Il suicidio in carcere. Orientamenti bioetici

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Il suicidio in carcere. Orientamenti bioetici
Presidenza del Consiglio dei Ministri
IL SUICIDIO IN CARCERE.
ORIENTAMENTI BIOETICI
25 giugno 2010
1
PRESENTAZIONE
Il Parere “Il suicidio in carcere. Orientamenti bioetici” parte dalla
constatazione dell’alto tasso di suicidi della popolazione carceraria, di gran
lunga superiore a quello della popolazione generale e dalla considerazione
della considerevole rilevanza etica e sociale del problema, aggravato dalle
presenti condizioni di marcato sovraffollamento degli istituti e di elevato ricorso
alla incarcerazione. La recrudescenza di questo tragico fenomeno nel corso del
2009 e nei primi mesi del 2010 rende ancora più urgente richiamare su di esso
l’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica. Il Comitato intende, con
questo documento, richiamare l’attenzione sulla responsabilità collettiva
rispetto al problema, al fine di rimuovere tutte quelle situazioni legate alla
detenzione che, al di là del disagio insopprimibile della perdita della libertà,
possano favorire o far precipitare la decisione di togliersi la vita.
Il richiamo alla responsabilità sociale è rafforzato dalla considerazione
della particolare vulnerabilità bio-psico-sociale della popolazione carceraria
rispetto a quella generale. Ne deriva il preciso dovere morale di assicurare un
ambiente carcerario che rispetti la dignità delle persone in un percorso di
reintegrazione sociale, alla luce di una riconsiderazione critica delle politiche
penali. Il Comitato ritiene che il carcere possa sospendere unicamente il diritto
alla libertà, senza annullare gli altri diritti fondamentali, come quello alla salute
e alla risocializzazione, scontando una pena che non mortifichi la dignità
umana.
Il Comitato raccomanda alle autorità competenti di predisporre un piano
d’azione nazionale per la prevenzione dei suicidi in carcere, secondo le linee
indicate dagli organismi europei. Il piano dovrebbe prevedere indirizzi: per lo
sviluppo di un sistema delle pene più aderente ai principi costituzionali; per una
maggiore trasparenza delle regole interne al carcere e per una maggiore
personalizzazione
del
trattamento,
contrastando
le
pratiche
“deresponsabilizzanti” e “infantilizzanti” che riducono all’impotenza e umiliano
le persone detenute; per una prevenzione specifica non tanto rivolta alla
selezione dei soggetti a rischio suicidiario, quanto alla tempestiva
individuazione e intervento sulle situazioni a rischio in grado di travalicare la
“soglia di resistenza” delle persone (quali l’impatto psicologico dell’arresto, il
trauma dell’incarcerazione etc.); per lo sviluppo del monitoraggio e della ricerca
intorno al fenomeno e per la formazione specifica degli operatori a partire
dall’esame dei singoli casi di suicidio.
Il Parere è stato elaborato nell’ambito del gruppo di lavoro coordinato dalla
Prof.ssa Grazia Zuffa, che ha predisposto la bozza di lavoro, con contributi
scritti dei Proff. Salvatore Amato, Stefano Canestrari, Francesco D'Agostino,
Andrea Nicolussi e la segnalazione di materiali da parte dei Proff. Cinzia
Caporale, Antonio Da Re, Laura Palazzani. Al gruppo di lavoro hanno
partecipato anche i Proff. Luisella Battaglia, Lorenzo d'Avack, Marianna
Gensabella, Demetrio Neri, Monica Toraldo di Francia, Giancarlo Umani
Ronchi. Sono stati auditi il Dott. Mauro Palma, presidente CPT (Comitato
Europeo Prevenzione Tortura), il Dott. Alessandro Margara, presidente
Fondazione Giovanni Michelucci, già responsabile DAP (Dipartimento
Amministrazione Penitenziaria) e il Dott. Sebastiano Ardita, Direttore Generale
della direzione detenuti e trattamento del DAP.
Il Parere è stato approvato all’unanimità dei presenti (Proff. Salvatore
Amato, Luisella Battaglia, Adriano Bompiani, Stefano Canestrari, Roberto
2
Colombo, Francesco D’Agostino, Bruno Dallapiccola, Antonio Da Re, Lorenzo
d’Avack, Riccardo Di Segni, Emma Fattorini, Carlo Flamigni, Romano Forleo,
Silvio Garattini, Marianna Gensabella, Laura Guidoni, Claudia Mancina,
Assunta Morresi, Demetrio Neri, Andrea Nicolussi, Laura Palazzani, Alberto
Piazza, Vittorio Possenti, Monica Toraldo di Francia, Grazia Zuffa).
Il Presidente
Prof. Francesco Paolo Casavola
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DOCUMENTO
Premessa: il suicidio in carcere in una prospettiva bioetica
Nel decidere di affrontare il problema dell’alto tasso di suicidi in carcere, il
Comitato Nazionale per la Bioetica è stato mosso dalla preoccupazione per un
fenomeno certamente non nuovo, ma di tale di rilevanza sociale ed etica da
meritare una riflessione, particolarmente in questo momento storico: c’era il
timore che gli attuali gravi disagi della vita in carcere, in seguito al
sovraffollamento, avrebbero creato le condizioni per una recrudescenza del
fenomeno.
Purtroppo i timori si sono rivelati fondati perché l’anno 2009 ha segnato un
record negativo, con 72 suicidi; alla metà del 2010, 32 persone si sono tolte la
vita e 44 hanno tentato il suicidio.
Il Comitato è consapevole del carattere strutturalmente afflittivo della pena
e dell’evidente incompatibilità della condizione carceraria con un equilibrato
sviluppo della persona. Il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più
ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti
e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e
speranze. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe
quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo
interno, del ruolo del carcere. Da tempo si parla di una crisi del diritto penale
per effetto della convinzione, sempre più diffusa, che il punire tramite la
privazione della libertà sia ormai anacronistico e in contrasto, in molti suoi
aspetti, con lo Stato di diritto e con il rispetto dell’integrità psicofisica della
persona. Il diritto penitenziario nasce proprio dall’esigenza di garantire ai
detenuti il godimento di quei diritti fondamentali che vengono ridotti, se non
negati, dalle condizioni in cui sono costretti a vivere, cercando di evitare che gli
elementi afflittivi precludano ogni futura prospettiva di risocializzazione.
Nel corso della discussione è emersa anche la proposta di eliminare ogni
remora e infingimento, andando dritti al cuore del problema e iniziando una
riflessione sulla natura stessa del carcere. Se l’Illuminismo è riuscito a mettere
fine alla tradizione secolare delle pene corporali, non si vede perché il nostro
secolo non potrebbe mettere in discussione le pene detentive. Per quanto
questa proposta eserciti una forte suggestione etica, il CNB ha ritenuto più
opportuno di non entrare con questo documento nel dibattito sulla funzione
della pena, bensì di mettere in luce quegli aspetti che potrebbero consentire,
restando all’interno dell’attuale quadro istituzionale, di ridurre la sofferenza e di
prestare maggiore attenzione a soggetti particolarmente vulnerabili come le
persone in stato di detenzione.
Se l’orizzonte di competenza della bioetica è segnato dalle “scienze della
vita e dalla cura della salute”, allora è suo compito segnalare i settori in cui
emerge una condizione di disagio e di crisi delle prospettive relazionali e di
cura, evidenziando le condizioni sociali e politiche che li alimentano e
proponendo, al contempo, specifici correttivi e soluzioni. Come sottolinea il
CNB, nell’introduzione al documento sul suicidio degli adolescenti, i concetti di
identità/soggettività di persona in senso etico giuridico e di società
costituiscono punti di riferimento irrinunciabili che sostanziano il discorso
bioetico 1 . C’è un profilo istituzionale e un profilo individuale in ogni problema
1
Comitato Nazionale per la Bioetica, Il suicidio degli adolescenti come problema bioetico, 17
luglio 1998.
4
bioetico. L’uno non esclude l’altro, ma presentano caratteri diversi che ne
consentono una trattazione separata. In questo documento viene privilegiato
l’aspetto individuale, il miglioramento di singoli aspetti del trattamento
carcerario, pur nella consapevolezza che sarebbe auspicabile un più ampio e
radicale ripensamento di tutto il sistema penitenziario.
Il parere citato offre il precedente utile anche per inquadrare, con le
dovute differenze, il suicidio in carcere come problema bioetico. Esso indica la
via di “un radicale cambiamento dell’ottica con cui il mondo adulto, nelle sue
variegate espressioni e funzioni, guarda all’adolescenza” per incidere
significativamente sulle dinamiche più spesso sottese al suicidio degli
adolescenti e delle adolescenti. A partire da qui, nel capitolo sugli orientamenti
bioetici, il CNB si sofferma sul delicato equilibrio fra gli aspetti di responsabilità
individuali e quelli ambientali/ sociali circa la comprensione del suicidio; fra i
rischi di imputare il fenomeno alle caratteristiche individuali con conseguente
deresponsabilizzazione sociale, da un lato; o, al contrario, di cadere in un
iper/pseudo protezionismo sociale per i soggetti individuati come “a rischio
suicidario”, dall’altro. Da qui l’opzione del CNB non tanto per una prevenzione
selettiva verso individui/gruppi “a rischio”; bensì per una prevenzione intesa
come promozione di “elementi idonei a sostenere in questa fase della vita un
processo di sviluppo di identità”. Quest’ultima indicazione, che prende le
distanze dal sempre più pervasivo utilizzo della categoria di “rischio”, è
particolarmente preziosa rispetto alla specificità del carcere.
Prendendo spunto da quel documento, si può affrontare il suicidio in
carcere, oltre che come spia del disagio soggettivo del detenuto rispetto alla
perdita della libertà, anche come sintomo di inadeguatezza sociale, non tanto a
“proteggere” i detenuti, quanto a rispettarne i diritti fondamentali. Il principio
secondo cui la detenzione sospende unicamente il diritto alla libertà di
movimento è spesso disatteso: come conseguenza, i diritti all’incolumità, alla
salute, alla risocializzazione ed altri ancora non sono garantiti. Per ciò stesso il
carcere è un ambiente che può favorire o far precipitare una eventuale
decisione di togliersi la vita. Come denuncia il Comitato etico francese, “le
prigioni sono anche la causa di malattia e di morte: sono la scena della
regressione, della disperazione, della violenza auto-inflitta e del suicidio” 2 .
Da questa prospettiva, la prevenzione del suicidio è strettamente legata
alla tutela della salute, con un altro rilevante aspetto bioetico che riguarda
l’equità di accesso alle risorse di produzione della salute. Due sono dunque i
nodi critici: il carente (a volte perfino assente) rispetto di diritti civili e di diritti
umani, in particolare del diritto alla salute; lo squilibrio nell’esercizio di tale
diritto fra i detenuti e i cittadini liberi: il dato circa l’elevato numero di suicidi in
carcere (circa venti volte superiore al tasso della popolazione generale) può
pertanto essere letto anche come indice di discriminazione.
E’ vero che il suicidio è un atto di volontà frutto di una scelta individuale, a
volte difficilmente comprensibile agli altri nelle sue motivazioni. Come tale va
sempre guardato con cautela e rispetto. Ma il rispetto per il travaglio
insondabile di chi decide il gesto estremo non solo non contrasta, ma, al
contrario, spinge all’impegno collettivo per rimuovere tutte le condizioni capaci
di favorire o far precipitare l’evento.
Perciò, la prevenzione del suicidio rientra a pieno titolo nella difesa della
salute e della vita, quale promozione di un ambiente che rispetti le persone e
2
Comité Consultatif National d’Ethique pour les Sciences de la Vie et de la Santé, La santé et
la médecine en prison, avis n.94, 26 octobre, 2006, p.8.
5
lasci aperta una prospettiva di speranza e un orizzonte di sviluppo della
soggettività in un percorso di reintegrazione sociale.
Nella situazione del carcere, la responsabilità sociale è particolarmente
chiamata in causa per le caratteristiche di vulnerabilità bio psico - sociale dei
detenuti 3 . I carcerati non rappresentano lo specchio della società di fuori. Sono
più giovani, più poveri, meno integrati in termini sociali, economici, culturali.
Sono più affetti da malattie fisiche e psichiche.
Dunque, il carcere è un luogo di contraddizioni rispetto alla protezione
della salute: contraddizione fra la domanda di sicurezza e il rispetto di
fondamentali diritti umani.
C’è una seconda contraddizione, fra l’obbligo a curare i detenuti,
totalmente soggetti all’autorità delle istituzioni giudiziarie carcerarie, e un
carcere che, come si è detto, turba l’equilibrio psicofisico e fa ammalare le
persone.
Le responsabilità etiche della collettività di proteggere la salute e la vita in
carcere coincidono in larga parte con l’ottemperanza ai principi e alle leggi che
sono a fondamento delle nostre società 4 . In questa ottica, si può leggere
l’affermazione secondo cui le condizioni del carcere sono lo specchio dello
stato di civiltà di una società.
Il CNB ha in precedenza affrontato in generale le problematiche
penitenziarie con una dichiarazione del 17 gennaio 2003, facendo alcuni rilievi
di carattere bioetico. Il CNB ha considerato l’alto tasso di suicidi e il numero
delle condotte autolesionistiche come indici di “gravissimo disagio”; ha rilevato
che il sovraffollamento ostacola “in maniera drastica la garanzia effettiva dei
diritti umani riconosciuti ai detenuti dalla Costituzione e dall’ordinamento
penitenziario, rendendo pletorici i riferimenti al trattamento e all’impegno
rieducativo”; ha infine sottolineato “la necessità di un’attenta riflessione sul fatto
che la popolazione penitenziaria risulta ormai comprensiva nella sua quasi
totalità di individui caratterizzati da condizioni specifiche di grave disagio
sociale (si pensi ai tassi elevatissimi di stranieri e tossicodipendenti), condizioni
delle quali è doveroso farsi carico anche pensando a percorsi sanzionatori
nuovi”.
A distanza di sette anni da quella dichiarazione, non solo non si sono
registrati miglioramenti, ma il quadro denunciato si è perfino aggravato.
Rimangono perciò drammaticamente attuali gli indirizzi bioetici allora indicati,
ad iniziare dal richiamo ai principi: la tutela della salute degli individui sottoposti
a restrizione della libertà personale in strutture penitenziarie è preciso dovere
morale oltre che giuridico dei pubblici poteri; la condanna alla pena detentiva
non deve implicare una compromissione dei diritti umani fondamentali.
Altrettanto valido rimane l’auspicio finale “di un approfondimento finalizzato
all’introduzione di pene principali non detentive”.
La situazione attuale di emergenza del sistema carcerario spinge il CNB a
offrire spunti di riflessione sulla via dell’approfondimento allora auspicato,
ricordando l’articolo 27, comma 3 della Costituzione che recita: “Le pene non
3
Per il concetto di vulnerabilità, si veda la Dichiarazione di Barcellona, risultato di un confronto
intrapreso all’interno della Comunità Europea per stimolare un dibattito pubblico sugli aspetti
etici della cura, The Barcelona Declaration Policy Proposals to the European Commission,
November 1998..
4
Queste contraddizioni sono sottolineate nel parere n. 94 del Comitato francese già citato, p. 5.
Il documento nota ancora una contraddizione fra “il significato della pena, basato sulla
responsabilità individuale di chi commette il reato, e l’incarcerazione di un numero sempre
crescente di persone che soffrono di seri disturbi mentali”.
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possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono
tendere alla rieducazione del condannato”.
Il limite che la norma definisce – la non contrarietà al senso di umanità – è
chiaramente costruito in relazione al principio di dignità umana che è poi il
fondamento dei diritti inviolabili dell'uomo e della donna. Anche se la pena
affligge, deve essere concepita in modo da non ridurre la persona a semplice
mezzo, "morti"ficandone la dignità, e così compromettere anche la funzione
rieducativa.
E’ vero che nella valutazione delle pene vi è il problema di evitare
condizioni carcerarie che danneggino la salute; ma la non contrarietà al senso
di umanità esprime un'esigenza che trascende la tutela della salute e riguarda
la stessa dignità umana da tutelare pur nell’inflizione delle pene. Problematiche
così gravi come il suicidio e l’autolesionismo sollecitano bensì a riconsiderare il
problema delle condizioni oggettive delle carceri; ma prima ancora a mettere in
luce l'insostenibilità di una politica penale che sia essa stessa causa del
sovraffollamento.
Una politica penale che produce un sovraffollamento delle carceri e
conseguentemente condizioni di invivibilità tali da far aumentare in modo
significativo il numero dei suicidi, si pone come direttamente contraria al
principio di umanità delle pene. Inoltre vi sono ipotesi di comportamenti
antisociali con riguardo ai quali l'incriminazione penale dovrebbe essere
soppesata in relazione alle condizioni del carcere, altrimenti la pena si rivela
solo astrattamente adeguata a quel comportamento mentre in concreto non lo
è.
Queste riflessioni invitano ad ampliare le pene non detentive. Va però
ricordata la diffusa pratica di non applicare appieno la normativa esistente che
consentirebbe a molte persone di non essere detenute in carcere. Così è per
gran parte dei detenuti in custodia cautelare, che la legge prevede come
misura eccezionale nei confronti di chi è presunto innocente. Così è per i
soggetti particolarmente fragili come i tossicodipendenti per i quali sono
previste misure alternative di trattamento. Incarcerare o tenere in prigione
persone che secondo la legge avrebbero la possibilità di aspettare il giudizio o
di essere punite al di fuori del carcere è pratica contraria al senso di umanità e,
come tale, rappresenta una negazione dei diritti umani.
L’evoluzione storica del suicidio in carcere
La maggiore incidenza dei suicidi in carcere è stata oggetto di
osservazione fino dal XVII secolo, quando alcuni coroners, chiamati ad
indagare nelle carceri britanniche per i casi di morte violenta, cominciano a
stabilire un legame fra gli episodi di autosoppressione e alcuni specifici aspetti
della prigionia. Solo nell’ottocento inizia una riflessione sistematica sul suicidio,
all’interno del generale problema delle morti e della salute in carcere. In un suo
scritto del 1820, il dottor L.R.V. Villermé, studiando le prigioni di Parigi, osserva
che “la mortalità dei detenuti è notabilmente maggiore di quelli che vivono in
stato di libertà, in ragion diretta del cattivo stato delle prigioni e della miseria,
delle privazioni, dei patimenti sofferti dai detenuti prima del loro
imprigionamento”. Quanto alla condizione di vita in carcere e alle differenze di
trattamento da una prigione all’altra, Villermé è convinto dell’importanza di
questo fattore: a seconda del tipo di carcere “questi infelici hanno perduto per
7
termine medio nel tempo del loro imprigionamento la probabilità di vivere 17, e
perfino 30 anni di vita”. Alla metà dell’ottocento, troviamo studi che utilizzano i
suicidi e le morti in carcere come indicatori per la valutazione dei differenti
sistemi di trattamento. Si scopre che i sistemi caratterizzati dall’isolamento dei
detenuti avevano 12 volte più suicidi delle cosiddette “prigioni in comune”
(Baccaro, Morelli, 2009, 26 sgg.).
In Italia, con la pubblicazione del lavoro di Enrico Morselli, nel 1875, si ha
un quadro più completo della morte volontaria in carcere. A parte il
riconoscimento della maggiore frequenza dei suicidi fra i detenuti rispetto alla
popolazione generale, si osservano altre caratteristiche ambientali correlate: 1)
nei sistemi che hanno come base il lavoro (colonie agricole penali), ci sono
minori probabilità che si verifichino le condotte suicidali 2) le prigioni che
ricorrono all’isolamento dei prigionieri hanno tassi più alti di suicidi e tentati
suicidi 3) gli effetti negativi dell’isolamento si manifestano di più nei primi mesi
4) in tutti i regimi, il maggior numero di suicidi si verifica nei primi due anni di
soggiorno in carcere 5) la fascia di età in cui il suicidio è più frequente è dai 21
ai 30 anni.
Molte di queste osservazioni sono ancora valide, in particolare gli effetti
negativi dell’isolamento. Va ricordato che nell’ottocento per l’influenza
lombrosiana, si ipotizza una relazione causale fra i fattori biologici/genetici e il
comportamento deviante. Lo stesso Lombroso scrive sul suicidio dei carcerati,
collegando la spinta al suicidio alla struttura mentale del delinquente, privo di
spirito di conservazione. Il suicidio sarebbe uno dei caratteri dell’uomo
delinquente, espressione dell’insensibilità verso se stesso oltre che verso gli
altri; di conseguenza, il tentato suicidio diventa un elemento utile ad identificare
il criminale.
Nonostante la preponderanza del determinismo biologico che induce a
leggere il comportamento del criminale in maniera diversa dal comportamento
dell’uomo normale, si fa strada anche una diversa considerazione delle ragioni
del crimine e del suicidio dei criminali. Morselli stesso precisa che non tutti
coloro che sono in carcere appartengono alla categoria dell’uomo delinquente
come inteso da Lombroso, alcuni hanno commesso reato per debolezza di
mente o di carattere o per cattiva educazione o “perché si trovarono in
circostanze fatali”. Alcuni si suicidano per rimorso o pentimento, per “liberarsi
dall’infamia della pena”, o anche per evitare la carcerazione o, fra i condannati
alla forca, per evitare la pena di morte.
Nel novecento, i dati sulla popolazione carceraria cominciano ad essere
raccolti in maniera più affidabile. La prima indagine sistematica raccoglie i dati
sui suicidi consumati e tentati nelle carceri italiane dal 1960 al 1969: sono
analizzati 403 casi (100 suicidi consumati e 303 suicidi tentati). I dati raccolti
riguardano diverse variabili, dalla posizione giuridica (tipo di reato, situazione
giuridica, tempo di internamento fino al suicidio o tentato suicidio), alla
posizione del detenuto nell’istituto (recluso, in osservazione, etc.), alla
situazione personale (salute, situazione familiare, comportamento). Lo studio
rivela che quasi ¾ dei casi di suicidio riguardano detenuti che non svolgono
alcuna attività lavorativa entro il carcere; inoltre il 64% dei suicidi, sia consumati
che tentati, riguarda detenuti in attesa di primo giudizio. Quanto al tasso di
suicidio, la media degli anni sessanta è attestata a livelli del 3,01.
Negli anni settanta, i casi di suicidio iniziano ad aumentare: alla fine del
1997 sono l’11,15 (ogni diecimila detenuti), nel 2000 l’11,40, fino al picco del
2001 (12,52). L’aumento dei suicidi va letto all’interno di un profondo
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mutamento della popolazione carceraria, sia in termini quantitativi che
qualitativi. Prima degli anni settanta, i detenuti provenivano da livelli sociali
molto bassi, con altissimi tassi di analfabetismo. Per gli strati sociali più
indigenti, il carcere era un evento vissuto in continuità con altri eventi di vita,
più che come cesura traumatica. Esisteva una “subcultura” del carcere,
violenta e coesa, che trovava il suo amalgama nella resistenza/opposizione
all’istituzione carceraria. Da un lato, al suicidio non si prestava particolare
attenzione, quasi che appartenesse alla ordinaria violenza quotidiana del
carcere; dall’altro, lo stretto controllo (i detenuti vivevano quasi sempre insieme
nei “cameroni”) e la forte coesione di gruppo disincentivavano i gesti individuali
di auto-aggressione.
La scomparsa di questa subcultura è frutto sia della riforma carceraria
(1975) che del mutamento sociale e degli indirizzi delle politiche penali. Dagli
anni settanta in avanti, la diminuzione dei reati violenti non ha comportato una
diminuzione dei tassi di carcerazione, al contrario. Se nel 1975 i detenuti erano
30.000, nel 2008 avevano raggiunto i 57.000, nel 2009 si è toccata la quota di
60.000. In parallelo, il carcere è sempre più affollato di fasce emarginate, quali
tossicodipendenti e giovani immigrati, particolarmente vulnerabili sotto l’aspetto
bio/psico/sociale. In particolare, la OMS individua come gruppi vulnerabili più a
rischio di suicidio i giovani maschi, le persone con disturbi mentali, le persone
socialmente isolate, i soggetti con problemi di abuso di sostanze psicoattive, i
soggetti con precedenti suicidari: questi gruppi sono sovra-rappresentati nei
nostri penitenziari (WHO, IASP, 2007).
Negli anni duemila, a partire dal picco del 2001, già citato, del 12,5, i tassi
sembrano stabilizzarsi intorno al 10 (ogni diecimila) fino al 2008, quando si
registra un tasso dell’8. Nel 2009, c’è stato però un brusco rialzo.
Quanto ai tentati suicidi, negli anni duemila la percentuale è oscillata da
180 (ogni diecimila) del 1999 a 137,90 del 2007 (con una punta in basso di
127,8 nel 2004).
E’ da notare che, nonostante i progressi, i dati di fonte istituzionale non
sono ancora del tutto attendibili, anche per la difficoltà a trovare criteri univoci
di rilevazione e di definizione stessa come suicidio o tentato suicidio dei
comportamenti che portano alla morte (ad esempio l’esito fatale di
intossicazioni con sostanze che hanno effetti psicotropi). Per tale ragione, sono
preziose le fonti indipendenti 5 .
Un altro spaccato del problema è offerto dal numero dei suicidi in rapporto
all’insieme delle morti in carcere, nel confronto con altri Paesi.
Fra i Paesi europei, rispetto al totale dei decessi in carcere, l’Italia ha un
numero relativamente alto di comportamenti suicidali: su una media di 50/60
morti all’anno, i suicidi sono circa un terzo.
Non vanno dimenticati i casi di suicidio fra gli agenti di polizia
penitenziaria: dal 1997 al 2007 si sono uccisi 64 agenti e molte di queste morti
sono state collegate al malessere per la condizione lavorativa e al burn out. Un
5
E’ di fondamentale rilievo pubblico il lavoro di rilevazione e documentazione svolto da alcune
organizzazioni non governative, in particolare dalla rivista e dal sito di “Ristretti Orizzonti”, in
possesso di un data base, quantitativo e qualitativo, dal 2000 in poi.
E’ anche attivo un Osservatorio Permanente sulle Morti in Carcere, nato dalla collaborazione
fra Radicali Italiani, Associazione “Il detenuto ignoto”, Associazione “Antigone”, Associazione
“A buon diritto”, Radiocarcere, “Ristretti orizzonti”.
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piano d’intervento organico dovrebbe prendere in considerazione anche i fattori
di stress della quotidianità in carcere per chi vi lavora.
Studi sulle variabili incidenti sugli atti di autoaggressione e sul suicidio
Nonostante l’importanza del fenomeno e la sua persistenza nel tempo,
sono scarsi gli studi sistematici in merito; i pochi sono per lo più orientati nella
prospettiva clinico individuale, senza concentrarsi sulle variabili sociali e
istituzionali incidenti sul comportamento di suicidio.
Tuttavia, agli inizi degli anni duemila si inaugura in Italia una stagione di
studi che permettono di tracciare un primo profilo di rischio rispetto a variabili
situazionali e ambientali (Manconi, 2002; Manconi, Boraschi, 2006). Ci si toglie
la vita con maggiore frequenza nel primo anno di detenzione (nel biennio 20002001 il 64,5%, nel 2002 il 61%, nel 2003, il 63%); fra i suicidi del primo anno, la
gran parte si concentra nei primi giorni e nelle prime settimane. Ciò è messo in
relazione all’impatto traumatico con l’ambiente carcerario quale fattore di
precipitazione verso il gesto autosoppressivo.
Inoltre, è sottolineata una relazione fra gli eventi suicidali e l’affollamento
degli istituti penali: il sovraffollamento, oltre a limitare gli spazi e a provocare il
deterioramento delle condizioni igieniche, pregiudica le relazioni col personale
e limita le possibilità di accedere alle opportunità ricreative, formative,
lavorative. Anche il disagio legato al sovraffollamento sarebbe un fattore di
precipitazione, oltre che predisponente.
Un altro elemento riguarda i segnali antecedenti il suicidio: in ambedue gli
studi citati emerge che una considerevole parte dei suicidi potevano dirsi
“suicidi annunciati”, perché gli autori versavano in condizioni di grave o
gravissima depressione o avevano già posto in essere tentativi di togliersi la
vita.
Circa la situazione giuridica dei ristretti in carcere e le relative implicazioni
psicologiche, i due studi evidenziano un numero inferiore di suicidi fra le
persone definitive (es. negli anni 2000/2001 il 44,2% dei suicidi è stato
commesso da detenuti definitivi; nel 2002, il 36,4%; nel 2003, il 48,3%).
Dunque si suicida di più chi è in attesa di rinvio a giudizio o di sentenza di
primo grado o di appello, seppure con oscillazioni rilevanti. Al di là di queste
variazioni, rimane il dato sufficientemente stabile rappresentato dalla sovrarappresentazione dei suicidi fra i non definitivi rispetto all’intera popolazione
carceraria non definitiva (i condannati definitivi superano il 60% dei reclusi). Ciò
significa che, tra i definitivi, la propensione al suicidio è notevolmente inferiore
a quella registrata fra i non definitivi.
Quanto all’età, in carcere si uccidono per lo più giovani uomini.
Considerando i casi di suicidio nelle varie fasce d’età e confrontandoli con la
distribuzione della popolazione carceraria nelle medesime, si evidenzia una più
forte propensione al suicidio tra i 18 e i 34 anni. Per ciò che riguarda il
confronto con la popolazione generale, facendo ad esempio riferimento ai dati
del 2002, si può dire che in carcere, in età compresa fra i 18 e i 44 anni, ci si
uccide circa 50 volte di più di quanto ci si uccida fuori (Manconi, Boraschi,
2006, 22sgg)
Un altro studio ha confermato che il restringimento degli spazi e il
deterioramento delle relazioni, insieme alla scarsità di opportunità, sono
effettivamente correlabili non solo col suicidio, ma più in generale con
10
l’autolesionismo e con la reattività aggressiva nei confronti del personale e dei
compagni di detenzione (Buffa, 2003). Questo studio ha anche mostrato che
tali fenomeni non si distribuiscono in maniera uniforme negli istituti sovraffollati,
ma sono più frequenti in quelle sezioni dove si trovano i detenuti meno dotati di
risorse personali e sociali, che hanno minori capacità di adattarsi e di cogliere
le scarse opportunità che il carcere, in particolare nelle situazioni di
sovraffollamento, offre. A parere dell’autore, esce riconfermata l’ipotesi di E.
Goffman sulle istituzioni totali e il cosiddetto “sistema di reparto”: nella
competizione che si attiva, la parte meno dotata si ritrova a vivere nelle
condizioni peggiori in quel contesto e ciò innesca una spirale di marginalità e
sofferenza.
In genere la letteratura esamina separatamente la condotta suicidale
rispetto agli atti di autolesionismo, poiché si suppone che diverse siano le
motivazioni profonde. In più, l’autolesionismo nello specifico ambiente
carcerario è per lo più interpretato come una modalità strumentale e
“manipolativa” per ottenere concessioni di vario genere.
Di recente si va affermando una diversa prospettiva: l’elemento
manipolativo non esaurisce le motivazioni alla base dell’autolesionismo
carcerario, c’è un “continuum di autodistruzione” che parte dalle condotte
autolesive meno cruente fino ad arrivare a quelle auto soppressive. Ciò non
significa leggere l’insieme dei fenomeni in chiave psicopatologica, bensì tentare
di coglierli come espressione di un disagio che può assumere forme diverse (di
maggiore o minore gravità) in rapporto alle capacità di coping dei soggetti nelle
(specifiche) situazioni stressanti.
Su questa base, il più recente studio condotto per mandato
dell’Amministrazione Penitenziaria italiana, analizza tutti i dati riguardanti le
condotte auto aggressive: i suicidi, i tentati suicidi, le condotte auto lesive (es.
le lesioni sul corpo o l’ingerire corpi estranei), le condotte astensive (es. la
scelta dichiarata di non nutrirsi o di non assumere farmaci) (Buffa, 2008) 6 .
Questi i risultati più interessanti: innanzitutto è riconfermata la maggiore
frequenza del suicidio in carcere rispetto alla popolazione generale: nel periodo
considerato, i suicidi fra i detenuti sono stati 41, pari a un tasso di 4,6 per
diecimila, 7 volte superiore rispetto al tasso della popolazione generale 7 .
Esce invece non confermata l’ipotesi di un maggior ricorso al suicidio, e in
generale agli atti auto aggressivi, dei tossicodipendenti. Rispetto al dato
generale della presenza di tossicodipendenti negli ingressi in carcere (24,85%),
questi si sono resi protagonisti di suicidi nel 9,8% dei casi e lo hanno tentato
nel 11,2%.
Per gli stranieri, a fronte di una presenza generale pari al 48,7% di
ingressi in carcere, i suicidi, i tentati suicidi e le condotte astensive hanno visto
6
Lo studio, condotto da Pietro Buffa, ha analizzato i dati del Dap sugli istituti italiani dal 1°
luglio 2006 al 31 giugno 2007. Dal punto di vista metodologico, si utilizzano indicatori diversi
per calcolare la prevalenza dei fenomeni all’interno del carcere. Per tradizione, la prevalenza
era calcolata sulla base della presenza media dei detenuti rilevata in un giorno. Buffa utilizza
invece il numero totale degli ingressi dalla libertà in un anno. A detta dell’autore, questo
consentirebbe una più esatta comparazione fra la prevalenza del suicidio (e altre condotte
autolesive) in carcere e all’interno della popolazione generale. Tuttavia, la diversa metodologia
impedisce un confronto coi dati rilevati dalle organizzazioni indipendenti
7
Si ricordi che questo tasso è calcolato sulla base degli ingressi in un anno, cifra notevolmente
più alta delle presenze medie calcolate in un determinato giorno dell’anno. Ciò dà conto della
differenza di rapporto col suicidio nella popolazione generale (20 volte superiore, come si è
scritto all’inizio, rispetto alle 7 volte superiore della ricerca Buffa).
11
una quota di autori stranieri inferiore al predetto rapporto (rispettivamente il
26,9; il 42,1; il 39,6). Solo per le condotte auto- lesive la prevalenza è maggiore
al dato generale (53,7%).
Quanto alle modalità del suicidio, l’87,6% si danno la morte per
impiccagione, il 7% inalano gas.
Rispetto alla posizione giuridica, la maggior parte degli autori delle
condotte autoaggressive non ha ancora una condanna definitiva (56,4%). Il
divario fra reclusi non definitivi e definitivi si allarga ancora di più quando si
considerano i suicidi (65,9%) e i tentati suicidi (62,1%). Si noti ancora il
fenomeno della sovra-rappresentazione già accennato: nello stesso periodo, la
percentuale dei ristretti in custodia cautelare o con condanne non definitive sul
totale degli ingressi in carcere era pari al 46,8%. Questi dati confermano (e
accentuano) quanto già suggerito dai precedenti studi. Lo stesso si può dire
per la concentrazione delle condotte auto-aggressive nelle fasi iniziali della
carcerazione. Il 32,8% degli eventi è avvenuto nell’arco del primo trimestre
successivo all’ingresso in istituto (il 26,8% per i suicidi e il 45,6% per i tentati
suicidi). Nel secondo trimestre le percentuali si riducono di quasi la metà e la
diminuzione nei successivi trimestri procede con analoga modalità. Se
esaminiamo in particolare i suicidi, nel primo anno se ne sono registrati oltre la
metà (51,2%).
La ricerca ha anche messo in luce la distribuzione geografica delle
condotte auto aggressive: ci sono differenze notevoli, con regioni che hanno
una quota di eventi superiore alla propria quota di ingressi (in particolare la
Lombardia, la Campania, il Lazio, la Sicilia, la Toscana). Dallo studio di otto
grandi istituti metropolitani, si è visto che gli eventi si concentrano in alcuni
reparti 8 .
Questa osservazione sulla “geografia del disagio” illumina l’importanza
delle variabili di contesto. Da uno studio sulle motivazioni dichiarate dal
personale nei rapporti redatti in carcere circa le condotte auto aggressive,
emerge che le motivazioni di carattere psicopatologico sono citate solo nello
0,06 % dei casi. Anche in questo caso, come per i tossicodipendenti, è
smentita l’ipotesi di un maggior ricorso alle condotte auto aggressive da parte
di questi soggetti, presente nella letteratura internazionale. Sarebbero perciò
necessari ulteriori studi per approfondire questi aspetti.
I significati del suicidio in carcere e gli approcci di comprensione e di
intervento
Questo documento ha scelto di non addentrarsi nella vasta problematica
del suicidio, per concentrarsi sul particolare fenomeno del suicidio e
dell’autolesionismo in carcere. Peraltro, tramontata in epoca moderna la
propensione a leggere il suicidio in chiave patologica, la sua comprensione
rimane particolarmente complessa, poiché si tratta di integrare le riflessioni e i
risultati delle ricerche dei sociologi, degli psicologi, degli antropologi, degli
storici (Barbagli, 2009; De Leo, 2009). Anche nella prospettiva psicodinamica,
è difficile individuare la specifica dinamica di base di questo atto autodistruttivo
che annulla interamente ogni aspetto di auto-conservazione insito nella natura
umana. Non mancano le contraddizioni: per certi versi, il suicidio si presenta
8
Una particolare concentrazione è rilevata negli istituti di Milano-Bollate, Torino, NapoliPoggioreale (Buffa, 2008).
12
come l’atto solitario per eccellenza, di negazione della relazione con
l’altro/altra; ma, cercando di scavare oltre l’atto in sé, se ne può cogliere
l’aspetto meta-comunicativo: mentre sul piano cosciente il suicidio sembra
voler negare il rapporto col mondo, a livello inconscio l’atto è rivolto agli altri, in
una tensione drammatica di rapporto affettivo, sia positivo che negativo
(Fornari, 1981).
Quanto al suicidio in carcere, vanno considerati da un lato i fattori di
vulnerabilità individuale, e il ruolo (predisponente o catalizzatore) nella condotta
di suicidio di alcuni disturbi psicologici e psichiatrici; dall’altro, non si può
prescindere né dalle particolari caratteristiche patogene/stressanti del contesto
carcerario, né dagli specifici livelli di salute psicofisica delle persone detenute,
più bassi di quelli della popolazione generale. La combinazione delle due
variabili fa sì che la OMS consideri i detenuti come gruppo in sé vulnerabile
rispetto al suicidio. Più complesso, e più controverso, è individuare, all’interno
del gruppo, gli individui particolarmente vulnerabili al suicidio per le loro
caratteristiche psicopatologiche individuali.
In più, nel carcere, a differenza che fuori, ogni atto autolesivo tende ad
essere letto nella logica custodiale, come resistenza/ribellione del custodito
all’istituzione carceraria. Si pensi alla dimensione “comunicativa” degli atti
autolesivi, sopra accennata: essa è in genere interpretata come parte
intrinseca della sofferenza, quale forma di espressione del disagio
dell’individuo. Al contrario, per i detenuti, si ragiona sulle condotte auto
aggressive, cercando di distinguere fra atti “manipolativi” e atti che esprimono
un “reale” disagio.
E’ pur vero che la lettura delle condotte auto aggressive in carcere non
può ignorare il conflitto, in primis simbolico, intorno ai corpi. Per l’istituzione,
gestire la pena detentiva è un problema di controllo/protezione dei corpi dei
detenuti. In ultima analisi, la perdita della libertà si sostanzia nella “consegna”
del corpo all’istituzione carceraria. Il corpo è dunque lo spazio di
comunicazione che viene ad essere comune sia al detenuto che all’istituzione.
In questo senso, il carcere è il luogo per eccellenza del “linguaggio del corpo”.
E’ la modalità immediata e regressiva che il detenuto ha per esprimersi
pubblicamente, per comunicare ad altri il proprio disagio, a volte per rivendicare
i propri diritti. E’ un “parlare” attraverso il corpo ferito che tradisce un’impotenza
relazionale e un profondo turbamento della comunicazione.
Ancora, nell’ottica del “carcere che ammala”, è nota la riflessione sulle
“istituzioni totali”, ad iniziare da E. Goffman: tutti gli aspetti della quotidianità
dell’internato sono posti sotto un’autorità altra, col risultato di annullare la
dimensione privata e l’individualità. E’ l’aspetto “depersonalizzante del carcere”,
ovvero “uno spazio privo delle espressioni simboliche di identità, relazioni,
storia” (Bauman, 2002). Il carcere è perciò un contesto particolarmente fertile
per i vissuti di “impotenza appresa” (learned helplessness) e di “mancanza di
speranza” nel futuro (hopelessness), due indici del rischio suicidiario (Beck et
al.1975).
Dunque il carcere è un luogo che crea il rischio suicidio, “in quanto la
detenzione in sé e per sé è un evento stressante che priva la persona di risorse
basilari”; ma è anche un luogo “che importa il rischio suicidio”, per lo stato
precario di salute psicofisica della popolazione carceraria, come afferma la
OMS. Tuttavia, la stessa OMS afferma che pochi studi hanno identificato
elementi in grado di distinguere i detenuti che commettono suicidio dal resto
della popolazione carceraria (WHO, 2007, 7).
13
Da qui la cautela verso un approccio (prevalentemente) rivolto a
individuare i soggetti “a rischio”, quale forma privilegiata di prevenzione del
suicidio: in una parola, a “psichiatrizzare” il suicidio in carcere. Tale approccio,
che la letteratura psicosociale ha da tempo definito come “eccezionalista”,
focalizzato sui soggetti etichettati come portatori di deficit, ha il difetto di
aumentare la stigmatizzazione individuale, col rischio di non cogliere
l’interazione fra individuo e ambiente. E’ dunque preferibile un approccio
“universalista”, che veda nel potenziamento delle opportunità ambientali
l’ambito più favorevole alla promozione delle abilità dei soggetti, a partire da
quelli più deboli. E’ l’approccio di promozione della salute, anche e soprattutto
in ambito carcerario. Con due vantaggi: allontanare i suddetti pericoli della
psichiatrizzazione del suicidio, particolarmente insidiosa nel carcere, poiché
esso offre un terreno culturalmente fertile al recupero della tradizione
custodiale propria della psichiatria fino a non molti decenni fa; evitare gli
eccessivi “specialismi”, a favore di un approccio comunitario che coinvolga il
personale tutto e i detenuti stessi nella creazione di un carcere più “sano” o,
almeno, meno “malato”.
Suicidi in carcere: si possono evitare? Una prospettiva ecologica
Scegliere un approccio universalista di prevenzione in ambito di salute
psicofisica significa in altri termini privilegiare una prospettiva ecologica, che
considera la posizione del soggetto nell’ambiente di vita e la relativa
interrelazione che ne scaturisce; di contro all’idea, saldamente radicata, che il
suicidio sia una manifestazione psicopatologica di un disordine individuale. A
supporto della prospettiva ecologica vi sono alcuni importanti studi sui
comportamenti auto aggressivi condotti in diverse città del Regno Unito, che
hanno evidenziato l’importanza di fattori situazionali ed ambientali quali la
classe sociale e l’area di residenza. Tali studi hanno mostrato sia il ruolo di
fattori avversi di stress (come la povertà e la disoccupazione), sia di quelli
protettivi (supporto relazionale, stato matrimoniale e partnership, con
significative differenze di genere) (Orford, 1992).
Scegliere l’approccio ecologico ha conseguenze operative importanti:
come sottolineano Laura Baccaro e Francesco Morelli, autori dello studio più
recente e comprensivo sul tema, nella prima valutazione delle persone appena
entrate in carcere (i cosiddetti nuovi giunti) vengono in genere tenuti in assai
maggiore considerazione i classici fattori psicopatologici della diagnosi
psichiatrica, piuttosto che le reazioni psicologiche all’evento traumatico che
potrebbero predire il precipitare di una crisi (lo stato di ansia, la capacità auto
percepita di coping rispetto alla nuova situazione). Decisivo è anche il
“continuum di stress”, il ripetuto trovarsi di fronte a situazioni stressanti, senza
riuscire ad elaborare le molteplici esperienze traumatiche e di perdita.
“L’impatto psicologico dell’arresto e dell’incarcerazione, la paura di essere
abbandonati da familiari e amici, la crisi di astinenza dei tossicodipendenti, la
consapevolezza di una condanna lunga, lo stress quotidiano della vita in
carcere, sono tutti elementi in grado di superare la “soglia di resistenza” di una
persona” (Baccaro, Morelli, 90 seg.).
Nella prospettiva di cogliere l’interazione fra l’individuo e il contesto, uno
dei modelli più accreditati di interpretazione del disordine psicologico è quello
dello stress-vulnerabilità e della mutua influenza fra fattori psicologici individuali
14
e fattori ambientali. L’evento traumatico della condotta auto aggressiva è visto
come una reazione sintomatica ad una combinazione di forze ambientali
avverse: la gravità del disagio è proporzionale ai fattori di vulnerabilità
individuale, quali risultano dal rapporto fra fattori avversi e fattori protettivi,
accumulati nel tempo.
I fattori avversi
Esaminiamo alcuni di questi fattori:
Fattori individuali di natura psicologica e psichiatrica: dalle schede di
valutazione delle patologie della popolazione detenuta, particolarmente
significativi sono i dati relativi alla depressione. La prevalenza fra la
popolazione carceraria si attesta al 10,25%, ma solo il 5% circa soffrirebbe di
depressione maggiore.
E’ da notare che i disturbi depressivi rappresentano il gruppo di disturbi
psichiatrici con i più elevati tassi di prevalenza anche fra la popolazione
generale, pur se esistono differenze marcate nelle stime che possono
rappresentare l’effetto di differenti criteri o metodi di accertamento diagnostico.
Secondo una delle più recenti e accurate revisioni dell’epidemiologia dei
disturbi affettivi, la prevalenza life time per la depressione maggiore è stimata
al 6,7%, mentre la prevalenza a un anno è stimata al 4,1% (Waraich et al.,
2004). Per ciò che riguarda i dati italiani, seguendo il primo studio
epidemiologico condotto in un campione rappresentativo della popolazione
generale adulta italiana, i disturbi depressivi registrano una prevalenza annuale
del 3,5% (De Girolamo et al., 2005). Ai fini dell’ambito specifico della
problematica affrontata da questo documento, è da rimarcare l’importanza
spesso cruciale che gli eventi di vita stressanti rivestono nell’insorgere della
depressione, largamente documentata in un numero considerevole di ricerche.
L’evento di vita che più ricorre in associazione al manifestarsi della
depressione è un’esperienza di perdita (il venire meno di relazioni
interpersonali, la caduta di ruolo e di autostima): sono vissuti che interessano
larga parte dei detenuti, specie quelli alla prima esperienza di carcerazione. In
generale, gli studi sugli eventi di vita stressanti mostrano che il rischio relativo
di soffrire di depressione nei sei mesi successivi a un grave evento di vita
stressante è 6 volte più elevato rispetto ad un periodo ordinario (Paykel et al.,
1996)..
Per quanto riguarda le altre patologie mentali, ne è affetto il 6,04%. Una
ricerca condotta su un campione del carcere di Padova nel 2005, darebbe
un’alta percentuale di co-morbilità psichiatrica fra i tossicodipendenti detenuti.
Questo studio non è però in grado di fornire una lettura delle variabili che
concorrono ad una tale concentrazione di disagio psichico (Bentivogli, 2006).
Fattori situazionali: un fattore importante sembra essere la collocazione
nella cella di isolamento. Un detenuto “isolato” o sottoposto a particolari regimi
di detenzione in cella singola cui non riesce ad adattarsi è ad alto rischio di
suicidio.
Queste celle sono chiamate celle lisce, perché prive di mobili eccetto la
branda. Sono usate sia per isolare persone che mostrano di non essere idonee
alla vita collettiva, sia per i soggetti che si ritiene potrebbero tentare o ritentare
il suicidio. Tuttavia, la privazione di ogni forma di vita comunitaria e la
spoliazione di oggetti di uso corrente accentuano la depersonalizzazione del
15
carcere, mentre il detenuto è ridotto in stato di totale dipendenza dal personale
per i bisogni più elementari. Una percentuale elevata di suicidi avviene in
isolamento.
Altro fattore è quello del “trauma d’ingresso”: i soggetti possono reagire
allo stress dell’incarcerazione con un disturbo di adattamento, che può
svilupparsi in un vero e proprio disturbo post traumatico da stress.
Fattori psicosociali: tra i detenuti suicidi sono abbastanza comuni
l’inconsistenza del supporto familiare e sociale. L’isolamento sociale è un
fattore di rischio per il suicidio.
Fattori di istituzionalizzazione: oltre alla “spoliazione identitaria” del
soggetto, quale effetto del processo di istituzionalizzazione, la totale
dipendenza da altri per ogni aspetto della vita quotidiana, porta alla
“infantilizzazione” della persona reclusa.
In conclusione, la OMS elenca alcuni fattori di rischio individuali e
ambientali, che, se presenti in qualsiasi combinazione e interazione,
potrebbero contribuire ad innalzare il rischio suicidiario:
- negli istituti di pena si concentrano gruppi considerati vulnerabili al
suicidio;
- il trauma d’ingresso e lo stress quotidiano della vita in carcere possono
superare la soglia di resistenza del detenuto medio e a maggior ragione di
quello a rischio elevato;
- non in tutti i carceri esistono procedure per identificare detenuti con
rischio suicidario e, anche quando esistono, non vi è un adeguato monitoraggio
dello stress dei detenuti e quindi vi è poca probabilità di identificare situazioni di
rischio acuto;
- anche se esistono le procedure vi può essere un problema di
sovraccarico di lavoro del personale;
- gli istituti di pena possono avere un limitato o assente accesso ai
servizi psichiatrici;
Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari
Negli OPG, il tasso dei suicidi è più che doppio rispetto a quello della
popolazione detenuta nel suo complesso 9 .
Al di là di queste rilevazioni, mancano studi specifici sulle variabili
ambientali nella loro interazione coi fattori psicopatologici individuali. E’ da
notare che la popolazione degli OPG è composita, non tutti gli internati sono
autori di reati dichiarati infermi di mente, prosciolti e soggetti a misure di
sicurezza. Ci sono anche imputati in misura di sicurezza provvisoria, nonché
persone semplicemente in osservazione, in attesa di perizia psichiatrica. Negli
ultimi anni, forse anche a causa del sovraffollamento, il flusso dal carcere
all’OPG per ragioni di “osservazione” è cresciuto.
Fra i fattori ambientali avversi, vanno considerati: il trauma d’ingresso in
istituti che recano lo stigma del manicomio criminale; la sospensione di alcuni
diritti, in primis il venir meno della certezza sulla durata della detenzione,
9
E’ quanto si ricava dall’elaborazione dei dati DAP riferiti al periodo 2004-2007. Gli internati,
che rappresentano il 2,59% della popolazione detenuta, hanno messo in atto il 5,83% dei
suicidi e il 3,26% dei tentati suicidi. Per le condotte autolesive e il rifiuto di vitto e terapie, il
rapporto si rovescia (1,63% di autolesionismi e 0,65% di rifiuti di vitto e terapie).
16
poiché le misure di sicurezza possono essere reiterate senza limite; il fatto che
in molti casi le misure di sicurezza sono reiterate non perché si ritiene che
sussistano elementi di pericolosità sociale, ma per mancanza di strutture
residenziali esterne in grado di accogliere gli internati.
Col passaggio della sanità penitenziaria al SSN, la gestione e
l’organizzazione degli OPG è in fase di profonda ristrutturazione. Si prevede
che l’internamento in OPG sia limitato alle persone sottoposte a misure di
sicurezza definitiva, con una riduzione di circa un terzo del numero degli
internati. E’ anche prevista una dislocazione regionale degli internati per
favorire la dimissione e l’accoglienza all’esterno di coloro che hanno già
superato il periodo della misura di sicurezza.
I suicidi delle donne
E’ difficile trovare ricerche sui decessi in carcere con un’attenzione alla
differenza sessuale. La giustificazione addotta è che le donne in carcere sono
molto meno degli uomini. La maggior parte della letteratura internazionale sul
suicidio non ha trovato significative differenze fra i sessi nei tassi di suicidio.
C’è però da notare che il numero molto limitato di suicidi femminili nei gruppi
campione inficia la validità dei risultati. Tuttavia, dai dati italiani, risulta che le
detenute si uccidono più degli uomini 10 .
Al di là delle indagini statistiche e delle ricerche quantitative, sarebbero
importanti le ricerche qualitative, per individuare la percezione femminile dello
stress da carcere, come anche le differenze nei fattori protettivi e in quelli di
vulnerabilità.
Secondo la ricerca “Donne in carcere”, le donne vivono più duramente i
“tempi della vita” sul loro corpo (mestruazioni, maternità, menopausa e
invecchiamento) rispetto agli uomini. La donna spesso somatizza il suo
malessere, con disturbi del ciclo mestruale e crisi respiratorie. E’ come se le
donne vivessero sul loro corpo non solo il peso della costrizione in un ambiente
ristretto, ma anche il succedersi del tempo, l’angoscia della separazione, la
negazione della femminilità e maternità (Campelli et al, 1992).
La risposta dell’istituzione
Garantire l’incolumità dei detenuti è un dovere dell’amministrazione
penitenziaria, rientra nei compiti di custodia. E’ un punto di vista diverso da
quello del diritto soggettivo alla salute e alla vita dei detenuti. Nell’ottica
custodiale, la prevenzione del suicidio può sfociare in un rafforzato controllo
sulle persone e l’atto autolesivo può essere inquadrato come atto di
insubordinazione; nell’ottica del diritto soggettivo, la prevenzione richiede di
eliminare/ridurre/contrastare i fattori ambientali che possono favorire l’evento
suicidiario, ad iniziare dalla garanzia del rispetto dei fondamentali diritti umani.
Nel tempo, l’istituzione ha assunto come uno dei suoi compiti la tutela del
diritto alla salute delle persone detenute, ma le contraddizioni rimangono: non a
caso, nei confronti di chi ha tentato il suicidio, sono spesso applicate le stesse
misure che vengono erogate come sanzioni contro i detenuti che turbano
10
Dai dati DAP riferiti al 2004-2007 le donne suicide costituiscono il 6,2% del totale dei suicidi,
mentre sono solo il 4,4% della popolazione detenuta.
17
l’ordine degli istituti. In particolare, sia che il carcerato turbi l’ordine dell’istituto e
ne metta in pericolo la sicurezza, sia che tenti di togliersi la vita, è in genere
applicato il regime di “sorveglianza particolare”: le misure di prevenzione
vengono con ciò a coincidere con quelle di punizione. Così è per il regime di
isolamento in cella “liscia”, ma anche l’invio in OPG in osservazione può essere
percepito dal detenuto come punizione 11 .
L’amministrazione penitenziaria ha cominciato ad affrontare il problema
del suicidio e dell’autolesionismo in maniera specifica negli anni ottanta,
quando si individuano alcune categorie di detenuti a rischio (malati di mente,
tossicodipendenti, i giovanissimi, coloro che fanno ingresso in istituto per la
prima volta, tutti coloro che, in generale, vivono la privazione della libertà in
maniera particolarmente sofferta e traumatica) 12 .
Nel 1987, è istituito il “Servizio Nuovi Giunti”: si compone di un presidio
psicologico (con la presenza di psichiatri, psicologi, criminologi) che affianca i
medici, con lo scopo di individuare i soggetti a rischio sulla base della diagnosi
psicopatologica. I nuovi giunti diagnosticati a rischio sono destinati ad un
reparto specifico 13 .
Negli anni duemila, sono ancora emanate indicazioni per la riduzione dei
suicidi in carcere. Il Servizio Nuovi Giunti è sostituito dal Servizio di
Accoglienza per le persone provenienti dalla libertà, con una impostazione più
“ecologica” e meno specialistica/psichiatrizzante 14 . Le linee operative chiedono
agli operatori di incentivare la padronanza del soggetto rispetto alla nuova
situazione, cercando di ridimensionare i vissuti di disorientamento e di
impotenza. In questa direzione vanno le indicazioni di: 1) segnalare
immediatamente ai detenuti la possibilità di avere operatori con cui instaurare
un dialogo; 2) informare le persone sulle regole che scandiscono la vita
detentiva. Si creano anche “centri di ascolto” con operatori provenienti da
diverse aree (sanità, trattamento detenuti, agenti di custodia), col compito di
intervenire per problemi familiari o personale, per offrire sostegno psicologico,
per assistere ai bisogni di prima necessità, per assistere ai bisogni legati allo
status di straniero 15 .
Di recente, con l’aggravarsi del disagio nelle carceri e l’aumento dei
suicidi, il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria ha di nuovo fornito
indicazioni per rafforzare l’osservazione e l’ascolto dei detenuti, sia
impegnando maggiormente in questa attività il personale di Polizia
Penitenziaria, accanto al personale dell’area educativa e ai volontari; sia
favorendo una maggiore presenza dei volontari e dei rappresentanti della
comunità esterna anche in orari pomeridiani e serali. Si ribadisce l’invito ad
11
Con l’entrata in carcere del SSN, gli istituti penitenziari dovrebbero essere messi in grado di
svolgere il compito dell’osservazione psichiatrica, poiché è improprio che questo compito sia
svolto dall’OPG (Margara, 2010).
12
Vedi la circolare 3182/5632 del 21.7.1986.
13
Circolare 3233/5683 del 30.12.87, Tutela della vita e dell’incolumità fisica e psichica dei
detenuti e degli internati. Istituzione e organizzazione del Servizio Nuovi Giunti.
14
Da segnalare il progetto DARS (detenuti a rischio suicidale), finanziato dalla Regione
Lombardia e attivo dal 2004 negli istituti penitenziari di San Vittore, Opera, Pavia, Monza,
Como, Busto Arsizio e Bergamo, dopo che il servizio era stato attivato in via sperimentale a
San Vittore sino dal 2001. Individuato un soggetto a rischio, anche su segnalazione del
personale di sorveglianza, gli psicologi del DARS intervengono tempestivamente.
15
Si vedano la circolare 3524/5974 del 12.05.2000, Atti di autolesionismo e suicidi in ambiente
penitenziario. Linee guida operative ai fini di una riduzione dei suicidi in carcere, e la circolare
del 2007 che stabilisce le linee di indirizzo e le regole di accoglienza per i detenuti provenienti
dalla libertà
18
assicurare nel concreto l’esercizio di alcuni diritti- come quello dei colloqui col
difensore - e a prestare attenzione agli “spazi e ai momenti di affettività fra i
detenuti e i loro congiunti e familiari”: in tal senso sono citate precedenti
disposizioni specifiche per facilitare il percorso in carcere dei bambini che
devono incontrare il genitore detenuto 16 .
Si devono infine segnalare iniziative utili, intraprese da alcuni istituti a
livello di sperimentazione: nella casa circondariale di Torino sono stati creati
“gruppi di attenzione” per individuare le situazioni critiche al loro insorgere; nel
carcere di San Vittore di Milano si sono creati gruppi di aiuto da parte di
detenuti, per sostenere i soggetti che appaiono più fragili.
A livello europeo, alcuni stati, come la Francia e la Spagna, hanno varato
negli ultimi anni piani d’azione che hanno portato a una riduzione consistente
del numero dei suicidi. Secondo il Comitato Europeo per la Prevenzione della
Tortura e dei Trattamenti inumani e degradanti (CPT), i piani d’azione
dovrebbero prevedere indicazioni per approntare un sistema di rilevazione
efficace dei suicidi e degli atti auto-lesivi, predisporre la formazione degli
operatori sui casi, creare equipe articolate e integrate, assicurando anche la
presenza di operatori del trattamento e volontari e il coordinamento con gli
operatori di custodia.
Orientamenti bioetici e conclusioni
In conclusione, la prevenzione del suicidio passa innanzitutto attraverso la
garanzia del diritto alla salute (inteso, come oggi avviene, come promozione
del benessere psicofisico e sociale della persona) e del diritto a scontare una
pena che non mortifichi la dignità umana.
Dal punto di vista etico, il primo compito è di interrogarsi se il carcere, per
come è oggi, assicuri nel concreto tali diritti. Nella quotidianità della detenzione,
molti ostacoli si frappongono al loro pieno esercizio. Se ne possono elencare
alcuni, fra i più gravi:
- il sovraffollamento, che ha raggiunto livelli mai prima toccati: esso ha
riflessi sul sovraccarico del personale, col risultato, fra gli altri, di restringere
ulteriormente gli spazi di movimento dei detenuti dentro l’istituto;
- nella quotidianità della vita carceraria, i detenuti affrontano spesso
restrizioni ulteriori rispetto a quelle intrinsecamente connesse alla costrizione
detentiva (riguardo le opportunità di lavoro, la formazione e l’istruzione, la
gestione della corrispondenza, la disponibilità dei beni personali, i rapporti con
lo staff, coi compagni di detenzione e con la società esterna). Negli istituti
sovraffollati, può accadere che le persone passino in cella fino a 20 ore su 24,
senza poter accedere ad alcun tipo di attività, né di istruzione né di lavoro;
- il grande numero di persone in custodia cautelare (quasi la metà della
popolazione carceraria): ciò in primo luogo è un’anomalia in sé poiché,
secondo il dettato di legge, la custodia preventiva è prevista come
provvedimento eccezionale (sulla base della presunzione di innocenza
dell’imputato); per amaro paradosso, sono proprio i detenuti in attesa di
16
Nota del 25 gennaio 2010 GDAP-0032296, Emergenza suicidi – istituzione di unità di ascolto
di Polizia Penitenziaria e la Circolare 177644 del 26 aprile 2010 Nuovi interventi per ridurre il
disagio derivante dalla condizione di privazione della libertà e per prevenire i fenomeni
autoaggressivi. Quest’ultima circolare fa riferimento alla nota del 10 dicembre 2009
(PEA16/2007) Trattamento penitenziario e genitorialità.
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giudizio, che in quanto tali non ricevono il trattamento, a essere costretti
all’inattività e a vedersi ristretti gli spazi di movimento e le ore d’aria;
- l’alta presenza di soggetti diagnosticati come affetti dalla patologia
della dipendenza, che stanno in carcere, nonostante la legge indichi come
alternativa valida il trattamento sul territorio (i tossicodipendenti rappresentano
il 33% degli ingressi in carcere) 17 . Se solo fosse ridotto il ricorso alla custodia
cautelare e fossero meglio utilizzate le norme per i trattamenti terapeutici
alternativi al carcere, il problema del sovraffollamento sarebbe notevolmente
ridotto, se non superato;
- il sovraffollamento e il sovraccarico di lavoro dello staff hanno riflessi
immediati sul rischio dei suicidi, che, come si è visto sono più frequenti nei
primi periodi della detenzione e in custodia cautelare. Nella cosiddetta “area
transito”, dove i detenuti attendono di essere destinati ai vari reparti, le
procedura di accoglienza avvengono spesso in situazioni logistiche di
precarietà e di tensione psicologica;
- le restrizioni particolari nella comunicazione coi congiunti che
interessano i detenuti stranieri (le chiamate ai cellulari, non abilitate fino a pochi
mesi fa, sono ancora in genere difficilmente fruibili);
- infine, le inaccettabili pratiche di violenza verso i detenuti che sono
emerse da alcuni casi di cronaca e tramite recenti iniziative della Pubblica
Accusa.
Il quadro sopra descritto illumina una contraddizione fra l’esercizio del
primo diritto del detenuto – la finalizzazione della pena detentiva alla
reintegrazione sociale – e una vita in carcere che costringe le persone alla
regressione, all’assenza di scopo, in certi casi perfino a subire violenza.
Sanare questa contraddizione non è solo compito delle istituzioni
giudiziarie e penitenziarie, è una responsabilità etica dell’intera società.
L’opinione pubblica è oggi particolarmente sensibile al tema del “rispetto della
legalità”. Va ricordato che questo principio non vale solo per le persone che
hanno commesso reati e che per questa ragione scontano le pene: anche il
principio, secondo cui la privazione della libertà non sospende gli altri diritti
umani e civili, è a pieno titolo meritevole di rispetto. Il fatto che tale aspetto sia
solitamente sottaciuto nel dibattito odierno è spia della difficoltà della nostra
società a riconoscere appieno i diritti delle persone detenute.
Va infine sottolineato che, colla fine della sanità penitenziaria, la
responsabilità istituzionale delle tutela della salute in carcere è in capo al
Servizio Sanitario Nazionale. Le istituzioni sanitarie sono chiamate non solo a
migliorare la qualità degli interventi clinici individuali, ma a farsi carico della
prevenzione ambientale, prestando la dovuta attenzione alle condizioni igienico
sanitarie degli istituti penitenziari e assicurando i dovuti controlli.
Più in generale, la riforma sanitaria in carcere apre una nuova possibilità
di rapporto e continuità fra il carcere e il territorio, per colmare il divario fra la
tutela della salute dentro e fuori il carcere tenendo presente la particolare
vulnerabilità della popolazione carceraria. In quest’ottica, la prevenzione del
suicidio in carcere è ambito di intervento anche delle autorità sanitarie locali,
specie attraverso i servizi territoriali di salute mentale.
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Il dato è riferito al 2008. Negli ultimi anni si registra una tendenza preoccupante: non solo
sono diminuiti gli affidamenti terapeutici alternativi, sono particolarmente calati quelli dalla
libertà. Ciò significa che il carcere, anche in custodia cautelare, sta diventando la norma per i
tossicodipendenti (Relazione al parlamento sulle tossicodipendenze 2009).
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Il CNB ritiene che la prevenzione del suicidio passi per un cambiamento di
contesto all’interno del carcere, che si deve ispirare al rispetto dei diritti di
cittadinanza e dei diritti umani dei detenuti. “Umanizzare il carcere” significa in
ultima analisi restituire alle persone detenute un orizzonte di speranza e di
autonomia.
In questa cornice di assunzione di responsabilità collettiva per il rispetto
dei diritti umani dei detenuti, sono da promuovere interventi specifici: è da
raccomandarsi la predisposizione di un piano d’azione nazionale per la
prevenzione dei suicidi in carcere secondo le linee indicate dagli organismi
europei. Il piano dovrebbe prevedere indicazioni per:
- lo sviluppo del monitoraggio e della ricerca intorno al suicidio e agli atti
di autolesionismo per una migliore comprensione del fenomeno;
- indicazioni normative per l’introduzione di pene principali non
detentive, finora assenti – tranne lo spazio molto modesto della mera pena
pecuniaria e taluni provvedimenti dei giudici speciali – dall’ordinamento
giuridico italiano. Ciò è auspicabile pensando alle condizioni specifiche di grave
disagio sociale della popolazione carceraria attuale, con elevata presenza di
stranieri e di tossicodipendenti;
- una maggiore trasparenza delle regole interne, superando le opacità
istituzionali che rendono inaccettabile, in quanto totalmente indecifrabile, la
sofferenza della condizione detentiva. Va in questa direzione la rinuncia a
pratiche generali “deresponsabilizzanti” e infantilizzanti nei confronti dei
detenuti e l’abbandono di interventi specifici particolarmente rischiosi quali la
messa in isolamento;
- un piano di intervento immediato per diminuire gli internati negli Opg
secondo le linee previste dal passaggio della sanità penitenziaria al SSN;
- la predisposizione di una formazione specifica degli operatori sulla
prevenzione del suicidio, a partire dai singoli casi;
- lo sviluppo della personalizzazione del trattamento, garantendo nello
staff di osservazione e trattamento l’effettiva presenza anche di figure
specialistiche, in particolare dello psichiatra;
- il miglioramento della comunicazione fra i detenuti e il personale; in
particolare la creazione di reti informali di ascolto e di supporto che utilizzi tutte
le risorse disponibili, formali e informali (dagli operatori di ogni professionalità ai
detenuti), per tempestivi “interventi sulla crisi”.
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