Camminare la terra

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Camminare la terra
L u i g i V e r o n e ll i
Si estende per quattrocento metri quadri circa e le bottiglie sono
adagiate all’interno di quegli elementi di cemento a sezione quadrata con gli angoli arrotondati che servono per formare le condutture
sotterranee in cui collocare tubi, cavi elettrici, in cui far passare acque reflue e tubi del gas. Accatastati uno sopra l’altro fino al soffitto
e affiancati in modo da creare un reticolo di passaggi perpendicolari
stretti, dove non si passa in due, nemmeno se si è magri. Niente di
romantico quindi, non splendide barriques, non scaffali pregiati di
legni particolarmente caldi.
Il fascino è dato solo dall’essenziale, un fascino polveroso di bottiglie antiche, un aroma forte di vini che si mescolano. L’odore delle
casse e dei cartoni che non hanno ancora trovato la disposizione
nei loculi di cemento sfruttati fino all’inverosimile. Ogni elemento, o
box, ha un numero e un’appartenenza.
Borges parlava di una biblioteca così vasta che le torri che circondavano l’edificio, tutte uguali fra loro, erano la prima bianca e
l’ultima nera. Entrare in questa cantina dà una sensazione analoga. I
vini, tutti ugualmente grandi, anche se la loro fama è assolutamente
diversa, sono il primo bianco e l’ultimo rosso.
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È l’alba. Un’alba serena ma con una leggera nebbia come lo sono
le albe novembrine in Langa. L’appuntamento con Nuto Revelli è
alle 7.30, orario folle per chi è abituato a vivere in città, orario normale per un contadino. Nuto Revelli arriva per primo e si siede sulla
panchina, le mani appoggiate sul bastone, in attesa. Veronelli sembra estremamente giovane al confronto. Scende dall’auto e cammina
verso di lui. Visti da lontano, colpisce vedere quanto sia scattante il
vecchio nell’alzarsi in piedi, per salutare e stringere la mano, e come
sia lento nel risedersi, guardando indietro come se dovesse controllare il sedile. Si lascia cadere e rimane in silenzio per un attimo. Il dialogo è fitto, i due sono fatti della stessa pasta e si trovano. Si rispettano, non si sono frequentati molto ma si leggono reciprocamente.
Dopo una buona mezz’ora decidono che l’intervista non si può
effettuare su quella panchina, che pure è affacciata sulle colline disegnate dai vigneti e accavallate le une alle altre in una gamma di
grigi che non sono mancanza di colore, ma profondità dei toni verdi
andati perduti nella luce.
Devono camminare, devono parlare camminando. «Io sono un geometra, sono solo capace di misurare e descrivere la mia terra», dice
il vecchio. Camminano lenti ma il loro passo è fermo, l’ausilio del
bastone è un’abitudine, un vezzo, un modo per spostare le foglie e vedere se c’è un fungo, o una lumaca. Camminano e parlano. I contadini
che incrociano salutano con voce piena ma non smettono di lavorare,
sono fieri del loro lavoro, amano mostrarsi mentre lo compiono. Sono
i cittadini che si fermano, per rispetto dicono, ma ognuno ha un modo
diverso di rispettare. Le loro voci, sentite da lontano, sono ovattate
dalla nebbia, i rumori dei passi sono esaltati dal silenzio. Un silenzio
che non è mancanza di suono, ma è esso stesso il suono di uno spazio
che non ha pareti, non ha risonanza.
Vedi, io ho scritto tanti libri e ho parlato sempre della stessa
cosa. Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell’ignoranza,
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come eravamo cresciuti noi della generazione del Littorio. Oggi la
libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza
libertà non si vive, si vegeta. Ma ho potuto scrivere solo perché
sono nato qui. Il fascismo si è fermato alle ultime case, là in fondo. In vigna non c’era spazio. Se ti metti a pensare camminando
per le vigne o per i boschi, non sei condizionato più da niente; qui
ho potuto pensare e ho trovato la forza di fare il partigiano e di
poterne dare testimonianza.
I loro gesti non sono mutati e nessun dittatore li potrà cambiare,
qui sì che il lavoro rende liberi, camminiamo e parliamo qui.
(Nuto Revelli, La meridiana, Rai 2, 1983)
nosce. La rispetta. Come una donna che devi toccare davvero per
poterla rispettare. (Monografie agrarie, Rai 3, 1985)
Veronelli gli farà eco quasi 20 anni dopo.
Difficile. Molto difficile far capire a questi ragazzi ritornati idealisti – e ai vecchi che hanno sulla pelle le stigmate – essere il ritorno reale, geografico, alla Terra l’unica possibile via sovversiva.
Lo stato – anche e più ancora quello globale – in cui progettano
di farci vivere, è il male. E non lo vuoi sovvertire? Rovescialo e
avrai il bene.
La grande arma delle multinazionali è stata quella di impossessarsi della terra attraverso i sistemi della sua coltivazione. Hanno
fatto diventare tutto, loro commodities: il grano, la soia, le banane, il cotone, il cacao, le uve. Parola d’ordine: produrre di più.
Come convincere i miei giovani a non usare violenza? Nella violenza – e con la violenza – ci battono e strabattono. (Ex Vinis, n.
63, febbraio/marzo 2002)
La locuzione “camminare la terra”, Luigi Veronelli la usa negli ultimi anni con meditata iterazione, quasi uno slogan, una comunicazione qualificante. La frase deriva dai tanti dialetti che rendono transitivi alcuni verbi per facile semplificazione. Veronelli la fa sua. Gli
piace forzare la grammatica, l’ortografia, la sintassi; sempre al limite,
mai degenerando nell’errore. Rendere transitivo il verbo camminare
gli permette di denunciarne il possesso. Camminare sulla terra renderebbe la terra soltanto un luogo, camminare la terra equivale a una
volontà di conquista anche erotica, a un atto sessuale.
Invidio il contadino, quando rivolta la zolla, quel gesto gli fa
conoscere tutto, la sua durezza, la sua densità, ne sente gli odori
umidi quando la rivolta, la tocca con le mani, la giudica e la co44
Poetica, evocativa, efficace quell’espressione. O forse semplicemente
concreta.
Già. Ma cosa intendeva Veronelli con esattezza? Andarci sopra?
Sopra cosa: vigne, oliveti, frutteti, campi, strade (di città o di campagna), spiagge, boschi, sentieri? Scontato pensare alle vigne, in primis, e certo non si sbaglia; ma lui, “onnivoro”, camminava tutto ciò
che costituiva una possibilità di conoscenza e acquisizione – nulla
era senza significato – con piena consapevolezza.
Chi cammina la terra sa che l’importante non è arrivare, ma
procedere, passo dopo passo. Camminare la terra è esprimere il
nostro vivere in continuo movimento. Talvolta occorre fermarsi
per riposare o per pensare e per gioire o per piangere, e alla fine
ricominciare a camminare.
Fermarsi anche per ricordare e rivivere la strada percorsa.
(appunto scritto a mano non datato)
Altro scenario. Più prosaico.
Sveglia fissata alle 7.30. Colazione, lettura giornali, ritrovo nella hall
dell’albergo alle 8.45. Una macchina – talvolta due, quando il gruppo
si allarga – attende in strada, motori accesi e serbatoio pieno; è messa
a disposizione ad libitum, per i tragitti programmati, con rigore cartesiano, lungo la provincia di Caserta. Rientro intorno a mezzanotte.
Così per 10 giorni, che si decide saggiamente di spezzare in due
tranche da cinque ciascuna. Ad accompagnare Luigi Veronelli, i collaboratori Andrea Capello, prima cinquina, e Gian Arturo Rota, seconda.
È il 1997. Il comune di Caserta ha affidato a Veronelli e al suo staff
– previo contatto di due emissari capaci e di notevole simpatia, Antonello Rossi, scomparso prematuramente, affine a Veronelli per amore
della poesia e la comune fede interista, e Teodoro Naddei, uomo del
vino e di mercato – l’incarico di «fornire la necessaria consulenza e
assistenza per la pianificazione, progettazione e impostazione di studio preliminare sulla produzione agroalimentare del territorio casertano...», con «attività di ricerca, catalogazione e classificazione delle
produzioni tipiche agroalimentari, nonché la rilevazione delle attività
di somministrazione, di quelle ricettive e le relazioni con le aree di
insediamento...»
Il primo passo, nelle intenzioni degli amministratori, è di compiere
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una forte azione di rilancio per un turismo che sia in grado di mettere
– insieme a quelle monumentali, artistiche, ambientali – le ricchezze
agricole e gastronomiche, numerose ma sconosciute o poco espresse,
così da tracciare una mappa completa delle potenzialità territoriali e
dettare i presupposti per l’ideazione di un pacchetto, con il punto di
forza aggregante nella trasversalità dell’offerta.
La consulenza, sotto l’egida e il carisma veronelliani, avrebbe consentito – come poi di fatto è stato – di stendere una sorta di censimento dei migliori prodotti casertani, con riferimento specifico alla
determinazione geografica, così da averne nella misura più veritiera
possibile, giusta e necessaria coscienza.
Diventano per tutti dieci giorni esaltanti, con visite agli operatori,
incontri e dibattiti pubblici, conferenze stampa, assaggi. Questi ultimi non hanno mai fine, incontenibile nei contadini e negli artigiani
il desiderio di fare provare al “grande Veronelli” le proprie preparazioni e specialità.
Una terra (ri)battuta in lungo e in largo – l’aveva “camminata”
la prima volta negli anni Sessanta per la stesura delle garzantiane
Guide all’Italia piacevole –, tante soste (in qualche caso con l’emozione del reincontro di persone conosciute allora) e il rito puntuale,
irrinunciabile per Veronelli, di calpestare, camminare i suoli – vigne,
oliveti, frutteti, orti, stalle, laboratori artigianali, cantine, negozi –
dei luoghi raggiunti. Li camminava per sé e per chi lo accoglieva e
gli apriva il cuore, per il rispetto del lavoro e della fatica cui quegli
uomini erano chiamati ogni giorno. Un rito che favoriva tra lui e loro
una maggiore confidenza, e in lui una migliore percezione e conoscenza degli uomini, in primis, e delle cose. Difficile, per questa sua
attitudine mai disattesa, sbagliasse il giudizio e sugli uni e sulle altre.
Al termine di quell’esperienza, i due giovani collaboratori sfiancati,
lui indistruttibile.
Ho una bottiglia del 1971, una grandissima annata, di Monforte
d’Alba. È un Barolo, ma un Barolo diverso, perché a Monforte
d’Alba, nel 1028 nasce un patto – forse il primo della storia –
contro l’eresia. Ci sono i Catari e l’arcivescovo di Milano, Ariberto d’Intimiano, dice «eh no, bisogna estirpare questa eresia.» E
allora manda le sue truppe, cinge d’assedio i luoghi, un assedio
lunghissimo, fino a quando i contadini debbono arrendersi. Si
arrendono e li portano a Milano. Sono posti di fronte a una scelta
terribile: o abiurano o il rogo. Molti scelgono il rogo. Quelli che
tornano portano con loro l’orrore. Da quel momento il Barolo di
Monforte ha in sé un nerbo vivace, inquieto, aggressivo, che è
sintomo, che è testimone del Barolo di Monforte d’Alba.
Io sono convinto che la terra avverta, attraverso gli uomini che
la coltivano, questi fatti, e anche fatti più gioiosi; amo dire, un
po’ con provocazione, che se due ragazzi fanno l’amore sotto una
vigna, la vendemmia dell’anno dopo è migliore, è più buona, ha
maggior fascino. (Mattina in famiglia, Rai 2, 2001)
Il suo rapporto con la terra non ha nulla a che vedere con l’ideologia, ma si ammanta di una valenza magica, sacrale, quasi mistica
nonostante la concretezza della fisicità. Un rapporto fisico, confidente, intimo. Non la lavorava certo, ma la odorava e camminava per
cogliere in anticipo quegli umori della storia depositatisi su di essa e
che avrebbe poi riconosciuto – elementi ben più importanti dei pur
importanti tratti organolettici – negli assaggi dei prodotti che da essa
derivano.
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Dal punto di vista professionale “camminare la terra” significa conoscerla nella sua realtà oggettiva, nella sua difficoltà; non a caso,
così è stata titolata la festa che la comunità di Alba gli ha tributato
per il suo settantacinquesimo compleanno.
Domenica scorsa, ad Alba, il teatro Sociale ha ospitato una serata
dedicata a Luigi Veronelli. Si festeggiavano le sue 75 vendemmie:
75 anni di passione, dedicati al vino e al territorio.
Con rammarico non ho potuto intervenire alla festa e voglio dedicare al grande vecchio queste poche righe per unirmi al coro di auguri.
A Luigi Veronelli va innanzi tutto tributato il giusto riconoscimento per la primogenitura ideologica di tutta la enogastronomia
italiana: a fine Anni Cinquanta ha “inventato” la figura del gastronomo moderno, con la sua penna colta e tagliente è stato il
primo ad indicare una strada nuova. Attraverso i suoi mirabili
racconti di vino, i suoi viaggi, il suo “camminare la terra”, ha
ispirato la generazione successiva e continua a farlo tutt’oggi con
un attivismo sorprendente e invidiabile.
Tutti i gastronomi italiani gli devono qualcosa e lo dimostra il
fatto che in un mondo come quello del vino, soprattutto quello
dei degustatori, dove la soggettività di giudizio porta spesso a
divergenze d’opinioni anche esageratamente battagliere, Luigi Ve47
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ronelli alla fine riesce comunque a mettere tutti d’accordo.
Non voglio sbrodolare in una serie di celebranti constatazioni,
so che il personaggio non é incline a queste smancerie, tuttavia
mi piace rendergli merito per come ha insegnato per primo che
il rapporto tra la gente e la terra è imprescindibile per una vita
almeno degna di questo nome.
Negli Anni Cinquanta la situazione dell’agricoltura italiana non
era certo tutta rose e fiori, ma neanche tanto disastrata e mutata
nei suoi geni più sacri com’è oggi giorno. La lungimiranza delle
sue parole più datate rimane a dare nerbo alle battaglie attuali,
contro gli sfregi che si stanno perpetrando nel nome dell’iperproduttivismo e della frenesia di spremere troppo le nostre terre, che
non possono dare più di tanto senza generare mostri.
Sarebbe anacronistico raccontare quello che Luigi Veronelli ha
fatto per il mondo del vino in Italia, meno scontato è dire quanto
la sua lungimiranza si riscontri anche nelle scelte di editore e
divulgatore, a partire dall’intuizione di ripubblicare scritti gastronomici di personaggi cui era stata frettolosamente negata una
dignità culturale, come «À la Carte» di Luigi Carnacina, allievo di
Auguste Escoffier, pubblicato nel 1957 (e recentemente ripubblicato da Slow Food nella seconda edizione del 1958), per continuare con i primi libri e guide: «Il Gastronomo» del 1956; «I vini
d’Italia» del 1959; le «Guide all’Italia Piacevole», 9 volumi usciti
negli Anni Sessanta; Alla Ricerca dei Cibi Perduti», del 1966.
Questi sono soltanto piccoli esempi che fanno giustizia alla sua
indiscussa primogenitura. Auguri per le tue 75 vendemmie grande
Luigi, con tanto affetto. (Carlo Petrini, La Stampa, 2 marzo 2002)
Chi lo ha seguito nel suo continuo, perenne peregrinare di cronista
itinerante, come amava definirsi, sa quanta attenzione ponesse ai
dettagli, sia quelli tecnici: l’inerbimento tra un filare e l’altro è determinante; sia quelli sociali: da queste parti la terra si dissoda col
piccone tanto è dura e difficile, secca; quanto più la pianta fatica a
far frutto tanto più l’uva sarà migliore; sia semplicemente portando
l’attenzione a fantasie estetiche: non può non venire uva buona se
davanti hai un paesaggio come questo, se intorno hai questo silenzio.
Può dichiarare con non celato orgoglio, figlio di un serio esame
di coscienza e non di sterile autocompiacimento: prima di averle
scritte, le mie pagine me le sono bevute. Con il riconoscimento – per
i lavori su “grande scala”, come la guida ai ristoranti, ad esempio –
dell’inevitabile limite, a fronte dell’alto numero di locali inseriti, nelle
personali esperienze di verifica:
Ma è un viaggio del privilegio di cui si fa complice.
Cosa mi spinge in questo viaggio? L’amore per il mondo contadino.
Il rispetto di sé e degli altri, l’impegno costante, la pazienza dei
contadini, hanno radici millenarie. Camminare tra loro e con loro
e per loro è privilegio immenso.
L’operaio, il borghese ti vedono e smettonsi di lavorare; è ambizione, è orgoglio dei contadini farsi sorprendere sul lavoro. (Viaggio sentimentale nell’Italia dei vini, Rai 3, 1980)
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Ho cercato – in piena libertà; con attenta pignoleria; attraverso
le segnalazioni, continue intelligenti attendibili, d’ispettori e di
amici, continui intelligenti attendibili, da me istruiti e con me in
confidenza, e le visite personali (ahimè, pur giornalista itinerante
non riesco a farne vere, all’anno, più di centocinquanta-duecento) – di raccogliere e presentare i migliori. (I ristoranti di Veronelli
1981, Rizzoli, 1980)
Se ne deduce che non si tratta di documentare la sua personale
presenza per dare valore al contenuto, quanto di una sua esigenza
più intima e concreta, dell’esigenza di avere un rapporto materiale
con la terra e i suoi prodotti.
Sono un giornalista itinerante, affermava di sé. Come un cartografo
olandese del Cinquecento ha percorso le terre per raccogliere i dati
della sua ricerca. Occhi, naso, bocca, sono stati i suoi strumenti, ma
anche le mani per toccare e le gambe per percorrere i vari luoghi,
poiché ogni luogo è un prodotto diverso, ed ogni prodotto ha un suo
diverso racconto. Protagonista, sempre la terra.
Insisto: la terra, la terra, la terra, la terra, la terra… all’infinito la
terra. (Ex Vinis, n. 52, aprile 2000)
Il mio lavoro consiste nel camminare le terre e nel raccontarne la
qualità.
La terra è l’anima. (appunto scritto a mano non datato)
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