l`altro - Cinema Teatro Astra
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l’altro inema STAGIONE 2015/2016 ANNO XXIV cineforum 05 DOVE ERAVAMO RIMASTI di Jonathan Demme/drammatico/USA/101’ Con Meryl Streep, Kevin Kline, Mamie Gummer, Rick Springfield, Sebastian Stan, Audra McDonald, Doris McCarthy, Charlotte Rae Rick è la front woman di una band rock che entusiasma un non foltissimo pubblico di appassionati. Non è più giovanissima e ha lasciato da molti anni il marito e i tre figli per inseguire il suo sogno musicale. La brusca rottura del matrimonio della figlia Julie la spinge a 'tornare a casa'cioè a raggiungere l'ex marito che vive con la nuova compagna in una lussuosa villa. L'incontro con l'ormai cresciuta prole avrà luci ed ombre. Sicuramente Jonathan Demme sarà rimasto affascinato dallo script di Diablo Cody (ricordate Juno?) per la possibilità che gli forniva di tornare a tradurre la musica in immagini. Lo aveva fatto in passato con i Talking Head e con Neil Young perché non riprovarci ancora mutando però il livello di lettura passando dal documentario alla fiction? Da grande regista qual è deve avere anche intuito immediatamente che la storia di base era di quelle già viste innumerevoli volte sul grande schermo: un genitore che ha lasciato la famiglia ed è costretto dalle circostanze a farvi ritorno portandosi dietro tutte i propri buoni diritti ma anche una montagna di sensi di colpa. Ma Demme sapeva che anche i copioni più deja vu, se hanno dentro un fondo di verità, possono funzionare se affidati a un'interprete che sappia fare emergere quella verità. L'ha trovata in Meryl Streep e anche qui si potrebbe cadere nel risaputo perché si sono sprecati fiumi di parole nel corso dei decenni per dire quanto è brava Meryl Streep e si finisce con il doverlo ripetere per l'ennesima volta. Perché la Streep che suona e canta davvero non si limita a questo tipo di performance passando dal country dell'altmaniano Radio America al rock carico di energia della sua band, ma fa molto di più. Offre a questa madre tutto il carico degli anni e dei sentimenti provati, le regala sensi di colpa ma anche di orgoglio, insinua LUNEDÌ 02 NOVEMBRE ORE 20.45 MARTEDÌ 03 NOVEMBRE ORE 21.00 MERCOLEDÌ 04 NOVEMBRE ORE 21.15 Nel film Meryl Streep è Ricki, una rockstar che dopo aver dato tutto per realizzare il sogno di diventare una celebrità del rock&roll, decide di ritornare a casa per recuperare il rapporto con la sua famiglia. Ad interpretare la figlia della popolare chitarrista è Mamie Gummer, figlia di Meryl Streep anche nella realtà. nei suoi gesti quella che altri pensano sia volgarità e che per lei non è un atteggiamento ma un modo di essere. Demme le consente anche di lavorare su un piano che mescola finzione e realtà ponendola di fronte al tormentato personaggio di Julie che è interpretato da Mamie Gummer che è figlia di Meryl e ha seguito le sue orme. In tutto questo Demme non dimentica la propria dimensione 'politica' e non si lascia alle spalle film come Philadelphia o documentari come The Agronomist o Man from Plains. Porta così sullo schermo una Rick che ha votato due volte per George W. Bush, che non pronuncia neppure il nome di Obama e che di fronte al figlio gay non ha un atteggiamento iniziale di comprensione. Rick sta dall'altra parte rispetto a ciò che pensa Demme ma questo non impedisce di fare emergere passo dopo passo, ruga dopo ruga, un senso di umanità profonda in cui errori e capacità di riconoscerli finiscono con il coesistere. Perché come diceva Giorgio Gaber (per rimanere sempre in ambito musicale) "L'uomo è quasi sempre meglio rispetto alla propria ideologia". Giancarlo Zappoli Il caso, la mente di un produttore, gli eventi o anche soltanto il tempo hanno messo insieme una coppia che non vorrei più vedere divisa. Jonathan Demme e Diablo Cody hanno realizzato una piccola perla di equilibrio tra popolare ed elevato, audace e conservatore. Gabriele Niola via Roma 3/b, San Giovanni Lupatoto (Vr) - tel/fax 045 9250825 - [email protected] - www.cinemateatroastra.it 06 padri e figlie di gabriele muccino/drammatico/italia, usa/116’ LUNEDÌ 09 NOVEMBRE ORE 20.45 MARTEDÌ 10 NOVEMBRE ORE 21.00 MERCOLEDÌ 11 NOVEMBRE ORE 21.15 Con Russell Crowe, Amanda Seyfried, Aaron Paul, Ryan Eggold, Quvenzhané Wallis, Diane Kruger, Jane Fonda, Janet McTeer, Haley Bennett, Octavia Spencer, Bruce Greenwood Jake (Russell Crowe) è un romanziere di successo (vincitore di un Pulitzer) rimasto vedovo in seguito a un grave incidente, che si trova a dover crescere da solo l'amatissima figlia Katie, a fare i conti con i sintomi di un serio disturbo mentale e con la sua altalenante ispirazione. 27 anni dopo, Katie e' una splendida ragazza che vive a New York: da anni lontana dal padre, combatte i demoni della sua infanzia tormentata e la sua incapacità di abbandonarsi ad una storia d'amore. New York, anni '80: Jake Davis è uno scrittore famoso, premiato col Pulitzer. Dopo un incidente in cui la moglie muore e la figlia resta miracolosamente incolume, gli restano gravi danni neurologici che inizialmente si illude di tenere sotto controllo ma che piano piano prendono il sopravvento impedendogli di scrivere, vivere una vita normale e soprattutto prendersi cura dell'adorata Katie. Per questo accetta di affidarla per un periodo agli zii ed entra volontariamente in una clinica psichiatrica. Quando ne esce dovrà cercare di mantenere la custodia della piccola e affronterà un periodo di fallimento professionale ed economico, spronato a non arrendersi dall'amore per la figlia e per il loro rapporto, su cui sta scrivendo il libro “Padri e figlie”. 20 anni dopo Katie, ormai adulta, riempie la sua vita segnata dalla tragedia con incontri amorosi occasionali e con la cura psicologica di bambini traumatizzati. Ma forse non tutto è perduto per lei: grazie all’incontro con Cameron e con una ragazzina particolare imparerà a sollevarsi e ad andare avanti. Ma quanta paura fanno i sentimenti ai critici? Quanti di noi si vergognano di piangere al cinema, di commuoversi o semplicemente di apprezzare storie (solo) in apparenza semplici come quella raccontata in Padri e figlie di Gabriele Muccino? A giudicare da alcune reazioni lette e ascoltate dopo la proiezione, viene da rispondere "parecchio". Come se certi generi di cinema fossero a priori ricattatori e sdolcinati e non si tenesse conto del modo in cui i temi vengono declinati e della loro legittimità ad esistere. Sarà come vi pare, ma Padri e figlie è una lezione di cinema e di regia che arriva da un autore maturato (probabilmente anche come persona) e che serve al meglio col suo stile e la direzione degli attori la storia che ha scelto di raccontare, una sceneggiatura di Brad Desch che dal 2012 girava per le scrivanie di Hollywood, letta, apprezzata, perfino recensita (vedere qua) e alla fine realizzata. Di fronte ai tanti film che vediamo dalla prevedibile trama lineare, con dialoghi che suonano finti come una moneta da cinque euro, è un piacere assistere a una storia ben scritta, con personaggi interessanti e plausibili (sia pure upper class), che parlano e si comportano come la gente farebbe davvero in certe situazioni e che rendono più facile l’identificazione. Quello di scivolare nella retorica è un rischio calcolato quando si parla di amore, Casa Bonuzzi Piazza Marconi, 14 - 37059 Zevio Verona Italy Tel. 0457850066 [email protected] famiglia, lutto, perdita, speranza, disperazione, malattia e guarigione, creatività, aridità e morte ovvero della vita nelle sue componenti ed emozioni più essenziali e tragiche, che mettono a nudo la vulnerabilità dell’essere umano. Grazie alla qualità della scrittura ma anche ad una regia attenta e contenuta, Muccino riesce ad evitare queste trappole. C’è una dignità di fondo nel personaggio interpretato con grande sensibilità e convinzione da Russell Crowe, che lavora egregiamente sul contrasto tra il suo fisico imponente e la sua incapacità di dominare una condizione che lo devasta. Ma non è certo l’unico del variegato cast a spiccare, dal momento che il regista romano è uno di quelli che gli americani definiscono an actors’ director e ottiene sempre le performance migliori dai suoi interpreti. Oltre alle due piccole Quvenzhané Wallis, indimenticabile protagonista di Re della terra selvaggia, e alla straordinaria Kylie Rogers, scelta anche da Steven Spielberg per la serie The Whispers, ognuno rifulge nel suo ruolo. Da Bruce Greenwood nel ruolo dell’autoritario e falsamente comprensivo cognato a Diane Kruger in quello della zia “stronza” che nasconde il dolore di non aver mai conosciuto l’amore in vita sua.Nella parte contemporanea brillano Amanda Seyfried, molto credibile nella sua autodistruttiva fragilità, Aaron Paul, Octavia Spencer e Jane Fonda. Tutt’altro che sprecate sono le partecipazioni di questi attori famosi, che Muccino dimostra di apprezzare come interpreti, parte di un insieme collettivo, e non come icone immediatamente riconoscibili.E se lo può permettere, come si può permettere di scegliere una delle canzoni più belle e struggenti di Burt Bacharach, Close to you, come simbolo del legame tra padre e figlia nel film. Qua e là ci sono anche le sue firme, le strade bagnate dalla pioggia, la canzone dell'amico Lorenzo Jovanotti e un paio di piani sequenza virtuosistici. A merito del regista va anche quello di aver reso naturali e impercettibili in fase di montaggio i continui passaggi temporali dal passato al presente, che risultano naturali e mai forzati. Alla fine, secondo noi, la sua scommessa è vinta e anche se le battute sui critici paragonati come utilità agli scarafaggi non sono farina del suo sacco, immaginiamo che un certo gusto l’avrà provato nel sentirle pronunciare dal suo protagonista. Daniela Catelli 07 everest di Baltasar Kormákur/commedia/usa, uk, islanda/115’ LUNEDÌ 16 NOVEMBRE ORE 20.45 MARTEDÌ 17 NOVEMBRE ORE 21.00 MERCOLEDÌ 18 NOVEMBRE ORE 21.15 Con Jake Gyllenhaal, Josh Brolin, John Hawkes, Jason Clarke, Robin Wright, Michael Kelly, Sam Worthington, Keira Knightley, Emily Watson Ispirato da una serie di incredibili eventi accaduti durante una pericolosa spedizione volta a raggiungere la vetta della montagna più alta del mondo, Everest documenta le avversità del viaggio di due diverse spedizioni sfidate oltre i loro limiti da una delle più feroci tempeste di neve mai affrontate dall'uomo. Il loro coraggio sarà messo a dura prova dal più crudele dei quattro elementi, gli scalatori dovranno fronteggiare ostacoli al limite dell'impossibile come l'ossessione di una vita intera che si trasforma in una lotta mozzafiato per la sopravvivenza. Qualche volta per scrivere un articolo, per mantenere una promessa, per ispirare i più giovani, per combattere la depressione, per arricchirsi, per accumulare obiettivi, per alimentare il proprio sogno e realizzare quello degli altri si è disposti a tutto, anche a scalare l'Everest. Al confine tra Cina e Nepal, la vetta è la meta di un gruppo eterogeneo che ha deciso di affidarsi a Rob Hall e alla sua società, l'Adventure Consultants, per tentare l'impresa. Rob è sposato con Jan e in attesa di una figlia che sogna di cullare in fondo alla discesa. Ma le cose si complicano presto perché il campo base è affollato da dilettanti e da altre spedizioni commerciali gestite da Scott Fischer, alpinista col vizio dell'alcol. Rob e Scott trovano però ragione e modo di collaborare e il 10 maggio 1996 partono alla volta della vetta alta 8.848 metri. La scarsa preparazione dei clienti, combinata all'approssimazione organizzativa, ritarda la salita dei due gruppi. Nondimeno alcuni di loro toccheranno con mano la vetta a fianco di Rob, sempre generoso coi suoi clienti. Poi una tempesta improvvisa si solleva, soffiando sulla discesa e sul destino degli uomini. Non si può essere romantici con la montagna, soprattutto se si è alpinisti, soprattutto se da voi dipende la vita di altre persone. E di romanticismo 'pecca' il protagonista di Everest, perseverando quando invece avrebbe dovuto fermarsi. Eppure Rob Hall lo sa bene. Un'alpinista sa quando la ragione deve dominare la passione e il piacere verticale che procurano le sfide estreme e i territori inesplorati. Ma quel piacere Rob non vuole negarlo a Doug, amico e cliente che ha qualcosa da dimostrare a se stesso e ai bambini della scuola frequentata dai suoi figli. A un passo dalla vetta e in quella decisione azzardata sta il senso del 'film di montagna' di Baltasar Kormákur, che recupera un genere cinematografico popolare negli anni Venti e Trenta in Germania e polemizza sulla globalizzazione del viaggio che snatura la natura e i popoli che incontra. Nelle cosmogonie la montagna è il luogo delle origini, l'asse verticale di congiunzione tra il mondo celeste delle potenze divine e il mondo terreno. Il percorso dal bassoall'alto per ascenderla è un'iniziazione, un cambiamento di status per chi la sfida, trascendendo in qualche modo la condizione umana. La pratica dell'alpinismo per molti aspetti si inscrive in questa Pasticceria Lorenzetti Viale Olimpia, 6 - 37057 San Giovanni Lupatoto Verona Italy Tel. 045545771 www.pasticcerialorenzetti.com [email protected] logica, nella logica di purificazione e di dominazione del mondo che procura l'ascesi. Kormákur, scalando il suo Everest tra suspense e vertigine, rimpiange quell'intendimento e denuncia le ascensioni turistiche di massa che attrezzano montagne indomabili, enfatizzano la spettacolarità delle sue attrazioni (naturali e culturali) e allargano a dismisura il campo base. Everest conduce gli attori in parete ed esplora il sentiero sbagliato infilato dall'occidente. In perfetto equilibrio tra crepacci e ghiacciai, il regista islandese sale con le masse, avanza con le mode e 'arrampica' i profanatori contro cui la 'fede' di Rob Hall, eletto dagli dei a toccare cinque volte la vetta dell'Everest, non può più nulla. La 'democratizzazione' della montagna, contaminata con sprovvedute ambizioni e lattine sfondate, quelle che Rob raccoglie turbato, ne ha depotenziato la sfida (drammatica, sportiva, poetica, simbolica). Sfida alla base di un genere prodotto dal XIX secolo, che inventò il cinema e la montagna e li mise l'uno al servizio dell'altra. Lontano dall'essere un film giocattolo, Everest, condotto 'su corda' da Jason Clarke e Jake Gyllenhaal, congela gli aspetti eroici dell'alpinismo e smaschera la visione ludica (e prosaica) dell'arrampicata (sociale). Il viaggio sentimentale, l'attitudine contemplativa, la conquista fisica, la montagna come luogo dei valori svaniscono dentro una tempesta e un disappunto (di natura) che suona come ultima parola. Perché come diceva George Mallory, alpinista inglese morto sulla celebre vetta nel 1924, l'Everest "è lì" a ricordarci il rispetto che si deve alla natura e all'altezze inaccessibili. Tratto dal saggio di Jon Krakauer ("Aria Sottile"), giornalista di "Outside" sopravvissuto alla spedizione del 1996 in cui morirono otto persone, Everest chiude su un'ultima ascesa, quella della macchina da presa a cercare un 'risveglio', un nuovo funambolico ardimento, destinato a cancellare da altre pareti la parola impossibile e a ritrovare il valore e la dimensione della professionalità. Una competenza declinabile con moralità. Marzia Gandolfi 08 The Program di Stephen Frears/biografico, drammatico/gran bretagna/103’ LUNEDÌ 23 NOVEMBRE ORE 20.45 MARTEDÌ 24 NOVEMBRE ORE 21.00 MERCOLEDÌ 25 NOVEMBRE ORE 21.15 Con Ben Foster, Dustin Hoffman, Chris O'Dowd, Lee Pace, Jesse Plemons, Bryan Greenberg, Guillaume Canet, J.D. Evermore L'ossessione per la vittoria spinge Lance Armstrong a mentire e a tradire la lealtà di un'intera comunità. La vita di questo campione rivela la dura verità che alcune competizioni sono impossibili da vincere... senza doping. FAGGIONI srl 37050 Santa Maria di Zevio (VR) via Ronchesana, 20 telefono 045 6069038 fax 045 6069039 [email protected] www.faggionipallets.it The Program precipita dentro i dettagli della storia di Armstrong e dello specifico del ciclismo – con i dettagli sul doping, le tappe del tour, il senso dei ciclisti per il branco e il branco dei giornalisti sportivi che rigetta chi non ulula alla luna con lui - , più diventa chiaro che, a Frears, di Armstrong e del ciclismo in quanto tali non frega un fico secco. La narrazione di Frears è epica e archetipica, e come tutte le narrazioni epiche e archetipiche è universale, capace di essere letterale ma anche di parlare di grandi temi. E i grandi temi di The Program sono quelli della verità e dell'inganno, declinati ad hoc in un mondo e una società dove le regole dei media e quelle dello star system (che è business e niente più) sembrano voler abbattere ogni distinzione, enfatizzare l'effimero, consolidare le apparenze secondo le regole più basilari delle esigenze dello spettacolo e del profitto. A Frears, insomma, interessa la truffa, il silenzio interessato e omertoso di chi l'ha coperta o avallata ignorandola, la lotta di chi ha lottato invano per smascherarla e le motivazioni per cui il coperchio sul vaso di Pandora è saltato. Non avesse raccontato Lance Armstrong, probabilmente, oggi vorrebbe raccontare lo scandalo Volkswagen: e lo farebbe con la magnifica abilità di narratore di cui dispone, proprio come in The Program. Mattia Pasquini Mi chiamo Lance Armstrong, sono sopravvissuto al cancro, ho cinque figli. E, naturalmente, ho vinto sette Tour de France». Uno che si presenta così autorizza qualche sospetto. Eppure per anni il mondo credette a quello che sarebbe passato alla storia come l'inventore della «più complessa, professionale e duratura macchina da doping mai vista nello sport professionistico», per citare l'inchiesta che smascherò la colossale montagna di menzogne prodotte dal campione texano, ora al centro di questo "biopic" insolito e appassionante. [...] Fabio Ferzetti Presentando questo coupon Sconto 10% CHIUSO IL MARTEDI Piazza Umberto I, 27 - S. Giovanni Lupatoto - Verona Telefono 045 545724 - e-mail: [email protected] Scade il 15/06/2015 Una ventina di film girati in una trentina d'anni, che vanno a comporre una filmografia eterogenea in quanto a temi e contenuti ma piuttosto compatta, e orientata verso l'alto, dal punto di vista qualitativo. Non sorprende che Stephen Frears, con sorriso beffardo ma senza scherzare troppo, dica di avere la grande fortuna di non essersi mai considerato un autore: ma, autore o non autore, quello che è evidente per tutti è che l'inglese è un abilissimo narratore di storie, un grande affabulatore, uno che racconta personaggi e mondi facendoti entrare lì dentro con tutte le scarpe. La grande forza di The Program, un film che se lo si guarda con distanza critica, o semplicemente a distanza, non ha nulla di sconvolgente o innovativo, sta tutta lì. Lì e, ovviamente, nella storia che racconta. Che si tratti della Parigi del Settecento, dell'ambiente dei feticisti del vinile, dei backstage di un albergo di lusso o di Buckingham Palace, Frears dà sempre l'impressione di non aver bazzicato altri ambienti di quelli che racconta: e il Tour de France non fa eccezione. The Program ricrea un mondo, quello del ciclismo, con impressionante verosimiglianza; riassume in 103 agili minuti di durata una vicenda, anche complessa, che è andata dai primi anni Novanta al 2012, riuscendo a dare conto della prospettiva di Lance Armstrong come di quella del giornalista David Walsh (autore del libro sul quale il film è basato, “Seven Deadly Sins: My Pursuit of Lance Armstrong”), e dando spessore anche a personaggi apparentemente solo di contorno come il dottor Michele Ferrari (ruolo affidato curiosamente a un attore francese, Guillaume Canet) o il ciclista Floyd Landis. Merito anche della sceneggiatura di John Hodge, certo, e soprattutto della grande intensità quella sì fuori dall'ordinario - di Ben Foster nei panni del ciclista. Ma la mano che tesse l'intreccio è chiaramente quella di Frears, anche e sopratutto nella voglia di farti precipitare nei dettagli affinché tu possa tornare sempre a vedere il grande insieme, la big picture: come in una di quelle GIF animate che trovi oggi anche su Facebook, quelle dove entri dentro una finestra, e di lì dentro un quadro e dal quadro torni al panorama iniziale perché è quello l'oggetto del dipinto. Solo che, più