:
(se non cerchi di uscirne)
e ‘ntendi che ‘l fuggire el mal boccone
(se evitassi il peccato di gola)
sarebbe oramai tardi a ricomprarne.
(recuperare)
Ma ben m‘è detto che tu sai un‘arte
(l’arte del ladro)
che‘ s‘egli è vero, tu ti puoi rifare,
(ritornare in buone condizioni economiche)
però ch‘ell‘è di molto gran guadagno;
e fa sì, a tempo, che tema di carte
(per qualche tempo non dovrai preoccuparti dei debiti)
hon hai, che ti bisogni scioperare;
(non dovrai temere di dover astenerti)
ma ben ne colse male a‘fi‘ di Stagno. (da quell’arte derivò molto male ai figli di Stagno,
famosi ladri)
Rustico Filippi
Il guerriero spaccamonti (Un capitan Spaventa)
Caricatura di un miles gloriosus, che si atteggia goffamente a terribile conquistatore. In realtà
è meschino - misero, ridicolo.
Una bestiuola ho vista molto fera (il diminutivo demolisce in anticipo la fierezza; antitesi)
armata forte d’una nuova guerra
(di insolite armi, inusitata armatura)
a cui risiede sì la cervelliera
(sta così imponente l’elmetto)
che del legnaggio par di Salinguerra. (della stirpe di Torello Salinguerra, feroce capo
ghibellino
ferrarrese, morto nel 1245; un nome sonante)
Se ‘nsin lo mento avesse la gorghiera (insino – fino a; la parte che protegge la gola )
conquisterebbe il mar, non che la terra;
e chi paventa e dotta sua visera
(2x teme, visiera)
al mio parer, non è folle néd erra
(né sbaglia)
Laida la cera e periglioso ha ‘l piglio (il viso sporco, brutto, aggrondato; pericoloso il cipiglio –
e burfa spesso a guisa di leone;
torrebbe l’tinto a cui desse di piglio
E gli occhi ardenti ha via più che leone;
de’ suoi nemici assai mi maraviglio,
sed e’ non muoion sol di pensagione.
increspamento della fronte)
(soffia, ruggisce)
(farebbe impallidire; chiunque acciuffasse)
(via – esprime incredulità: via, non è possibile!)
(che non muoiano anche al solo pensarlo.
Ritratto di Messer Messerino
Il migliore dei sonetti burleschi e satirici di Rustico. Una garicatura, condotta con garbo
gustoso. Comicità grottesca, tratti di felice ironia.
Quando Dio messer Messerin fece,
(creò)
ben si credette far gran maraviglia
(pensò di fare una cosa meravigliosa)
ch’uccello e bestia ed uom ne sodisfece,
ch’a ciascheduna natura s’appiglia.
(appiccasi – l’incendio, trovare un sostegno; attenersi)
Ché nel gozzo anigrottol contraffece
e ne le ren giraffa m’assomiglia
ed uom sembia, secondo che si dece
ne la piagente cera vermiglia.
(gola; anatroccolo; imitò;)
(le reni – la schiena, i fianchi)
(si dice, oppure si conviene)
(piacente)
Ancor, risembra corvo nel cantare,
ed è diritta bestia nel savere
ed uomo è somigliato al vestimento.
(una vera bestia)
Quando Dio il fece, poco avea che fare (non aveva a che pensare, oziava)
ma volle dimostrar lo suo potere;
sì strana cosa fare ebbe in talento.
(ebbe voglia di fare; talento – desiderio, voglia)
Oi dolce mio marito Aldobrandino
rimanda ormai il farso suo a Pilletto: (farsetto, si porta sotto la camicia)
ch’egli è tanto cortese fante e fino,
(ragazzo, giovane)
che creder non dei ciò che te n’è detto. (devi; ti è stato detto di lui)
E non star tra la gente a capo chino,
ché non sé bozza, e fòtine disdetto;
(bozzo – cornuto, la bozza – protuberanza;
ma sì come amorevole vicino,
(te ne faccio smentita, smentisco che sia tale)
con noi venne a dormir nel nostro letto.
Rimanda il farso ormai, più nol tenere,
ch’e’ mai non ci verrà oltre tua voglia, (giacché non verrà più contro l tuo desiderio)
poi che n’ha conosciuto il tuo volere.
(ora che …)
Nel nostro letto già mai non si spoglia! (mai più)
Tu non devi gridare, anzi tacere,
ch’a me non fece cosa ond’io mi doglia. (di cui mi lamenti)
Cecco Angiolieri
Tre cose solamente mi so’in grado, (gradite)
le quali posso non ben ben fornire: (non soddisfare a piacere)
ciò è la donna, la taverna e l’dado; (il bere, il gioco dei dadi)
queste mi fanno ‘l cuor lieto sentire.
Ma sì me le convèn usar di rado,
ché la mie borsa mi mett’al mentire:
e quando mi sovien, tutto mi sbrado,
ch’i perdo per moneta ‘l mie disie.
(mi è utile, adatto)
(smentire – negare)
(mi ricordo, ci ripenso; (s)braire, (s) braitare – gridare)
(a causa dei soldi devo rinunciare ai miei deisideri)
E dico: - Dato li sia d’una lancia!
(sia ferito con una lancia)
Ciò a mi’ padre, che mi tien sì magro,
che tornare’ senza logro di Francia. (il lògoro – bastone ornato di ali d’uccello che si lanciava in
aria per richiamare il falcone sul pugno del falconiere)
Trarl’ un denai’ di man serìa più agro (cavargli un soldo di mano sarebbe più duro)
la man di Pasqua che si dà la mancia, (la mattina di Pasqua)
che far pigliar la gru ad un bozzagro.
La stremità mi richèr per figliuolo, (estrema miseria, mi vuole
ed i’ l’ appello ben per madre mia;
(la riconosco, la chiamo)
e ‘ngenerato fu’ dal fitto duolo,
(ingenerato – fatto nascere)
e la mia balia fu malinconia,
e le mie fasce si fur d’un lenzuolo,
che volgarmente ha nome ricadìa;
da la cima del capo ‘nfin al suolo
cosa non regna ‘n me che bona sia.
)
(furono fatte)
(fastidio)
(fino a terra, alla pianta dei piedi)
(non c’ è in me …)
Po’, quand’ i’ fu’ cresciuto, mi fu dato
per mia ristorazion moglie, che garre (conforto, garrisce, grida)
da anzi dì ‘nfin al cielo stellato;
(dall’alba alla note
e ‘l su’ garrir paion mille chitarre:
a cu’ la moglie muor, ben è lavato,
se la ripiglia, più che non è ‘l farre.
(il suo)
(lavato = insipido = sciocco)
(il farro – un tipo di frumento)
Becchin’, amor! – Che vuo’, falso tradito?
( il realtà è stato lui a tradire per primo)
Che mi perdoni. - Tu non ne se’ degno.
Merzé, per Deo! – Tu vien molto gecchito.
(grazia, umile)
E verrò sempre. – Che sarammi pegno?
(me na sarà garanzia)
La buona fe’. – Tu ne se’ mal fornito.
(ne hai poca)
No inver’ di te. – Non calmar, ch’i’ ne vegno. (non sono infedele con te, non attenuare, ho fatto poco fa
un’esperienza della tua infedeltà).
In che fallai? – Tu sa’ ch’i’ l’abbo udito.
(fallare – commettere un errore)
Dimmel’, amor. – Va’, che ti veng’ un segno! (venga, una conseguenza, un segno)
Vuo’ pur ch’ i’ muoia? – Anzi, mi par mill’anni. (o meglio)
Tu non di’ bene. – Tu m’insegnerai.
(tu mi insegnerai, proprio tu!- ironico)
Ed i’ morrò. – Omè, che tu m’inganni!
(oimè – io infelice)
Die te l’perdoni. - E che, non te ne vai?
Or potess’ io! – Tègnoti per li panni?
(tengoti forse per i panni?)
Tu tieni ‘l cuore. – E terrò co’ tuo’ guai.
(per la tua disperazione)