Ultime notizie dal mondo 1-15 Novembre 2006
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Ultime notizie dal mondo 1-15 Novembre 2006
Ultime notizie dal mondo 1-15 Novembre 2006 (http://www.rivistaindipendenza.org/) a) USA / Iraq. Le “elezioni di medio termine” hanno dato al partito democratico la maggioranza alla Camera e al Senato. La debacle elettorale (11 novembre) ha spinto Bush a sostituire il contestatissimo capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, dimissionario, con l’ex capo della CIA Robert Gates (10 novembre). Chi è accorto sa che non muteranno le strategie imperialiste di dominio USA (8, 11 novembre), anche se le attuali difficoltà di fase sembrano obbligare ad un mutamento di tattica (12, 13 novembre). Per Washington il passo successivo è trovare una via d’uscita alla sempre più infuocata questione Iraq (1, 2, 3, 9 e 12 novembre). Una necessità dovuta all’esigenza, per gli Stati Uniti, di aprire altri fronti di guerra. b) Afghanistan / Pakistan. Cosa c’è dietro una madrasa (scuola coranica, cfr. 1 novembre) bombardata con il pretesto di essere “rifugio” di «sospetti militanti di al Qaeda», dettaglio a parte (si fa per dire, ovviamente) che a morire sono stati 83 studenti di età compresa tra i 9 e i 18 anni (15 novembre). Anche il primo ministro pakistano si è sentito in dovere di protestare (13 novembre). La situazione di un Pakistan che cerca di aumentare il suo peso nella regione (1 novembre) si intreccia con quella di un Afghanistan sull’orlo di una «catastrofe umanitaria» per le brutalità ed i metodi spicci della NATO, e dove l’opposizione alle forze della “coalizione” è sempre più dirompente (9, 15 novembre). E così, a 17 anni dalla caduta del Muro di Berlino, c’è chi propone di costruirne uno analogo alla frontiera tra Afghanistan e Pakistan (6, 9 novembre). c) Israele / Palestina. Il tema (e la logica!) del Muro ci porta a Washington, che intende fortificare la “barriera” alla frontiera con il Messico (9 novembre) e a Gerusalemme. Alcune ONG hanno sollevato il problema del “Muro dell’Apartheid” israeliano, denunciando indirettamente il fatto che quando si parla di Israele non c’è “legalità internazionale” che tenga (10 novembre). Impunità assoluta, insomma! Miracoli dell’“unica democrazia del Medioriente”, che in questa fase si sta distinguendo per distruzioni e mattanze a tutto spiano nei “Territori occupati” (2, 4 novembre). Non facendosi scrupoli di sparare su donne indifese (4 novembre). L’ingresso nel governo Olmert della “destra sociale” Yisrael Beitenu di Lieberman non lascia presagire nulla di buono per i palestinesi (4, 9 novembre). Di fronte alle continue devastazioni e massacri, ai «Crimini di guerra» e «terrorismo» denunciati dall’Osservatore ONU (10 novembre) e seguiti dalla totale impunità internazionale (11 e 12 novembre; si guardi anche al 13 per un piccolo sguardo sulla politica presente e passata dei regimi arabi sulla Palestina), non deve sorprendere che a Gaza si parli e s’invochi una «terza Intifada» (9 novembre). Sparse ma significative: • Cina / Africa. Si è svolto a Pechino il terzo forum per la cooperazione tra Cina e Africa. Gli obiettivi strategici di Pechino (4 novembre). • Georgia / Ossezia. Uno sguardo al referendum indipendentista nell’Ossezia del sud ed alle reazioni internazionali (11, 13 novembre). • Euskal Herria. ETA chiama il governo spagnolo a mantenere i suoi impegni per dare sbocco al processo di pace in terra basca (4, 5, 8 e 9 novembre). • USA / Vietnam. A 32 anni dalla fine della guerra del Vietnam, si muore ancora per gli effetti dell’“agente arancio” (13 novembre). Un dato che dovrebbe far riflettere pensando agli effetti sulle generazioni future che produrranno i bombardamenti USA (non solo all’uranio impoverito) in Iraq, Kosovo, Afghanistan, oltre a quelli israeliani in Libano e Palestina. • Russia / Cecenia. Riflettori in tale ambito andrebbero accesi anche sui crimini russi nel paese del Caucaso. Qualche cenno sulla situazione in Cecenia (4, 12 e 14 novembre). Tra l’altro: 1 Irlanda del Nord (1, 11 novembre) Catalogna (2, 8 novembre) Libano (1, 5, 10 e 11 novembre). Clamorose rivelazioni sulla morte dell’ex premier Rafik Hariri. Taiwan (1 novembre) Iran (2, 6, 11 e 14 novembre). Prove di guerra di USA e alleati/subalterni al largo delle acque iraniane. La risposta di Teheran è un severo monito ai progetti bellici di Washington. Somalia (6, 12 e 13 novembre) Panama / ONU (7 novembre) Nicaragua (8 novembre). Elezioni presidenziali. I sandinisti al potere dopo 16 anni. USA / Cuba (9 novembre) Serbia (10 novembre) India / Cina (14 novembre) USA / Unione Europea (15 novembre) • Irlanda del Nord. 1 novembre. Saranno demoliti i Blocchi H della famigerata prigione di Long Kesh, simbolo del conflitto sofferto dal nord Irlanda durante trent’anni. Lo scorso fine settimana una scavatrice ha iniziato i lavori alla Jaula 20, uno dei recinti utilizzati per albergare prigionieri repubblicani. La demolizione di tutti, salvo uno dei Blocchi H (così chiamati per la particolare forma che avevano), dovrebbe concludersi nella prima metà del 2007. L’unico edificio della prigione che sarà conservato, l’ospedale nel quale morirono dieci prigionieri repubblicani durante lo sciopero della fame del 1981 per rivendicare ai repubblicani lo status di prigionieri politici, diventerà un centro per la risoluzione dei conflitti. La prigione di Long Kesh ha chiuso nel settembre 2000, dopo la scarcerazione dei prigionieri politici repubblicani e lealisti prodottasi in base ai termini dell’Accordo del Venerdì Santo (1998). Gli ultimi sono stati trasferiti al carcere di Maghaberry, vicino ai Blocchi H, o a quello di Magilligan, nella contea di Derry. Furono all’inizio 400 gli incarcerati nelle strutture dei Blocchi H, quando il governo britannico applicò la politica della detenzione senza giudizio nell’agosto 1971. Un anno dopo il numero saliva a 900. Solo a poco più di tre dalla loro costruzione, nel dicembre 1974, erano oltre 1.100 i prigionieri di categoria speciale nella prigione. • Irlanda del Nord. 1 novembre. Che non si trasformi in «un altare repubblicano». È quanto auspica e teme Edwin Poots, rappresentante del DUP (Democratic Unionist Party) nell’Assemblea nordirlandese, con riferimento all’unica struttura dei Blocchi H che non sarà demolita per essere adibita a centro per la risoluzione dei conflitti. Paul Butler, del Sinn Féin, ha detto che il centro può giocare «un ruolo enorme nella trasformazione dei conflitti in scenari di pace» ed ha sottolineato che la principale preoccupazione del Sinn Féin è anche «la conservazione (di Long Kesh, ndr) per l’importanza storica e non solo per i repubblicani». • Irlanda del Nord. 1 novembre. Il DUP vuole ritardare il trasferimento dei poteri. Il Democratic Unionist Party (DUP) non vuole che il trasferimento del potere giudiziario e del controllo della polizia nelle istituzioni nordirlandesi si produca immediatamente anche nel caso che queste siano ripristinate nel marzo del prossimo anno. Nigel Dodds, rappresentante del DUP, ha accusato il Sinn Féin di non cercare il sostegno della base repubblicana per l’istituzione della polizia nordirlandese ed ha ribadito che non si produrrà alcun trasferimento di poteri «fino a quando non si ottenga la fiducia della comunità unionista». Il che, ha aggiunto, comporterà «abbastanza tempo». «Il governo britannico ed il Sinn Féin», ha proseguito Dodds, «devono essere onesti con la gente e non insistere sul fatto che i repubblicani avranno poteri in tali ambiti, perché non li avranno». La scorsa settimana il 2 DUP ha iniziato le consultazioni nella comunità unionista sull’appoggio da dare o meno alla proposta di Londra e Dublino alle negoziazioni scaturite a Saint Andrews (Scozia) agli inizi del mese scorso. Il DUP ha inviato un foglio informativo nel quale chiede alla base di inviare il proprio parere sul su citato documento entro l’8 novembre. Due giorni dopo scade il termine imposto dai governi britannico ed irlandese perché i partiti confermino o meno il proprio appoggio al documento. Nel foglio il DUP non propone di appoggiare o respingere la proposta. Il suo massimo dirigente, il reverendo Ian Paisley, ha però avvertito che il rifiuto del documento consentirebbe al Sinn Féin di non impegnarsi su un compromesso di appoggio alle Forze di Sicurezza nordirlandesi. Il portavoce del Sinn Féin sulle questioni della polizia e della giustizia, Gerry Kelly, ha definito «folle» che il DUP esiga dai repubblicani che appoggino l’istituzione di una nuova polizia ed il potere giudiziario per poi negargli influenza o decisione su tali questioni per i prossimi anni. • Libano. 1 novembre. Hariri è stato ucciso dal Mossad. Un dirigente del servizio segreto francese DGSE –Direction générale de la sécurité extérieure– ha dichiarato il 24 ottobre scorso al Wayne Madsen Report che l’ex primo ministro libanese, Rafik Hariri, è stato assassinato con un’auto-bomba allestita dal Mossad israeliano. La rivelazione dell’intelligence francese è significativa, tenuto conto che la Francia si è unita all’amministrazione Bush e ad Israele nel condannare la Siria per l’attentato. Secondo il dirigente della DGSE, Washington e Tel Aviv volevano condannare la Siria per l’assassinio del popolare leader libanese al fine di innescare una rivolta popolare libanese che portasse al ritiro delle forze siriane dal Libano. Ciò doveva servire a lasciare il Libano senza difese in previsione di devastanti bombardamenti che poi Israele ha attuato con il sostegno USA. • Pakistan. 1 novembre. Raid aereo colpisce una madrasa nella città pakistana di Chingai, vicino al confine con l’Afghanistan, causando la morte di oltre ottanta persone tra cui bambini tra i 10 ed i 15 anni. Il bombardamento della madrasa, accusata da Karachi e Washington di essere un centro di addestramento di «terroristi», sembra sia stato effettuato congiuntamente da forze aeree pakistane e statunitensi (altre fonti affermano invece che sia stato opera di uno solo dei due Stati), ufficialmente con lo scopo di colpire il considerato braccio destro di Bin Laden, il medico egiziano Ayman Al Zawahiri, che si sarebbe trovato al suo interno. A smentire quanto sostenuto dai due governi, comunque, le vittime dell’attacco sono risultati essere pressoché tutti studenti e insegnanti, e nessun militante di al-Qaeda. Il raid aereo mette in crisi i negoziati in cui sono impegnati il governo di Karachi e i leader tribali della zona di confine con l’Afghanistan. • Pakistan. 1 novembre. Differenti abitanti della zona, intervistati da mezzi di comunicazione locale, hanno riferito che l’attacco contro la madrasa è stato effettuato da aerei statunitensi e che elicotteri pakistani hanno dato copertura agli apparecchi di Washington. Tra le testimonianze quella di un deputato locale, dimessosi per protesta dopo l’attacco, Haroon Rashind, che ha dichiarato: «sono stati gli americani a lanciare missili contro la madrasa (...). Vivo ad un chilometro dalla madrasa e ho potuto vedere tutto». • Pakistan. 1 novembre. L’attacco è stato portato a termine da elicotteri pakistani «con assistenza NATO», nel senso di aver agito su informazioni dello spionaggio statunitense. Lo ha dichiarato il portavoce dell’esercito pakistano, il generale Shaukat Sultan. Ieri, una fonte dello spionaggio pakistano aveva dichiarato che erano stati aerei della NATO ad attaccare la scuola, con il consenso di Musharraf, sulla base di informazioni poi rivelatesi «erronee» dai servizi di intelligence USA secondo i quali in quella madrasa poteva essere nascosto Al Zawahiri. Il governo pakistano avrebbe deciso di assumere la responsabilità dell’accaduto per evitare un’imbarazzante situazione agli occhi dei pakistani, ha aggiunto la fonte, che ha 3 anche ricordato che, nel prendere il controllo delle forze distaccate in Afghanistan, la NATO ha detto chiaramente a Musharraf che, se non agiva contro la supposta retroguardia talebana nella zona di frontiera, lo avrebbe fatto essa stessa. A minacciare direttamente Musharraf sarebbe stato il comandante in capo delle forze d’occupazione NATO in Afghanistan, il generale Richards, durante un incontro. Qualche settimana fa, in occasione dell’assemblea generale dell’ONU, il presidente Musharraf in una intervista alla televisione USA Cbs aveva parlato di minacce ricevute dal suo Paese all’indomani dell’11 settembre. Il vice segretario di Stato USA avrebbe detto al capo dell’intelligence pakistana «Vi bombarderemo, siate pronti a tornare all’età della pietra» se il governo di Islamabad non avesse cooperato con gli USA. • Pakistan. 1 novembre. Nel giro di qualche anno da Stato canaglia è passato al ruolo di alleato nella «lotta al terrorismo». Islamabad fa della politica regionale il suo punto di forza: buoni rapporti con la Cina, riavvicinamento all’India per risolvere il problema del Kashmir, integrazione con il grande mondo centro asiatico attraverso lo status di osservatore nella Shanghai Co-operation Organization. Ma soprattutto il Pakistan dispone dell’arma nucleare. La contrapposizione all’India, altra potenza nucleare regionale, è ormai un dato superato. Molto più importante appare oggi il fatto che il Pakistan sia l’unica potenza nucleare del mondo islamico. Va ricordato per inciso che né India né Pakistan hanno aderito al trattato di non proliferazione. L’India tuttavia sta cercando di legittimare il suo status di potenza nucleare con accordi di cooperazione con gli USA, avviati già dal 2005 tra il presidente Bush e il primo ministro indiano Manmohan Singh. L’aiuto USA ai programmi nucleari civili indiani dovrebbe convincere Nuova Delhi ad accettare i controlli dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) sui suoi impianti. Del nucleare pakistano, dopo l’episodio dello scienziato Abdul Qadeer Khan, si è invece saputo molto poco. • Taiwan. 1 novembre. Parlamento blocca un disegno di legge che avrebbe dato il via libera ad un piano di acquisto di armamenti militari da Washington per 18,5 miliardi di dollari. La bocciatura del piano è stata possibile per la convergenza dei due principali partiti di opposizione, il Kuomintang e il People First Party. I due partiti della “fazione blu” (cioè favorevoli alla riunificazione) hanno respinto il disegno di legge non per opposizione politica a Washington, ma per la ragione interna di indebolire il presidente Chen Shui-bian e l’esecutivo del Partito Progressista Democratico (pro-indipendenza) attualmente al governo. Con questa, è la 62^ volta che il Parlamento blocca il piano elaborato da Washington nel 2001: un’offerta di strutture e mezzi militari quali sistemi antimissilistici Patriot, sottomarini e aerei anti-sottomarini. L’ennesima bocciatura ha profondamente infastidito Washington che, tramite il suo plenipotenziario accreditato a Taipei, Stephen Young, teme futuri piani militari di Pechino che considera Taiwan parte del proprio territorio nazionale. • USA / Sudan. 1 novembre 2006. George Bush prolunga di un altro anno le sanzioni contro Khartoum dichiarando in un comunicato che il paese costituisce «una minaccia straordinaria alla sicurezza nazionale ed alla politica estera» degli USA. Il Sudan è considerato una «emergenza nazionale» dal 3 novembre 1997; le relative sanzioni sono state rinnovate il 3 aprile 2006. In un discorso elettorale Bush ha poi ribadito la necessità di inviare una «efficace» forza militare internazionale nella regione del Darfur in Sudan. Nel luglio 2006 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha deciso l’invio di 20mila truppe nel Darfur a sostituire o rafforzare la forza di pace di 7mila soldati dell’Unione Africana. Khartoum ha più volte ribadito che l’arrivo di truppe ONU sarebbe considerato alla stregua di un’aggressione. 4 • USA / Iraq. 1 novembre. Gli USA starebbero negoziando con settori della resistenza armata grazie anche alla mediazione di paesi della zona. Lo ha dichiarato oggi l’ambasciatore statunitense in Iraq, Zalmay Jalilzad, in una conferenza stampa nella super protetta Zona Verde di Baghdad. Portavoci delle organizzazioni armate hanno già fatto sapere che tentativi negoziali di Washington sono cominciati dalla scorsa primavera. Il Pentagono ha intanto dovuto riconoscere che le sue forze devono far fronte a bombe sempre più sofisticate che sempre precedono le imboscate, ad un notevole incremento degli attacchi di franco tiratori (ed i relativi filmati sono sempre più frequenti su internet) e l’uso sempre più efficace di lanciagranate anti-carro. Fonti di intelligence riportate dalla stampa USA danno per certa la centralizzazione della formazione dei cecchini, sempre più capaci dopo le modifiche apportate alla carabina Dragunov, e l’utilizzo di un missile terra-terra che sarebbe nella disponibilità di una non precisata organizzazione islamista armata anti-occupazione. Il generale dell’Esercito USA, William B. Casey, portavoce militare, ha dichiarato che il numero di perdite statunitensi in combattimento è raddoppiato dalla scorsa estate e che gli attacchi della resistenza si sono quadruplicati. • USA / Iraq. 1 novembre. Nasce il Comando Politico Unificato della Resistenza Irachena. Lo scrive nell’edizione del 27 ottobre scorso Al-Quds Al-Arabi, editato a Londra. Questo Comando, prosegue il quotidiano arabo, è nato dopo «contatti e gestioni» tra personalità e organizzazioni sociali, politiche e militari del campo anti-occupazione e contrarie al processo politico imposto dagli Stati Uniti. È composto da 25 membri (15 dell’estero e 10 dell’interno dell’Iraq) che rappresentano il Partito Baath Arabo Socialista, l’Alleanza Patriottica Irachena, il Comando Generale delle Forze Armate (integrato da antichi comandanti militari), le correnti dei «comunisti patriottici» opposti alla linea collaborazionista della direzione del Partito Comunista Iracheno, l’Associazione degli Ulema Musulmani (la massima istanza religiosa sunnita del paese), l’ayatollah sciita Ahmed al-Hussaini al-Bagdadi, la Corrente Nazionalista e Nasserista, l’Esercito al-Rashidin, l’Esercito Islamico e le Brigate della Rivoluzione del 1920, «queste tre ultime formazioni anche militari, la prima integrata da ex militari e le altre due di filiazione islamista sunnita non takfirista». Secondo imprecisate fonti irachene, l’annuncio sancisce l’unificazione della base sociale, politica e militare anti-occupazione, integrando personalità ed organizzazioni tanto del Fronte Patriottico Nazionalista ed Islamico come del Congresso Fondativo Nazionale Iracheno, finora due blocchi ben relazionati ma senza connessione formale tra loro. Artefice dei contatti e catalizzatore dei rapporti tra personalità ed organizzazioni di diverso ambito sarebbe stato l’ex viceprimo ministro iracheno, Izzat Ibrahim, che continua a risiedere a Baghdad e che è molto malato (leucemia). «La creazione di un comando politico, che riunisce tutti gli elementi della resistenza, è una necessità assoluta per ogni movimento di liberazione nazionale ed in ogni epoca storica», sostiene la Rete Bassora o Chabakat Al Basrah, vicina al partito Baath, dopo le informazioni uscite sul quotidiano di Londra. • Catalogna. 2 novembre. Vittoria chiara ma non sufficiente di CiU (autonomisti di destra) e forte indietreggiamento del PSC (socialisti catalani). ICV-EUiA è stata una delle formazioni che può dire di aver vinto: è passata da 9 a 12 seggi. Una crescita anche in numero di consensi. Ha tenuto l’ERC. L’astensione ha raggiunto il 43,23%, uno dei dati rilevanti delle elezioni parlamentari in Catalogna. Il risultato di ieri consentirebbe al tripartito PSC- ERC (Esquerra Republicana de Catalunya, indipendentisti di sinistra) e ICV-EuiA (sinistra rossoverde catalana) di rilanciare al governo la propria maggioranza nonostante la perdita di quattro seggi. Aritmeticamente sono aperte altre combinazioni, come un patto PSC-CiU o un fronte nazionalista tra CiU e ERC. Nessuna formazione ha infatti ottenuto la maggioranza assoluta ed il numero complessivo di parlamentari su cui calcolare la maggioranza è di 135. CiU ha ottenuto 48 deputati, due in più del 2003. Il PSC ne ha perso 5. Altro dato 5 significativo è l’ingresso, nello scenario politico, di un soggetto poco considerato alla vigilia: Ciutadans-Partit de la Ciutadania (C’s), un partito che non ha nemmeno un anno di vita e che ha ottenuto 3 seggi. È una formazione considerata «antinazionalista» a Madrid e «nazionalista spagnola» in Catalogna. Ciutadans si autodefinisce «liberal-progressista» ed è critica dello establishment politico tradizionale. È nata soprattutto in segno di protesta per il dibattito identitario sviluppatosi in relazione al processo di riforma statutaria. Si pone contro la «difesa del castigliano» e ancor più contro chi sostiene l’idioma catalano come lingua ufficiale. Al centro pone diritti umani, valori universali, anti-partitismo più un liberismo radicale. Ha avuto il sostegno di artisti ed intellettuali. • Catalogna. 2 novembre. Le elezioni regionali catalane sono un passaggio di grandissima importanza per la Catalogna e per la Spagna. Il primo ministro socialista José Luis Rodriguez Zapatero non a caso si è speso molto per sostenere la candidatura, piuttosto opaca, del candidato del PSC a President della Generalitat, José Montilla. Innanzitutto perché sono le prime in vista delle regionali in tutte le altre 16 Comunità autonome dell’anno prossimo e delle politiche del 2008. Poi perché sono un test importante a livello nazionale in una fase di cruento scontro politico fra il governo PSOE e la dura opposizione del Partito Popolare soprattutto rispetto al difficile ed ancora embrionale processo di pace avviato fra Zapatero e l’ETA (per i popolari si tratta di una «resa dello Stato al terrorismo»). A livello catalano l’importanza sta nel fatto che sono le prime elezioni dopo il sofferto tragitto che ha portato all’approvazione, prima alle Cortes madrilene poi nel referendum regionale di giugno, all’approvazione del nuovo statuto d’autonomia nel cui preambolo si definisce la Catalogna «una nazione»: la nuova Generalitat sarà quella che dovrà gestirne i vastissimi poteri di fronte. Non irrilevante, neanche qui, il peso politico dell’opposizione dei popolari che grida allo «smembramento» dell’unità dello Stato spagnolo. Proprio sullo statuto si è rotto il tripartito di sinistra (PSC-ERC-ICV) che ha retto la regione dal 2003: per gli indipendentisti repubblicani sono stati troppi i tagli apportati «da Madrid» (e da Zapatero) al testo originario. Anche il socialista Maragall, che per Zapatero si era spinto troppo avanti sulla strada dell’autonomismo, è caduto per strada, sostituito da Montilla. • Israele / Palestina. 2 novembre. L’imponente attacco sferrato da Tsahal nella Striscia di Gaza è un assaggio dell’offensiva che il governo israeliano non ha ancora formalmente approvato ma che continua a rimanere una possibilità concreta. Trattiene i comandi militari israeliani la constatazione delle accresciute capacità belliche dei combattenti palestinesi. Lo scrive ieri il quotidiano israeliano Maariv, che ha raccolto i racconti dei riservisti della Compagnia C della Brigata 630 impegnata in queste ultime settimane. I palestinesi, dicono i riservisti, non solo sono in possesso di razzi anticarro, ma hanno imparato ad usarli, con sofisticate tecniche di combattimento. Ora i soldati israeliani sono spesso costretti ad avanzare a piedi e non con i mezzi blindati che non garantiscono più una protezione adeguata. A frenare il premier Olmert sarebbe anche il ministro della difesa Amir Peretz che, dopo aver sostenuto l’attacco al Libano, è ora contrario a un’offensiva ampia a Gaza. Contrasti che hanno spinto Olmert a isolare Peretz facendo entrare l’estremista di destra Avigdor Liberman nel gabinetto di sicurezza, in vista anche di un possibile attacco contro l’Iran. Ieri, al suo debutto nel ruolo di ministro per le «minacce strategiche» e vice del primo ministro Ehud Olmert, Lieberman non ha tradito le attese. Commentando l’operazione in corso a Gaza, ha suggerito di agire «come la Russia opera in Cecenia», ovvero usando il massimo della forza e violando sistematicamente i diritti umani. Si tratta di una questione semantica: l’esercito israeliano già attua certi metodi senza dargli un marchio d’origine russo. 6 • Palestina. 2 novembre. Le risorse finanziarie a disposizione dell’Autorità Nazionale Palestinese sono crollate del 60% dalla costituzione del governo di Hamas, lo scorso marzo, in seguito al congelamento degli aiuti economici internazionali. Lo ha riferito ieri il Fondo Monetario Internazionale. Nel periodo aprile-settembre, i fondi si sono contratti, rispetto allo stesso periodo nell’anno precedente, da 1,2 miliardi di dollari a 500 milioni di dollari. • Iran. 2 novembre. «Decine di missili», tra i quali gli Shahab-3, con una gittata che può raggiungere i 2.000 chilometri, saranno impiegati dall’Iran in manovre militari al via da oggi in varie regioni del Paese e nel Golfo. Lo ha riferito la televisione iraniana in lingua araba al-Alam. All’agenzia Isna il capo dei Pasdaran (guardiani della rivoluzione), Yahya RahimSafavi, ha detto che le manovre «non rappresentano una minaccia alla regione, ma servono proprio alla sua sicurezza e dimostrano il potere deterrente dei Guardiani della rivoluzione contro possibili minacce (...). Se nemici provenienti da fuori della regione e Paesi avventuristi intendono portare danno ai nostri interessi, noi colpiremo profondamente i loro». Le esercitazioni seguono di qualche giorno quelle tenute lunedì nelle stesse acque dalle marine militari di USA e alleati/subalterni, Italia inclusa, che simulavano l’intercettazione di una nave trasportante ad un Paese della regione materiale sensibile dal punto di vista nucleare. Sulla presenza di navi da guerra USA nel Golfo, il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Mohammad Ali Hosseini, aveva detto che Teheran «controlla molto attentamente» la situazione, poiché «la politica degli USA è di creare tensioni nella regione e Washington persegue una linea avventurista. Ma la reazione della Repubblica islamica», ha aggiunto, «sarà molto logica e saggia». • USA / Iraq. 2 novembre. Iraq nel caos. Un grafico riservato del Comando Centrale USA dice che la violenza è a livelli record. I generali hanno mostrato al Pentagono schemi e diagrammi computerizzati in PowerPoint, il 18 ottobre. La segretezza è stata mantenuta fino alla pubblicazione, ieri, su New York Times. Si tratta di un grafico semplicissimo. Sotto il titolo «Indice di conflitto civile» c’è una scala che ha all’estremo sinistro la situazione «pace», all’estremo destro la situazione «caos». Prima dell’attentato che ha provocato una strage nel mausoleo shiita di Samarra, nel febbraio scorso, la freccia era quasi al centro, una situazione di relativo equilibrio: da allora si è spostata rapidamente verso la zona «caos». In fondo al riquadro c’è una sintesi: «Le aree urbane stanno vivendo una campagna di “pulizia etnica” per consolidare il controllo»; «La violenza è al livello più alto finora raggiunto, e si espande geograficamente». • USA / Iraq. 2 novembre. Altrettanto sintetica è la legenda al diagramma. I fattori chiave nel valutare il conflitto civile sono la retorica ostile da parte di leader politici e religiosi delle diverse parti, misurata ascoltando sermoni e discorsi di esponenti sunniti e sciiti (è molto alta ma stabile). Poi l’influenza dei leader politici e religiosi più moderati sulle rispettive basi d’opinione: e questa è in netto ribasso. Altri fattori sono le uccisioni e attacchi settari, e i «conflitti spontanei di massa». Altre variabili considerate sono l’attività delle milizie armate (in aumento), i problemi di «governance» (cioè la corruzione e inefficacia del governo, giudicata alta), l’inefficacia della polizia («significativa») e quella dell’esercito, il numero di civili costretti a sfollare per fuggire alla tensione e violenza settaria (in aumento). Sono indicatori del «conflitto civile» infine l’accelerazionme dei kurdi iracheni verso la secessione e l’annessione di Kirkuk, e la violenza generalizzata motivata da differenze settarie, che è entrata in una fase «critica». Uno dei fattori considerati chiave in questa descrizione, dicono i militari, è l’attività delle milizie: i militari statunitensi ammettono che le forze di sicurezza irachene, addestrate per anni, sono o incapaci di far fronte alla situazione, o infarcite dalle stesse milizie che dovrebbero combattere. 7 • USA / Iraq. 2 novembre. «Ho ordinato metodi duri negli interrogatori? Sì, ma sempre in seguito ad ordini provenienti dall’alto e per iscritto». Così si difende il generale Ricardo Sanchez, ex comandante delle truppe USA in Iraq, che, obbligato ad andare in pensione, dà la colpa della prematura fine della sua carriera allo scandalo delle torture nel carcere di Abu Ghraib. Il generale fu criticato per non aver fatto di più per evitare gli abusi immortalati in una serie di foto che, tra le meno scioccanti peraltro, fecero all’epoca il giro del mondo. Sanchez, 55 anni, è andato in pensione nel corso di una cerimonia a Fort Sam Houston di San Antonio in Texas. Come comandante del Quinto Corpo d’Armata nel 2003, sostiene, aveva diffuso tre memorandum in cui autorizzava metodi duri negli interrogatori. • Messico. 2 novembre. Decine di arresti e perquisizioni nel corso dell’occupazione militare a Oaxaca, capitale dell’omonimo Stato. Centinaia di agenti della Policía Federal Preventiva hanno abbattuto le barricate erette dalla Appo, l’Asamblea Popular de los Pueblos de Oaxaca, nei pressi dell’Università. Intanto, con il voto favorevole del Partido de la Revolución Democrática, di gran parte del partito di governo Pan e di altri gruppi minoritari, la Camera messicana ha approvato lunedì 30 una mozione che invita il governatore Ruiz a «rinunciare al suo incarico» per porre fine al conflitto nello Stato. • Colombia. 2 novembre. Assalto FARC: uccisi molti poliziotti. All’alba di ieri, almeno 500 uomini delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) hanno preso d’assalto la località rurale di Tierradentro, nello stato di Cordoba, a 400 chilometri a nord est di Bogotà. Un attacco concentrico che ha portato alla morte di una ventina di poliziotti ed al ferimento di svariati altri. Lo ha reso noto, informa Radio Caracol, il capo della marina, generale Jorge Ballesteros. L’attacco avviene in un momento in cui, tra governo e FARC, sono interrotti i contatti per arrivare ad un scambio umanitario tra 500 guerriglieri in carcere e 58 ostaggi da anni nelle mani della guerriglia. • USA / Iraq. 3 novembre. Tensioni crescenti tra amministrazione USA e governo iracheno. Sulla grande stampa statunitense si dà per raggiunto il punto di rottura. C’è chi parla di un imminente colpo di Stato (formalmente ad opera delle forze armate irachene, in realtà incoraggiato e guidato dalla CIA) per defenestrare il primo ministro Nouri al-Maliki e tutto il suo governo, e sostituirli con un nuovo ‘uomo forte’ con annesso regime che dia migliori garanzie di portare a termine quella ‘irachizzazione’ del conflitto da cui ormai dipendono le residue speranze statunitensi non già di arrivare ad una vittoria, ma quanto meno di ridurre rapidamente il proprio impegno diretto nella contro-guerriglia e salvare il salvabile. AlMaliki potrebbe fare la stessa fine del presidente sud-vietnamita Ngo Dinh Diem, che 33 anni fa venne deposto e assassinato in un colpo di Stato pilotato dalla CIA, quando la Casa Bianca ritenne che era divenuto un impaccio per i loro piani di diversa conduzione della guerra in Vietnam. • USA / Iraq. 3 novembre. In Iraq la strategia USA si è basata sulla predominanza demografica e sul desiderio di rivalsa delle comunità sciite, tenute in una posizione di sudditanza se non perseguitate sotto il regime di Saddam Hussein. Da qui l’epurazione e la capillare emarginazione di baathisti e sunniti, la formulazione e approvazione di una costituzione che garantisse una struttura di autonomie regionali ed infine elezioni per centrare il potere (sotto supervisione USA) sulla coalizione dei partiti sciiti, la United Iraqi Alliance. La resistenza armata dei vari gruppi più o meno riconducibili a ex-membri del Baath si è dimostrata più dura e decisa del previsto. A sua volta il favoritismo verso gli sciiti ha portato alla reazione sunnita. Una situazione non imprevista, anzi, di fatto incoraggiata, che sta determinando una situazione molto simile a una guerra civile-religiosa. Una serie di attentati (per tutti quello alla moschea di Samarra), di matrice mai accertata, respinta e 8 criticata da tutti i gruppi di diversa confessione pur tra loro confliggenti, sembra ricondurre ad operazioni da servizi segreti interessati ad uno scenario di questo tipo. La continua opposizione alla presenza delle truppe di occupazione, che è il filone principale delle azioni di resistenza, può essere contrastata o quantomeno se ne può alleggerire la pressione alimentando rancori e rivalse ereditate dal passato regime e spingendo ad una guerra di tutti contro tutti. A ciò si aggiunga il fatto che i partiti e le comunità sciiti si sono rivelati ben poco riconoscenti verso i loro ‘liberatori’ e semmai guardano a Teheran, il che, a peggiorare (per gli occupanti) ancor più le cose, offre all’Iran straordinarie possibilità d’azione sia all’interno dello scenario iracheno sia a livello regionale. • USA / Iraq. 3 novembre. Gli Stati Uniti hanno concorso a mettere sotto scacco, nel paese, la propria strategia imperiale. La frantumazione in tre parti del paese arabo occupato potrebbe rappresentare un’uscita –dall’attuale insostenibile situazione– peggiore. Da qui il tentativo di inversione di rotta della Casa Bianca con la sua cosiddetta “politica di riconciliazione nazionale”. Questa poggia su due punti principali: reintegrazione nel grado e nelle funzioni di buona parte del personale sunnita in precedenza epurato dalle forze armate e dalla amministrazione statale; l’approvazione di una nuova legge, che garantisca la distribuzione dei ricavi derivanti dall’estrazione del petrolio tra tutte le comunità del Paese in proporzione alla loro consistenza demografica e indipendentemente dalle regioni dove si trovano i pozzi. Questa legge dovrebbe quindi riportare il controllo delle risorse petrolifere sotto le autorità centrali e con ciò rovesciare i piani, previsti nella costituzione irachena, per una sostanziale autonomia regionale (compreso il controllo diretto sulle riserve petrolifere) del nord curdo e il sud sciita dove sono situati i giacimenti iracheni, mentre il triangolo sunnita ne è privo. In altri termini, gli Stati Uniti potrebbero indirettamente riconoscere che la resistenza sunnita ha vinto la guerra e cercare un accomodamento con i sunniti stessi tramite la restituzione di parte di quanto è stato loro tolto con Iraqi Freedom, pur di mantenere il riconoscimento –anche tacitamente accordato– della funzione guida di Washington. Una specie di ritorno al regime di Saddam Hussein, senza quell’uomo forte, con una relativa posizione più accomodante degli sciiti. • USA / Iraq. 3 novembre. Questa inversione di rotta Washington vorrebbe che venisse messa in atto come scelta autonoma del governo di al-Maliki, che però non può né vuole farlo. Oltre agli sciiti, anche i kurdi vedrebbero sfilato il controllo del proprio petrolio. Il reintegro, poi, di ufficiali e funzionari sunniti aprirebbe ulteriori fronti di scontro ad esempio nella stessa comunità sciita. Per questo la Casa Bianca vuole da al-Maliki, quale primo atto, che disarmi le milizie sciite, cioè quelle del suo stesso partito e della sua comunità. E tanto per cominciare quelle dell’Esercito del Mahdi del ritenuto inaffidabile Moqtada al-Sadr. Il disarmo di questo esercito dovrebbe comportare essenzialmente una massiccia operazione di rastrellamento a Sadr City (il principale sobborgo sciita di Baghad, con una popolazione di 2,5 milioni di abitanti): Al-Maliki sinora ha rifiutato di lanciare un’operazione del genere o anche solo di approvare formalmente un attacco condotto dalle sole forze USA, perché il movimento sadrista è una consistente fazione dentro la coalizione sciita al governo ed un atto del genere significherebbe un bagno di sangue, oltre che l’immediato discredito suo e la caduta del governo. La crisi ha raggiunto l’apice nel pomeriggio del 26 ottobre, quando alMaliki ha emesso un comunicato stampa per annunziare di aver «ordinato» alle truppe statunitensi di togliere i blocchi stradali attorno a Sadr City, blocchi che erano stati posti sette giorni prima allo scopo dichiarato di cercare di liberare un soldato statunitense rapito. Né quest’ordine né l’emissione del comunicato stampa erano stati in precedenza concordati con il Comando USA, anche se si è poi cercato di presentarlo in questo modo. La mossa del primo ministro era dovuta essenzialmente alla disperata necessità di far rientrare subito lo sciopero generale, che era stato dichiarato nella mattinata dal movimeno sadrista e che 9 minacciava di estendersi a macchia d’olio a tutta Baghad e poi al resto delle zone sciite del Paese. Il comando USA d’occupazione ha dovuto accettare di mandar giù il boccone, i blocchi sono stati tolti e lo sciopero è finito. Ma che al-Maliki rimanga ancora al suo posto oltre la fine dell’anno in Iraq sono ben pochi ad esserne convinti. • Euskal Herria. 4 novembre. ETA constata la crisi del processo ed annuncia «un nuovo sforzo». Nel numero 111 di ottobre della sua rivista Zutabe, avverte che «se il Governo spagnolo non rispetta i suoi impegni e non ci sono passi visibili, il processo si romperà». Il 24 marzo scorso Euskadi Ta Askatasuna (ETA, Patria Basca e Libertà) ha annunciato il cessate il fuoco permanente. ETA responsabilizza Spagna e Francia, perché hanno lasciato passare «tempo prezioso negli ultimi mesi» e «non sono cessate le aggressioni contro Euskal Herria». Incide il fatto che le autorità spagnole non hanno variato di una virgola la strategia di illegalizzazione contro la sinistra indipendentista. Si cita il caso di Batasuna («Il PSOE sta ricattandolo affinché costituisca un nuovo partito, nuove sigle. E partiti come PNV, IU ed Aralar applaudono») e non ci si dimentica dei carcerati («La pressione generalizzata su EPPK si mantiene»). Critiche anche a partiti come PSOE (socialisti spagnoli) e PNV (autonomisti baschi), perché ritardano i contatti per la creazione del tavolo multipartito, danno la priorità ai loro interessi parziali e cercano di debilitare le posizioni della sinistra abertzale. Per ETA l’esecutivo di José Luis Rodríguez Zapatero «deve dare una risposta positiva» a due questioni: 1. «adempiere all’impegno di mettere da parte repressione ed attacchi»; 2. «impegnarsi chiaramente a rispettare il risultato del processo di Euskal Herria, cioè la volontà dei cittadini baschi». In quanto alla via di negoziato tra le formazioni politiche basche, considera che in questo autunno devono vedersi «passi visibili» al processo democratico. «Come agenti che difendiamo Euskal Herria, come indipendentisti baschi di sinistra, dobbiamo prendere la responsabilità di dare impulso». Questo lavoro, secondo ETA, ha cinque punti principali: «Bisogna far fronte all’offensiva dello Stato spagnolo; bisogna aprire una nuova fase di lotta di fronte allo Stato francese (affinché non si disinibisca davanti al conflitto e la sua soluzione); bisogna promuovere passi decisivi nel processo democratico; di fronte ai rischi, bisogna agire in forma rapida e prudente; e fortificare la sinistra indipendentista basca ha un’importanza vitale». • Euskal Herria. 4 novembre. No alle pseudo-soluzioni. ETA avverte che «la sinistra indipendentista basca non accetterà pseudo-soluzioni né trappole». La base della risoluzione del conflitto si basa sull’autodeterminazione e la territorialità. «Il valore della lotta» garantisce la sopravvivenza di Euskal Herria. «L’impegno di ETA è chiaro. Ha la ferma volontà di dare un’uscita democratica al conflitto mediante il negoziato. Ma, con la stessa fermezza, diciamo che ETA non accetterà che il governo spagnolo utilizzi tatticamente il processo per imporre una nuova frode ad Euskal Herria e mantenere la situazione di oppressione sul nostro paese. L’abbiamo detto chiaramente: se continuano gli attacchi ad Euskal Herria, ETA risponderà». A Zapatero che il 29 giugno, in una comparsa istituzionale, aveva parlato di limiti marcati dalla «legalità spagnola», ETA ricorda che i baschi non decisero liberamente il loro futuro con lo Statuto di Gernika («nel 1979 poterono decidere solo alcuni cittadini baschi ed in una maniera pesantemente condizionata»). «Vascongadizzazione (riferimento allo statuto di autonomia attualmente vigente, ndr) del processo e limiti della Costituzione di Spagna», ribaditi il 29 giugno da Zapatero, «è evidente», ricorda ETA, «che sono i due elementi che hanno alimentato il conflitto negli ultimi 30 anni e hanno costituito le fondamenta dell’imposizione che ha provocato lo scontro. Quelli sono, precisamente, i nodi che bisogna sciogliere». 10 • Euskal Herria. 4 novembre. Il PSE insiste: l’autodeterminazione è parte dell’«ideologia nazionalista». Così il portavoce al Parlamento di Gasteiz del Partito Socialista Basco (PSE), filiazione del PSOE di Zapatero, José Antonio Pastor, ha bollato ieri il dibattito nel parlamento autonomico basco. La discussione mirava all’approvazione –poi avvenuta– di un testo in favore dell’autodeterminazione. Sulla falsariga di quanto accaduto in Montenegro (un referendum ha sancito la sua separazione dalla Serbia, ndr) si chiede l’indizione di un referendum nei Paesi Baschi. Pastor aggiunge che il dibattito di oggi manca di «consensi trasversali (cioè del PSOE e del Partito Popolare, ndr)». • Euskal Herria. 4 novembre. Ieri il Parlamento di Gasteiz è tornato a difendere «il diritto della società basca a decidere del suo futuro», invitando ad «un dialogo inclusivo e senza esclusioni che permetta di raggiungere un accordo sugli aspetti di base per la normalizzazione politica». Gli unici voti contrari, con sfumature diverse, quelli del PSE e del Partito Popolare. Secondo il PSE il diritto di autodeterminazione è una rivendicazione nazionalista giacché la cittadinanza basca già esercita il suo diritto a decidere negli ambiti di competenza che le sono stati riconosciuti dal governo centrale di Madrid. In accordo con la Costituzione e lo Statuto, aggiunge, ci sono cose che decide in esclusiva, altre «congiuntamente con il resto degli spagnoli» ed «altre ancora con gli europei». L’insieme delle forze abertzales (patriottiche, ndr) ha replicato che il diritto dell’autodeterminazione è un esercizio democratico e c’è chi ha fatto notare che questo diritto include la possibilità della piena indipendenza. • Israele / Palestina. 4 novembre. Militari israeliani sparano sulle donne in corteo a Beit Hanoun (nord di Gaza). Per portare aiuto ai militanti assediati nella moschea al-Nasser avevano organizzato un corteo che ha attraversato i vicoli della casbah. «Dovevamo andare a salvare i nostri figli minacciati dagli israeliani, non potevamo restare a casa» ha spiegato una delle dimostranti. La vicenda era cominciata l’altro ieri, quando alcune decine di giovani armati hanno trovato rifugio nella moschea. Una ruspa militare poco dopo ha cominciato a demolire l’edificio, facendo crollare un muro e con esso una parte del tetto. Per gli assediati decisi a non arrendersi si prospettava una morte orribile sotto le macerie. Poi, verso le dieci di ieri mattina, quando tutto sembrava perduto, sono apparse le donne –madri, mogli, sorelle, amiche, vicine di casa degli assediati– che non hanno esitato a marciare davanti ai carri armati. Alcune sono riuscite a fare entrare nella moschea indumenti femminili. Secondo l’esercito d’occupazione favorendo così la fuga di una parte dei combattenti travestiti da donne. Appena i bulldozer si sono messi in moto per abbattere la moschea, le donne si sono frapposte in corteo. A questo punto gli israeliani hanno aperto il fuoco. Un portavoce militare a Tel Aviv ha riferito che i militari hanno colpito miliziani armati. Le immagini televisive di Al-Jazeera e Rainews24 lo smentiscono, mostrando un corteo che procede lungo una strada quando all’improvviso partono raffiche di mitra. Le donne fuggono ma due rimangono uccise ed altre ferite. • Israele / Palestina. 4 novembre. Scudi umani? «Unite contro l’occupazione». «Quando si parla di scudi umani non dobbiamo pensare a persone che mostrano il petto ai fucili nemici e sono pronte a morire al posto di altri. Le donne non hanno fatto nulla di tutto ciò, ma soltanto quello che era giusto nelle terribili condizioni di ieri e di questi ultimi mesi. Sono scese in strada per chiedere agli israeliani di ritirarsi e di non arrestare i loro mariti, fratelli, figli nascosti nella moschea. In ogni caso il fuoco israeliano è stato improvviso e del tutto ingiustificato. Qualcuno ha voluto punire le donne per essersi mostrate compatte, unite, nel difendere la loro terra dall’invasore». Lo sostiene Naila Ayesh, esponente storica delle femministe palestinesi intervistata da il Manifesto di oggi. «Non erano donne solo di Hamas, ma di tutte le fazioni, assieme naturalmente a tante altre che non fanno politica, ma 11 che non possono rimanere indifferenti di fronte a ciò che accade a Gaza», precisa Ayesh, che aggiunge: «I mezzi d’informazione hanno diffuso informazioni imprecise. Hanno detto che le donne a Beit Hanoun erano tutte di Hamas perché portavano l’hijab, dimenticando che a Gaza tutte le donne, tranne poche, sono velate, anche quelle che non sono attiviste o hanno votato per il movimento islamico. In ogni caso le due compagne di Beit Hanoun e l’altra caduta giovedì sotto il fuoco degli israeliani, hanno contribuito con il loro sacrificio ad avvicinare le varie organizzazioni di donne palestinesi e favorito il ricrearsi di un fronte unito. Ne avevamo bisogno perché la crisi interna stava avendo il sopravvento sul più importante problema dei palestinesi: l’occupazione. Sino quando continuerà l’oppressione israeliana e non vedrà la luce uno Stato palestinese indipendente, non avrà mai sviluppo concreto il lavoro che tante organizzazioni hanno svolto per migliorare la condizione delle donne a Gaza e nel resto dei Territori occupati. La sofferenza, le dure condizioni di vita, la lotta quotidiana che tante fanno per garantire un pasto ai figli, non consentono di allargare il dibattito sui temi centrali della questione femminile». • Israele / Palestina. 4 novembre. «Questa operazione militare (israeliana, “Nubi d’autunno”, ndr) è la più violenta, la più dura, che abbia mai visto. Gli israeliani attaccano senza alcun freno e non esitano a demolire anche i luoghi di culto. Dicono di voler fermare il lancio di razzi Qassam, ma sparano contro tutti, anche sulle donne». I morti si contano a decine di giorno in giorno a Beit Hanoun e nel nord della Striscia di Gaza. Lo diceva ieri a il Manifesto, Lama Hourani, del Centro di sostegno alle donne lavoratrici di Gaza city, scorrendo i dati del fiume di sangue solo nelle strade di Beit Hanoun sotto assedio da tre giorni. «Centinaia di uomini sono stati arrestati e trasferiti ad Erez dove vengono interrogati e poi imprigionati, alcuni hanno solo 16 anni», aggiunge Hourani mentre con le sue colleghe preparava aiuti per i civili rimasti intrappolati a Beit Hanoun. Quella in corso ricorda l’operazione che nell’aprile 2002 portò Israele a rioccupare quelle che erano le città autonome palestinesi della Cisgiordania. I punti in comune sono molti: la rapida avanzata dei mezzi corazzati nei centri abitati, l’impiego massiccio degli elicotteri a sostegno delle truppe, la demolizione quasi immediata degli edifici dove si nascondono i combattenti, centinaia di arresti, pochi scrupoli per i civili. Un’incursione che, dicono nei Territori Occupati, presto si ripeterà in altri centri abitati, proprio come accadde quattro anni fa in Cisgiordania. • Israele / Palestina. 4 novembre. Fonti palestinesi hanno smentito in mattinata le affermazioni dell’esercito d’occupazione secondo cui le donne in corteo sono servite come scudi umani per le decine di miliziani asserragliati nella moschea di Al-Nasser. Nonostante l’accerchiamento erano fuggiti da giovedì. In un comunicato, le Brigate di Ezzeddin al Kassam, braccio armato di Hamas, riferiscono di aver messo in atto una «complicata operazione» per far uscire con successo cinquanta suoi combattenti dal luogo di culto accerchiato. Secondo uno scritto distribuito a Gaza, miliziani hanno simulato un attacco per distrarre gli israeliani che avevano circondato la moschea, permettendo agli assediati la fuga attraverso le case adiacenti. Dette fonti sostengono che la manifestazione di donne, organizzata da Hamas, ha avuto luogo dopo che i miliziani palestinesi erano usciti dalla moschea e perché i militari di Tel Aviv si apprestavano a demolire l’edificio. • Russia / Georgia. 4 novembre. Raddoppia il prezzo del gas russo alla Georgia. Lo ha deciso la compagnia russa Gazprom. Tbilisi ha dichiarato di ritenere la decisione vincolata alla recente crisi bilaterale dopo la crisi delle spie con Mosca. La Georgia ha sofferto l’inverno scorso gravi penurie in quella che finora è il primo episodio della guerra del gas. Russia / Cecenia. 4 novembre. La guerriglia cecena attacca i russi nella capitale, Grozny. Almeno un poliziotto pro-russo è morto e diversi altri sono rimasti feriti in un attacco della • 12 resistenza cecena nel centro della capitale. Ore prima, soldati russi e combattenti ceceni si sono scontrati nei pressi della località di Dargo, nella regione di Vedeno (sud), baluardo della resistenza. • Cina / Africa. 4 novembre. Si chiude oggi a Pechino il terzo forum per la cooperazione tra Cina e Africa. L’agenda di questo terzo forum prevedeva la cancellazione del debito africano nei confronti della Cina e la firma di nuovi contratti. I rappresentanti del governo cinese assieme a 48 capi di Stato africani hanno siglato accordi per una cifra pari a 1,9 miliardi di dollari. Con queste intese la Cina è riuscita a riconfermare la volontà di espandere la propria presenza in Africa con alleanze politiche, ma soprattutto commerciali. Gli accordi, infatti, riguardano i settori delle risorse naturali, delle infrastrutture, della finanza, della tecnologia e della comunicazione, come ha indicato Wan Jifil, presidente del Consiglio cinese per la promozione del commercio internazionale. Pechino è animata dalla ricerca del petrolio e di materie prime (quali metalli, minerali), ma non si è risparmiata dall’effettuare investimenti, dal finanziare la costruzione di strade, ospedali, ferrovie, edifici, linee elettriche e telefoniche e molte altre opere pubbliche, con il vincolo della costruzione e degli appalti a favore di ditte cinesi. Risultato del «rinnovato» impegno cinese, è il boom dell’interscambio commerciale passato dai 4 miliardi del 1995 ai quasi 50 miliardi di dollari dell’anno in corso. A questo si aggiunge un investimento cinese in Africa che nel 2005 ha superato i 6 miliardi di dollari per circa 800 progetti in 49 paesi africani. • Cina / Africa. 4 novembre. Il presidente cinese Hu Jintao si è impegnato a raddoppiare gli aiuti finanziari entro il 2009 e a concedere 5 miliardi di dollari, pari a 3,93 miliardi di euro, tra prestiti e linee di credito all’Africa. Non solo. Secondo quanto riferisce l’agenzia Xinhua, Pechino costruirà scuole, ospedali e cliniche per combattere la malaria. Sarà cancellato il debito dei paesi più poveri del continente africano e sarà concesso lo status libero da imposte ad una maggiore quantità di suoi prodotti, con l’obiettivo di aumentare l’importazione di prodotti africani in Cina. Il premier Wen Jiabao da parte sua ha fissato l’obiettivo di raggiungere un volume pari a 100 miliardi di dollari nell’interscambio commerciale tra Cina ed Africa entro il 2010. Si tratta di un montante più che doppio rispetto al livello registrato nel 2005, pari a 39,7 miliardi di dollari. Pechino punta così ad allargare la sua influenza in un’area del pianeta sottosviluppata ma ricca di materie prime e soprattutto con un largo pacchetto di voti che possono rivelarsi strategicamente fondamentali in istituzioni internazionali chiave come le Nazioni unite. • Cina / Africa. 4 novembre. L’interesse della Cina per l’Africa segnala un disegno geostrategico di enorme rilievo per gli equilibri globali. Rilevanti, ovviamente, sono il petrolio e le immense ricchezze minerarie africane: la Cina consuma ogni giorno 6,3 milioni di barili di petrolio e l’Africa le fornisce un terzo del suo fabbisogno. Rispondendo a logiche economiche strategiche di lungo periodo, e non alle pressioni del profitto a breve, Pechino ha buttato all’aria gli equilibri/squilibri esistenti. Un prestito cinese ha ad esempio consentito all’Angola di sfuggire alle tenaglie del Fondo Monetario Internazionale. Attualmente la Cina è, dopo USA e Francia, il terzo partner commerciale dell’Africa. Due i “pilastri contrattuali”: uno, che Pechino si è autoimposto, è quello della non ingerenza negli affari interni dei paesi africani con cui fa affari. L’altro, imposto ai suoi partner, è quello della non esistenza di Taiwan: in pratica chi fa affari con la Cina non può avere rapporti con Taiwan. Al vertice di Pechino, quel pugno di Paesi africani che continuano a riconoscere il governo di Formosa hanno avuto diritto a un tavolo ma senza microfoni. La conquista cinese dell’Africa risale all’inizio della rivoluzione maoista. Per quasi mezzo secolo Pechino ha aiutato silenziosamente lo sviluppo dell’Africa attraverso infrastrutture, inviando medici e altro personale sanitario, promuovendo borse di studio per i giovani africani. Tra il 1960 e il 13 1980 si rafforza l’abbraccio politico con Pechino che per molti Paesi africani diventa un faro per il terzo mondo. Poi, giù il muro di Berlino, addio guerra fredda, l’economia cinese che comincia a macinare record e l’Africa da mungere. • Cina / Africa. 4 novembre. Non mancano le polemiche inerenti al comportamento cinese nei riguardi dell’Africa. A lamentarsi sono gli stessi africani che si vedono penalizzati dall’invasione cinese. Molti lavoratori africani vedono con paura l’arrivo dei cinesi, temendo che possano minacciare il loro già misero tenore di vita. La concorrenza dei prodotti cinesi ha impoverito le economie di molti Stati africani, le cui merci (per esempio nel tessile), già penalizzate sui mercati occidentali, non riescono nemmeno a competere sui mercati nazionali a causa dell’invasione della Cina. In Nigeria ditte provenienti dalla Cina sono state accusate di introdurre merci di qualità scadente e mere contraffazioni di altre marche. Nonostante le più o meno velate lamentele, a partire dal 2003 i commerci tra Pechino e il continente africano sono stati di 18,5 miliardi di dollari USA, oltre il 50% in più rispetto al 2002. Nel 2004 la Cina ha importato merci africane per 15,7 miliardi di dollari ed esportato prodotti per 13,8 miliardi. Più di 700 compagnie cinesi operano in tutto il continente. Nel 2004 il 25% del petrolio importato da Pechino arrivava dal Sudan, Ciad, Libia, Nigeria, Algeria, Guinea Equatoriale, Gabon e Angola. Oggi la Cina importa un quarto del petrolio dell’Angola, il 60% di quello del Sudan. In questi Paesi i proventi ottenuti dall’estrazione del petrolio sono componente rilevante del prodotto interno lordo e il suo commercio ha importanti conseguenze sulla politica interna e sullo sviluppo sociale. Nel settore agricolo la Cina acquista merci ed esporta competenze tecniche e capitali. Nello Zambia, ad esempio, il mercato ortofrutticolo è in pratica coperto da merci di aziende agricole gestite da cinesi. Rapporti economici privilegiati con cui la Cina ottiene una sempre più spiccata influenza politica e strategica nei paesi africani. • USA / Corea del Nord. 4 novembre. Washington starebbe ultimando i preparativi per un attacco contro installazioni nucleari della Corea del Nord. Lo riferisce l’edizione di ieri del Washington Times. Funzionari del Pentagono, citati sotto anonimato dal periodico, assicurano che si prevede un attacco contro il centro per la raffinazione del plutonio di Yongbyong, con missili di crociera Tomahawk ed altre «armi di alta precisione». Il progetto è stato avviato dopo il test nucleare attuato il 9 ottobre da Pyongyang. • Messico. 4 novembre. Non un «governo-ombra», ma «alla luce del sole». Lo ha precisato Andrés Manuel López Obrador presentando a Città del Messico i membri del suo esecutivo composto da sei donne e sei uomini, che dovranno virtualmente guidare i dodici ministeri in cui è divisa l’amministrazione pubblica. I nomi dei dicasteri sono stati in parte cambiati: Relaciones Políticas al posto di Gobernación (Interni), Hacienda Pública anziché Hacienda y Crédito Público (Tesoro), Relaciones Internacionales anziché Relaciones Exteriores eccetera. «Questo governo non avrà un potere reale, ma un potere morale», ha affermato il commentatore politico Lorenzo Leyer. La proclamazione di López Obrador presidente legittimo del Messico avverrà il 20 novembre nello Zócalo della capitale. • Euskal Herria. 5 novembre. Madrid replica all’ETA («assenza di violenza» e «legalità vigente») ma non si pronuncia sull’inadempimento dei suoi impegni denunciato dall’organizzazione politico/militare basca. Il ministro dell’Interno, Alfredo Pérez Rubalcaba, ed il segretario di Stato della Comunicazione (cioè portavoce di Zapatero), Fernando Moraleda, hanno parlato al posto del presidente, José Luis Rodríguez Zapatero, impegnato al vertice Iberoamericano in Uruguay. ETA (Euskadi Ta Askatasuna, Patria Basca e Libertà, ndr), sull’ultimo numero (ottobre) della sua rivista Zutabe, aveva chiesto una risposta positiva su due questioni: 1. «cessazione di repressione e attacchi (contro la 14 sinistra patriottica, ndr)»; 2. «chiaro impegno al rispetto del risultato del processo di Euskal Herria, cioè della volontà dei cittadini baschi». Da Madrid hanno richiamato le due «regole della democrazia» di cui sopra (Moraleda) ed il fatto (Rubalcaba) che «queste regole del gioco non mutano né con comunicati né con scambi». Della serie: come con le «regole della democrazia» si può eludere e negare un principio della democrazia, quello dell’autodeterminazione di un popolo. La partita è ancora aperta. • Libano. 5 novembre. Israele continua i sorvoli del territorio libanese, la cosiddetta “comunità internazionale” tace su queste continue violazioni della risoluzione ONU 1701 dell’agosto scorso e Teheran si dice pronto «a fornire moderne armi contraeree all’esercito libanese». Lo ha detto l’ambasciatore iraniano in Libano, Mohammad Reza Sheibani, incontrando il capo delle forze armate del Paese, generale Michel Sleiman. Lo riferisce l’agenzia iraniana Irna. • Perù. 5 novembre. Alleanza tra Alan García e Alberto Fujimori. Il governo del presidente, Alan García, in carica da 100 giorni, ha stretto una tacita alleanza con l’ex mandatario Fujimori. L’ex presidente dirige da un carcere del Cile un gruppo di 13 parlamentari guidati dalla figlia. L’alleanza tra García e Fujimori si basa, tra le altre misure, sulla disattivazione della lotta anti-corruzione, una politica economica di destra e la pena di morte per i guerriglieri. • Somalia. 6 novembre. Corti islamiche ed Etiopia sull’orlo della guerra. Dopo il fallimento dei colloqui di pace tra Corti islamiche e Governo di Transizione (TNG), saltati lunedì scorso a Khartoum, la tensione monta. Anche se proprio ieri le Corti hanno annunciato di aver accettato di riaprire i colloqui con il TNG, al termine di un incontro a Mogadiscio con il presidente del Parlamento provvisorio. Tutto però lascia presagire uno scontro campale per il controllo della capitale provvisoria, Baidoa. Tanto più che non è più nascondibile, a partire dagli stessi residenti di Baidoa, la presenza delle truppe etiopiche. Tre giorni fa, i militari etiopici hanno preso addirittura il controllo dell’ospedale di Baidoa. Un atto che per molti osservatori ha una sola spiegazione: guerra. A infiammare ulteriormente la situazione è giunta un’informativa USA secondo cui gli islamisti starebbero preparando attentati contro obiettivi strategici e cittadini statunitensi in Etiopia e in Kenya. Un’affermazione subito smentita da Mogadiscio: il responsabile dell’informazione degli islamisti, Abdirahman Ali Mudey, ha accusato gli USA di «fomentare missioni suicide ad Addis Abeba e Nairobi per poi accusare le Corti degli attentati». • Somalia. 6 novembre. Iniziati oggi combattimenti fra forze islamiche e truppe della semiautonoma enclave settentrionale del Puntland, che ha resistito finora all’avanzata delle Corti islamiche. Lo hanno detto fonti islamiche a Mogadiscio. Galinsoor è una città vicina al confine con la provincia del Puntland. • Iran. 6 novembre. «La repubblica Islamica dell’Iran dovrebbe prendere le impronte digitali dei cittadini americani subito dopo il loro arrivo nel paese», ha dichiarato Kazem Jalali, relatore della Commissione della sicurezza nazionale del Parlamento iraniano. Kazem Jalali fa riferimento al comportamento irriverente dei funzionari USA verso i cittadini iraniani al loro arrivo negli aeroporti degli States, ed in particolare alla detenzione (circa 36 ore), con successiva, immediata espulsione, cui è stato recentemente sottoposto un giornalista iraniano, appena atterrato sul suolo statunitense. «Tutti i passeggeri dell’aereo hanno pensato che fosse un terrorista», ha proseguito Kazem Jalali ed ha sottolineato che precedentemente gli Stati Uniti non avevano permesso ad un gruppo di universitari iraniani di entrare nel paese. 15 • Pakistan / Afghanistan. 6 novembre. Sigillare la frontiera comune e minarla «selettivamente». È quanto ha proposto ieri il ministro degli Esteri pakistano, Jursheed Kasuri, al suo omologo afgano. Obiettivo: impedire il passaggio dei guerriglieri. Kasuri ha fatto questo annuncio dopo essersi incontrato con il suo omologo olandese, Bernard Bot, in visita ad Islamabad. Kasuri ha quindi aggiunto che la questione sarà affrontata con altri membri della NATO. • Israele. 7 novembre. Israele prepara una nuova aggressione contro il Libano e anche contro la Siria. L’esercito israeliano ha cominciato a prepararsi per attaccare di nuovo il Libano se «fallisce» la risoluzione 1701 dell’ONU (che Israele sta violando sistematicamente) e puntare quindi anche sulla Siria. L’ammissione è venuta ieri dal capo della divisione numero 91 per la Galilea, tenente colonnello Gay Hazoot. Israele ha pertanto congelato i piani destinati alla riorganizzazione delle sue fila e la prevista riduzione del servizio militare obbligatorio. Hazoot ha quindi aggiunto che «sebbene l’UNIFIL (la forza provvisoria dell’ONU in Libano, ndr), composta ora da 10mila effettivi di paesi europei, è determinata a che la situazione non torni ad essere come prima che si riscaldasse il conflitto, noi abbiamo cambiato il nostro concetto operativo (...) Ora abbiamo preso misure perché Hezbollah non torni ad attestarsi alla frontiera (...) Quel che è più importante, si è intensificato l’addestramento (delle truppe, ndr)», specialmente dei riservisti, per la mancanza di preparazione mostrata e le numerose perdite sofferte. • Panama / ONU. 7 novembre. Panama nel Consiglio di Sicurezza. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha designato formalmente Panama a sostituire l’Argentina nel Consiglio di Sicurezza per il biennio 2007-2008. Assieme a Panama, entreranno nel Consiglio, il primo gennaio, Italia, Belgio, Sud Africa e Indonesia. La candidatura di Panama era emersa dopo il ritiro di Guatemala e Venezuela, che per ben 47 volte si erano disputati il seggio in rappresentanza dell’America Latina. Il governo di Caracas, anche se non è riuscito a ottenere la designazione, ha comunque impedito che il seggio fosse occupato dal Guatemala, proposto dagli Stati Uniti in funzione anti-Chávez. • Panama / ONU. 7 novembre. Tenuto conto delle relazioni sempre più tese tra Stati Uniti e Venezuela, Washington temeva che se Caracas fosse riuscita a entrare nel Consiglio avrebbe tentato di mettere in discussione la sua supremazia nell’organismo e rallentare il raggiungimento di posizioni comuni sulle maggiori questioni internazionali sul tappeto, come il problema del nucleare iraniano. Nel merito Chávez era stato chiaro: in caso di elezione, il Venezuela avrebbe evitato l’imposizione di sanzioni contro il regime di Ahmadinejad dando credito alle affermazioni di quest’ultimo di voler sviluppare solo l’uso civile del nucleare. Inoltre, come dichiarato dal rappresentante venezuelano alle Nazioni Unite, Francisco Arias Cardenas, la tribuna del Consiglio sarebbe divenuta strumento per dare voce alle nazioni più piccole e più povere. La vetrina del massimo organo ONU avrebbe permesso a Hugo Chávez di condurre con maggiore efficacia la sua lotta contro l’egemonia statunitense globale. Gli eventi sono andati in modo differente da quanto sperato dal presidente venezuelano. Dopo uno stallo trascinatosi per 47 votazioni in cui il Guatemala era sempre stato in vantaggio (eccetto in un caso in cui si era raggiunta la parità) senza tuttavia mai riuscire a ottenere i due terzi dei voti necessari per ottenere la maggioranza, i rappresentanti dei due paesi in lizza hanno deciso di ritirarsi in favore di una candidatura di compromesso: quella di Panama. • Panama / Venezuela / ONU. 7 novembre. Le motivazioni alla base della sconfitta di Chávez appaiono essere due. In primis, il discorso da lui tenuto il 20 settembre scorso 16 • all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in cui paragonava la figura del presidente George Bush al diavolo e attaccava senza mezzi termini o perifrasi la politica estera della sua amministrazione. Secondo l’ambasciatore della Tanzania Augustine Mahiga, molti paesi membri, pur condividendo gli argomenti trattati da Chávez, hanno considerato le sue parole come indice di cattivo gusto e come prova di una sostanziale incapacità del Venezuela di svolgere un ruolo costruttivo nel Consiglio. Altro fattore che può aver fatto la differenza nella contesa con il Guatemala sono state anche le vaste pressioni diplomatiche ed economiche esercitate dagli Stati Uniti contro quei Paesi che avrebbero potuto votare per il Venezuela. Gli USA, dosando bastone e carota (cioè minacce e promesse di aiuti economici e di cooperazione militare), sono riusciti in molti casi a contrastare analoghi impegni di sostegno economico assunti da Chávez. Secondo Larry Birns, direttore del Council on Hemispheric Affairs, se una nazione intendeva evitare di incorrere nelle ire statunitensi, faceva meglio a votare contro il Venezuela. Catalogna. 8 novembre. Nasce il nuovo esecutivo. Il governo dell’Intesa si ripromette di «non ripetere gli errori del passato». I prossimi quattro anni dovrebbero vedere un esecutivo tripartitico con il presidente Montilla (PSC, socialisti catalani), ed i vicepresidenti Carod-Rovira (ERC, Esquerra Republicana de Catalunya, indipendentisti di sinistra) e Joan Saura (ICV, sinistra rosso-verde catalana). L’impegno è per un esecutivo stabile che si occupi dei temi indicati come più importanti per i catalani, cioè quelli sociali e l’economia. José Montilla, il futuro presidente catalano, ha ripetuto che governeranno «senza sottoporsi a tutele di partito né ingerenze esterne». Obiettivo: garantire la «continuità di una buona situazione economica» in Catalogna. Allo stesso tempo ha dichiarato che si tenterà di concretare al massimo le possibilità dello Statuto, tanto sul tema della gestione dei fondi quanto sul «riconoscimento della nostra identità nazionale». Carod-Rovira, uno dei due vicepresidenti e massimo dirigente dell’ERC, ha enfatizzato l’interesse del governo a mantenere «la coesione nazionale e sociale», elementi che per i repubblicani catalani –ha sostenuto– vanno di pari passo, ed ha aggiunto che, proprio per garantire meglio entrambi gli obiettivi, non c’è di meglio che una coalizione di governo come quella appena nata, nella quale convivono «persone che si considerano nazionalisti catalani ed altri no». • Spagna / Italia / Euskal Herria. 8 novembre. ETA avrebbe trasferito nel nord Italia il proprio apparato militare di vertice. Lo avrebbe fatto per ragioni tattiche, in seguito alla tregua permanente dichiarata nel marzo scorso e che dovrebbe aprire le porte a un negoziato per la soluzione politica del conflitto con Madrid e Parigi. Lo scrive il quotidiano spagnolo Abc nella sua edizione on-line citando fonti bene informate. Lo spostamento dalla Francia in Italia dell’apparato militare con alla testa il suo capo, Garikoitz Aspiazu Rubina, detto ‘Txeroki’, «sarebbe avvenuto» –si legge sul sito web del giornale– «con la conoscenza del governo spagnolo e il ‘permesso’ delle forze di sicurezza italiane, che avrebbero apparentemente ricevuto da Roma il compito di vigilare ma non intervenire se non in caso di un’azione delittuosa». Tale disponibilità italiana sarebbe «la conseguenza diretta» – afferma Abc– «dell’appoggio manifestato dal presidente del Consiglio Romano Prodi al processo di pace voluto dal premier spagnolo Jose Luis Rodriguez Zapatero, durante la sua recente visita a Madrid». Il ripiegamento della struttura militare dell’ETA in Italia –secondo le fonti citate da Abc– «avrebbe lo scopo di metterla in zona di maggior sicurezza mantenendola al tempo stesso abbastanza vicina al territorio spagnolo in caso di rottura della tregua». La notizia è stata smentita dal governo italiano. • Nicaragua. 8 novembre. Vince Daniel Ortega con il 38% ed il FSLN torna al potere dopo 16 anni «di capitalismo selvaggio». Ieri il Consiglio elettorale l’ha proclamato vincitore delle elezioni di domenica. Reazioni ambigue da Washington, calde dall’Avana. Entusiasmo a Caracas. Nove i punti di distacco dal suo principale avversario, il banchiere Eduardo 17 Montealegre della Alianza liberal nicaraguense, uno dei due tronconi con cui si è presentata la destra alle urne. Le prime parole di Ortega, al potere dopo 16 anni di governi di destra da lui definiti «di capitalismo selvaggio», sono state caute: ha escluso cambiamenti radicali nella politica economica, ha promesso di rispettare l’iniziativa privata e l’economia di mercato e di onorare gli accordi con gli organismi finanziari internazionali, si è impegnato a mantenere «la stabilità», a favorire tutti i tipi di investimenti stranieri e a unirsi con tutti i gruppi sociali e politici «per attaccare la povertà e creare posti di lavoro». Dopo tre lustri di neo-liberismo, il Nicaragua è il paese più povero dell’America latina solo davanti all’inarrivabile Haiti: l’80% dei 6 milioni di nicaraguensi vive con meno di 2 dollari al giorno. Ortega assumerà il potere il 10 gennaio. • Nicaragua. 8 novembre. Washington ha fatto contro Ortega una sfacciata campagna contro, intrisa di ogni tipo di minacce. Gli Stati Uniti avevano appoggiato l’esponente dell’Alianza Liberal Nicaragüense Eduardo Montealegre con tutti i mezzi, giungendo a minacciare un blocco delle rimesse degli emigranti nel caso di un’affermazione sandinista. Svariati congressisti repubblicani in processione a Managua avevano minacciato anche la sospensione di ogni aiuto. L’ambasciatore statunitense Paul Trivelli aveva tentato di favorire un’unica candidatura della destra, ma si era scontrato con il rifiuto di Montealegre e del liberal-somozista José Rizo, del Partido Liberal Constitucionalista, di confluire in una lista comune. Trivelli, interferendo a ogni piè sospinto nella politica interna, aveva sostenuto oltre ogni decenza uno dei due candidati della destra, il liberista banchiere Eduardo Montealegre. Se la destra fosse andata alle urne unita si sarebbe imposta su Ortega come nel ‘90, nel ‘96 e nel 2001. Stavolta, però, l’isterica intromissione del «gigante del nord» gli si è ritorta contro. • Nicaragua. 8 novembre. Non mancano i critici da sinistra di Ortega. Per giungere al potere, ha stretto patti con personaggi ultraconservatori come l’ex presidente Arnoldo Alemán (cui ha garantito copertura contro diverse accuse di corruzione), ha accettato come vicepresidente l’ex leader della Contras Jaime Morales Carazo, infine si è avvicinato alle posizioni più retrive della gerarchia cattolica. Fino al punto di votare in Parlamento insieme alle destre, qualche giorno fa, la penalizzazione dell’aborto in ogni caso (anche quando sia in pericolo la vita della madre o quando la gravidanza sia frutto di una violenza). Con la nuova legge, che abroga una normativa in vigore da un secolo, anche le donne che ricorreranno all’aborto terapeutico e i medici che le assisteranno rischiano pesanti pene detentive. I dissidenti hanno dato vita al Movimiento Renovador Sandinista, il cui leader indiscusso, l’ex sindaco di Managua Herty Lewites, poteva aspirare alla massima carica dello Stato. La sua morte, per infarto, agli inizi di luglio, ha rappresentato un duro colpo per le speranze dei rinnovatori: Edmundo Jarquin, candidato di ripiego, ex ambasciatore sandinista a Washington, non ha ottenuto neppure il 7% dei suffragi. • Nicaragua. 8 novembre. Tra chi critica da sinistra Ortega c’è chi si dice sicuro che «qualcosa di sinistra» la farà, dovendo rispondere al proprio zoccolo duro, fatto soprattutto dai diseredati di questo paese, oltre che di parte della nuova classe sociale formatasi durante la passata rivoluzione. Lancerà una nuova campagna di alfabetizzazione, appronterà un programma contro la denutrizione, disporrà blandi crediti per i piccoli contadini. Ma con gli Stati Uniti Ortega finirà col mantenere il piede in due scarpe, giocando sul ricatto di finire tout-court nelle mani del venezuelano Hugo Chávez. E sapendo a sua volta di essere egli stesso costantemente sotto ricatto in un parlamento dove la destra (ri)unita potrebbe in qualsiasi momento metterlo in minoranza. Gli toccherà dunque negoziare tutto, a partire dall’accordo con il Fondo Monetario in imminente scadenza in Nicaragua, così come ogni aiuto e finanziamento internazionali. 18 • Nicaragua. 8 novembre. Congratulazioni più o meno sincere da parte dei leader dell’America latina. Convinte quelle di Cuba. La vittoria del sandinismo, secondo Carlos Lage, vicepresidente di Cuba, è una sconfitta per gli Stati Uniti e sancisce la nascita di un nuovo membro nel fronte bolivariano. Entusiasta il Venezuela (che finanzia la sua campagna e che ha inviato già due carichi di petrolio raffinato per i municipi amministrati dal Fronte) per bocca di Chávez: «L’America latina sta lasciando per sempre il suo ruolo di cortile di casa dell’impero nord-americano. Yankees go home!». • Venezuela. 8 novembre. «Dobbiamo prepararci alla transizione ed al cambio di governo». Lo ha dichiarato Manuel Rosales, candidato dell’opposizione alle presidenziali del 3 dicembre, preannunciando una riunione con i vertici militari. Rosales ha anche parlato di un Plan V: «Venezuela in piazza a reclamare la vittoria del popolo». Con il Plan V gli antichavisti sono invitati a rimanere nei pressi del seggio anche dopo aver votato, per vigilare su presunti brogli. Una dichiarazione che sta provocando tensione nel paese. «L’opposizione vuole creare il caos», ha replicato il presidente Chávez, e «destabilizzare il paese all’indomani del voto». «Faccio un appello», ha detto rivolgendosi all’opposizione, «perché non andiate ad annunciare che il 3 dicembre sono pronti i brogli, che il 4 il popolo deve scendere in piazza e darsi alla violenza e che il 5 le forze armate verranno a riportare l’ordine. Niente di tutto ciò avverrà, ne sono sicuro e noi faremo in modo che non avvenga». In un’intervista a Telesur il viceministro degli Esteri Yuri Pimentel ha commentato: «Questa gente sa in anticipo di essere sconfitta e pertanto cerca di generare caos, di suscitare instabilità. Stanno riscaldando la piazza per creare un clima che permetta loro, attraverso i media, di diffondere la convinzione che il trionfo è assicurato, ma che potrebbe essere rubato dal governo». Secondo i sondaggi, il presidente Chávez è in testa nelle intenzioni di voto con 20 o 30 punti di distacco rispetto al suo diretto avversario. • Euskal Herria. 9 novembre. Dodici anni e sette mesi per due articoli. Una sentenza senza precedenti contro un militante di ETA. Sconcertato anche Patxi López, dirigente del PSE (diramazione basca del PSOE di Zapatero). In un’intervista a Antena 3 Televisión López l’ha giudicata «sproporzionata» e, con realismo politico, ha invitato ad «applicare la legge tenendo conto delle circostanze e della situazione in ogni momento». Sul caso di Iñaki de Juana, che ha finito di scontare 20 anni di carcere, anche il segretario generale del PSE a Gipuzkoa, Miguel Buen, ha parlato di una sentenza «la più dura dettata per un “reato di minacce” in tempi di democrazia». Iñaki de Juana ha intanto intrapreso un nuovo sciopero della fame, dopo averne cessato uno, recente, di 63 giorni. Nel merito Buen ha dichiarato che la vicenda potrebbe pregiudicare il processo aperto in Euskal Herria. • Francia / Repubblica centrafricana. 9 novembre. Il presidente della Repubblica Centrafricana, François Bozizé, ha rinnovato il proprio appello a Parigi perché l’esercito francese intervenga contro i ribelli dell’Union des forces démocratiques pour le rassemblement, che dallo scorso 30 ottobre ha conquistato la città settentrionale di Birao. Secondo Bozizé, il trattato di assistenza difensiva firmato dai due Paesi obbligherebbe Parigi, che non si è ancora pronunciata sulla questione, a intervenire. La Francia ha almeno 200 soldati nel Paese, teatro negli anni 2002 e 2003 di una guerra civile che ha provocato migliaia di morti. Bozizé ha più volte accusato il Sudan di appoggiare i ribelli dell’UFDR, che dal canto loro hanno chiesto di poter trattare con il governo. • Unione Europea / Turchia. 9 novembre. Joseph Borrel, presidente in carica del Parlamento Europeo in visita in Italia, ha fatto sapere che, per decidere se la Turchia 19 diventerà oppure no un paese membro dell’Unione Europea, dovrà passare un periodo di almeno 15 o 20 anni. • Israele. 9 novembre. La destra sociale di Yisrael Beitenu e neo ministro per le «minacce strategiche» e vice del primo ministro Ehud Olmert ha costruito la sua ascesa su decine di sezioni costruite nelle principali città. Lieberman vuole trattare gli arabi come i ceceni e punta a diventare premier. Il suo programma di espulsione degli arabi israeliani scavalca a destra persino Le Pen o Heider, poiché non prende di mira il solito obiettivo, gli immigrati, ma 1,4 milioni di cittadini israeliani (un quinto della popolazione). Le reazioni alla nomina di Lieberman a ministro sono state minime, quasi nulle, non solo da parte dei governi occidentali ma anche di quelli arabi. E il leader dell’ala più radicale della destra anti-araba non ha nascosto la sua soddisfazione di fronte al complice silenzio di Stati Uniti ed Europa. Tutto ciò favorisce il suo progetto di diventare nel giro di qualche anno il capo indiscusso di tutta la destra e, magari, primo ministro. Non è un caso che a temere maggiormente Lieberman sia proprio il Likud di Benyamin Netanyahu. Yisrael Beitenu da partito «russofono» negli ultimi mesi è diventato una macchina molto complessa, con ramificazioni in tutta la società israeliana. • Israele. 9 novembre. Dalle lotte sociali contro l’installazione dei ripetitori dei telefoni cellulari in aree densamente popolate a quella per la difesa dei diritti dei lavoratori precari. È il protagonismo del partito di Lieberman raccontato dal giornalista Meron Rapaport sul quotidiano israeliano Ha’aretz. Lieberman ha diviso Israele in nove regioni ed in ognuna di esse sono presenti almeno 50 sezioni del suo partito. In alcune città Yisrael Beitenu ha uffici in ogni quartiere. «Lieberman segue molti casi individuali, famiglie che hanno bisogno di aiuto, villaggi che chiedono infrastrutture, comunità che vogliono essere ascoltate. Il Likud lavora in modo massiccio solo due mesi prima delle elezioni, Yisrael Beitenu non smette mai, è impegnato tutto il tempo», dice Lia Shemtov, ex dirigente del Likud ora passata con il partito di Lieberman. Yossi Verter, uno dei più noti commentatori politici israeliani, ritiene che il ministero «per le minacce strategiche» tenderà inevitabilmente a sovrapporsi a quello di Peretz (difesa) e di Tzipi Livni (esteri). Lieberman infatti avrà contatti regolari con i capi dei servizi segreti e dovrà elaborare strategie (militari?, diplomatiche?) che non potranno non riguardare le responsabilità al momento assegnate a Peretz e Livni. A cominciare dalla questione iraniana. • Israele. 9 novembre. Lieberman propone di passare alla futura entità nazionale palestinese i territori popolati da arabi in Israele –fondamentalmente il cosiddetto «triangolo» in Galilea– in cambio dei territori popolati da israeliani in Cisgiordania. Lieberman non spiega cosa accadrà nelle città israeliane che hanno popolazioni miste, popolazioni beduine o arabe o druse che non fanno parte del territorio che è disposto a cedere –«generosamente», dice– allo Stato-bantustan palestinese. Né entra nel merito del problema della presenza dei coloni israeliani in Cisgiordania. Resta la centralità del suo progetto di espulsione di arabi israeliani per una purezza dello Stato d’Israele. Nessuno, nel governo israeliano, è uscito e nemmeno si è dissociato pubblicamente ed energicamente dal razzismo di Lieberman. Significative le parole dello scrittore David Grosman durante la cerimonia in ricordo di Rabin: «Olmert e Peretz hanno nominato un piromane a capo dei pompieri». Solo un’obiezione allo scrittore, sui «pompieri»... • Palestina. 9 novembre. «Intifada, vogliamo la terza Intifada». Michele Giorgio, de il Manifesto, raccoglie per le strade di Gaza le «ondate di rabbia e dolore per il massacro di Beit Hanoun. Ieri erano in tanti ad invocare una nuova rivolta palestinese contro l’occupazione israeliana. Adulti, giovani e donne con la disperazione scritta in volto, 20 convinti che non esista altra soluzione per mettere fine alle sofferenze dei palestinesi, rinchiusi nell’enorme prigione a cielo aperto di Gaza e soffocati dal muro, da centinaia di posti di blocco, sbarramenti e recinzioni in Cisgiordania. E il fermento non poteva non raggiungere anche la Cisgiordania dove da mesi non si registravano scontri tra forze di occupazione e manifestanti palestinesi. Persino Gerusalemme est - rimasta lontana dalle cronache insanguinate di questi ultimi anni –osserva da ieri sera i tre giorni di lutto per le vittime di Gaza, proclamati dal premier Haniyeh». Giorgio raccoglie anche testimonianze: «Meglio morire da martire (attentatore suicida, ndr) che rimanere prigioniero tutta la vita», diceva ieri Mansur Yazji, 22 anni, di Jabaliya, venuto a dare una mano ai soccorritori al lavoro a Beit Hanoun. «O noi o loro (gli israeliani, ndr), questo è il punto. Sono pronti a massacrarci tutti, anche i bambini, non li vogliamo nella nostra terra, li cacceremo via», aggiungeva Samer, un altro giovane giunto sul luogo della strage pochi minuti dopo il cannoneggiamento israeliano. Frasi dure, risultato della rabbia e della disperazione, ma ormai comuni a tanti palestinesi di Gaza che non credono più a un compromesso politico con Israele. • Palestina. 9 novembre. A dettare la posizione palestinese, scrive Michele Giorgio su il Manifesto, sono le dichiarazioni militanti di Hamas che ai palestinesi risultano più credibili delle promesse di cambiamento fatte da Abu Mazen sulla base di vaghe assicurazioni ricevute da USA e Unione Europea. «L’assenza di prospettive politiche concrete, a causa dell’unilateralismo e del militarismo sfrenato di Israele, sta indebolendo Abu Mazen, sempre più irrilevante agli occhi della popolazione, e creando le condizione per una terza Intifada. Di fronte a ciò è deprimente e, soprattutto, preoccupante il silenzio della Comunità internazionale», dice Jamal Zakut, un noto esponente della società civile di Gaza, sottolineando che statunitensi ed europei non stanno aiutando il loro alleato Abu Mazen, al contrario lo affondano con le loro politiche contro i palestinesi. Hamas intanto continua a rafforzarsi, prosegue Giorgio, grazie anche alle operazioni militari israeliane. Ieri il leader in esilio del movimento islamico, Khaled Meshaal, da Damasco ha minacciato Israele di rappresaglie durissime e, più di tutto, ha parlato da leader di fatto dei palestinesi. Abu Mazen presidente rischia di ruminarlo solo nelle stanze del suo quartier generale a Ramallah perché nelle strade comanda sempre di più Hamas • Arabia Saudita. 9 novembre. Indifferenza generale in Iraq e nel mondo arabo dopo la sconfitta di Bush. Né in Iraq, né nel mondo arabo alcuno ha mostrato entusiasmo. «Gli arabi non devono rallegrarsi», ha dichiarato ieri Mohamed Al-Zolfa, membro del Majlis al-Sura (Consiglio Consultivo saudita). «Storicamente, il partito democratico ha mantenuto un sostegno ad Israele maggiore di quello dei repubblicani». • Afghanistan. 9 novembre. «Quest’anno le milizie talebane hanno fronteggiato il governo afgano e le forze occidentali con una intensità inaspettata». A dichiararlo è Richard Boucher, assistente del segretario di Stato USA per gli affari del centro e del sud asiatico. Secondo quanto riportato da Boucher, gli sforzi per estendere l’autorità del governo Karzai nelle province sono stati ostacolati «da una resistenza non preventivata». Sotto accusa il ruolo del Pakistan: ufficiali maggiori afgani accusano tale paese di fornire sostegno ai taliban, con soldi, addestramento ed altre forme di assistenza. Gli ufficiali dell’intelligence afgana sostengono di aver fornito prove concrete di questo coinvolgimento all’amministrazione statunitense. • Afghanistan / Pakistan. 9 novembre. Kabul non vuole il muro. «Il terrorismo non sarà sradicato con la costruzione di un muro lungo la linea Durand tracciata dai colonialisti britannici più di un secolo fa per separare i suoi possedimenti d’Afghanistan e che divide in 21 due il territorio pastun. La miglior forma di lottare contro il terrorismo è attaccarlo alle sue radici», ha dichiarato Karim Rahimi, portavoce del presidente afgano. La possibilità di costruire un muro di frontiera con il Pakistan era stata proposta nei giorni scorsi da Islamabad per impermeabilizzare la frontiera. La stampa afgana scrive compatta che la proposta di Islamabad pretende che Kabul riconosca la linea Durand come frontiera tra i due paesi. • Nepal. 9 novembre. «La lotta armata è finita». Il leader dei guerriglieri maoisti nepalesi, Prachanda, ha annunciato ieri di porre fine ai 10 anni di lotta armata, dopo aver siglato, martedì all’alba, un accordo di pace storico con i partiti politici del Nepal. I leader dei principali partiti hanno espresso ieri la loro soddisfazione nonostante abbiano unanimemente riconosciuto che «resta molto da fare». In base all’accordo la guerriglia lascerà le armi in magazzini custoditi dall’ONU prima del 21 di questo mese e si incorporerà nel Parlamento e in un governo ad interim a fine mese. La richiesta maoista di un referendum per decidere di abolire la monarchia è stata rinviata ad una futura Assemblea Costituente. • Sri Lanka. 9 novembre. Uccisi 65 civili «per sbaglio»: scuse alla Olmert (primo ministro israeliano) del governo di Colombo, che esprime «rincrescimento» per il raid delle forze armate cingalesi contro un campo profughi della città orientale di Vaharai, zona controllata dai ribelli Tamil. Le autorità, ha specificato un portavoce governativo, sono costrette ad attuare rappresaglie militari per estirpare la ribellione delle Tigri. «Le azioni delle autorità sono inevitabili». Il cannoneggiamento dei governativi ha colpito due scuole piene di civili sfollati. Per le Tigri di Liberazione della Terra Tamil (LTTE) l’attacco si è prolungato per ore. «L’assurdità e la crudeltà dell’attacco contro una popolazione rifugiata indifesa che è stata soggetto a blocchi per ogni tipo di prodotto esenziale è difficile da capire», affermano in un comunicato. • USA. 9 novembre. La metà dei 124 cimiteri militari degli Stati Uniti non ha più spazio per accogliere nuove sepolture. Il governo sta cercando di rimediare all’emergenza. • USA. 9 novembre. Secondo Il Foglio, il sacrificio di Rumsfeld –chiesto da molti dei candidati repubblicani, da quasi tutti gli opinionisti di destra e di sinistra e finanche dei giornali militari– da parte di Bush non è solo una mossa per trovare un compromesso con la maggioranza democratica al Congresso ed evitare lo spettro dei prossimi due anni presidenziali da passare a rispondere alle domande delle Commissioni investigative del Congresso guidate dai democratici. La scelta di Bush segnalerebbe un possibile cambiamento della politica militare USA dei prossimi mesi, e forse non solo militare. Il profilo di Gates farebbe intuire che a Washington, Bush a parte, il nuovo dominus non sarà più Dick Cheney ma il gruppo di repubblicani di scuola “realista”, vicini a Bush senior e raccolti intorno al suo ex segretario di stato, James Baker. Il prossimo segretario della Difesa, intanto, è membro della Commissione bipartisan guidata da Baker e Lee Hamilton che sta lavorando da tempo a quella che nei circoli dell’establishment della politica estera USA è considerata come «l’ultima speranza per mettere a posto l’Iraq». • USA. 9 novembre. In tale contesto la Commissione Baker avrebbe rifiutato il piano di tripartizione dell’Iraq presentato dal senatore democratico Joe Biden, e rigettata anche dal nuovo Parlamento iracheno. Le indiscrezioni intorno ad un “piano Baker”, a cui ha lavorato anche Gates, affermano che per risolvere la crisi irachena occorre «abbandonare moderatamente i sogni di rivoluzione democratica e provare a coinvolgere l’Iran e la Siria, cioè due dei paesi dell’asse del male». Tale piano sarebbe però un’inversione di rotta così totale della politica degli ultimi anni di Bush che il quotidiano italiano la giudica una 22 eventualità improbabile, anche se possibile, tanto che Bush ha ribadito che non ci sarà alcun ritiro delle truppe dall’Iraq. • USA / Cuba. 9 novembre. Per il quindicesimo anno consecutivo l’ONU condanna l’ultraquarantennale (dal 1962) blocco economico degli USA contro Cuba. La risoluzione resta senza effetti pratici per il rifiuto di Washington ad applicarla. 183 i sì, 4 i no (USA, Israele, Palau, Isole Marshall) e un’astensione (la Micronesia). Prendendo la parola prima della votazione, il ministro degli Esteri cubano, Felipe Pérez Roque, ha dichiarato: «La guerra economica scatenata dagli Stati Uniti contro Cuba, la più prolungata e crudele che si sia mai conosciuta, è un atto di genocidio e costituisce una violazione flagrante del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite». • Messico / USA. 9 novembre. In un discorso pronunciato ad un’assemblea di leader ispanici a Washington, il neopresidente messicano (entrerà in carica il prossimo 1° dicembre) Felipe Calderon ha dichiarato che considera «deplorevole» l’intenzione statunitense di incrementare i lavori di costruzione del muro che separa gli Stati Uniti dal Messico. Un mese fa, infatti, il presidente statunitense Bush aveva approvato l’ampliamento del muro che corre lungo il confine con il Messico, nonostante una forte opposizione parlamentare. Stime ufficiali statunitensi affermano che lo scorso anno i messicani arrestati lungo le frontiere siano stati più di un milione. • Italia 10 novembre. L’imam sequestrato a Milano dalla CIA denuncia torture. L’egiziano Abu Omar, sequestrado da agenti del servizio segreto statunitense nel 2003 in una strada di Milano, ha dichiarato di essere stato torturato con scariche elettriche, di essere stato rinchiuso in una cella dove i topi salivano sul suo corpo, di aver subìto svariati abusi con minacce anche di abusi sessuali. Tutto questo nel centro di detenzione in Egitto dove era stato condotto dagli agenti statunitensi. Lo scrive l’edizione di ieri del Corriere della Sera. Osama Mustafà Hassan Nasr ha scritto uan dichiarazione giurata ai procuratori di Milano che stanno indagando sul suo sequestro. • Francia / Israele. 10 novembre. Parigi accusa: i caccia di Tel Aviv violano la Risoluzione dell’ONU. Il volo in picchiata di due caccia israeliani, arrivati a tiro di missile sopra i caschi blu francesi in aperta violazione della risoluzione 1701, ha provocato un «quasi scontro» tra le forze dell’ONU e Tsahal, e una grave crisi tra Francia e Israele. È accaduto alle 9.14 del 31 ottobre. Si è arrivati «a due secondi» da una nuova guerra alla base di Deir Kifa, quartier generale delle forze francesi dell’Unifil, nel Libano Sud. Conferma dall’esercito. «È soltanto grazie al sangue freddo dei militari francesi che abbiamo evitato una catastrofe» ha detto il capitano Christophe Prazuk, portavoce dello Stato Maggiore, precisando che «la sequenza di preparazione per il lancio dei missili era stata ultimata». Da Tel Aviv: «La nostra aviazione non effettua mai sorvoli offensivi sul Libano sud». L’appello francese a «cessare immediatamente tali azioni» è però già caduto nel vuoto. Nella sola giornata di ieri, sono state contate almeno dodici violazioni dello spazio aereo libanese da parte di F-15 israeliani. Sono 1650 i caschi blu francesi impegnati nell’Unifil. La Francia cederà il comando della forza all’Italia il prossimo primo febbraio. • Serbia. 10 gennaio. Il presidente serbo Boris Tadic ha indetto elezioni parlamentari anticipate per il prossimo 21 gennaio. La decisione potrebbe influenzare la tempistica con cui l’ONU dovrà decidere della sorte del Kosovo, la provincia serba a maggioranza albanese amministrata dall’ONU dal 1999, e che sogna l’”indipendenza”. I sei paesi del “Gruppo di contatto” (USA, Gran Bretagna, Italia, Francia, Germania e Russia), che insieme all’ONU decideranno sul Kosovo, avevano in precedenza fatto intendere che la loro scelta verrà 23 comunicata dopo le prossime elezioni serbe, per non influenzare la campagna elettorale a favore del partito radicale nazionalista serbo. • Polonia. 10 novembre. Arrivano gli F-16 statunitensi. Celebrato ieri in gran pompa l’arrivo dei primi quattro caccia made in USA F-16, recentemente ordinati alla Lockheed Martin, che sostituiranno gli obsoleti russi Mig-29. I primi due F-16 sono atterrati ieri alla base militare di Krzesiny, non lontano da Poznan. • Kosovo. 10 novembre. Gli albanesi del Kosovo sono pronti a dichiarare unilateralmente l’indipendenza se il Consiglio di Sicurezza dell’ONU rinvierà la decisione sullo status della provincia meridionale della Serbia, sotto controllo ONU dal 1999. Lo ha dichiarato ieri notte Veton Suroi, uno dei negoziatori che si occupa della questione, parlando apertamente del «piano B». I kosovaro-albanesii hanno dichiarato che non accetteranno null’altro che l’indipendenza, cui Belgrado si oppone. • Israele / Palestina. 10 novembre. La mattanza d’Israele a Beit Hanun? «Crimini di guerra» e «terrorismo». Non usa mezzi termini l’osservatore ONU nei territori occupati, Riyad Mansour, che ha condannato ieri il silenzio del Consiglio di Sicurezza sull’aggressione israeliana a Beit Hanun, e chiesto di «responsabilizzare i suoi esecutori in accordo con la legge internazionale». «Per essere onesti, uno degli aspetti più deplorevoli consiste nel fatto che la Palestina ha inviato innumerevoli lettere a tutti i membri del Consiglio di Sicurezza, ed il Consiglio non ha fatto niente», prosegue Mansour. «Quanti palestinesi devono ancora morire prima che il Consiglio agisca?». • Palestina. 10 novembre. ONG contro il “Muro dell’Apartheid” israeliano. Un gruppo di Organizzazioni non governative (ONG) italiane che lavorano nei Territori Occupati ha chiesto agli Stati membri delle Nazioni Unite di rendere effettivo il parere reso dalla Corte Internazionale di Giustizia il 9 Luglio 2004, cioè riconoscere l’illegalità rappresentata dalla costruzione del muro nei Territori Occupati, compresa Gerusalemme Est, non fornire aiuto o assistenza per mantenere la situazione creata da tale costruzione, nonché assicurare il rispetto da parte di Israele del diritto internazionale codificato nella Quarta Convenzione di Ginevra. Le ONG si sono anche rivolte ai membri ONU, e in particolare al governo italiano, affinché venga fatta pressione su Israele per smantellare il muro costruito all’interno dei Territori Occupati. • Afghanistan. 10 novembre. Catastrofe umanitaria in Afghanistan. In una lettera indirizzata alle Nazioni Unite, Human Rights Watch ha chiesto al Consiglio di Sicurezza di intervenire per risolvere l’emergenza sfollati in Afghanistan. Le persone costrette a lasciare le proprie abitazioni a causa delle azioni NATO sarebbero più di ottantamila: «una vera e propria catastrofe umanitaria». Dall’inizio del 2006, secondo i dati ufficiali, la guerra in Afghanistan ha causato 5.452 morti, di cui 969 civili, 3.147 combattenti taliban o presunti tali, 1.159 militari afgani, 36 miliziani irregolari e 178 soldati della Coalizione. • India. 10 novembre. Le forze speciali della polizia indiana hanno ucciso oggi nove guerriglieri maoisti, di cui cinque donne, nello stato di Andra Pradesh. I commando antiguerriglia hanno teso un’imboscata ai ribelli nel distretto di Kadapa, circa 400 chilometri a sud della capitale statale di Hyderabad. L’Andhra Pradesh è lo Stato indiano maggiormente interessato dalla pluridecennale guerriglia maoista indiana, che sostiene di combattere contro la povertà e lo sfruttamento delle popolazioni rurali locali. 24 • Cina. 10 novembre. Centinaia di agenti di polizia hanno disperso nel villaggio di Sanzhou, nella regione meridionale del Guangdong, i contadini che da 24 ore occupavano un magazzino tenendo in ostaggio decine di funzionari comunisti, dopo aver interrotto la cerimonia di inaugurazione cui questi partecipavano con un gruppo di investitori esteri. Negli scontri si sono registrati diversi feriti tra i contadini. In molte regioni cinesi, i contadini protestano da anni per l’esproprio dei loro terreni, rivenduti a investitori privati, di fronte a risarcimenti irrisori da parte dello Stato. I contadini chiedono di rendere pubblici i dati delle vendite, accusando il governo di aver intascato una parte dei guadagni. • USA. 10 novembre. La sostituzione di Rumsfeld per Gates rafforza Condoleezza Rice. La segretaria di Stato, Condoleezza Rice, uscirebbe rafforzata dopo la sconfitta repubblicana che è costata la testa al suo vecchio avversario, Donald Rumsfeld, rimpiazzato alla guida del Pentagono da Robert Gates, un veterano, come quella, della Presidenza di Bush padre. La Rice e Gates si conoscono bene dall’epoca nella quale servirono Bush nel Consiglio Nazionale di Sicurezza tra 1989 e 1991. Per la rivista progressista Rolling Stone, l’elezione di Gates, un «confidente» della Rice, è una «giocata maestra dell’attuale segretaria di Stato» ed «un duro colpo per Dick Cheney (vicepresidente USA, ndr)». Danielle Pletka, analista del centro di ricerche conservatore AEI (American Enterprise Institute) sfuma questa affermazione, segnalando che, in ogni caso, «l’influenza di Rumsfeld è diminuita molto negli ultimi anni». Non manca chi invoca ora il «multilateralismo» della Rice, coincidendo con le crescenti voci in tal senso tra i repubblicani. Insomma, siamo alle solite: unilaterialismo e multilateralismo (cioè, in quest’ultimo caso, coinvolgimento degli alleati/subalterni sul piano degli oneri finanziari e dell’invio di truppe cammellate nei teatri di guerra aperti dagli Stati Uniti) sono le due facce imperiali di Washington che si avvicendano, rispettivamente, a seconda dei suoi momenti di forza e di ripiegamento. • USA. 10 novembre. Una spia coinvolta nell’Irangate dirigerà il Pentagono. Il nuovo capo del Pentagono, Robert Gates, è un personaggio vicino al clan Bush, un uomo la cui storia dice che ha trascorso 27 anni della sua vita tra le spie al servizio di sei presidenti ed è finito sotto inchiesta per questo. Fino a mercoledì era membro della commissione «indipendente» di studi sull’Iraq che presiede l’ex segretario di Stato James Baker e per i democratici Lee Hamilton. Ha fama di «pragmatico». Gates cominciò la sua carriera nello spionaggio statunitense dai gradini più bassi per divenire capo della CIA dal novembre 1991 al gennaio 1993, sotto la presidenza di George Bush, padre dell’attuale mandatario. La sua biografia dice che svolse un ruolo «chiave» durante la prima Guerra del Golfo (1991), così come durante la crisi degli ostaggi in Iran (1979) e l’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979). Ma è per i suoi atti nel cosiddetto Irangate, sotto il mandato di Reagan, per il quale è sotto inchiesta senza imputazioni a suo carico. Si tratta della vendita di armi statunitensi all’Iran per finanziare la Contra nicaraguense. • Irlanda del Nord. 11 novembre. Sinn Féin realizzerà 60 riunioni con la base repubblicana. Nonostante la dirigenza del movimento repubblicano abbia già reso pubblica la decisione di appoggiare l’Accordo di St. Andrews (Scozia) per il ripristino delle istituzioni, l’avallo definitivo scaturirà dalla posizione che emergerà dentro il partito sulla questione del nuovo corpo di polizia nordirlandese, che è una delle condizione previste dall’Accordo e che gli unionisti pongono come precondizione per un esecutivo multipartitico nordirlandese ed il trasferimento di Giustizia e Polizia all’esecutivo di Belfast. Il DUP (Democratic Unionist Party) ha intanto reso noto che, nonostante la consultazione interna per posta abbiano dato a maggioranza il sostegno al suddetto Accordo, la decisione è di non appoggiare né respingere la proposta. Per il dirigente dell’UUP (Ulster Unionist Party), Reg Empey, la dichiarazione del DUP è «una conferma che le negoziazioni in Scozia sono fallite». Il governo britannico 25 • si prepara intanto per presentare la legislazione necessaria per dare valore legale all’Accordo. Irlanda del Nord. 11 novembre. Divisioni nel DUP sul contenuto dell’Accordo di St. Andrews ed il sostegno al documento dei governi britannico ed irlandese. Durante una riunione a Lurgan, il 26 ottobre scorso, Paisley si è visto obbligato a ricordare all’eurodeputato Jim Allister che è lui il leader del partito. È accaduto nel corso di un accalorato dibattito sul documento presentato dai due governi nelle negoziazioni in Scozia. Il reverendo Ian Paisley ha sbottato urlando che se il DUP non appoggiasse l’accordo, gli unionisti potrebbero prepararsi «per qualcosa di peggiore», riferendosi all’avvertimento di Londra di permettere a Dublino, se non fossero ripristinate le istituzioni, di partecipare nell’assunzione delle decisioni, una possibilità che ripugna gli unionisti. Indiscrezioni su questa riunione interna del DUP sono state filtrate da alcuni degli oppositori all’Accordo al quotidiano Belfast Telegraph, ma un portavoce del partito le ha bollate come una versione «costruita da infiltrati» alla riunione. Sono seguite, però, pubbliche esternazioni dell’eurodeputato Allister dubbioso sui benefici del documento per la comunità unionista. • Libano. 11 novembre. I ministri di Hezbollah lasciano il governo Siniora. I cinque ministri dei movimenti sciiti Hezbollah e Amal si sono dimessi dal governo libanese del premier Fuad Siniora. Lo ha riferito la radio Voce del Libano. Le dimissioni fanno seguito alla brusca interruzione dei colloqui per la formazione di un «governo di unità nazionale», che sono stati sospesi a tempo indeterminato dopo quattro tornate di discussioni che erano state avviate lunedì. L’opposizione esige un terzo dei posti nel futuro Esecutivo, più in consonanza con il proprio sostegno tra la popolazione libanese. A monte esiste, del resto, una discussa legge elettorale che penalizza la proporzionalità del voto. Le dimissioni dei ministri Fawzi Sallukh (Esteri), Mohammed Fneish (Energia), Hamad Trade (Lavoro), Talal Sahili (Agricoltura) e Mohammad Khalife (Sanità) sono state annunciate in un comunicato congiunto di Hezbollah e Amal. Nel comunicato, si afferma tra l’altro che i ministri sciiti dell’«attuale governo» Siniora «non possono più dare copertura a ciò di cui non sono convinti». La nota, in cui si «augura buona fortuna ai ministri che restano» al governo, afferma inoltre che le dimissioni dei ministri di Hezbollah e Amal «non significano il venir meno dell’accettazione dei punti concordati nel dialogo nazionale» della primavera scorsa, compresa l’istituzione di un tribunale «a carattere internazionale» per giudicare i responsabili dell’ assassinio dell’ex premier Rafik Hariri, nel febbraio 2005. • Israele / Palestina. 11 novembre. Relatore ONU chiede una reazione alla mattanza israeliana a Beit Hanun. Il relatore speciale dell’ONU sul Diritto a una Viya Degna, Millon Kothari, ha condannato ieri il massacro di Beit Hanun ed ha chiesto la reazione della “comunità internazionale”. «La spiegazione da parte di Israele che questo atto criminale gratuito è stato un errore è inaccettabile». «Il bombardamento delle abitazioni e l’assassinio di civili sono stati una tattica premeditata per imporre una punizione collettiva», ha detto. • Iran / Israele. 11 novembre. Il portavoce dell’esercito iraniano, Ali Fazli, ha dichiarato che «l’Iran risponderà a qualsiasi azione militare contro il Paese». Ieri sera, il vice ministro della Difesa israeliano, Ephraim Sneh, in un’intervista al Jerusalem Post non aveva escluso un’azione militare preventiva contro le istallazioni nucleari iraniane. «La considero l’ultima spiaggia. Ma, talvolta, l’ultima spiaggia è la sola spiaggia». Sneh ha aggiunto di sperare che le sanzioni della comunità internazionale contro l’Iran possano trovare attuazione ma «le speranze non sono molto forti». L’Iran ha rivolto formali proteste anche all’ONU parlando di molteplici minacce da parte di Israele. 26 • Iran / Israele. 11 novembre. Teheran condanna il silenzio dell’Occidente. La guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, ha condannato ieri il «silenzio» dell’Occidente in relazione al massacro causato dal regime israeliano nella città palestinese di Beit Hanun. «Il silenzio dell’Occidente di fronte a questa enorme atrocità mostra che le vite degli uomini, donne e bambini valgono poco per i fautori dei diritti umani», ha sostenuto Khamenei alla radio pubblica iraniana. • Russia / Georgia / Ossezia del Sud. 11 novembre. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha dichiarato che le “elezioni alternative” che la Georgia ha preparato in concomitanza con il referendum e le elezioni organizzate dalle autorità indipendentiste dell’Ossezia del Sud, rischiano di far esplodere un conflitto armato. Assieme al voto per l’indipendenza e per l’elezione del presidente dell’autoproclamata repubblica dell’Ossezia del Sud (voto condannato e non riconosciuto da USA, NATO, UE, OCSE e dalla Georgia), le autorità di Tbilisi hanno infatti organizzato per domani un voto alternativo nei villaggi sud-osseti sotto controllo delle forze georgiane. Un voto gestito dall’Unione per la Salvezza degli Osseti (ONG appoggiata dai servizi militari georgiani) e che vedrà candidati presidenziali alternativi a quelli delle elezioni organizzate dalle autorità separatiste. Si potrebbero dunque avere in Ossezia del Sud due presidenti: il sicuramente riconfermato Eduard Kokoity, separatista sostenuto da Mosca, e Dimitri Sanakoev, il favorito tra i cinque candidati delle elezioni alternative in quanto sostenuto da Tbilisi. Secondo Lavrov, «a questo seguirà la creazione di un governo alternativo sud-osseto riconosciuto da Tbilisi, che si doterà di apparati di sicurezza propri e che quindi creerà enormi problemi per i caschi blu russi presenti in zona. La tensione aumenterà certamente e le già esistenti divisioni etniche tra osseti e georgiani residenti in Ossezia del Sud sfoceranno in un confronto militare». • Georgia / Ossezia del sud. 11 novembre. La NATO ha condannato il previsto referendum indipendentista di domani nella provincia dell’Ossezia del Sud, nello Stato della Georgia. «Da parte della NATO, mi unisco ad altri leader nel respingere il cosiddetto “referendum” e le cosiddette “elezioni” nella regione dell’Ossezia meridionale in Georgia», ha dichiarato in un comunicato il Segretario generale della NATO, Jaap de Hoop Scheffer. • USA. 11 novembre. Bush punito da una parte della destra religiosa statunitense, cioè fondamentalisti cristiani e neosionisti. Secondo diversi istituti di analisi sul voto di medio termine di qualche giorno fa negli States, il 30% di quest’area ha dato il proprio voto non più ai repubblicani, ma ai democratici. Questa diserzione sarebbe risultata decisiva in Ohio, Virginia e Montana, stati questi due ultimi in cui lo scarto di voti è stato di poche migliaia di voti. Gli scandali sessuali e di corruzione sarebbero all’origine di questa scelta. Oltre al fatto che i fondamentalisti hanno chiesto provvedimenti più rigoristi di quelli varati da Bush. • USA / Iraq. 11 novembre. «Le dimissioni di Rumsfeld non segnano una svolta, l’ex ministro della difesa è solo l’agnello sacrificale offerto da Bush, che cercherà di coinvolgere il partito avversario nel pantano iracheno». Ne è convinto il direttore di Counterpunch, Alexander Cockburn, intervistato da il Manifesto. «Dopo la sconfitta, l’amministrazione repubblicana doveva spendere qualcuno e lui era proprio l’uomo da spendere. Il nuovo ministro della difesa, Bob Gates, fa parte dell’entourage di James Baker che è la nuova eminenza grigia». Questo significherà una perdita d’influenza del vicepresidente Dick Cheney: «George Bush adesso prenderà direttive da James Baker e dagli uomini di suo padre e non più da Cheney che non faceva più parte del clan di Bush Senjor che anzi era in pieno scontro con loro e che si è dimostrato incredibilmente incompetente». Nella prospettiva delle presidenziali del 2008, Cockburn sostiene che «al 27 partito repubblicano poteva andare peggio, potevano mantenere la maggioranza in una delle camere o persino in ambedue, il che li avrebbe posti in una situazione drammatica per il 2008, come soli responsabili dello sfascio. Così invece possono coinvolgere i democratici nella correità per il casino in Iraq. E possono prepararsi nel 2008 a sostenere un candidato come John McCain, che è comunque una follia. Già ora McCain dice che se, con il ritiro delle truppe USA, l’Iraq finisce spaccato in tre –cosa che comunque sta avvenendo anche con le nostre truppe lì– sarà un’umiliazione per gli Stati uniti. E dal punto di vista dell’impero ha ragione. Per l’impero è un’umiliazione ritirarsi dall’Iraq lasciando uno sfascio». • USA / Iraq. 11 novembre. Come si comporteranno i democratici sull’Iraq? Secondo Cockburn «anche se gli elettori si sono espressi in modo netto e chiaro per un ritiro immediato dall’Iraq, dal punto di vista della loro logica, i democratici non potranno andare molto lontano su questa via, altrimenti si accolleranno la responsabilità di questo schiaffo all’impero. I democratici non possono fare granché in ogni caso. Che te li vedi ad abrogare il Patriot Act, a chiudere i tribunali militari segreti, ad abrogare gli spropositati regali fiscali che Bush ha concesso ai ricchi, a formulare una disciplina della contabilità delle grandi corporations, ad adottare una politica ambientale aggressiva contro gli inquinatori, ad instaurare un servizio sanitario nazionale, a rivedere il trattato di libero commercio (ricordati che il Nafta, il trattato di libero commercio nordamericano, fu ratificato da Bill Clinton)? Non succederà niente di tutto questo. Metteranno qualche borsa di studio in più per un po’ di studenti disagiati, porteranno il salario minimo a 7.55 dollari che comunque è ridicolo: se adesso al vicino casa adolescente offri 7 dollari l’ora per tagliare l’erba del tuo prato ti sputa in un occhio. Le lavoratrici immigrate clandestinamente dal Messico percepiscono un salario di 15 dollari l’ora per fare le collaboratrici domestiche. E il parlamento statunitense adotta quest’audace aumento a 7,5 dollari! Ma non fateci ridere. I democratici dovranno per forza limitarsi a riformine di piccolo cabotaggio di questo tipo». • USA / Iraq. 11 novembre. Nella commissione Baker si rivede un altro uomo di Bush: Lawrence Eagleb, esperto di politica estera, ha sostituito Robert Gates che, nominato capo del Pentagono, ha dovuto lasciare l’Iraq Study Group. • Somalia. 12 novembre. Gli islamici hanno occupato oggi Bandiradley, dopo una violenta battaglia con le truppe fedeli al governo. Si tratta di un centro strategico ad appena 70 km dalla regione semiautonoma del Puntland, feudo del presidente ad interim somalo Abdullahi Yusuf. Il portavoce delle Corti islamiche centrali Mahamed Jama ha detto che la battaglia è avvenuta dopo che le truppe governative avevano tentato un attacco. • Cecenia. 12 novembre. Chi comanda in Cecenia? Da un lato, l’autorità quotidiana è assicurata da milizie locali la cui lealtà a Mosca è sempre meno evidente. Con le loro lunghe barbe e le uniformi, sono miliziani che assomigliano ai guerriglieri. Migliaia di essi sono ex combattenti indipendentisti. «Si parla di milizie pro-russe ma sono di fatto formazioni militari claniche leali solo ai loro capi», segnala l’esperto militare russo Pavel Fewlgenhauer. Questo esercito ceceno legalizzato è agli ordini di di Ramzan Kadirov, figlio del mufti morto per mano della guerriglia indipendentista nel 2004. La forza e l’indispensabilità attuale di Kadirov spiega in gran parte perché il presidente russo, Vladimir Putin, lo tiene come alleato e chiude gli occhi sulla sua campagna di islamizzazione e sulle accuse di brutalità della sua guardia pretoriana. «Kadirov è stata l’unica alternativa per la Russia di vincere la guerriglia», assicura Julia Latynina, giornalista specialista sulla Cecenia, che aggiunge: «I russi non controllano il territorio ceceno. Il territorio è controllato da quelli che hanno combattuto la Russia». Kadirov impone leggi islamiche e 28 combina la sua politica con brutalità e con generose elargizioni del denaro pubblico. Una situazione che non pochi esperti russi definiscono paradossale e che comincia a far parlare di una apparente vittoria russa in Cecenia. «Putin non può ignorare Ramzan Kadirov in Cecenia», afferma Alexei Malachenko, dell’Istituto Carnegie di Mosca. «Ma Ramzan ha molti nemici, non solo in Cecenia ma anche a Mosca, dove molti vedono di malocchio la presenza di un dirigente locale forte in Cecenia». «Da un momento all’altro, tutto riesploderà», assicura Charles Blandy, specialista in conflitti dell’accademia militare britannica Sandhurst. • Cina. 12 novembre. Venti persone sono rimaste ferite in violenti scontri con la polizia antisommossa, inviata dalle autorità per reprimere una rivolta popolare scoppiata a Guangan, nella provincia centrale di Sichuan. La gente del posto ha assaltato il locale ospedale dopo la morte di un bambino, Xiong Hongwie, ricoverato per un’intossicazione. Prima di visitare il bambino, i medici hanno chiesto a suo padre di pagare 639 yuan (63 euro). Ma l’uomo ha potuto dare loro solo quello che aveva, 123 yuan (circa 12 euro). I responsabili dell’ospedale dichiarano di aver prestato ugualmente le cure al bambino. La popolazione di Guangan però non ci crede e imputa la morte del bambino alle mancate cure. • USA. 12 novembre. Baker e il suo “Iraq Study Group” sono stati investiti «di una autorità quasi mistica», ha scritto il Financial Times. A Washington si confida nel pacchetto di misure che il Gruppo proporrà come ultimo sforzo per conciliare sciiti e sunniti, e per l’indicazione delle scadenze sul disimpegno degli Stati Uniti. Baker ha recentemente detto che gli USA dovrebbero essere pronti a parlare con i nemici, e non solo con gli amici, e potrebbe suggerire contatti diretti, come del resto ha fatto ieri il primo ministro britannico Tony Blair, con l’Iran e con la Siria per cercare la collaborazione di questi due vicini dell’Iraq. L’acuirsi della violenza e l’allungarsi della lista delle perdite statunitensi, per non parlare della sconfitta dei repubblicani alle elezioni, sta accentuando la frenesia della Casa Bianca di trovare una via d’uscita dal pantano iracheno che suoni non come un rovescio storico ma come una accettabile sconfitta militare ed una limitazione il più possibile assorbile ed indolore dei danni (geo)politici nell’area. • USA / Israele. 12 novembre. Gli Stati Uniti pongono il veto ad una risoluzione ONU che condanna Israele per la mattanza di palestinesi a Beit Hanun (in maggioranza donne e bambini) e la sua campagna di incursioni militari a Gaza partita dallo scorso giugno e che ha provocato centinaia e centinaia di morti. L’ambasciatore USA all’ONU, John Bolton, ha giustificato la decisione presa nel Consiglio di Sicurezza dicendo che la risoluzione «non apporta niente alla causa della pace». Il documento ha avuto il sostegno di dieci paesi e quattro astensioni (Gran Bretagna, Danimarca, Giappone e Slovacchia) tra i membri permanenti e a rotazione nell’organo di massima decisione dell’ONU. Con l’intento di trovare anche il consenso di Washington e di alcuni paesi europei, sempre reticenti se bisogna condannare Israele, faccia quel che faccia, il documento era stato rivisto e si era introdotta una censura del lancio di missili da Gaza verso Israele, che sino ad oggi non ha provocato nemmeno una vittima, e si era ritirato la definizione di «massacro» per l’attacco a Beit Hanun. La risoluzione chiedeva una «cessazione immediata di tutti gli atti di violenza e le attività militari tra la parte palestinese e israeliana». Si tratta della 31^ volta che gli Stati Uniti pongono il veto a risoluzioni nel Consiglio di Sicurezza relazionate con il conflitto palestinese-israeliano. L’ultima fu il 13 luglio scorso, in un documento che condannava altre mattanze militari di Israele nei territori di Gaza. Soddisfazione è stata espressa in queste ore, per il veto USA, da Tel Aviv. 29 • USA. 12 novembre. Un alunno di dieci anni della scuola elementare di Steiner Ranch, Texas, è stato punito con provvedimenti disciplinari e invitato a sottoporsi a un chek-up psichiatrico per aver visitato «siti Internet inappropriati» durante le ore di laboratorio informatico. I siti incriminati sono quelli sulle cosiddette “teorie cospirative” riguardanti gli attentati dell’11 settembre come 911truth.org o infowars.com. «Inappropriate» anche le ricerche fatte dall’alunno su Google: “9/11 cover-up” o informazioni sulla loggia massonica “Skull and Bones”. • Gran Bretagna. 13 novembre. Oltre 160 guardie carcerarie in Gran Bretagna sarebbero coinvolte nello scandalo delle torture inflitte ai detenuti nella prigione di Wormwood Scrubs, a Londra. È quanto emerge da un rapporto del Servizio penitenziario britannico pubblicato ieri, nel quale si denuncia il «regime di terrore» instaurato dalla polizia nel carcere londinese attraverso pestaggi, molestie sessuali e intimidazioni. • Unione Europea / Polonia / Russia. 13 novembre. Varsavia blocca l’apertura dei negoziati tra Unione Europea e Russia sul rinnovo di un partenariato strategico. Alla riunione dei ministri degli esteri, Varsavia ha sfoderato il veto, esigendo che Mosca elimini l’embargo sulle importazioni di carne polacca, in vigore da un anno, e che ratifichi la Carta sull’energia dell’UE, da cui ne conseguirebbe una possibilità di accesso di soggetti terzi alla rete di distribuzione del gas e del petrolio russo. Il veto polacco potrebbe rallentare le trattative per un accordo di partenariato con la Russia considerato strategico per garantire l’approvigionamento energetico. I primi negoziati erano iniziati ad ottobre al vertice europeo di Lahti, cui era stato invitato anche il presidente russo Putin. Per cercare di superare le riserve polacche, mercoledí si svolgerà una riunione degli ambasciatori all’Unione, sperando in una soluzione che tolga i venticinque dall’imbarazzo, prima del vertice euro-russo della settimana prossima. • Unione Europea / Polonia / Russia. 13 novembre. Secondo l’agenzia di analisi geopolitica Stratfor, il veto polacco riflette l’esistenza in particolare di due problematiche nella politica di Varsavia. In primo luogo i rapporti con la Russia, il cui blocco delle importazioni agricole polacche per più di un anno è una misura che ha aumentato ulteriormente i problemi interni. L’energia è in tale contesto la preoccupazione principale di Varsavia. Certo conta il fatto che le importazioni di petrolio e gas provengono proprio da Mosca: non dimentichiamo comunque che quasi il 60% del fabbrisogno energetico polacco è coperto dal carbone. Per Varsavia l’energia è soprattutto un mezzo di contrattazione (politica, economica…) con Mosca, ed in tal senso il progetto russo-tedesco di una pipeline sotto il Mar Baltico che aggiri il territorio polacco toglie molta influenza a Varsavia. In secondo luogo, la posizione della Polonia all’interno dell’Unione Europea è quella di un membro di secondo rango, dove Francia, Germania e Gran Bretagna sono indubbiamente i paesi che maggiormente contano. In tal senso, il veto polacco esprime il bisogno di Varsavia di far sentire la sua voce sia a Mosca ma anche agli altri Stati europei. • Unione Europea / Polonia / Russia. 13 novembre. Cosa provocherà la posizione di Varsavia? Mosca cercherà misure per punire ulteriormente Varsavia. Il che potrà danneggiare gli interessi di approvvigionamento di Stati europei, come ha dimostrato l’interruzione delle forniture di gas all’Ucraina dello scorso gennaio. La Russia è il principale fornitore di petrolio e gas nel continente. All’interno dell’Unione Europea, inoltre, non si permetterà di certo che sia la Polonia a dettare il contenuto dei rapporti con Mosca, a prescindere dal fatto se sì è d’accordo con Mosca oppure no. Anche perché consistenti sono gli interessi commerciali in gioco. 30 • Somalia. 13 novembre. L’Unione delle Corti islamiche, che da alcuni mesi controlla la capitale somala Mogadiscio e buona parte del sud del Paese, ha annunciato di aver preso possesso della città di Bandiradley, nella regione di Mudug, al confine con la regione semiautonoma settentrionale del Puntland. Secondo fonti locali, il bilancio degli scontri sarebbe di almeno otto morti. La mossa delle Corti, che mirano a conquistare anche la parte settentrionale del Paese, arriva un giorno dopo il disconoscimento, da parte del governo di transizione di Baidoa, degli accordi presi tra le Corti e il portavoce del Parlamento per riavviare i colloqui di pace. • Palestina. 13 novembre. In una riunione tenutasi ieri al Cairo, i Paesi della Lega Araba hanno reso noto che interromperanno l’embargo imposto ai territori palestinesi a seguito della formazione del governo di Hamas, il quale non riconosce l’esistenza dello Stato di Israele. La decisione è arrivata dopo il veto, imposto dagli USA, a una risoluzione ONU che avrebbe condannato Israele per i bombardamenti della scorsa settimana a Beit Hanoun, nella striscia di Gaza, bombardamenti che provocarono la morte di 18 civili palestinesi. La decisione della Lega Araba è più politica che pratica, visto che sarà molto difficile riattivare il flusso di aiuti verso i territori a causa della riluttanza delle banche, che temono possibili rappresaglie da parte degli Stati Uniti. • Iraq / Gran Bretagna. 13 novembre. Una bomba, esplosa ieri al passaggio di una pattuglia navale sul fiume Shatt al-Arab, nell’Iraq meridionale, ha provocato la morte di 4 soldati britannici e il ferimento di altri 3. L’esercito britannico ha reso noto che condurrà un’inchiesta sull’attacco, il primo ad una pattuglia navale della Gran Bretagna dall’inizio della guerra. Le autorità di Londra sono preoccupate perché, finora, le pattuglie navali erano state utilizzate proprio per ridurre i rischi di attentati rispetto agli spostamenti via terra. • Ucraina. 13 novembre. Viktor Yushenko, presidente ucraino, ha preferito assistere al concerto di Toto Cutugno piuttosto che al congresso del suo partito, Nostra Ucraina. Il partito aveva ignorato l’appello di Yushenko di aderire alla coalizione dell’ex rivale Viktor Yanukovic e durante il congresso ha confermato la scelta di passare all’opposizione, presentando una mozione di sfiducia nei confronti dell’attuale premier. • Georgia / Ossezia del sud. 13 novembre. Giornata di referendum ed elezioni ieri nell’Ossezia del sud. Nella regione che rivendica l’indipendenza dalla Georgia si sono tenute due distinti referendum ed elezioni presidenziali sul futuro istituzionale della regione. Nella tornata elettorale organizzata dalle autorità nella capitale dell’Ossezia del Sud, Tskhinvali, secondo i dati preliminari forniti dalle autorità ossete l’opzione dell’indipendenza avrebbe ricevuto il 99% dei voti (affluenza alle urne, il 95% degli aventi diritto). Sull’altro referendum, tenutosi nei circoscritti territori dell’Ossezia del Sud controllati dalle autorità georgiane, in cui è stato chiesto se si volevano avviare trattative con Tbilisi per l’istituzione di un sistema di governo federale, non si hanno invece notizie. Riguardo le elezioni presidenziali, nella principale delle due Eduard Kokoiti, presidente di fatto dal 2001 dell’autoproclamatasi Repubblica dell’Ossezia del Sud sostenuta da Mosca, ha vinto, secondo i risultati preliminari, con il 95% dei consensi. Secondo la portavoce del governo ossetino a Tskhinvali sarebbero stati inoltre presenti circa 30 osservatori provenienti da paesi quali il Venezuela, la Giordania, l’Ucraina, la Lettonia, nonché rappresentanti dell’Abkhazia e del territorio moldavo della Transnistria. • Georgia / Ossezia del sud. 13 novembre. Nell’elezione “alternativa” organizzata nei territori dell’Ossezia del Sud controllati dalle autorità georgiane, è stato dichiarato presidente invece Dmitri Sanakoyev –ex primo ministro della Repubblica dell’Ossezia del 31 Sud e, secondo i funzionari di Tskhinvali, al soldo di Tbilisi– con più dell’80% dei voti. La commissione elettorale “alternativa” –situata presso il villaggio di Eredvi, controllato dalle autorità georgiane– non ha rilasciato statistiche in merito al numero degli elettori iscritti alle liste elettorali. Si è limitata a riportare che i votanti erano stati 42mila. Secondo Uruzmag Karkusov, a capo della Commissione elettorale “alternativa”, seggi elettorali erano presenti sia nei territori controllati dalle autorità georgiane, che in alcuni villaggi controllati dalle autorità ossetine. Affermazioni recisamente smentite da queste ultime. Kokoiti ha definito Sanakoyev e Karkusov, a capo della commissione elettorale alternativa ed ex consigliere di Kokoiti, “traditori della loro patria e traditori della gente dell’Ossezia del Sud”. Kokoiti ha anche aggiunto che chiederà a Tbilisi l’estradizione di entrambi. • Georgia / Ossezia del sud. 13 novembre. Il referendum, ha affermato Kokoiti in una conferenza stampa, è «un argomento molto forte, anche per coloro i quali ora rifiutano di riconoscerne gli esiti. Possiamo dire che l’Ossezia del Sud è stata riconosciuta». Agli elettori è stato chiesto se concordavano o meno nel mantenere l’attuale status di Stato indipendente e se si desiderava o meno che l’Ossezia del Sud venisse riconosciuta internazionalmente; un simile referendum era già stato organizzato nel 1992, dopo due anni di guerra civile. L’autonomia dell’Ossezia non è riconosciuta dalla comunità internazionale, neppure dalla Russia che pure ne sostiene le spinte secessioniste. Il referendum è stato promosso proprio con l’intento di formalizzare l’indipendenza e costringere il mondo a prenderne atto. Si tratta solo della prima tappa. L’obiettivo della regione, dove vivono circa 70mila persone, è in realtà quello di unirsi all’Ossezia del Nord e aderire, come un unico paese, alla Federazione russa. Obiettivo contro il quale si oppone il governo di Tiblisi che non intende rinunciare al proprio controllo sulla regione. • Georgia / Ossezia del sud. 13 novembre. Kokoiti ha promesso agli elettori dell’Ossezia del Sud una serie di miglioramenti, tra i quali un innalzamento dei salari e la costruzione di un oleodotto verso la Russia per migliorare i rifornimenti energetici. Nei materiali stampati per la campagna elettorale ha definito il referendum «un invito alla pace» e accusato gli Stati Uniti di armare la Georgia «preparandola ad aggredire». Nell’altra elezione presidenziale Sanakoyev, i cui cartelloni elettorali erano appesi al di fuori di quasi tutti i seggi elettorali nei villaggi controllati dalle autorità georgiane, ha goduto di un’ampia copertura da parte della stampa georgiana. Il trentasettenne ha però ampiamente evitato di entrare nei dettagli delle sue posizioni politiche. Gli altri 4 candidati hanno contestato questa “elezione alternativa”. Secondo Mamuka Areshidze, analista che risiede a Tbilisi, se la gente impoverita dell’Ossezia del Sud prenderà più o meno seriamente la pretesa di Sanakoyev di essere loro presidente dipenderà in gran parte dalla sua capacità di influire sull’economia. «Questo è l’errore più grande del governo georgiano, non hanno mai dimostrato agli ossetini o alla gente dell’Abkhazia i motivi per i quali era nei loro interessi far parte della Georgia». • Georgia / Ossezia del sud. 13 novembre. Il Consiglio d’Europa, l’OCSE e gli Stati Uniti hanno criticato l’organizzazione delle due tornate elettorali in Ossezia del Sud, alleata di Mosca, i cui cittadini tengono passaporto russo ed usano il rublo. Le critiche, comunque, non sembrano aver intimorito le autorità di Tskhinvali. «Chi sono per ridurci al silenzio?», ha affermato in modo retorico la portavoce del governo osseto Gagloyeva in un’intervista dello scorso 11 novembre. «I loro specifici interessi politici nel Caucaso per loro sono più importanti del nostro destino». La Georgia ha affermato che non terrà conto del referendum, secondo quanto ha affermato il primo ministro georgiano Zurab Nogaideli in un’intervista al Financial Times, secondo cui il referendum «è una provocazione con l’appoggio della Russia, che servirà solo a far crescere le tensioni nella zona di conflitto e nella regione». La 32 Russia, dal canto suo, ha affermato che il referendum ha avuto un «carattere simbolico», nonostante gli sforzi dell’Occidente per minimizzarne la portata. Ieri a Bruxelles, il ministro georgiano per l’integrazione euro-atlantica, Guiorgi Baramidzé, ha invece paragonato il comportamento dei Russi nei confronti dei Georgiani a quello della Germania nazista nei confronti degli ebrei. «La gente subisce persecuzioni sulla base della sua appartenenza etnica, le aziende georgiane sono state chiuse. Ci fu lo slogan “Non comprate dagli ebrei”, ora c’è lo slogan “Impedite ai georgiani di fare affari”». • Pakistan. 13 novembre. Il premier pakistano Shaukat Aziz ha definito «inaccettabili» i raid compiuti dall’esercito statunitense in Pakistan. Ribadendo la propria alleanza con Washington nella «guerra al terrorismo», Aziz ha però dichiarato che la sovranità del Pakistan è inviolabile, e che i raid aerei condotti dagli USA nelle regioni di confine con l’Afghanistan possono destabilizzare il Paese, creando forti malcontenti tra la popolazione civile. L’esercito statunitense lancia periodici raid aerei principalmente in Pakistan, Afghanistan e Yemen con il pretesto di colpire militanti di al Qaeda. • USA. 13 novembre. L’amministrazione statunitense starebbe valutando la possibilità di un’apertura diplomatica verso Siria ed Iran per facilitare la soluzione della crisi irachena, secondo quanto riferito da Josh Bolten, uno dei più stretti consiglieri del presidente George Bush. L’apertura sarebbe in linea con quanto raccomandato dall’Iraq Study Group, il gruppo composto da repubblicani e democratici guidato dall’ex-Segretario di Stato James Baker. L’ambasciatore siriano a Washington, Imad Moustapha, ha dichiarato alla BBC che il suo governo sarebbe felice di collaborare per la soluzione della questione irachena, aggiungendo però che gli USA dovrebbero prima ammettere che la loro strategia è fallita. • Venezuela. 13 novembre. Il presidente venezuelano Hugo Chávez ha aperto la base militare La Carlota, a Caracas, che fu teatro di un tentato colpo di stato nel 2002, per ospitare il concerto della cantante colombiana Shakira. Chávez ha deciso di farlo perché la cantante non trovava un luogo adatto alla sua esibizione, e ha aggiunto di voler assistere al concerto. La Carlota è la base in cui per 48 ore Chávez fu rinchiuso ed escluso dal potere dai golpisti sostenuti da Washington. Poi la situazione rientrò grazie alle truppe a lui fedeli e alle proteste massicce dei suoi sostenitori. Da allora la base militare è rimasta chiusa. • USA / Vietnam. 13 novembre. Funzionari di Hanoi e Washington hanno dichiarato che a breve partiranno i lavori per affrontare il problema dei danni ambientali causati dall’utilizzo, nei centri vietnamiti, dell’”agente orange”. Questo era il nome in codice, usato dall’esercito statunitense, per indicare un erbicida impiegato ampiamente dagli USA durante la guerra del Vietnam. L’agente orange (arancio) è un liquido incolore: il suo nome deriva dal colore delle strisce presenti sui fusti usati per il suo trasporto. L’impiego militare ufficiale era per rimuovere le foglie degli alberi e togliere “copertura” ai Viet Cong. Si scoprì successivamente che l’agente arancio ha come sottoprodotti delle diossine tossiche ritenute responsabili di malattie e difetti alla nascita sia nella popolazione vietnamita che nei veterani di guerra statunitensi. In totale furono riversati sul Vietnam circa 40 milioni di litri. Una di tali tossine, una forma di diossina conosciuta come TCDD (1), è particolarmente mortale: 80 grammi di TCDD potrebbero uccidere l’intera popolazione di New York se versati nelle riserve d’acqua. Recenti ricerche hanno rivelato che circa 170 kilogrammi di TCDD furono gettati sul Vietnam. L’”agente arancio” venne prodotto sotto contratto per l’esercito da Diamond Shamrock, Dow Chemical Company, Hercules, Monsanto, T-H Agricultural & Nutrition, Thompson Chemicals e Uniroyal. 33 • USA / Vietnam. 13 novembre. Le prime segnalazioni degli effetti nocivi sulla salute derivanti dall’esposizione all’agente arancio furono fatte dai veterani di guerra USA: furono segnalati vari tipi di cancro, seri problemi gastrointestinali e malformazioni nei bambini nati dopo la guerra. Il governo degli Stati Uniti si è a lungo astenuto dall’approfondire la questione, fino a quando l’ammiraglio Elmo Zumwalt, sicuro che la morte del figlio per cancro fosse dovuta alla lunga esposizione al diserbante durante le missioni di pattuglia in Vietnam, ottenne l’attenzione del governo USA. Le ricerche vennero dunque originariamente intraprese dall’esercito USA per avere un miglior conteggio di quanti veterani prestarono servizio in aree irrorate. Uno studio effettuato recentemente ha collegato l’uso del defogliante con quasi tutti i tipi di cancro conosciuti sugli uomini e con molte altre disfunzioni letali. I veterani che parteciparono alla guerra in Vietnam ricettevero un risarcimento di $180 milioni nel 1984. La Croce Rossa Vietnamita ha registrato circa un milione di persone disabili a seguito della esposizione al diserbante e, da alcune stime, si calcolano circa 2 milioni di persone affette da problemi di salute derivanti dalle tossine spruzzate. Va rilevato come studi condotti dal governo USA insieme ad alcune delle industrie chimiche coinvolte, abbiano portato alla conclusione che non ci siano prove di una diretta connessione tra l’agente arancio e i problemi di salute che gli vengono attribuiti e che le componenti chimiche hanno comunque vita breve nell’ambiente. Nuovi studi effettuati però, incluso quello del Journal of Occupational and Environmental Medicine dell’agosto 2003, riportano che le componenti chimiche come il TCDD rimangono tuttora concentrate nel terreno, e quindi nella catena alimentare, in molte parti del Vietnam. La catena alimentare è la principale responsabile dell’elevato tasso di TCDD nella popolazione vietnamita, nonostante la contaminazione sia avvenuta 30-40 anni prima delle analisi in questione. Elevati tassi di TCDD sono stati riscontrati nel latte materno di donne che vivono in zone bombardate nonchè in animali selvatici e domestici. • Lituania. 14 novembre. Vilnius disapprova la decisione polacca di bloccare i colloqui tra Unione Europea e Russia ed invita a ricercare un compromesso a cui il paese si dichiara specificatamente interessato. Secondo il ministro degli esteri Vaitekunas, la bozza di accordo tra Russia ed Unione è «buona ed accettabile». • Israele / Palestina. 14 novembre. “Riconoscere” Israele? Ramattan Mussa Abu Marzuk, dirigente di Hamas in esilio a Damasco, ha dichiarato che «al nuovo governo di unità nazionale non viene richiesto di riconoscere Israele e pertanto non lo farà. Perché mai la Palestina, che non è ancora uno Stato, dovrebbe riconoscere Israele?». • Iran. 14 novembre. «Gli Stati Uniti e tutti i paesi suoi alleati ora hanno finalmente accettato di vivere con un Iran nucleare». Lo ha dichiarato il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad che ha aggiunto che l’obiettivo dell’Iran è di produrre energia nucleare in grandi quantità. «Siamo solo all’inizio del cammino, dobbiamo arrivare a 60mila centrifughe», ha concluso Ahmadinejad, secondo cui Teheran potrebbe completare entro il prossimo marzo il suo programma nucleare. «Con la saggezza e la resistenza della nazione, oggi la nostra posizione si è stabilizzata. Nutro molte speranze che nell’anno in corso potremo festeggiare la piena nuclearizzazione dell’Iran». • Russia / Cecenia. 14 novembre. L’uso della tortura nei confronti dei prigionieri ceceni, da parte delle autorità filorusse, è «sistematico e diffuso». Lo denuncia oggi, in un rapporto presentato alla stampa, l’associazione Human Rights Watch. Il documento, che cita sessanta casi nelle cento pagine del testo, è stato sconfessato da Ziad Sabsabi, premier del governo ceceno e plenipotenziario moscovita nella repubblica caucasica. 34 • India / Cina. 14 novembre. Scaramucce tra Nuova Delhi e Pechino. Alla vigilia della visita di Hu Jintao in India, si sta riaprendo la controversia tra i due Stati per il possesso di alcune zone di confine. «L’Arunachal è parte integrale dell’India», ha detto oggi Pranab Mukherjee, ministro indiano degli Affari esteri, in una indiretta risposta a Pechino. Ieri l’ambasciatore cinese Sun Yuxi, in un’intervista televisiva, aveva affermato che «l’intero Arunachal Pradesh è territorio cinese e Tawang è solo una parte di questo». Critico anche S.K. Singh, governatore dell’Arunachal Pradesh, che ha definito «arrogante» questa posizione e «molto poco appropriato per un ambasciatore fare un simile commento». Dalla guerra sino-indiana del 1962 i due Stati discutono l’esatto tracciato dei 3.500 km di confine. New Delhi contesta il diritto di Pechino sopra 38mila mq di terreno arido, gelido e disabitato sull’altopiano tibetano che la Cina le ha tolto durante la guerra. La Cina, a sua volta, reclama 90mila mq di territorio nell’Arunachal Pradesh. In questa zona si trovano Tawang e il suo monastero, vestigia del buddismo Mahayana; qui è nato il sesto Dalai Lama, a dimostrazione –dice Pechino– che il distretto era parte del Tibet. Dal 1981 sono in corso colloqui ma con scarsi progressi. L’Arunachal Pradesh, Stato dell’India nord-orientale al confine con Cina, Buthan e Birmania, è una terra di verdi foreste rigogliose, di valli solcate da fiumi profondi e di bellissimi altipiani. È prevalentemente montuosa, essendo attraversata dalla catena dell’Himalaya che si sviluppa lungo il crinale settentrionale attraversando lo stato in direzione nord-sud. • India / Cina. 14 novembre Nel 2005, durante la visita del premier cinese Wen Jiabao in India, erano stati definiti dei “parametri politici e principi guida” per definire la controversia. Di recente esperti cinesi hanno chiesto la “restituzione” della zona di Tawang come precondizione per risolvere la disputa. Ma l’India ritiene la zona di sua proprietà e di importanza strategica come “porta” sulla regione himalayana. Si prevede che la questione sarà affrontata dal presidente Hu Jintao durante il viaggio a New Delhi che inizierà il 20 novembre. Negli ultimi anni i due giganti mondiali, rivali storici, hanno iniziato a collaborare in settori come l’energia, la sicurezza e la difesa, mentre gli scambi commerciali crescono e si prevede arrivino a 20 miliardi di dollari Usa nel 2006. La Cina non nasconde l’ambizione di diventare entro pochi anni il primo partner commerciale dell’India, soppiantando gli Stati Uniti. Sono stati ripresi anche rapporti culturali, dopo 40 anni di profondo gelo, e il 2006 è stato dichiarato “Anno dell’amicizia” tra i due popoli. Il 6 luglio è stata riaperta dopo oltre 40 anni la ferrovia tra Lhasa in Tibet e Kolkata nello Stato di Sikkim che corre per il passo Nathu a 4.310 metri di altezza, antica via della seta dove per secoli sono passati la gran parte dei commerci tra i due Stati. Ma la disputa di confine rimane una irrisolta fonte di contrasto. La Cina da decenni propone di cedere l’occidentale Aksai Chin (che copre il 20% del Kashmir) in cambio dell’orientale Arunachal Pradesh. Ma l’India ha dichiarato che nessuna “zona abitata” potrà essere oggetto di revisione e questo rende inaccettabile qualsiasi richiesta sull’Arunachal Pradesh. Intanto nel 2005 Pechino ha riconosciuto come territorio indiano il Sikkim, ex regno buddista. In cambio New Delhi ha cessato le proteste in sede internazionale sulla violazione dei diritti umani in Tibet. • USA. 14 novembre. Donald Rumsfeld, ex segretario alla Difesa USA, è stato denunciato, davanti a una corte federale in Germania, per il suo ruolo nei casi di torture di prigionieri nelle carceri irachene e in quella di Guantanamo. Lo ha reso noto uno dei componenti del pool di avvocati di diverse nazioni che ha presentato oggi la denuncia. • Bolivia. 14 novembre. Il ministro della Difesa della Bolivia, Wálkar San Miguel, ha smentito oggi che il suo paese preveda di installare nuove basi militari alla frontiera con il Cile con l’appoggio del Venezuela. «Questa è un’interpretazione sbagliata», ha dichiarato Wálker, ammettendo però che La Paz costruirà con risorse nazionali un avanposto militare 35 nella zona del fiume Silala, vicino alla frontiera con il Cile e che lavora a un convegno di cooperazione con il Venezuela • Italia / Russia. 15 novembre. L’ENI ha annunciato un accordo bilaterale con la compagnia russa Gazprom per la fornitura diretta di 3 billioni di metri cubi l’anno di gas naturale in Italia a partire dal 2010. Per Gazprom l’accordo sarebbe un primo passo nell’accesso in Europa. In cambio, Gazprom ed ENI acquisteranno attività in comune. • Germania. 15 novembre. Quarantaquattro capi d’accusa per Peter Hartz, ex capo del personale della Volkswagen, rinviato a giudizio per aver pagato profumatamente, secondo la procura di Braunschweig, l’ex capo del consiglio di fabbrica e “pezzo grosso” del sindacato Ig Metall, Klaus Volkert. Hartz è famoso in Germania per avere ispirato le contestatissime riforme sul lavoro del governo Schröder. • ONU / Africa. 15 novembre. Jean-Marie Guehenno, responsabile delle Nazioni Unite per le operazioni di “mantenimento della pace” (“peace-keeping”), ha fatto sapere che l’ONU avvierà una missione nella repubblica Centrafricana e in Ciad. Secondo il rappresentante dell’ONU lo scopo di questa operazione è aiutare i profughi fuggiti dal Darfur, regione occidentale del Sudan grande quasi due volte l’Italia. • Pakistan. 15 novembre. La commissione d’inchiesta provinciale dell’Alta Corte di Peshawar sul bombardamento aereo che lo scorso 30 ottobre distrusse una madrasa a Bajaur uccidendo 83 «sospetti militanti di al Qaeda» ha stabilito con certezza che nessuna delle vittime era legata ad ambienti «terroristici»: si trattava solo di studenti coranici di età compresa tra i 9 e i 18 anni. Sul luogo del massacro, ha rivelato l’inchiesta, non sono state rinvenute né armi né munizioni. E, non ultimo, molti testimoni hanno riferito che prima dell’attacco «si sono sentiti aerei americani volare sulla zona». • Pakistan. 15 novembre. Il Pakistan ha effettuato con successo un test nucleare, lanciando un missile “Hatf V” (Ghauri) dalla gittata di 1.300 km. Lo ha annunciato l’esercito di Islamabad. Il lancio è stato eseguito per «controllare parametri tecnici», ha detto un portavoce. Al test, effettuato da una località non specificata, ha assistito anche il primo ministro pachistano Shaukat Aziz. Proprio ieri, rappresentanti di India e Pakistan –entrambi dotati di bomba atomica, e non firmatari del Trattato di non proliferazione– avevano annunciato la preparazione di un accordo per limitare il rischio di un conflitto nucleare tra di loro. • Afghanistan. 15 novembre. La violenza aumenterà. Un generale statunitense ha ammesso davanti a una commissione del Congresso di Washington, che il prossimo anno la violenza in Afghanistan aumenterà ancora. Michael Maples, a capo dell’Agenzia di intelligence della difesa USA, ha detto alla commissione che i guerriglieri afghani sono riusciti ad allargare la base delle loro operazioni, sebbene abbiano subito diverse perdite in battaglia. «Quest’anno il livello di violenza sarà probabilmente doppio rispetto a quello visto nel 2005. E nel 2007 gli insorti useranno probabilmente tattiche più visibili, più aggressive e più letali», ha detto Maples. • USA / Unione Europea. 15 novembre. Deutsche Börse rinuncia ad acquistare Euronext ed apre la strada alla fusione tra quest’ultima e il New York stock exchange. Con una eventuale fusione con la borsa di New York, si avrebbe una Borsa transatlantica la più grande del mondo. La capitalizzazione borsistica combinata tra i due soggetti sfiorerà i 22mila miliardi di euro, lasciando ben indietro le altre borse di valore mondiale, come Londra e Tokyo. Il 36 New York stock exchange controlla anche le piazze di San Francisco e Chicago, mentre Euronext riunisce Parigi, Amsterdam, Bruxelles e Lisbona. Ma il settore è destinato a conoscere ulteriori colpi di scena. Analisti annunciano per l’anno prossimo la nascita di una nuova piattaforma paneuropea per la contrattazione. L’iniziativa è di 7 grandi banche d’affari: le statunitensi Citigroup, Goldman Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley più Credit Suisse, Deutsche Bank, UBS Warburg. L’obiettivo è raccogliere liquidità in tutto il continente, facendo concorrenza alle borse esistenti. • USA / Unione Europea. 15 novembre. Intanto John Thain, presidente del New York Stock Exchange, ha esplicitamente dichiarato che l’ambizioso obiettivo della Borsa di New York è di realizzare un mercato finanziario globale integrato, capace di poter funzionare 24 ore al giorno in maniera tale da coprire tutti i fusi orari del pianeta. Mercato, naturalmente, targato New York. Sempre esplicitamente, John Thain ha dichiarato che fra i progetti del NYSE Group Inc. figura l’acquisizione di una borsa europea ed una asiatica da incorporare nel NYSE Group Inc. Per quanto concerne l’Europa, si dà quasi per scontato che l’acquisizione dovrebbe riguardare il London Stock Exchange. Negli ultimi anni il London Stock Exchange è stato più volte oggetto di tentativi di acquisizione. Ci hanno provato con scarso successo gli svedesi della OMX –il gruppo nordico che unisce le Borse di Copenaghen, Helsinki, Riga, Stoccolma, Tallinn e Vilnius– come senza esito è stato il tentativo dei tedeschi di Deutsche Börse. 37