Annamaria Simonazzi Il flagello delle tesi della flessibilità1 "Cosa
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Annamaria Simonazzi Il flagello delle tesi della flessibilità1 "Cosa
Annamaria Simonazzi Il flagello delle tesi della flessibilità1 "Cosa avrebbe fatto la Federal Reserve se l'inflazione negli Stati Uniti fosse stata del 2% e il tasso di disoccupazione del 9,6%?" si chiedeva il New York Times all'indomani della decisione della Banca Centrale Europea di aumentare di mezzo punto il tasso di sconto. E continuava: "Alan Greenspan avrebbe osato alzare i tassi di mezzo punto percentuale? Se questa eventualità vi sembra assurda, allora non siete in sintonia con la realtà, come è vista dall'Europa".2 Negli Stati Uniti, un tasso di disoccupazione così alto avrebbe costituito da tempo il problema principale, i politici avrebbero esercitato pressioni per una politica monetaria accomodante, e ci sarebbe voluto un tasso di inflazione ben maggiore per giustificare una stretta creditizia. La differenza con l'Europa è che questa sembra ormai aver accettato una disoccupazione elevata come un fatto permanente. Questo commento illustra assai bene la pretestuosità dell'ormai ventennale discussione sulla rigidità del mercato del lavoro come causa della disoccupazione europea. I dati sono ben noti. Negli ultimi due decenni le economie dei paesi industrializzati sono state attraversate da un intenso processo di ristrutturazione. Gli effetti sull'occupazione sono stati assai diversi. E' ormai tradizione confrontare il "miracolo" occupazionale americano con la sclerosi europea: fra il 1973 e il 1997 gli Stati Uniti hanno creato 44,5 milioni di nuovi posti di lavoro, contro solo 18,7 milioni creati nell'Unione Europea (15 membri). Questa differenza non è dovuta solo ai servizi, come spesso si sostiene: la maggior crescita dei servizi spiega infatti solo un quarto della crescita complessiva dell'occupazione americana. La parte restante del differenziale è dovuta alla riduzione dell'occupazione nell'agricoltura e nell'industria europea. L'interpretazione che si è affermata sostiene che l'elevata disoccupazione europea è dovuta alla rigidità del suo mercato del lavoro. C'è qualcosa di straordinario (o di perverso) nella capacità dimostrata dalla tesi della flessibilità di sopravvivere alle smentite della teoria e dei fatti, attraverso una continua ridefinizione della nozione di flessibilità di volta in volta rilevante: rigidità salariale negli anni 70, eccessiva protezione garantita dalle istituzioni del mercato del lavoro ai lavoratori occupati e garanzie eccessive offerte dallo stato sociale ai lavoratori disoccupati negli anni 80 e, infine, eccessiva rigidità nella struttura dei salari, derivante dalla legislazione sui minimi salariali o dalla funzione perequativa svolta dal sindacato. A livello più generale, questa tesi doveva fare i conti con due problemi: uno temporale e uno geografico. Per quanto riguarda il primo, si doveva spiegare come mai quelle stesse istituzioni del mercato del lavoro che si diceva essere alla base dell'aumento della disoccupazione a partire dagli anni 70 avessero potuto coesistere con i bassi tassi di disoccupazione sperimentati dai principali paesi europei negli anni sessanta. I1 secondo problema riguardava come spiegare l'esistenza di enormi differenze nella disoccupazione all'interno dell'Europa. La disoccupazione europea è infatti fortemente concentrata geograficamente: alcune regioni hanno tassi di disoccupazione elevatissimi, mentre in altre il tasso di disoccupazione è più basso di quello degli Stati Uniti. La coesistenza, all'interno di uno stesso paese, di realtà occupazionali così diverse - basti pensare al Mezzogiorno d'Italia e al Veneto - o, viceversa, la continuità occupazionale su macroregioni che travalicano i confini nazionali - si pensi all'area che va dal Baden Wurtenberg 1 La presente relazione si basa su un lavoro più ampio: "Deregulate in order to innovate: Can Europe learn from the US? 2 L'articolo del 9-6-2000, scritto da Floyd Norris, si intitola "Through the looking glass". all'Italia nord-orientale – mostra come le istituzioni del mercato del lavoro possano difficilmente essere la sola causa della disoccupazione. La soluzione che è stata proposta è stata di spiegare la disoccupazione europea mescolando insieme shock e istituzioni3. Gli shock esogeni spiegherebbero perché le medesime istituzioni del mercato del lavoro abbiano prodotto risultati così diversi nel tempo in termini di occupazione, mentre la diversità delle istituzioni spiegherebbe invece il diverso effetto esercitato dagli shock sui singoli paesi. E' appena il caso di notare come sia difficile giustificare l'accanirsi degli shock sul solo periodo più recente, presentando implicitamente il periodo precedente come un'età dell'oro miracolosamente risparmiata da ogni tipo di shock, mentre neppure questa versione è in grado di spiegare la concentrazione dell'occupazione su base regionale, all'interno di singoli stati o in macroregioni che coprono differenti assetti istituzionali. Anche in questa riformulazione, la storia non cambia molto. Gli shock, da offerta e da domanda che vengono elencati sono gli stessi di sempre, salvo che lo shock rappresentato dall'aumento del prezzo delle materie prime (soprattutto petrolio) negli anni 70 viene sostituito da un effetto più generale. Sarebbe la caduta del tasso di crescita della produttività, non accompagnata da una corrispondente riduzione del tasso di crescita dei salari, a spiegare l'aumento della disoccupazione degli anni settanta. La compressione dei profitti induce una caduta degli investimenti e uno spostamento verso tecniche risparmiatrici di lavoro. Quando, nel corso degli anni ottanta, i margini di profitto recuperano il terreno perduto - e sarebbe dunque lecito aspettarsi, sulla base di questo modello,un'inversione del processo e una riduzione della disoccupazione - sono gli alti tassi di interesse a frapporsi a una ripresa dell'accumulazione e dell'occupazione. Il protrarsi della disoccupazione elevata negli anni novanta, con la quota dei profitti sul reddito in molti paesi europei ormai ben al di sopra del loro livello negli anni 70, richiede infine una nuova spiegazione, che viene trovata nella rivoluzione informatica. Le caratteristiche del progresso tecnologico, a forte contenuto di capitale, fisico e umano, avrebbero ridotto la domanda di lavoro meno qualificato. In mancanza di una struttura dei salari sufficientemente elastica, lo spostamento della funzione di domanda di lavoro determina un aumento della disoccupazione dei lavoratori meno qualificati (misurati in termine di istruzione), che, data la rigidità dei salari e la generosità dello stato sociale, si traduce in disoccupazione di lunga durata (torneremo su questo punto più avanti). Le istituzioni entrano dunque sostanzialmente nel determinare la durata della disoccupazione, piuttosto che il valore assoluto dei disoccupati. (Si riconosce infatti, ormai, che le norme di protezione del mercato del lavoro possono influire sul turnover, ma non sull'ammontare assoluto della disoccupazione, e dunque dell'occupazione). Così riformulato, il ruolo esercitato dalle rigidità del mercato del lavoro nella spiegazione della disoccupazione europea risulta però solo apparentemente ridimensionato. Con l'aumentare della durata della disoccupazione, infatti, la qualificazione dei disoccupati si degrada, i disoccupati divengono sempre più marginalizzati e sempre meno impiegabili e, anche se non rinunciano a cercare lavoro, finiscono per non esercitare più alcuna pressione calmieratrice sul salario degli occupati. Questo fornisce una giustificazione per il diverso uso della politica macroeconomica negli Stati Uniti e in Europa: negli Stati Uniti, un mercato del lavoro "intimidito", risultato del processo di de-regolamentazione, consente di mantenere la disciplina salariale anche in una situazione di bassa disoccupazione. In Europa, la sclerotizzazione dei disoccupati di lunga durata richiede invece livelli crescenti di disoccupazione per garantire la disciplina salariale. Ma neppure questa reinterpretazione del ruolo delle istituzioni ha trovato pieno sostegno nella verifica empirica. Gli studi che hanno cercato di stimare l'effetto sull'occupazione delle principali variabili che caratterizzano le istituzioni del mercato del lavoro nei singoli 3 Cf. Olivier Blanchard, "European Unemployment: The Role of Shocks and Institutions", January 1999. paesi OCSE, si veda per esempio Nickell4, giungono a conclusioni molto caute. Trova invece piena conferma l'avvertenza che le singole misure non operano in vacuo5, ma sono parte integrante dell'insieme che costituisce 1'assetto istituzionale di un paese. Ne segue che l'effetto che viene stimato considerando ciascuna misura singolarmente, può essere neutralizzato, e anche invertito, quando questa venga considerata all'interno del contesto istituzionale in cui opera. Così, per esempio, i sussidi di disoccupazione non aumentano la disoccupazione se integrati con misure attive di rientro nel mercato del lavoro; un'elevata sindacalizzazione non esercita effetti negativi se la contrattazione è coordinata; il grado di protezione degli occupati garantito dalla legislazione è funzionale al modello di organizzazione sociale che caratterizza i singoli paesi6, cosicché una stessa politica di deregolamentazione può portare a risultati diversi se applicata in paesi con assetti istituzionali differenti. Riprende spazio così un modo di guardare all'assetto delle istituzioni che regolano il mercato del lavoro di un paese non più solo come "rigidità", ma come parte organica della struttura istituzionale e sociale di un paese. Non giunge pertanto particolarmente nuova o inattesa la conclusione di uno studio dell'OCSE7, secondo cui la legislazione a protezione dell'occupazione ha effetti scarsi, se non nulli, sulla disoccupazione complessiva. Molto più indicativa dell'uso vero del dibattito sulla flessibilità, è invece la reazione indignata dei governi di alcuni paesi europei, cui è seguita l'immediata sconfessione del rapporto da parte dei vertici dell'OCSE. Una retromarcia così precipitosa e plateale, scrive il Financial Times'8, da suggerire a un osservatore cinico che, sotto la pressione di vari governi, il segretariato abbia spazzato sotto il tappeto risultati troppo imbarazzanti. L'insistenza ossessiva sui costi ha portato a trascurare i potenziali benefici che possono derivare da un mercato regolamentato9: per il lavoratore, la riduzione dell'incertezza può rappresentare un importante incentivo ad investire in qualificazione, specialmente in competenze specifiche all'impresa in cui lavora; per l'impresa, un clima di maggiore fiducia può favorire la cooperazione dei lavoratori, mentre la sicurezza del posto può ridurre la resistenza all'introduzione di innovazioni di processo o alla riorganizzazione del processo produttivo. A livello aggregato, nella misura in cui favorisce l'investimento in capitale umano e la continua riqualificazione all'interno dell'impresa, un sistema di relazioni industriali basato sulla flessibilità interna può ridurre il tasso di obsolescenza della qualificazione della forza lavoro rispetto a un sistema basato sulla flessibilità 4 Steve Nickell, "Unemployment and Labour Market Rigidities: Europe versus North America" in Journal of Economic Perspectives, vol. 11, n.3 1997. Le variabili analizzate sono: rigore della legislazione che disciplina vari aspetti del mercato del lavoro, quali tempi di lavoro, contratti a tempo determinato, protezione del lavoro, salario minimo e diritti di rappresentanza dei lavoratori (labour standard); rigore della legislazione a protezione dell'occupazione; tasso di copertura e durata dei sussidi di disoccupazione; politiche attive per l'occupazione; indice di sindacalizzazione e grado di copertura dei contratti; grado di coordinamento della contrattazione; incidenza della tassazione sul salario e complessiva. 5 Cf. Annamaria Simonazzi e Paola Villa, "Employment, Growth and Income Inequality: Some Open Questions" Discussion Paper no.1, Università degli Studi di Trento, 1996, pubblicato in Michael A. Landesman and Karl Pichelmann (a cura di) Unemployment in Europe, Macmillan, London 2000. 6 La relazione che lega il sistema di regolazione del mercato del lavoro al modello di welfare è stata sottolineata in particolare da Esping-Andersen, peresempio norme volte a difendere l'occupazione del capofamiglia in regimi di welfare "conservatori") (cf. per esempio Gosta Esping-Andersen "Serve la deregolazione del mercato del lavoro? Occupazione e disoccupazione in America e in Europa" in Stato e Mercato, n. 56, agosto 1999). 7 OECD, Employment Outlook, Parigi, giungo 1999. Il rapporto osserva invece che la legislazione a protezione dell'occupazione svantaggia le fasce più deboli dell'occupazione, donne, giovani e lavoratori oltre i 55 anni. 8 Cf. The Financial Times del 21 luglio 1999. 9 Cf. OECD, Employment Outlook,, op. cit., p. 69. esterna, in cui le imprese preferiscono acquisire le nuove competenze sul mercato, piuttosto che riqualificare i propri lavoratori10. La differenza nell'organizzazione industriale può spiegare perché le analisi empiriche non abbiano trovato conferma dell'ipotesi dell'esistenza di un tradeoff fra disoccupazione e diseguaglianza, che rappresenta l'ultima incarnazione della flessibilità. Ricordiamo che, secondo questa interpretazione, il progresso tecnico e/o la concorrenza dei paesi in via di sviluppo avrebbero indotto una caduta della domanda di lavoro non qualificato maggiore della riduzione dell'offerta (dovuta per esempio all'incremento della scolarità). La riduzione della domanda per questi lavoratori spiegherebbe il crollo dei salari più bassi che si è verificato nel mercato flessibile americano e l'aumento della disoccupazione nei mercati protetti dell'Europa". Quando si è cercato di verificare questa ipotesi, si è trovato che, per quanto riguarda la Germania, per esempio, non solo la quota di disoccupati-con basse qualifiche non risulta essere maggiore rispetto agli Stati Uniti, ma il livello medio del lavoratore a bassa qualificazione tedesco è più vicino alla qualificazione media rispetto a quello americano11. La minore crescita delle diseguaglianze salariali nei paesi europei (e in Giappone) rispetto agli Stati Uniti e all'Inghilterra rifletterebbe dunque anche livelli di qualificazione meno sperequati. Le conseguenze favorevoli per la crescita di lungo periodo di una distribuzione meno sperequata sono state sottolineate nella letteratura della teoria della crescita endogena, che hanno mostrato come la diseguaglianza, in presenza di vincoli di credito, scoraggi la formazione di capitale umano. La superiorità del modello "corporativo" sul modello di mercato era data quasi per scontata fino all'inizio degli anni 90, tanto che negli USA si era molto discusso sulla necessità di imitare il modello giapponese. L'affermazione del modello della flessibilità a tutto campo è dunque molto recente, e coincide sostanzialmente con la crescita dell'economia americana negli anni 90. Ascrivere tuttavia il successo della "nuova economia" americana, la creazione di nuove industrie, e la capacità stessa di creare occupazione, alla flessibilità del mercato del lavoro significa compiere un grossolano errore di attribuzione. I1 successo americano può essere meglio spiegato dall'interazione di fattori di offerta (o tecnologici) con fattori di domanda12. Le caratteristiche del contesto istituzionale americano (un rapporto più stretto fra università e industria; un'ampia disponibilità di tecnici e professionisti a elevata; qualificazione, favorito dallo sviluppo delle discipline tecniche; un'ampia disponibilità di capitale di rischio, un maggiore dinamismo imprenditoriale e una minore sanzione sociale in caso di fallimento | che hanno favorito l'assunzione del rischio d'impresa) hanno posto l'economia americana in una situazione privilegiata per sfruttare le opportunità di crescita della rivoluzione informatica. Queste potenzialità sono state coltivate, sostenute e messe a frutto attraverso una politica di sostegno della domanda. Non solo, a differenza dell'Europa, le politiche macroeconomiche - monetaria, fiscale e valutaria -non sono mai state contemporaneamente deflattive, ma una politica industriale "informale" - si pensi alla spesa militare - ha garantito un mercato per le nuove industrie nascenti, favorendo il consolidamento della supremazia delle imprese americane nei nuovi settori a più elevate potenzialità di crescita. L'espansione della domanda, più che la flessibilità del mercato del lavoro, ha creato quel clima favorevole agli investimenti che ha sostenuto la spettacolare crescita dell'occupazione dell'ultimo decennio. Un vincolo estero meno stringente, grazie 10 Cf. Philippe Aghion, Eve Caroli and Cecilia Garcia-Penalosa, "Inequality and Economic Growth: The Perspective of the New Growth Theories" in Journal of Economic Literature, vol. XXXVII, December 1999, p. 1653. 11 Cf. gli studi citati in Annamaria Simonazzi e Paola Villa, "Flexibility and Growth" in International Review of Applied Economics, vol.13, n.3, 1999, pp. 290-92. 12 Cf. Richard B. Freeman e Ronald Schettkat "The Role of Wage and Skill Differences in US - German Employment Differences" in NBER Working Paper no. 7474, January 2000, p.3. al ruolo del dollaro, un mercato del lavoro più mansueto, grazie alla deregolamentazione del mercato del lavoro, sono fattori permissivi che non bastano tuttavia a spiegare il più elevato grado di tolleranza dei governi europei verso la disoccupazione, rilevato con incredulità e stupore dalla stampa americana, come mostrà il brano in apertura. Il "miracolo" americano ha molte ombre: un aumento delle diseguaglianze dovuto principalmente al crollo dei salari più bassi, e l'accumulazione di squilibri finanziari (aumento del debito delle famiglie per finanziare la spesa per consumi, aumento dei disavanzi nei conti con l'estero). Il problema della diseguaglianza è divenuto così acuto, e così macroscopico è stato il crollo dei redditi più bassi, che una parte rilevante della ricerca recente si è dedicata allo studio, e alla giustificazione in termini "economici", della crescita della povertà in mezzo all'abbondanza. I tentativi di spiegare la crescita dell'ineguaglianza come la conseguenza inevitabile della caduta della domanda di lavoro meno qualificato, indotta dal progresso tecnico, non hanno prodotto risultati convincenti. Innanzitutto la parte più rilevante della caduta dei redditi più bassi è avvenuta tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta, assai prima cioè che le nuove tecnologie potessero far sentire i loro effetti sulla domanda di lavoro (ma in coincidenza con l'intenso processo di ristrutturazione, decentramento e delocalizzazione dell'industria americana). Inoltre non è provato che il progresso tecnico abbia davvero determinato la scomparsa di lavori a bassa qualificazione, come mostra l'esplosione dell'occupazione nei servizi tradizionali (commercio, ristorazione, servizi alla persona) a bassa qualificazione e il permanere, in molti settori dell'agricoltura e dell'industria, di condizioni di vero e proprio sfruttamento. Più plausibile pare l'interpretazione che l'aumento delle diseguaglianze sia semplicemente la conseguenza della deregolamentazione del mercato. Secondo uno studio di Fortin e Lemieut13, un quarto circa della crescita dell'ineguaglianza che si è verificata negli Stati Uniti nel corso degli anni 80 è spiegata da variazioni istituzionali, in particolare dalla caduta del potere d'acquisto del salario minimo, dalla caduta del tasso di sindacalizzazione e dal processo di deregolamentazione in tutti i campi dell'economia. Se gli effetti del progresso tecnico sull'occupazione e sulla distribuzione del reddito non sono ineluttabili, ma sono invece la conseguenza dell'interazione del cambiamento con il contesto economico e istituzionale, si apre la prospettiva, per l'Europa, di un modello di crescita che eviti gli squilibri sociali del modello americano. Il vantaggio di cui godono le imprese americane nelle nuove tecnologie può essere colmato: in Europa vi sono già imprese affermate nei nuovi settori dell'alta tecnologia, il mercato dei capitali di rischio sta sviluppandosi velocemente, la forza lavoro europea ha un livello di qualificazione mediamente più elevato, anche se sono ancora carenti le specializzazioni a livello più elevato. Puntare sul rafforzamento di queste potenzialità, può innescare un periodo di crescita in Europa. Per queste ragioni il dibattito sulla flessibilità, fornendo un alibi per l'inazione politica e distogliendo l'attenzione sui problemi che vanno invece affrontati, ha rappresentato un flagello per l'Europa. Il consolidamento della crescita toglierebbe finalmente fiato alle tesi della flessibilità, se non altro per il fatto che un contesto di crescita favorisce flessibilità e up-grading, e riduce le resistenze al cambiamento. A questo fine, però, è necessario che le nostre autorità monetarie comincino a guardare alla realtà, come è vista dall'America. 13 Cf. Annamaria Simonazzi "Deregulate in order to innovate: Can Europe Learn from the US?", April, 2000.