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Don Guido Pedrotti Mi chiamo Don Guido Pedrotti. Sono nato a Malè il 31 gennaio 1914. Ho vissuto prima a Malè, poi a Mezzolombardo e infine a Trento dove ho intrapreso gli studi nel seminario minore e poi nel seminario maggiore. Consacrato sacerdote nel 1938 sono stato destinato come cappellano in Val di Fiemme a Tesero. Poi da Tesero a Isera e da Isera al Duomo di Bolzano. Erano i tempi del fascismo e da parte mia non sono mancate parole dure, di condanna del fascismo. Così ho cominciato ad essere una persona sospetta. Purtroppo è giunta la guerra, il Duomo è stato fortemente bombardato così come tutta la zona vicina alla stazione. Anche le case della parrocchia sono state bombardate e la maggior parte delle persone che dopo l’8 settembre sono rimaste a Bolzano si sono trasferite nella zona popolare delle Semirurali. Era logico che anch’io lasciassi la cura d’anime al Duomo e mi portassi nelle Semirurali. Dopo l’invasione nazista la cura d’anime era assai difficile. Tanto più che nella zona stessa della mia parrocchia, le Semirurali, nel tardo periodo della mia permanenza, sorse il campo di concentramento di Bolzano, in Via Resia. Questo mi portò necessariamente a cercare di entrare nel campo per portare aiuto. Voglio sottolineare un fatto stupendo, quando io distribuivo la Santa Comunione le donne delle Semirurali e delle case popolari mi portavano i bollini delle tessere e li deponevano sul piattino, così io avevo la possibilità di acquistare nella vicina bottega del pane per mandarlo al campo di concentramento. Questo si è reso molto facile perché diversi miei parrocchiani che lavoravano vicino al campo di concentramento nel genio militare potevano avvicinare la gente che dal campo era mandata a lavorare proprio al genio militare. Altri aiuti mi venivano particolarmente da Milano, dal Cardinale e dal suo segretario Monsignor Bicchierai. Vi erano anche donazioni di denaro da parte degli ebrei parenti dei detenuti del campo. La cosa andava avanti meravigliosamente bene. Nella parrocchia dei Semirurali mi aiutavano due sacerdoti. Uno purtroppo è partito presto per andare nella sua valle, l’altro, Don Daniele Longhi, aveva l’abitazione sopra la chiesetta delle Semirurali che era diventata il centro di smistamenti degli aiuti. Don Daniele Longhi era cappellano dei lavoratori e lavorava nella zona industriale, dove andavano a lavorare molti dal campo di concentramento. Di lì partivano le lettere, il denaro e gli aiuti che facevamo entrare, particolarmente il cibo che poi veniva depositato nelle baracche del genio militare e portato dagli stessi detenuti dentro il campo di concentramento. All’interno del campo vi era un sacerdote che usciva per lavoro, Don Andrea Gaggero di Genova. Lavorava negli uffici della SS e negli uffici tedeschi, il suo compito era quello di accendere le stufe a carbone. In una di queste abitazione, che è nella parte di Gries, ho conosciuto un maresciallo, il quale stava facendo le pratiche per sposare una bolzanina con matrimonio religioso. Perciò potevo entrare e parlare. Il maresciallo che aveva la fidanzata a Merano aveva piena fiducia in me. E così organizzavo gli aiuti dall’esterno. Tuttavia, nel campo di concentramento di Via Resia quella mattina disgraziata due giovani internati sono stati scoperti mentre pulivano e oliavano un revolver. Io vengo a sapere subito la notizia e parlo a Padre Gaggero nel luogo dove lui si trovava a lavorare. Gli dico “prima di entrare, mi raccomando, getta tutto quello che ti ho consegnato alle Semirurali, dentro i giardini e le casette, qualcuno li raccoglierà. Se è onesto me lo porterà, senno servirà a quella gente ”. Si trattava di un malloppo consistente. Per la negligenza di Don Longhi, credendo che si trattasse della solita perquisizione, si arrischiò a portarlo. Fu una fatalità, ma anche ringraziando Iddio un aiuto, perché così sono potuto andare nei campi di concentramento ad aiutare tutta quella gente. Furono perquisiti e il malloppo venne fuori. Fece il grande errore di dire “me l’ha dato un cappellano militare italiano”. Di cappellani militari italiani c’ero solo io, cappellano dei vigili del fuoco, e hanno fatto presto. Mi si presentavano due soluzioni: o fingere di gettarmi nell’Adige, lasciando un biglietto d’addio, o fuggire direttamente. Ma non volevo mettere a repentaglio la vita dei miei fratelli e genitori, che senz’altro sarebbero stati portati in campo di concentramento. Sentii una voce che mi disse “coraggio, vai avanti, avrai da soffrire molto ma finirà tutto bene”. Tutta la notte non ho pensato ad altro che a far sparire dalla mia camera tutti i documenti. Rimasero soltanto gli elenchi per le presenze o le assenze dei chierichetti. Quando perquisirono la mia stanza trovarono questi elenchi con dei segni ‘più’ in rosso e in blu, dissero che quelli erano partigiani, ma poi ho dimostrato che uno di questi non aveva nemmeno dodici anni. Durante la notte avevo fatto sparire tutto quanto era compromettente. E così al mattino dopo, era il 2 novembre 1944, il giorno della commemorazione di tutti i defunti, mi recai a dire la messa. Sono andato a celebrare la messa, o meglio le tre messe dei defunti. Alla seconda messa ho visto un ufficiale della SS e due guardie locali, SOD, Sicherheits Ordnungs Dienst. Ci siamo! Mi sono detto. Terminata la seconda messa mi sono recato in confessionale. Si sono avvicinati e hanno aperto la tendina. Raus!, fuori. Subito mi hanno portato nella mia abitazione. Hanno guardato dappertutto, così bene che poi hanno fatto sparire - l’onestà del Terzo Reich era una gran bella cosa! - una bella radio Grundig di valore, la macchina da scrivere e anche la bicicletta che diedero ad un’impiegata della SS, ma che poi riuscii a recuperare dopo la guerra. Sulla mia abitazione mi hanno fatto scrivere Ich komme bald, torno subito, e da allora mi hanno parlato in tedesco. Sono finito subito nel sotterraneo del corpo d’armata dove rimasi chiuso tutto il giorno. Fortunatamente avevo portato con me una borsa, l’avevano controllata e c’era dell’ottimo strudel, così mi consolai tra tante amarezze. Venne la notte ed io, grande grazia del Signore, dormii facendomi il letto nel deposito del carbone. Alla mattina venne un bravo uomo, un anziano dell’esercito, non della SS, che mi diede uno spintone credendo che io fingessi di dormire. Mi sono svegliato e siamo andati agli interrogatori. Non parlo di torture perché la tortura più grande era la paura di dover parlare, così giurai in partenza di non rispondere. Ad ogni domanda che mi rivolgevano io rispondevo Ich weiss es nicht, non so niente. Ho detto che quello che avevo fatto nel campo di concentramento era autorizzato da Verona, ed era vero, ma non in quella maniera. Dissi che questa autorizzazione era presso un sacerdote cappellano delle carceri. Un’ora dopo questo sacerdote, così anziano poverino!, me lo vedo comparire davanti! Fortunatamente lui ha presentato questo permesso, che in effetti autorizzava a portare dentro il campo aiuti, magari anche di valore, magari anche abbondantemente, ma che prima avrebbero dovuto passare per le loro mani. In seguito il corpo d’armata mi ha portato al campo di concentramento di Via Resia. La veste talare me l’avevano lasciata. Fui chiuso nelle famigerate cellette, dove ancora riuscivo ad avvicinare delle persone, riuscii anche a far sposare qualcuno, ma ebbi subito il sentore di essere destinato ad altra sede. Un fatto terribile. Dentro al campo di concentramento di Bolzano c’era il famoso dottore Lepetit, che era stato arrestato a Milano. Gli avevano promesso che se avesse allestito una farmacia con molti farmaci, lui avrebbe fatto il farmacista e sarebbe rimasto fisso a Bolzano. Invece, quando tutto fu portato, il povero Lepetit partì per la morte. Ho fatto l’impossibile per fargli coraggio, gli dicevo sempre “tutto passa e si scorda, anche Hitler col suo partito”, ma lui mi diceva di no. Forse perché nella sua vita aveva fatto sempre un lavoro di concetto, ma non aveva mai provato quello che abbiamo provato noi cappellani militari nell’esercizio del nostro ministero di assistenza ai soldati. Noi non volevamo nessuna guerra, né l’abbiamo fatta, eravamo solo per l’assistenza. Come cappellano dei vigili del fuoco e comandante, ho cavato fuori dalle macerie anche tedeschi. E ne ho salvati. Rimasi tutto il mese di novembre poi venne il giorno del terribile trasporto. Siamo stati condotti alla zona industriale proprio di fronte allo stabilimento Lancia. Allo stabilimento ho ricevuto dagli operai l’ultimo saluto. Chiesi loro che dicessero ai miei fratelli di andare nella mia abitazione a portare via tutto quello che di bello e di buono c’era. Ci sono riusciti. Eravamo sul solito vagone bestiame. Ci sono stati alcuni che sono riusciti a segare le assi e a gettarsi nelle fermate o nei rallentamenti. Ricordo un fatto meraviglioso, a Innsbruck sono riuscito ad avvicinare una persona dal finestrino e a gettargli un biglietto per annunciare alle mie due zie, Maria e Pia, ambedue sposate a Innsbruck, dove ero diretto. Ero riuscito a leggere la scritta in gesso sul vagone bestiame: Mauthausen. Il viaggio durò un giorno e una notte. Mauthausen vuol dire casa della dogana, perché la navigazione del Danubio veniva fermata a valle e lì avveniva il controllo e la dogana. Siamo stati scaricati dal Kapò in maniera bestiale, e condotti a piedi al campo di concentramento. Subito dopo la solita storia, depositare, controllare, dare i dati, i vestiti e anche i soldi che avevi addosso. Ecco che ad un certo punto io mi trovo nel Revier, cioè nella zona di quarantena. Lì al mattino avvenne la solita conta al freddo. Ormai batteva un vento gelido lassù nella famigerata rocca. Come tutti i deportati ho subito la spoliazione e la rasatura, pure abbondante, perché ho pochi capelli in testa ma avevo tanti peli sul corpo. Con rasoi che erano dei seghetti e con poco rispetto della dignità. Quando poi penso che questi erano a loro volta prigionieri, passati armi e bagagli ai Tedeschi – cosa che del resto è avvenuta anche nel campo di concentramento di Bolzano - era veramente umiliante. Per me l’umiliazione è sempre stata la peggiore e la più profonda pena, perché man mano che passava su di me pensavo a coloro che venivano dopo. Il triangolo con il numero non l’ho voluto ricordare né conservare, perché voleva dire essere stati ridotti come animali. Forse l’ho dato per qualche mostra e poi non mi è più stato restituito. Un giorno si presentò un giovane, ne parlo perché sarei contento se questa fosse l’occasione per ritrovarlo. Mi disse “sono qui nel campo di concentramento, sono Oberschreiber, scrivano superiore, sono un triestino, cresciuto in un istituto salesiano, si fidi di me, c’è la possibilità di far trasferire da Mauthausen a Dachau tutti i sacerdoti. Mi faccia un elenco”. Quella notte non dormii, ma alla mattina ho detto: proviamo. Ho consegnato la lista e siamo stati subito portati. Assieme a me, non c’erano solamente sacerdoti italiani, c’era anche il Cardinale Beran, allora Monsignor Beran, che era dentro al campo di concentramento dalla occupazione russa della Cecoslovacchia, dove era assistente spirituale degli universitari. Gli universitari a Praga furono gli ultimi ad arrendersi ai nazisti, furono fatti prigionieri e portati nel campo di concentramento. Avevano un beneficio: ricevevano pacchi dalla Cecoslovacchia. Per il trasporto, ci hanno messo come vestiti le divise della campagna di Russia della prima guerra mondiale che puzzavano maledettamente di naftalina. Alla stazione ci hanno messo nel vagone di un treno normale, il Vienna-Dachau, o meglio Vienna-Monaco. Il treno fermava nelle varie stazioni e una volta giunto a Monaco il nostro vagone fece i rimanenti ventiquattro chilometri fi n dentro il campo di concentramento. Durante il viaggio avvenne quel che non doveva avvenire. Io avevo le mutandine corte per paura dei pidocchi, e questo povero Monsignor Beran si era portato sette paia di mutande di lana. Allora quello della SS disse “Maledetto! quello ha le mutandine corte in questo freddo e tu hai tutto questo. Dov’è la tua carità cristiana?” Mi ordinò di bastonarlo. Io lo facevo con poca forza, ma lui mi disse in latino “non suaviter set fortiter”, perché se le bastonate erano deboli non venivano contate. Non soavemente ma forte. E così dovetti dargliene sette. A Dachau avevano diffuso la voce di stare attenti perché dopo la doccia avrebbero mandato dentro il gas. Dopo la doccia ci lasciarono ore, abbiamo sofferto tanto freddo ma fortunatamente non abbiamo avuto la condanna al gas. Io anche in quella occasione sono finito in Revier, in quarantena. Poi fui mandato al blocco 26. Nel blocco 26 e 28 c’erano i sacerdoti. Nel 27 gli Jugoslavi. Alla fine i Tedeschi, che se la prendevano con tutti coloro che avevano rallentato la loro marcia e la possibilità della vittoria finale, volevano giustiziare tutti i detenuti del campo jugoslavo. Noi Italiani avevamo una “I” a forma di colonnina, loro avevano la “J”, la i lunga con il riccetto. Sono riuscito a far tagliare il riccetto e a farne passare molti per italiani. Il giorno dell’Immacolata, l’otto dicembre, dopo l’appello, si è avvicinato a me un sacerdote, Rudolf Posch, bolzanino, chiamato il canonico rosso. Era redattore del giornale Dolomiten, un settimanale di lingua italiana e tedesca. Dopo l’8 settembre era stato preso dal suo ufficio e portato prima a Bolzano, poi a Innsbruck e alla fine la polizia di Innsbruck lo aveva passato al campo di concentramento. Dachau era un campo che oggi si direbbe di coltivazioni. Durante la prima guerra mondiale avevano portato dalla Selva Nera tanto materiale, tanta terra nera, e c’erano le cosiddette Gewächshaus, delle vere serre. Dentro quelle serre lavoravano in prevalenza sacerdoti. Nel campo vi era anche un convento intero, dal padre portinaio fino all’abate dei Benedettini, i quali si distinguono specialmente nello studio e nella ricerca di nuove piante, di nuove coltivazioni. Lì dentro si lavorava e si celebrava la messa. Avevamo una specie di cassa per la frutta, dove avevamo nascosto tutto il necessario per celebrare. Mentre noi si lavorava a curare le piante, a trapiantarle eccetera, un altro celebrava la messa. Alla fine si faceva la Comunione. Un giorno è capitato uno della SS e ha trovato che le varie piantine non erano state mosse, la cassetta invece era stata nascosta. Appena si è sentita la porta aprire e ha detto “tu maledetto, non hai fatto niente”, io ho detto “mi scusi ma quelle sono piante riservate da un altro, lui le deve solo curare” Così ce la siamo cavata. C’era poi il famoso Plantage, la rivendita delle piante e dei vasi, dove veniva sempre una Fräulein in bicicletta da un istituto di suore. Questa Fräulein arrivava e comprava. Dopo la guerra questa ragazza è diventata suora e c’è anche un film su questo fatto tedesco, molto interessante. Alla rivendita c’erano sacerdoti polacchi, che con domande e strategie, facendo dei doppi fondi, hanno fatto entrate le ostie, il vino e perfino l’olio per il rituale di consacrazione di un vescovo, uno jugoslavo. Naturalmente celebravamo la Messa di nascosto. Alla fine avevamo allestito una cappella vera e propria. Quando è stato consacrato un povero degente del campo di concentramento sacerdote, malato di tbc, avevamo il pastorale in legno, l’ostensorio in legno che era meraviglioso. Possiamo dire che abbiamo deciso il Vaticano II. Ci siamo detti “finita questa prova, se il Signore ci dà la grazia di rientrare, che cosa faremo? Ci uniremo con tutte le vere fedi in un solo sforzo. Se in nome di quel Cristo e in nome di Dio siamo stati tutti nemici, ora dobbiamo creare una nuova Europa. Il blocco di noi sacerdoti era in mano ad un capo blocco, sacerdote pure lui, il quale rispondeva per noi con la sua vita. Avevamo soltanto i controlli del mattino e della sera. Sono arrivato ad ottenere che se uno aveva quaranta gradi di febbre non doveva essere portato fuori. Il Blockältester, il sacerdote capo blocco, sulla sua vita diceva “uno in più che ha la febbre”, e così abbiamo evitato, almeno per la nostra baracca 26 di far portare via i moribondi. Oltre ai cattolici, nel blocco 26 e 28 c’erano i protestanti e quelli della nuova religione cecoslovacca, cioè quelli che avevano aderito al regime comunista. Anche noi sacerdoti deportati avevamo la zebrata. Poi tutti quelli che più erano propensi alla fuga, i Russi e gli Italiani, venivano rasati col rialzo e in mezzo avevano una striscia a zero, che noi soprannominavamo l’Asse Roma-Berlino. Con noi nel blocco c’era un altro sacerdote italiano, Padre Giannantonio, della Val di Non e confessore a Milano in Duomo. E’ arrivato dal noi distrutto dai pidocchi e lo abbiamo aiutato. Ad un certo momento hanno chiamato dal campo di concentramento i sacerdoti le cui parrocchie erano ai confini della guerra russa. Man mano che il fronte avanzava li liberavano, lavati e rivestiti dei loro vestiti, e li rimandavano ai loro paesi, quasi per mettere, come si può dire, a tacere qualche cosa. Poi mi ricordo di Don Fortin e Padre Manziana. Poi Padre Girotti, il grande domenicano, il qua le poverino teneva delle conferenze stupende perché era uno dei commentatori della Sacra Scrittura, credo sui Salmi. Tutti loro sarebbero finiti male se fossero rimasti in un altro blocco. Poi chi dimentica Don Aldrighetti? Non capiva mai niente di tedesco e mi stava sempre alla destra o a sinistra per chiedermi cosa dicevano. Quando gli Americani sono sbarcati e hanno costruito il ponte fuori era una giornata che non nevicava a Dachau, ma dalle Alpi Bavaresi veniva un vento pieno di neve. Il discorso di Hitler fu questo: è un bene che gli Alleati siano sbarcati, perché praticamente loro sono più forti per mare e sono più forti per aria, ma noi siamo più fortificati, sbarcheranno dieci alleati e ne annienteremo cento, ne sbarcheranno cento e ne annienteremo mille, ne sbarcheranno mille e ne annienteremo diecimila. Und so weiter, e così via. Tutti siamo rientrati nelle baracche avviliti, io invece cantavo. Della liberazione ricordo che abbiamo sentito da lontano i cannoni degli Americani sparare a salve. Puntavano su Dachau. Basta col forno crematorio per la povera gente, giorno e notte hanno bruciato tutte le possibili documentazioni, tutti gli scritti, tutte le cose compromettenti. La carta bruciata girava per l’aria. La cosa più vergognosa è stata che continuavano ad arrivare al campo di concentramento di Dachau vagoni carichi di poveri figlioli che avevano come indumento solo una coperta col buco, e basta. Sono dovuti entrare con le maschere dall’odore e dal fetore, perché erano stati abbandonati dentro a morire di fame e di sete. Finalmente la mattina un carro armato americano è entrato, ha sfondato il famigerato cancello con la scritta Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi, e sono entrati. Ecco che sulla torre di comando è apparso un ufficiale, il qua le ha letto queste parole e le ha tradotte in varie lingue “L’ordine non è da discutere: nessun internato politico deve cadere vivo nelle mani degli Alleati. Usate qualsiasi mezzo. Sottoscritto: Hitler. Ecco quale sarebbe stata la vostra fine se la provvidenza di Dio non ci avesse mandati a liberarvi.” Poi incominciò a fotografare, il cappellano militare recitò il Padre Nostro in diverse lingue, e alla fine cominciarono a gettare sigarette, biscotti e ogni ben di Dio. L’indomani fu eretto un grande altare e il Cardinale Beran celebrò una grande messa di ringraziamento, dicendo “confessando Cristo siamo entrati in questo campo, dobbiamo essere pronti a ritornarci se fosse necessari”’. In effetti lui poi fu molto perseguitato quando giunsero i Sovietici a Praga. Poi ho capito che cosa significava la libertà. E tutte le miserie, alle volte anche aumentate perché era cessata la disciplina e l’ordine. Le miserie del campo di concentramento continuavano, ma eravamo liberi. Arrivati al Brennero, c’era chi diceva canteremo Fratelli d’Italia, canteremo Giovinezza, c’erano anche i nostalgici - canteremo Bandiera Rossa. “No -dissi- giunti al Brennero canterò io”. Sono andato al microfono e ho cantato Mamma son tanto felice. Furono lacrime e canto.