Ultime notizie dal mondo 1-15 Novembre 2006

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Ultime notizie dal mondo 1-15 Novembre 2006
Ultime notizie dal mondo
1-15 Novembre 2006
(http://www.rivistaindipendenza.org/)
a) USA / Iraq. Le “elezioni di medio termine” hanno dato al partito democratico la maggioranza alla
Camera e al Senato. La debacle elettorale (11 novembre) ha spinto Bush a sostituire il
contestatissimo capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, dimissionario, con l’ex capo della CIA
Robert Gates (10 novembre). Chi è accorto sa che non muteranno le strategie imperialiste di
dominio USA (8, 11 novembre), anche se le attuali difficoltà di fase sembrano obbligare ad un
mutamento di tattica (12, 13 novembre). Per Washington il passo successivo è trovare una via
d’uscita alla sempre più infuocata questione Iraq (1, 2, 3, 9 e 12 novembre). Una necessità dovuta
all’esigenza, per gli Stati Uniti, di aprire altri fronti di guerra.
b) Afghanistan / Pakistan. Cosa c’è dietro una madrasa (scuola coranica, cfr. 1 novembre)
bombardata con il pretesto di essere “rifugio” di «sospetti militanti di al Qaeda», dettaglio a parte
(si fa per dire, ovviamente) che a morire sono stati 83 studenti di età compresa tra i 9 e i 18 anni
(15 novembre). Anche il primo ministro pakistano si è sentito in dovere di protestare (13
novembre). La situazione di un Pakistan che cerca di aumentare il suo peso nella regione (1
novembre) si intreccia con quella di un Afghanistan sull’orlo di una «catastrofe umanitaria» per le
brutalità ed i metodi spicci della NATO, e dove l’opposizione alle forze della “coalizione” è sempre
più dirompente (9, 15 novembre). E così, a 17 anni dalla caduta del Muro di Berlino, c’è chi
propone di costruirne uno analogo alla frontiera tra Afghanistan e Pakistan (6, 9 novembre).
c) Israele / Palestina. Il tema (e la logica!) del Muro ci porta a Washington, che intende fortificare
la “barriera” alla frontiera con il Messico (9 novembre) e a Gerusalemme. Alcune ONG hanno
sollevato il problema del “Muro dell’Apartheid” israeliano, denunciando indirettamente il fatto che
quando si parla di Israele non c’è “legalità internazionale” che tenga (10 novembre). Impunità
assoluta, insomma! Miracoli dell’“unica democrazia del Medioriente”, che in questa fase si sta
distinguendo per distruzioni e mattanze a tutto spiano nei “Territori occupati” (2, 4 novembre). Non
facendosi scrupoli di sparare su donne indifese (4 novembre). L’ingresso nel governo Olmert della
“destra sociale” Yisrael Beitenu di Lieberman non lascia presagire nulla di buono per i palestinesi
(4, 9 novembre). Di fronte alle continue devastazioni e massacri, ai «Crimini di guerra» e
«terrorismo» denunciati dall’Osservatore ONU (10 novembre) e seguiti dalla totale impunità
internazionale (11 e 12 novembre; si guardi anche al 13 per un piccolo sguardo sulla politica
presente e passata dei regimi arabi sulla Palestina), non deve sorprendere che a Gaza si parli e
s’invochi una «terza Intifada» (9 novembre).
Sparse ma significative:
• Cina / Africa. Si è svolto a Pechino il terzo forum per la cooperazione tra Cina e Africa. Gli
obiettivi strategici di Pechino (4 novembre).
• Georgia / Ossezia. Uno sguardo al referendum indipendentista nell’Ossezia del sud ed alle
reazioni internazionali (11, 13 novembre).
• Euskal Herria. ETA chiama il governo spagnolo a mantenere i suoi impegni per dare sbocco al
processo di pace in terra basca (4, 5, 8 e 9 novembre).
• USA / Vietnam. A 32 anni dalla fine della guerra del Vietnam, si muore ancora per gli effetti
dell’“agente arancio” (13 novembre). Un dato che dovrebbe far riflettere pensando agli effetti sulle
generazioni future che produrranno i bombardamenti USA (non solo all’uranio impoverito) in Iraq,
Kosovo, Afghanistan, oltre a quelli israeliani in Libano e Palestina.
• Russia / Cecenia. Riflettori in tale ambito andrebbero accesi anche sui crimini russi nel paese
del Caucaso. Qualche cenno sulla situazione in Cecenia (4, 12 e 14 novembre).
Tra l’altro:
1
Irlanda del Nord (1, 11 novembre)
Catalogna (2, 8 novembre)
Libano (1, 5, 10 e 11 novembre). Clamorose rivelazioni sulla morte dell’ex premier Rafik Hariri.
Taiwan (1 novembre)
Iran (2, 6, 11 e 14 novembre). Prove di guerra di USA e alleati/subalterni al largo delle acque
iraniane. La risposta di Teheran è un severo monito ai progetti bellici di Washington.
Somalia (6, 12 e 13 novembre)
Panama / ONU (7 novembre)
Nicaragua (8 novembre). Elezioni presidenziali. I sandinisti al potere dopo 16 anni.
USA / Cuba (9 novembre)
Serbia (10 novembre)
India / Cina (14 novembre)
USA / Unione Europea (15 novembre)
•
Irlanda del Nord. 1 novembre. Saranno demoliti i Blocchi H della famigerata prigione di
Long Kesh, simbolo del conflitto sofferto dal nord Irlanda durante trent’anni. Lo scorso fine
settimana una scavatrice ha iniziato i lavori alla Jaula 20, uno dei recinti utilizzati per
albergare prigionieri repubblicani. La demolizione di tutti, salvo uno dei Blocchi H (così
chiamati per la particolare forma che avevano), dovrebbe concludersi nella prima metà del
2007. L’unico edificio della prigione che sarà conservato, l’ospedale nel quale morirono
dieci prigionieri repubblicani durante lo sciopero della fame del 1981 per rivendicare ai
repubblicani lo status di prigionieri politici, diventerà un centro per la risoluzione dei
conflitti. La prigione di Long Kesh ha chiuso nel settembre 2000, dopo la scarcerazione dei
prigionieri politici repubblicani e lealisti prodottasi in base ai termini dell’Accordo del
Venerdì Santo (1998). Gli ultimi sono stati trasferiti al carcere di Maghaberry, vicino ai
Blocchi H, o a quello di Magilligan, nella contea di Derry. Furono all’inizio 400 gli
incarcerati nelle strutture dei Blocchi H, quando il governo britannico applicò la politica
della detenzione senza giudizio nell’agosto 1971. Un anno dopo il numero saliva a 900. Solo
a poco più di tre dalla loro costruzione, nel dicembre 1974, erano oltre 1.100 i prigionieri di
categoria speciale nella prigione.
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Irlanda del Nord. 1 novembre. Che non si trasformi in «un altare repubblicano». È quanto
auspica e teme Edwin Poots, rappresentante del DUP (Democratic Unionist Party)
nell’Assemblea nordirlandese, con riferimento all’unica struttura dei Blocchi H che non sarà
demolita per essere adibita a centro per la risoluzione dei conflitti. Paul Butler, del Sinn
Féin, ha detto che il centro può giocare «un ruolo enorme nella trasformazione dei conflitti
in scenari di pace» ed ha sottolineato che la principale preoccupazione del Sinn Féin è
anche «la conservazione (di Long Kesh, ndr) per l’importanza storica e non solo per i
repubblicani».
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Irlanda del Nord. 1 novembre. Il DUP vuole ritardare il trasferimento dei poteri. Il
Democratic Unionist Party (DUP) non vuole che il trasferimento del potere giudiziario e del
controllo della polizia nelle istituzioni nordirlandesi si produca immediatamente anche nel
caso che queste siano ripristinate nel marzo del prossimo anno. Nigel Dodds, rappresentante
del DUP, ha accusato il Sinn Féin di non cercare il sostegno della base repubblicana per
l’istituzione della polizia nordirlandese ed ha ribadito che non si produrrà alcun
trasferimento di poteri «fino a quando non si ottenga la fiducia della comunità unionista». Il
che, ha aggiunto, comporterà «abbastanza tempo». «Il governo britannico ed il Sinn Féin»,
ha proseguito Dodds, «devono essere onesti con la gente e non insistere sul fatto che i
repubblicani avranno poteri in tali ambiti, perché non li avranno». La scorsa settimana il
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DUP ha iniziato le consultazioni nella comunità unionista sull’appoggio da dare o meno alla
proposta di Londra e Dublino alle negoziazioni scaturite a Saint Andrews (Scozia) agli inizi
del mese scorso. Il DUP ha inviato un foglio informativo nel quale chiede alla base di
inviare il proprio parere sul su citato documento entro l’8 novembre. Due giorni dopo scade
il termine imposto dai governi britannico ed irlandese perché i partiti confermino o meno il
proprio appoggio al documento. Nel foglio il DUP non propone di appoggiare o respingere
la proposta. Il suo massimo dirigente, il reverendo Ian Paisley, ha però avvertito che il
rifiuto del documento consentirebbe al Sinn Féin di non impegnarsi su un compromesso di
appoggio alle Forze di Sicurezza nordirlandesi. Il portavoce del Sinn Féin sulle questioni
della polizia e della giustizia, Gerry Kelly, ha definito «folle» che il DUP esiga dai
repubblicani che appoggino l’istituzione di una nuova polizia ed il potere giudiziario per poi
negargli influenza o decisione su tali questioni per i prossimi anni.
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Libano. 1 novembre. Hariri è stato ucciso dal Mossad. Un dirigente del servizio segreto
francese DGSE –Direction générale de la sécurité extérieure– ha dichiarato il 24 ottobre
scorso al Wayne Madsen Report che l’ex primo ministro libanese, Rafik Hariri, è stato
assassinato con un’auto-bomba allestita dal Mossad israeliano. La rivelazione
dell’intelligence francese è significativa, tenuto conto che la Francia si è unita
all’amministrazione Bush e ad Israele nel condannare la Siria per l’attentato. Secondo il
dirigente della DGSE, Washington e Tel Aviv volevano condannare la Siria per l’assassinio
del popolare leader libanese al fine di innescare una rivolta popolare libanese che portasse al
ritiro delle forze siriane dal Libano. Ciò doveva servire a lasciare il Libano senza difese in
previsione di devastanti bombardamenti che poi Israele ha attuato con il sostegno USA.
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Pakistan. 1 novembre. Raid aereo colpisce una madrasa nella città pakistana di Chingai,
vicino al confine con l’Afghanistan, causando la morte di oltre ottanta persone tra cui
bambini tra i 10 ed i 15 anni. Il bombardamento della madrasa, accusata da Karachi e
Washington di essere un centro di addestramento di «terroristi», sembra sia stato effettuato
congiuntamente da forze aeree pakistane e statunitensi (altre fonti affermano invece che sia
stato opera di uno solo dei due Stati), ufficialmente con lo scopo di colpire il considerato
braccio destro di Bin Laden, il medico egiziano Ayman Al Zawahiri, che si sarebbe trovato
al suo interno. A smentire quanto sostenuto dai due governi, comunque, le vittime
dell’attacco sono risultati essere pressoché tutti studenti e insegnanti, e nessun militante di
al-Qaeda. Il raid aereo mette in crisi i negoziati in cui sono impegnati il governo di Karachi
e i leader tribali della zona di confine con l’Afghanistan.
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Pakistan. 1 novembre. Differenti abitanti della zona, intervistati da mezzi di
comunicazione locale, hanno riferito che l’attacco contro la madrasa è stato effettuato da
aerei statunitensi e che elicotteri pakistani hanno dato copertura agli apparecchi di
Washington. Tra le testimonianze quella di un deputato locale, dimessosi per protesta dopo
l’attacco, Haroon Rashind, che ha dichiarato: «sono stati gli americani a lanciare missili
contro la madrasa (...). Vivo ad un chilometro dalla madrasa e ho potuto vedere tutto».
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Pakistan. 1 novembre. L’attacco è stato portato a termine da elicotteri pakistani «con
assistenza NATO», nel senso di aver agito su informazioni dello spionaggio statunitense. Lo
ha dichiarato il portavoce dell’esercito pakistano, il generale Shaukat Sultan. Ieri, una fonte
dello spionaggio pakistano aveva dichiarato che erano stati aerei della NATO ad attaccare la
scuola, con il consenso di Musharraf, sulla base di informazioni poi rivelatesi «erronee» dai
servizi di intelligence USA secondo i quali in quella madrasa poteva essere nascosto Al
Zawahiri. Il governo pakistano avrebbe deciso di assumere la responsabilità dell’accaduto
per evitare un’imbarazzante situazione agli occhi dei pakistani, ha aggiunto la fonte, che ha
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anche ricordato che, nel prendere il controllo delle forze distaccate in Afghanistan, la NATO
ha detto chiaramente a Musharraf che, se non agiva contro la supposta retroguardia talebana
nella zona di frontiera, lo avrebbe fatto essa stessa. A minacciare direttamente Musharraf
sarebbe stato il comandante in capo delle forze d’occupazione NATO in Afghanistan, il
generale Richards, durante un incontro. Qualche settimana fa, in occasione dell’assemblea
generale dell’ONU, il presidente Musharraf in una intervista alla televisione USA Cbs aveva
parlato di minacce ricevute dal suo Paese all’indomani dell’11 settembre. Il vice segretario
di Stato USA avrebbe detto al capo dell’intelligence pakistana «Vi bombarderemo, siate
pronti a tornare all’età della pietra» se il governo di Islamabad non avesse cooperato con
gli USA.
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Pakistan. 1 novembre. Nel giro di qualche anno da Stato canaglia è passato al ruolo di
alleato nella «lotta al terrorismo». Islamabad fa della politica regionale il suo punto di forza:
buoni rapporti con la Cina, riavvicinamento all’India per risolvere il problema del Kashmir,
integrazione con il grande mondo centro asiatico attraverso lo status di osservatore nella
Shanghai Co-operation Organization. Ma soprattutto il Pakistan dispone dell’arma nucleare.
La contrapposizione all’India, altra potenza nucleare regionale, è ormai un dato superato.
Molto più importante appare oggi il fatto che il Pakistan sia l’unica potenza nucleare del
mondo islamico. Va ricordato per inciso che né India né Pakistan hanno aderito al trattato di
non proliferazione. L’India tuttavia sta cercando di legittimare il suo status di potenza
nucleare con accordi di cooperazione con gli USA, avviati già dal 2005 tra il presidente
Bush e il primo ministro indiano Manmohan Singh. L’aiuto USA ai programmi nucleari
civili indiani dovrebbe convincere Nuova Delhi ad accettare i controlli dell’Aiea (Agenzia
internazionale per l’energia atomica) sui suoi impianti. Del nucleare pakistano, dopo
l’episodio dello scienziato Abdul Qadeer Khan, si è invece saputo molto poco.
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Taiwan. 1 novembre. Parlamento blocca un disegno di legge che avrebbe dato il via libera
ad un piano di acquisto di armamenti militari da Washington per 18,5 miliardi di dollari. La
bocciatura del piano è stata possibile per la convergenza dei due principali partiti di
opposizione, il Kuomintang e il People First Party. I due partiti della “fazione blu” (cioè
favorevoli alla riunificazione) hanno respinto il disegno di legge non per opposizione
politica a Washington, ma per la ragione interna di indebolire il presidente Chen Shui-bian e
l’esecutivo del Partito Progressista Democratico (pro-indipendenza) attualmente al governo.
Con questa, è la 62^ volta che il Parlamento blocca il piano elaborato da Washington nel
2001: un’offerta di strutture e mezzi militari quali sistemi antimissilistici Patriot, sottomarini
e aerei anti-sottomarini. L’ennesima bocciatura ha profondamente infastidito Washington
che, tramite il suo plenipotenziario accreditato a Taipei, Stephen Young, teme futuri piani
militari di Pechino che considera Taiwan parte del proprio territorio nazionale.
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USA / Sudan. 1 novembre 2006. George Bush prolunga di un altro anno le sanzioni contro
Khartoum dichiarando in un comunicato che il paese costituisce «una minaccia
straordinaria alla sicurezza nazionale ed alla politica estera» degli USA. Il Sudan è
considerato una «emergenza nazionale» dal 3 novembre 1997; le relative sanzioni sono state
rinnovate il 3 aprile 2006. In un discorso elettorale Bush ha poi ribadito la necessità di
inviare una «efficace» forza militare internazionale nella regione del Darfur in Sudan. Nel
luglio 2006 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha deciso l’invio di 20mila truppe nel Darfur
a sostituire o rafforzare la forza di pace di 7mila soldati dell’Unione Africana. Khartoum ha
più volte ribadito che l’arrivo di truppe ONU sarebbe considerato alla stregua di
un’aggressione.
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USA / Iraq. 1 novembre. Gli USA starebbero negoziando con settori della resistenza
armata grazie anche alla mediazione di paesi della zona. Lo ha dichiarato oggi
l’ambasciatore statunitense in Iraq, Zalmay Jalilzad, in una conferenza stampa nella super
protetta Zona Verde di Baghdad. Portavoci delle organizzazioni armate hanno già fatto
sapere che tentativi negoziali di Washington sono cominciati dalla scorsa primavera. Il
Pentagono ha intanto dovuto riconoscere che le sue forze devono far fronte a bombe sempre
più sofisticate che sempre precedono le imboscate, ad un notevole incremento degli attacchi
di franco tiratori (ed i relativi filmati sono sempre più frequenti su internet) e l’uso sempre
più efficace di lanciagranate anti-carro. Fonti di intelligence riportate dalla stampa USA
danno per certa la centralizzazione della formazione dei cecchini, sempre più capaci dopo le
modifiche apportate alla carabina Dragunov, e l’utilizzo di un missile terra-terra che sarebbe
nella disponibilità di una non precisata organizzazione islamista armata anti-occupazione. Il
generale dell’Esercito USA, William B. Casey, portavoce militare, ha dichiarato che il
numero di perdite statunitensi in combattimento è raddoppiato dalla scorsa estate e che gli
attacchi della resistenza si sono quadruplicati.
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USA / Iraq. 1 novembre. Nasce il Comando Politico Unificato della Resistenza Irachena.
Lo scrive nell’edizione del 27 ottobre scorso Al-Quds Al-Arabi, editato a Londra. Questo
Comando, prosegue il quotidiano arabo, è nato dopo «contatti e gestioni» tra personalità e
organizzazioni sociali, politiche e militari del campo anti-occupazione e contrarie al
processo politico imposto dagli Stati Uniti. È composto da 25 membri (15 dell’estero e 10
dell’interno dell’Iraq) che rappresentano il Partito Baath Arabo Socialista, l’Alleanza
Patriottica Irachena, il Comando Generale delle Forze Armate (integrato da antichi
comandanti militari), le correnti dei «comunisti patriottici» opposti alla linea
collaborazionista della direzione del Partito Comunista Iracheno, l’Associazione degli
Ulema Musulmani (la massima istanza religiosa sunnita del paese), l’ayatollah sciita Ahmed
al-Hussaini al-Bagdadi, la Corrente Nazionalista e Nasserista, l’Esercito al-Rashidin,
l’Esercito Islamico e le Brigate della Rivoluzione del 1920, «queste tre ultime formazioni
anche militari, la prima integrata da ex militari e le altre due di filiazione islamista sunnita
non takfirista». Secondo imprecisate fonti irachene, l’annuncio sancisce l’unificazione della
base sociale, politica e militare anti-occupazione, integrando personalità ed organizzazioni
tanto del Fronte Patriottico Nazionalista ed Islamico come del Congresso Fondativo
Nazionale Iracheno, finora due blocchi ben relazionati ma senza connessione formale tra
loro. Artefice dei contatti e catalizzatore dei rapporti tra personalità ed organizzazioni di
diverso ambito sarebbe stato l’ex viceprimo ministro iracheno, Izzat Ibrahim, che continua a
risiedere a Baghdad e che è molto malato (leucemia). «La creazione di un comando politico,
che riunisce tutti gli elementi della resistenza, è una necessità assoluta per ogni movimento
di liberazione nazionale ed in ogni epoca storica», sostiene la Rete Bassora o Chabakat Al
Basrah, vicina al partito Baath, dopo le informazioni uscite sul quotidiano di Londra.
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Catalogna. 2 novembre. Vittoria chiara ma non sufficiente di CiU (autonomisti di destra) e
forte indietreggiamento del PSC (socialisti catalani). ICV-EUiA è stata una delle formazioni
che può dire di aver vinto: è passata da 9 a 12 seggi. Una crescita anche in numero di
consensi. Ha tenuto l’ERC. L’astensione ha raggiunto il 43,23%, uno dei dati rilevanti delle
elezioni parlamentari in Catalogna. Il risultato di ieri consentirebbe al tripartito PSC- ERC
(Esquerra Republicana de Catalunya, indipendentisti di sinistra) e ICV-EuiA (sinistra rossoverde catalana) di rilanciare al governo la propria maggioranza nonostante la perdita di
quattro seggi. Aritmeticamente sono aperte altre combinazioni, come un patto PSC-CiU o un
fronte nazionalista tra CiU e ERC. Nessuna formazione ha infatti ottenuto la maggioranza
assoluta ed il numero complessivo di parlamentari su cui calcolare la maggioranza è di 135.
CiU ha ottenuto 48 deputati, due in più del 2003. Il PSC ne ha perso 5. Altro dato
5
significativo è l’ingresso, nello scenario politico, di un soggetto poco considerato alla
vigilia: Ciutadans-Partit de la Ciutadania (C’s), un partito che non ha nemmeno un anno di
vita e che ha ottenuto 3 seggi. È una formazione considerata «antinazionalista» a Madrid e
«nazionalista spagnola» in Catalogna. Ciutadans si autodefinisce «liberal-progressista» ed
è critica dello establishment politico tradizionale. È nata soprattutto in segno di protesta per
il dibattito identitario sviluppatosi in relazione al processo di riforma statutaria. Si pone
contro la «difesa del castigliano» e ancor più contro chi sostiene l’idioma catalano come
lingua ufficiale. Al centro pone diritti umani, valori universali, anti-partitismo più un
liberismo radicale. Ha avuto il sostegno di artisti ed intellettuali.
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Catalogna. 2 novembre. Le elezioni regionali catalane sono un passaggio di grandissima
importanza per la Catalogna e per la Spagna. Il primo ministro socialista José Luis
Rodriguez Zapatero non a caso si è speso molto per sostenere la candidatura, piuttosto
opaca, del candidato del PSC a President della Generalitat, José Montilla. Innanzitutto
perché sono le prime in vista delle regionali in tutte le altre 16 Comunità autonome
dell’anno prossimo e delle politiche del 2008. Poi perché sono un test importante a livello
nazionale in una fase di cruento scontro politico fra il governo PSOE e la dura opposizione
del Partito Popolare soprattutto rispetto al difficile ed ancora embrionale processo di pace
avviato fra Zapatero e l’ETA (per i popolari si tratta di una «resa dello Stato al
terrorismo»). A livello catalano l’importanza sta nel fatto che sono le prime elezioni dopo il
sofferto tragitto che ha portato all’approvazione, prima alle Cortes madrilene poi nel
referendum regionale di giugno, all’approvazione del nuovo statuto d’autonomia nel cui
preambolo si definisce la Catalogna «una nazione»: la nuova Generalitat sarà quella che
dovrà gestirne i vastissimi poteri di fronte. Non irrilevante, neanche qui, il peso politico
dell’opposizione dei popolari che grida allo «smembramento» dell’unità dello Stato
spagnolo. Proprio sullo statuto si è rotto il tripartito di sinistra (PSC-ERC-ICV) che ha retto
la regione dal 2003: per gli indipendentisti repubblicani sono stati troppi i tagli apportati «da
Madrid» (e da Zapatero) al testo originario. Anche il socialista Maragall, che per Zapatero si
era spinto troppo avanti sulla strada dell’autonomismo, è caduto per strada, sostituito da
Montilla.
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Israele / Palestina. 2 novembre. L’imponente attacco sferrato da Tsahal nella Striscia di
Gaza è un assaggio dell’offensiva che il governo israeliano non ha ancora formalmente
approvato ma che continua a rimanere una possibilità concreta. Trattiene i comandi militari
israeliani la constatazione delle accresciute capacità belliche dei combattenti palestinesi. Lo
scrive ieri il quotidiano israeliano Maariv, che ha raccolto i racconti dei riservisti della
Compagnia C della Brigata 630 impegnata in queste ultime settimane. I palestinesi, dicono i
riservisti, non solo sono in possesso di razzi anticarro, ma hanno imparato ad usarli, con
sofisticate tecniche di combattimento. Ora i soldati israeliani sono spesso costretti ad
avanzare a piedi e non con i mezzi blindati che non garantiscono più una protezione
adeguata. A frenare il premier Olmert sarebbe anche il ministro della difesa Amir Peretz
che, dopo aver sostenuto l’attacco al Libano, è ora contrario a un’offensiva ampia a Gaza.
Contrasti che hanno spinto Olmert a isolare Peretz facendo entrare l’estremista di destra
Avigdor Liberman nel gabinetto di sicurezza, in vista anche di un possibile attacco contro
l’Iran. Ieri, al suo debutto nel ruolo di ministro per le «minacce strategiche» e vice del primo
ministro Ehud Olmert, Lieberman non ha tradito le attese. Commentando l’operazione in
corso a Gaza, ha suggerito di agire «come la Russia opera in Cecenia», ovvero usando il
massimo della forza e violando sistematicamente i diritti umani. Si tratta di una questione
semantica: l’esercito israeliano già attua certi metodi senza dargli un marchio d’origine
russo.
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Palestina. 2 novembre. Le risorse finanziarie a disposizione dell’Autorità Nazionale
Palestinese sono crollate del 60% dalla costituzione del governo di Hamas, lo scorso marzo,
in seguito al congelamento degli aiuti economici internazionali. Lo ha riferito ieri il Fondo
Monetario Internazionale. Nel periodo aprile-settembre, i fondi si sono contratti, rispetto allo
stesso periodo nell’anno precedente, da 1,2 miliardi di dollari a 500 milioni di dollari.
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Iran. 2 novembre. «Decine di missili», tra i quali gli Shahab-3, con una gittata che può
raggiungere i 2.000 chilometri, saranno impiegati dall’Iran in manovre militari al via da oggi
in varie regioni del Paese e nel Golfo. Lo ha riferito la televisione iraniana in lingua araba
al-Alam. All’agenzia Isna il capo dei Pasdaran (guardiani della rivoluzione), Yahya RahimSafavi, ha detto che le manovre «non rappresentano una minaccia alla regione, ma servono
proprio alla sua sicurezza e dimostrano il potere deterrente dei Guardiani della rivoluzione
contro possibili minacce (...). Se nemici provenienti da fuori della regione e Paesi
avventuristi intendono portare danno ai nostri interessi, noi colpiremo profondamente i
loro». Le esercitazioni seguono di qualche giorno quelle tenute lunedì nelle stesse acque
dalle marine militari di USA e alleati/subalterni, Italia inclusa, che simulavano
l’intercettazione di una nave trasportante ad un Paese della regione materiale sensibile dal
punto di vista nucleare. Sulla presenza di navi da guerra USA nel Golfo, il portavoce del
ministero degli Esteri iraniano, Mohammad Ali Hosseini, aveva detto che Teheran
«controlla molto attentamente» la situazione, poiché «la politica degli USA è di creare
tensioni nella regione e Washington persegue una linea avventurista. Ma la reazione della
Repubblica islamica», ha aggiunto, «sarà molto logica e saggia».
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USA / Iraq. 2 novembre. Iraq nel caos. Un grafico riservato del Comando Centrale USA
dice che la violenza è a livelli record. I generali hanno mostrato al Pentagono schemi e
diagrammi computerizzati in PowerPoint, il 18 ottobre. La segretezza è stata mantenuta fino
alla pubblicazione, ieri, su New York Times. Si tratta di un grafico semplicissimo. Sotto il
titolo «Indice di conflitto civile» c’è una scala che ha all’estremo sinistro la situazione
«pace», all’estremo destro la situazione «caos». Prima dell’attentato che ha provocato una
strage nel mausoleo shiita di Samarra, nel febbraio scorso, la freccia era quasi al centro, una
situazione di relativo equilibrio: da allora si è spostata rapidamente verso la zona «caos». In
fondo al riquadro c’è una sintesi: «Le aree urbane stanno vivendo una campagna di “pulizia
etnica” per consolidare il controllo»; «La violenza è al livello più alto finora raggiunto, e si
espande geograficamente».
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USA / Iraq. 2 novembre. Altrettanto sintetica è la legenda al diagramma. I fattori chiave
nel valutare il conflitto civile sono la retorica ostile da parte di leader politici e religiosi delle
diverse parti, misurata ascoltando sermoni e discorsi di esponenti sunniti e sciiti (è molto
alta ma stabile). Poi l’influenza dei leader politici e religiosi più moderati sulle rispettive
basi d’opinione: e questa è in netto ribasso. Altri fattori sono le uccisioni e attacchi settari, e
i «conflitti spontanei di massa». Altre variabili considerate sono l’attività delle milizie
armate (in aumento), i problemi di «governance» (cioè la corruzione e inefficacia del
governo, giudicata alta), l’inefficacia della polizia («significativa») e quella dell’esercito, il
numero di civili costretti a sfollare per fuggire alla tensione e violenza settaria (in aumento).
Sono indicatori del «conflitto civile» infine l’accelerazionme dei kurdi iracheni verso la
secessione e l’annessione di Kirkuk, e la violenza generalizzata motivata da differenze
settarie, che è entrata in una fase «critica». Uno dei fattori considerati chiave in questa
descrizione, dicono i militari, è l’attività delle milizie: i militari statunitensi ammettono che
le forze di sicurezza irachene, addestrate per anni, sono o incapaci di far fronte alla
situazione, o infarcite dalle stesse milizie che dovrebbero combattere.
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USA / Iraq. 2 novembre. «Ho ordinato metodi duri negli interrogatori? Sì, ma sempre in
seguito ad ordini provenienti dall’alto e per iscritto». Così si difende il generale Ricardo
Sanchez, ex comandante delle truppe USA in Iraq, che, obbligato ad andare in pensione, dà
la colpa della prematura fine della sua carriera allo scandalo delle torture nel carcere di Abu
Ghraib. Il generale fu criticato per non aver fatto di più per evitare gli abusi immortalati in
una serie di foto che, tra le meno scioccanti peraltro, fecero all’epoca il giro del mondo.
Sanchez, 55 anni, è andato in pensione nel corso di una cerimonia a Fort Sam Houston di
San Antonio in Texas. Come comandante del Quinto Corpo d’Armata nel 2003, sostiene,
aveva diffuso tre memorandum in cui autorizzava metodi duri negli interrogatori.
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Messico. 2 novembre. Decine di arresti e perquisizioni nel corso dell’occupazione militare
a Oaxaca, capitale dell’omonimo Stato. Centinaia di agenti della Policía Federal Preventiva
hanno abbattuto le barricate erette dalla Appo, l’Asamblea Popular de los Pueblos de
Oaxaca, nei pressi dell’Università. Intanto, con il voto favorevole del Partido de la
Revolución Democrática, di gran parte del partito di governo Pan e di altri gruppi minoritari,
la Camera messicana ha approvato lunedì 30 una mozione che invita il governatore Ruiz a
«rinunciare al suo incarico» per porre fine al conflitto nello Stato.
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Colombia. 2 novembre. Assalto FARC: uccisi molti poliziotti. All’alba di ieri, almeno 500
uomini delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) hanno preso d’assalto la
località rurale di Tierradentro, nello stato di Cordoba, a 400 chilometri a nord est di Bogotà.
Un attacco concentrico che ha portato alla morte di una ventina di poliziotti ed al ferimento
di svariati altri. Lo ha reso noto, informa Radio Caracol, il capo della marina, generale Jorge
Ballesteros. L’attacco avviene in un momento in cui, tra governo e FARC, sono interrotti i
contatti per arrivare ad un scambio umanitario tra 500 guerriglieri in carcere e 58 ostaggi da
anni nelle mani della guerriglia.
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USA / Iraq. 3 novembre. Tensioni crescenti tra amministrazione USA e governo iracheno.
Sulla grande stampa statunitense si dà per raggiunto il punto di rottura. C’è chi parla di un
imminente colpo di Stato (formalmente ad opera delle forze armate irachene, in realtà
incoraggiato e guidato dalla CIA) per defenestrare il primo ministro Nouri al-Maliki e tutto
il suo governo, e sostituirli con un nuovo ‘uomo forte’ con annesso regime che dia migliori
garanzie di portare a termine quella ‘irachizzazione’ del conflitto da cui ormai dipendono le
residue speranze statunitensi non già di arrivare ad una vittoria, ma quanto meno di ridurre
rapidamente il proprio impegno diretto nella contro-guerriglia e salvare il salvabile. AlMaliki potrebbe fare la stessa fine del presidente sud-vietnamita Ngo Dinh Diem, che 33
anni fa venne deposto e assassinato in un colpo di Stato pilotato dalla CIA, quando la Casa
Bianca ritenne che era divenuto un impaccio per i loro piani di diversa conduzione della
guerra in Vietnam.
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USA / Iraq. 3 novembre. In Iraq la strategia USA si è basata sulla predominanza
demografica e sul desiderio di rivalsa delle comunità sciite, tenute in una posizione di
sudditanza se non perseguitate sotto il regime di Saddam Hussein. Da qui l’epurazione e la
capillare emarginazione di baathisti e sunniti, la formulazione e approvazione di una
costituzione che garantisse una struttura di autonomie regionali ed infine elezioni per
centrare il potere (sotto supervisione USA) sulla coalizione dei partiti sciiti, la United Iraqi
Alliance. La resistenza armata dei vari gruppi più o meno riconducibili a ex-membri del
Baath si è dimostrata più dura e decisa del previsto. A sua volta il favoritismo verso gli sciiti
ha portato alla reazione sunnita. Una situazione non imprevista, anzi, di fatto incoraggiata,
che sta determinando una situazione molto simile a una guerra civile-religiosa. Una serie di
attentati (per tutti quello alla moschea di Samarra), di matrice mai accertata, respinta e
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criticata da tutti i gruppi di diversa confessione pur tra loro confliggenti, sembra ricondurre
ad operazioni da servizi segreti interessati ad uno scenario di questo tipo. La continua
opposizione alla presenza delle truppe di occupazione, che è il filone principale delle azioni
di resistenza, può essere contrastata o quantomeno se ne può alleggerire la pressione
alimentando rancori e rivalse ereditate dal passato regime e spingendo ad una guerra di tutti
contro tutti. A ciò si aggiunga il fatto che i partiti e le comunità sciiti si sono rivelati ben
poco riconoscenti verso i loro ‘liberatori’ e semmai guardano a Teheran, il che, a peggiorare
(per gli occupanti) ancor più le cose, offre all’Iran straordinarie possibilità d’azione sia
all’interno dello scenario iracheno sia a livello regionale.
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USA / Iraq. 3 novembre. Gli Stati Uniti hanno concorso a mettere sotto scacco, nel paese,
la propria strategia imperiale. La frantumazione in tre parti del paese arabo occupato
potrebbe rappresentare un’uscita –dall’attuale insostenibile situazione– peggiore. Da qui il
tentativo di inversione di rotta della Casa Bianca con la sua cosiddetta “politica di
riconciliazione nazionale”. Questa poggia su due punti principali: reintegrazione nel grado e
nelle funzioni di buona parte del personale sunnita in precedenza epurato dalle forze armate
e dalla amministrazione statale; l’approvazione di una nuova legge, che garantisca la
distribuzione dei ricavi derivanti dall’estrazione del petrolio tra tutte le comunità del Paese
in proporzione alla loro consistenza demografica e indipendentemente dalle regioni dove si
trovano i pozzi. Questa legge dovrebbe quindi riportare il controllo delle risorse petrolifere
sotto le autorità centrali e con ciò rovesciare i piani, previsti nella costituzione irachena, per
una sostanziale autonomia regionale (compreso il controllo diretto sulle riserve petrolifere)
del nord curdo e il sud sciita dove sono situati i giacimenti iracheni, mentre il triangolo
sunnita ne è privo. In altri termini, gli Stati Uniti potrebbero indirettamente riconoscere che
la resistenza sunnita ha vinto la guerra e cercare un accomodamento con i sunniti stessi
tramite la restituzione di parte di quanto è stato loro tolto con Iraqi Freedom, pur di
mantenere il riconoscimento –anche tacitamente accordato– della funzione guida di
Washington. Una specie di ritorno al regime di Saddam Hussein, senza quell’uomo forte,
con una relativa posizione più accomodante degli sciiti.
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USA / Iraq. 3 novembre. Questa inversione di rotta Washington vorrebbe che venisse
messa in atto come scelta autonoma del governo di al-Maliki, che però non può né vuole
farlo. Oltre agli sciiti, anche i kurdi vedrebbero sfilato il controllo del proprio petrolio. Il
reintegro, poi, di ufficiali e funzionari sunniti aprirebbe ulteriori fronti di scontro ad esempio
nella stessa comunità sciita. Per questo la Casa Bianca vuole da al-Maliki, quale primo atto,
che disarmi le milizie sciite, cioè quelle del suo stesso partito e della sua comunità. E tanto
per cominciare quelle dell’Esercito del Mahdi del ritenuto inaffidabile Moqtada al-Sadr. Il
disarmo di questo esercito dovrebbe comportare essenzialmente una massiccia operazione di
rastrellamento a Sadr City (il principale sobborgo sciita di Baghad, con una popolazione di
2,5 milioni di abitanti): Al-Maliki sinora ha rifiutato di lanciare un’operazione del genere o
anche solo di approvare formalmente un attacco condotto dalle sole forze USA, perché il
movimento sadrista è una consistente fazione dentro la coalizione sciita al governo ed un
atto del genere significherebbe un bagno di sangue, oltre che l’immediato discredito suo e la
caduta del governo. La crisi ha raggiunto l’apice nel pomeriggio del 26 ottobre, quando alMaliki ha emesso un comunicato stampa per annunziare di aver «ordinato» alle truppe
statunitensi di togliere i blocchi stradali attorno a Sadr City, blocchi che erano stati posti
sette giorni prima allo scopo dichiarato di cercare di liberare un soldato statunitense rapito.
Né quest’ordine né l’emissione del comunicato stampa erano stati in precedenza concordati
con il Comando USA, anche se si è poi cercato di presentarlo in questo modo. La mossa del
primo ministro era dovuta essenzialmente alla disperata necessità di far rientrare subito lo
sciopero generale, che era stato dichiarato nella mattinata dal movimeno sadrista e che
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minacciava di estendersi a macchia d’olio a tutta Baghad e poi al resto delle zone sciite del
Paese. Il comando USA d’occupazione ha dovuto accettare di mandar giù il boccone, i
blocchi sono stati tolti e lo sciopero è finito. Ma che al-Maliki rimanga ancora al suo posto
oltre la fine dell’anno in Iraq sono ben pochi ad esserne convinti.
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Euskal Herria. 4 novembre. ETA constata la crisi del processo ed annuncia «un nuovo
sforzo». Nel numero 111 di ottobre della sua rivista Zutabe, avverte che «se il
Governo spagnolo non rispetta i suoi impegni e non ci sono passi visibili, il processo si
romperà». Il 24 marzo scorso Euskadi Ta Askatasuna (ETA, Patria Basca e Libertà) ha
annunciato il cessate il fuoco permanente. ETA responsabilizza Spagna e Francia, perché
hanno lasciato passare «tempo prezioso negli ultimi mesi» e «non sono cessate le
aggressioni contro Euskal Herria». Incide il fatto che le autorità spagnole non hanno variato
di una virgola la strategia di illegalizzazione contro la sinistra indipendentista. Si cita il caso
di Batasuna («Il PSOE sta ricattandolo affinché costituisca un nuovo partito, nuove sigle. E
partiti come PNV, IU ed Aralar applaudono») e non ci si dimentica dei carcerati («La
pressione generalizzata su EPPK si mantiene»). Critiche anche a partiti come PSOE
(socialisti spagnoli) e PNV (autonomisti baschi), perché ritardano i contatti per la creazione
del tavolo multipartito, danno la priorità ai loro interessi parziali e cercano di debilitare le
posizioni della sinistra abertzale. Per ETA l’esecutivo di José Luis Rodríguez Zapatero
«deve dare una risposta positiva» a due questioni: 1. «adempiere all’impegno di mettere da
parte repressione ed attacchi»; 2. «impegnarsi chiaramente a rispettare il risultato del
processo di Euskal Herria, cioè la volontà dei cittadini baschi». In quanto alla via di
negoziato tra le formazioni politiche basche, considera che in questo autunno devono
vedersi «passi visibili» al processo democratico. «Come agenti che difendiamo Euskal
Herria, come indipendentisti baschi di sinistra, dobbiamo prendere la responsabilità di dare
impulso». Questo lavoro, secondo ETA, ha cinque punti principali: «Bisogna far fronte
all’offensiva dello Stato spagnolo; bisogna aprire una nuova fase di lotta di fronte
allo Stato francese (affinché non si disinibisca davanti al conflitto e la sua soluzione);
bisogna promuovere passi decisivi nel processo democratico; di fronte ai rischi, bisogna
agire in forma rapida e prudente; e fortificare la sinistra indipendentista basca ha
un’importanza vitale».
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Euskal Herria. 4 novembre. No alle pseudo-soluzioni. ETA avverte che «la sinistra
indipendentista basca non accetterà pseudo-soluzioni né trappole». La base della
risoluzione del conflitto si basa sull’autodeterminazione e la territorialità. «Il valore della
lotta» garantisce la sopravvivenza di Euskal Herria. «L’impegno di ETA è chiaro. Ha la
ferma volontà di dare un’uscita democratica al conflitto mediante il negoziato. Ma, con la
stessa fermezza, diciamo che ETA non accetterà che il governo spagnolo
utilizzi tatticamente il processo per imporre una nuova frode ad Euskal Herria e mantenere
la situazione di oppressione sul nostro paese. L’abbiamo detto chiaramente: se continuano
gli attacchi ad Euskal Herria, ETA risponderà». A Zapatero che il 29 giugno, in una
comparsa istituzionale, aveva parlato di limiti marcati dalla «legalità spagnola», ETA
ricorda che i baschi non decisero liberamente il loro futuro con lo Statuto di Gernika («nel
1979 poterono decidere solo alcuni cittadini baschi ed in una maniera pesantemente
condizionata»). «Vascongadizzazione (riferimento allo statuto di autonomia attualmente
vigente, ndr) del processo e limiti della Costituzione di Spagna», ribaditi il 29 giugno da
Zapatero, «è evidente», ricorda ETA, «che sono i due elementi che hanno alimentato il
conflitto negli ultimi 30 anni e hanno costituito le fondamenta dell’imposizione che ha
provocato lo scontro. Quelli sono, precisamente, i nodi che bisogna sciogliere».
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Euskal Herria. 4 novembre. Il PSE insiste: l’autodeterminazione è parte dell’«ideologia
nazionalista». Così il portavoce al Parlamento di Gasteiz del Partito Socialista Basco (PSE),
filiazione del PSOE di Zapatero, José Antonio Pastor, ha bollato ieri il dibattito nel
parlamento autonomico basco. La discussione mirava all’approvazione –poi avvenuta– di un
testo in favore dell’autodeterminazione. Sulla falsariga di quanto accaduto in Montenegro
(un referendum ha sancito la sua separazione dalla Serbia, ndr) si chiede l’indizione di un
referendum nei Paesi Baschi. Pastor aggiunge che il dibattito di oggi manca di «consensi
trasversali (cioè del PSOE e del Partito Popolare, ndr)».
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Euskal Herria. 4 novembre. Ieri il Parlamento di Gasteiz è tornato a difendere «il diritto
della società basca a decidere del suo futuro», invitando ad «un dialogo inclusivo e senza
esclusioni che permetta di raggiungere un accordo sugli aspetti di base per la
normalizzazione politica». Gli unici voti contrari, con sfumature diverse, quelli del PSE e
del Partito Popolare. Secondo il PSE il diritto di autodeterminazione è una rivendicazione
nazionalista giacché la cittadinanza basca già esercita il suo diritto a decidere negli ambiti di
competenza che le sono stati riconosciuti dal governo centrale di Madrid. In accordo con la
Costituzione e lo Statuto, aggiunge, ci sono cose che decide in esclusiva, altre
«congiuntamente con il resto degli spagnoli» ed «altre ancora con gli europei». L’insieme
delle forze abertzales (patriottiche, ndr) ha replicato che il diritto dell’autodeterminazione è
un esercizio democratico e c’è chi ha fatto notare che questo diritto include la possibilità
della piena indipendenza.
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Israele / Palestina. 4 novembre. Militari israeliani sparano sulle donne in corteo a Beit
Hanoun (nord di Gaza). Per portare aiuto ai militanti assediati nella moschea al-Nasser
avevano organizzato un corteo che ha attraversato i vicoli della casbah. «Dovevamo andare
a salvare i nostri figli minacciati dagli israeliani, non potevamo restare a casa» ha spiegato
una delle dimostranti. La vicenda era cominciata l’altro ieri, quando alcune decine di
giovani armati hanno trovato rifugio nella moschea. Una ruspa militare poco dopo ha
cominciato a demolire l’edificio, facendo crollare un muro e con esso una parte del tetto. Per
gli assediati decisi a non arrendersi si prospettava una morte orribile sotto le macerie. Poi,
verso le dieci di ieri mattina, quando tutto sembrava perduto, sono apparse le donne –madri,
mogli, sorelle, amiche, vicine di casa degli assediati– che non hanno esitato a marciare
davanti ai carri armati. Alcune sono riuscite a fare entrare nella moschea indumenti
femminili. Secondo l’esercito d’occupazione favorendo così la fuga di una parte dei
combattenti travestiti da donne. Appena i bulldozer si sono messi in moto per abbattere la
moschea, le donne si sono frapposte in corteo. A questo punto gli israeliani hanno aperto il
fuoco. Un portavoce militare a Tel Aviv ha riferito che i militari hanno colpito miliziani
armati. Le immagini televisive di Al-Jazeera e Rainews24 lo smentiscono, mostrando un
corteo che procede lungo una strada quando all’improvviso partono raffiche di mitra. Le
donne fuggono ma due rimangono uccise ed altre ferite.
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Israele / Palestina. 4 novembre. Scudi umani? «Unite contro l’occupazione». «Quando si
parla di scudi umani non dobbiamo pensare a persone che mostrano il petto ai fucili nemici
e sono pronte a morire al posto di altri. Le donne non hanno fatto nulla di tutto ciò, ma
soltanto quello che era giusto nelle terribili condizioni di ieri e di questi ultimi mesi. Sono
scese in strada per chiedere agli israeliani di ritirarsi e di non arrestare i loro mariti,
fratelli, figli nascosti nella moschea. In ogni caso il fuoco israeliano è stato improvviso e del
tutto ingiustificato. Qualcuno ha voluto punire le donne per essersi mostrate compatte,
unite, nel difendere la loro terra dall’invasore». Lo sostiene Naila Ayesh, esponente storica
delle femministe palestinesi intervistata da il Manifesto di oggi. «Non erano donne solo di
Hamas, ma di tutte le fazioni, assieme naturalmente a tante altre che non fanno politica, ma
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che non possono rimanere indifferenti di fronte a ciò che accade a Gaza», precisa Ayesh,
che aggiunge: «I mezzi d’informazione hanno diffuso informazioni imprecise. Hanno detto
che le donne a Beit Hanoun erano tutte di Hamas perché portavano l’hijab, dimenticando
che a Gaza tutte le donne, tranne poche, sono velate, anche quelle che non sono attiviste o
hanno votato per il movimento islamico. In ogni caso le due compagne di Beit Hanoun e
l’altra caduta giovedì sotto il fuoco degli israeliani, hanno contribuito con il loro sacrificio
ad avvicinare le varie organizzazioni di donne palestinesi e favorito il ricrearsi di un fronte
unito. Ne avevamo bisogno perché la crisi interna stava avendo il sopravvento sul più
importante problema dei palestinesi: l’occupazione. Sino quando continuerà l’oppressione
israeliana e non vedrà la luce uno Stato palestinese indipendente, non avrà mai sviluppo
concreto il lavoro che tante organizzazioni hanno svolto per migliorare la condizione delle
donne a Gaza e nel resto dei Territori occupati. La sofferenza, le dure condizioni di vita, la
lotta quotidiana che tante fanno per garantire un pasto ai figli, non consentono di allargare
il dibattito sui temi centrali della questione femminile».
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Israele / Palestina. 4 novembre. «Questa operazione militare (israeliana, “Nubi
d’autunno”, ndr) è la più violenta, la più dura, che abbia mai visto. Gli israeliani attaccano
senza alcun freno e non esitano a demolire anche i luoghi di culto. Dicono di voler fermare
il lancio di razzi Qassam, ma sparano contro tutti, anche sulle donne». I morti si contano a
decine di giorno in giorno a Beit Hanoun e nel nord della Striscia di Gaza. Lo diceva ieri a il
Manifesto, Lama Hourani, del Centro di sostegno alle donne lavoratrici di Gaza city,
scorrendo i dati del fiume di sangue solo nelle strade di Beit Hanoun sotto assedio da tre
giorni. «Centinaia di uomini sono stati arrestati e trasferiti ad Erez dove vengono
interrogati e poi imprigionati, alcuni hanno solo 16 anni», aggiunge Hourani mentre con le
sue colleghe preparava aiuti per i civili rimasti intrappolati a Beit Hanoun. Quella in corso
ricorda l’operazione che nell’aprile 2002 portò Israele a rioccupare quelle che erano le città
autonome palestinesi della Cisgiordania. I punti in comune sono molti: la rapida avanzata
dei mezzi corazzati nei centri abitati, l’impiego massiccio degli elicotteri a sostegno delle
truppe, la demolizione quasi immediata degli edifici dove si nascondono i combattenti,
centinaia di arresti, pochi scrupoli per i civili. Un’incursione che, dicono nei Territori
Occupati, presto si ripeterà in altri centri abitati, proprio come accadde quattro anni fa in
Cisgiordania.
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Israele / Palestina. 4 novembre. Fonti palestinesi hanno smentito in mattinata le
affermazioni dell’esercito d’occupazione secondo cui le donne in corteo sono servite come
scudi umani per le decine di miliziani asserragliati nella moschea di Al-Nasser. Nonostante
l’accerchiamento erano fuggiti da giovedì. In un comunicato, le Brigate di Ezzeddin al
Kassam, braccio armato di Hamas, riferiscono di aver messo in atto una «complicata
operazione» per far uscire con successo cinquanta suoi combattenti dal luogo di culto
accerchiato. Secondo uno scritto distribuito a Gaza, miliziani hanno simulato un attacco per
distrarre gli israeliani che avevano circondato la moschea, permettendo agli assediati la fuga
attraverso le case adiacenti. Dette fonti sostengono che la manifestazione di donne,
organizzata da Hamas, ha avuto luogo dopo che i miliziani palestinesi erano usciti dalla
moschea e perché i militari di Tel Aviv si apprestavano a demolire l’edificio.
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Russia / Georgia. 4 novembre. Raddoppia il prezzo del gas russo alla Georgia. Lo ha
deciso la compagnia russa Gazprom. Tbilisi ha dichiarato di ritenere la decisione vincolata
alla recente crisi bilaterale dopo la crisi delle spie con Mosca. La Georgia ha sofferto
l’inverno scorso gravi penurie in quella che finora è il primo episodio della guerra del gas.
Russia / Cecenia. 4 novembre. La guerriglia cecena attacca i russi nella capitale, Grozny.
Almeno un poliziotto pro-russo è morto e diversi altri sono rimasti feriti in un attacco della
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resistenza cecena nel centro della capitale. Ore prima, soldati russi e combattenti ceceni si
sono scontrati nei pressi della località di Dargo, nella regione di Vedeno (sud), baluardo
della resistenza.
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Cina / Africa. 4 novembre. Si chiude oggi a Pechino il terzo forum per la cooperazione tra
Cina e Africa. L’agenda di questo terzo forum prevedeva la cancellazione del debito
africano nei confronti della Cina e la firma di nuovi contratti. I rappresentanti del governo
cinese assieme a 48 capi di Stato africani hanno siglato accordi per una cifra pari a 1,9
miliardi di dollari. Con queste intese la Cina è riuscita a riconfermare la volontà di
espandere la propria presenza in Africa con alleanze politiche, ma soprattutto commerciali.
Gli accordi, infatti, riguardano i settori delle risorse naturali, delle infrastrutture, della
finanza, della tecnologia e della comunicazione, come ha indicato Wan Jifil, presidente del
Consiglio cinese per la promozione del commercio internazionale. Pechino è animata dalla
ricerca del petrolio e di materie prime (quali metalli, minerali), ma non si è risparmiata
dall’effettuare investimenti, dal finanziare la costruzione di strade, ospedali, ferrovie, edifici,
linee elettriche e telefoniche e molte altre opere pubbliche, con il vincolo della costruzione e
degli appalti a favore di ditte cinesi. Risultato del «rinnovato» impegno cinese, è il boom
dell’interscambio commerciale passato dai 4 miliardi del 1995 ai quasi 50 miliardi di dollari
dell’anno in corso. A questo si aggiunge un investimento cinese in Africa che nel 2005 ha
superato i 6 miliardi di dollari per circa 800 progetti in 49 paesi africani.
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Cina / Africa. 4 novembre. Il presidente cinese Hu Jintao si è impegnato a raddoppiare gli
aiuti finanziari entro il 2009 e a concedere 5 miliardi di dollari, pari a 3,93 miliardi di euro,
tra prestiti e linee di credito all’Africa. Non solo. Secondo quanto riferisce l’agenzia Xinhua,
Pechino costruirà scuole, ospedali e cliniche per combattere la malaria. Sarà cancellato il
debito dei paesi più poveri del continente africano e sarà concesso lo status libero da
imposte ad una maggiore quantità di suoi prodotti, con l’obiettivo di aumentare
l’importazione di prodotti africani in Cina. Il premier Wen Jiabao da parte sua ha fissato
l’obiettivo di raggiungere un volume pari a 100 miliardi di dollari nell’interscambio
commerciale tra Cina ed Africa entro il 2010. Si tratta di un montante più che doppio
rispetto al livello registrato nel 2005, pari a 39,7 miliardi di dollari. Pechino punta così ad
allargare la sua influenza in un’area del pianeta sottosviluppata ma ricca di materie prime e
soprattutto con un largo pacchetto di voti che possono rivelarsi strategicamente
fondamentali in istituzioni internazionali chiave come le Nazioni unite.
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Cina / Africa. 4 novembre. L’interesse della Cina per l’Africa segnala un disegno
geostrategico di enorme rilievo per gli equilibri globali. Rilevanti, ovviamente, sono il
petrolio e le immense ricchezze minerarie africane: la Cina consuma ogni giorno 6,3 milioni
di barili di petrolio e l’Africa le fornisce un terzo del suo fabbisogno. Rispondendo a logiche
economiche strategiche di lungo periodo, e non alle pressioni del profitto a breve, Pechino
ha buttato all’aria gli equilibri/squilibri esistenti. Un prestito cinese ha ad esempio
consentito all’Angola di sfuggire alle tenaglie del Fondo Monetario Internazionale.
Attualmente la Cina è, dopo USA e Francia, il terzo partner commerciale dell’Africa. Due i
“pilastri contrattuali”: uno, che Pechino si è autoimposto, è quello della non ingerenza negli
affari interni dei paesi africani con cui fa affari. L’altro, imposto ai suoi partner, è quello
della non esistenza di Taiwan: in pratica chi fa affari con la Cina non può avere rapporti con
Taiwan. Al vertice di Pechino, quel pugno di Paesi africani che continuano a riconoscere il
governo di Formosa hanno avuto diritto a un tavolo ma senza microfoni. La conquista cinese
dell’Africa risale all’inizio della rivoluzione maoista. Per quasi mezzo secolo Pechino ha
aiutato silenziosamente lo sviluppo dell’Africa attraverso infrastrutture, inviando medici e
altro personale sanitario, promuovendo borse di studio per i giovani africani. Tra il 1960 e il
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1980 si rafforza l’abbraccio politico con Pechino che per molti Paesi africani diventa un faro
per il terzo mondo. Poi, giù il muro di Berlino, addio guerra fredda, l’economia cinese che
comincia a macinare record e l’Africa da mungere.
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Cina / Africa. 4 novembre. Non mancano le polemiche inerenti al comportamento cinese
nei riguardi dell’Africa. A lamentarsi sono gli stessi africani che si vedono penalizzati
dall’invasione cinese. Molti lavoratori africani vedono con paura l’arrivo dei cinesi,
temendo che possano minacciare il loro già misero tenore di vita. La concorrenza dei
prodotti cinesi ha impoverito le economie di molti Stati africani, le cui merci (per esempio
nel tessile), già penalizzate sui mercati occidentali, non riescono nemmeno a competere sui
mercati nazionali a causa dell’invasione della Cina. In Nigeria ditte provenienti dalla Cina
sono state accusate di introdurre merci di qualità scadente e mere contraffazioni di altre
marche. Nonostante le più o meno velate lamentele, a partire dal 2003 i commerci tra
Pechino e il continente africano sono stati di 18,5 miliardi di dollari USA, oltre il 50% in più
rispetto al 2002. Nel 2004 la Cina ha importato merci africane per 15,7 miliardi di dollari ed
esportato prodotti per 13,8 miliardi. Più di 700 compagnie cinesi operano in tutto il
continente. Nel 2004 il 25% del petrolio importato da Pechino arrivava dal Sudan, Ciad,
Libia, Nigeria, Algeria, Guinea Equatoriale, Gabon e Angola. Oggi la Cina importa un
quarto del petrolio dell’Angola, il 60% di quello del Sudan. In questi Paesi i proventi
ottenuti dall’estrazione del petrolio sono componente rilevante del prodotto interno lordo e il
suo commercio ha importanti conseguenze sulla politica interna e sullo sviluppo sociale. Nel
settore agricolo la Cina acquista merci ed esporta competenze tecniche e capitali. Nello
Zambia, ad esempio, il mercato ortofrutticolo è in pratica coperto da merci di aziende
agricole gestite da cinesi. Rapporti economici privilegiati con cui la Cina ottiene una sempre
più spiccata influenza politica e strategica nei paesi africani.
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USA / Corea del Nord. 4 novembre. Washington starebbe ultimando i preparativi per un
attacco contro installazioni nucleari della Corea del Nord. Lo riferisce l’edizione di ieri del
Washington Times. Funzionari del Pentagono, citati sotto anonimato dal periodico,
assicurano che si prevede un attacco contro il centro per la raffinazione del plutonio di
Yongbyong, con missili di crociera Tomahawk ed altre «armi di alta precisione». Il progetto
è stato avviato dopo il test nucleare attuato il 9 ottobre da Pyongyang.
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Messico. 4 novembre. Non un «governo-ombra», ma «alla luce del sole». Lo ha precisato
Andrés Manuel López Obrador presentando a Città del Messico i membri del suo esecutivo
composto da sei donne e sei uomini, che dovranno virtualmente guidare i dodici ministeri in
cui è divisa l’amministrazione pubblica. I nomi dei dicasteri sono stati in parte cambiati:
Relaciones Políticas al posto di Gobernación (Interni), Hacienda Pública anziché Hacienda
y Crédito Público (Tesoro), Relaciones Internacionales anziché Relaciones Exteriores
eccetera. «Questo governo non avrà un potere reale, ma un potere morale», ha affermato il
commentatore politico Lorenzo Leyer. La proclamazione di López Obrador presidente
legittimo del Messico avverrà il 20 novembre nello Zócalo della capitale.
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Euskal Herria. 5 novembre. Madrid replica all’ETA («assenza di violenza» e «legalità
vigente») ma non si pronuncia sull’inadempimento dei suoi impegni denunciato
dall’organizzazione politico/militare basca. Il ministro dell’Interno, Alfredo Pérez
Rubalcaba, ed il segretario di Stato della Comunicazione (cioè portavoce di Zapatero),
Fernando Moraleda, hanno parlato al posto del presidente, José Luis Rodríguez Zapatero,
impegnato al vertice Iberoamericano in Uruguay. ETA (Euskadi Ta Askatasuna, Patria
Basca e Libertà, ndr), sull’ultimo numero (ottobre) della sua rivista Zutabe, aveva chiesto
una risposta positiva su due questioni: 1. «cessazione di repressione e attacchi (contro la
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sinistra patriottica, ndr)»; 2. «chiaro impegno al rispetto del risultato del processo di Euskal
Herria, cioè della volontà dei cittadini baschi». Da Madrid hanno richiamato le due «regole
della democrazia» di cui sopra (Moraleda) ed il fatto (Rubalcaba) che «queste regole del
gioco non mutano né con comunicati né con scambi». Della serie: come con le «regole della
democrazia» si può eludere e negare un principio della democrazia, quello
dell’autodeterminazione di un popolo. La partita è ancora aperta.
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Libano. 5 novembre. Israele continua i sorvoli del territorio libanese, la cosiddetta
“comunità internazionale” tace su queste continue violazioni della risoluzione ONU 1701
dell’agosto scorso e Teheran si dice pronto «a fornire moderne armi contraeree all’esercito
libanese». Lo ha detto l’ambasciatore iraniano in Libano, Mohammad Reza Sheibani,
incontrando il capo delle forze armate del Paese, generale Michel Sleiman. Lo riferisce
l’agenzia iraniana Irna.
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Perù. 5 novembre. Alleanza tra Alan García e Alberto Fujimori. Il governo del presidente,
Alan García, in carica da 100 giorni, ha stretto una tacita alleanza con l’ex mandatario
Fujimori. L’ex presidente dirige da un carcere del Cile un gruppo di 13 parlamentari guidati
dalla figlia. L’alleanza tra García e Fujimori si basa, tra le altre misure, sulla disattivazione
della lotta anti-corruzione, una politica economica di destra e la pena di morte per i
guerriglieri.
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Somalia. 6 novembre. Corti islamiche ed Etiopia sull’orlo della guerra. Dopo il fallimento
dei colloqui di pace tra Corti islamiche e Governo di Transizione (TNG), saltati lunedì
scorso a Khartoum, la tensione monta. Anche se proprio ieri le Corti hanno annunciato di
aver accettato di riaprire i colloqui con il TNG, al termine di un incontro a Mogadiscio con il
presidente del Parlamento provvisorio. Tutto però lascia presagire uno scontro campale per
il controllo della capitale provvisoria, Baidoa. Tanto più che non è più nascondibile, a
partire dagli stessi residenti di Baidoa, la presenza delle truppe etiopiche. Tre giorni fa, i
militari etiopici hanno preso addirittura il controllo dell’ospedale di Baidoa. Un atto che per
molti osservatori ha una sola spiegazione: guerra. A infiammare ulteriormente la situazione
è giunta un’informativa USA secondo cui gli islamisti starebbero preparando attentati contro
obiettivi strategici e cittadini statunitensi in Etiopia e in Kenya. Un’affermazione subito
smentita da Mogadiscio: il responsabile dell’informazione degli islamisti, Abdirahman Ali
Mudey, ha accusato gli USA di «fomentare missioni suicide ad Addis Abeba e Nairobi per
poi accusare le Corti degli attentati».
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Somalia. 6 novembre. Iniziati oggi combattimenti fra forze islamiche e truppe della
semiautonoma enclave settentrionale del Puntland, che ha resistito finora all’avanzata delle
Corti islamiche. Lo hanno detto fonti islamiche a Mogadiscio. Galinsoor è una città vicina al
confine con la provincia del Puntland.
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Iran. 6 novembre. «La repubblica Islamica dell’Iran dovrebbe prendere le impronte
digitali dei cittadini americani subito dopo il loro arrivo nel paese», ha dichiarato Kazem
Jalali, relatore della Commissione della sicurezza nazionale del Parlamento iraniano.
Kazem Jalali fa riferimento al comportamento irriverente dei funzionari USA verso i
cittadini iraniani al loro arrivo negli aeroporti degli States, ed in particolare alla detenzione
(circa 36 ore), con successiva, immediata espulsione, cui è stato recentemente sottoposto un
giornalista iraniano, appena atterrato sul suolo statunitense. «Tutti i passeggeri dell’aereo
hanno pensato che fosse un terrorista», ha proseguito Kazem Jalali ed ha sottolineato che
precedentemente gli Stati Uniti non avevano permesso ad un gruppo di universitari iraniani
di entrare nel paese.
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Pakistan / Afghanistan. 6 novembre. Sigillare la frontiera comune e minarla
«selettivamente». È quanto ha proposto ieri il ministro degli Esteri pakistano, Jursheed
Kasuri, al suo omologo afgano. Obiettivo: impedire il passaggio dei guerriglieri. Kasuri ha
fatto questo annuncio dopo essersi incontrato con il suo omologo olandese, Bernard Bot, in
visita ad Islamabad. Kasuri ha quindi aggiunto che la questione sarà affrontata con altri
membri della NATO.
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Israele. 7 novembre. Israele prepara una nuova aggressione contro il Libano e anche contro
la Siria. L’esercito israeliano ha cominciato a prepararsi per attaccare di nuovo il Libano se
«fallisce» la risoluzione 1701 dell’ONU (che Israele sta violando sistematicamente) e
puntare quindi anche sulla Siria. L’ammissione è venuta ieri dal capo della divisione numero
91 per la Galilea, tenente colonnello Gay Hazoot. Israele ha pertanto congelato i piani
destinati alla riorganizzazione delle sue fila e la prevista riduzione del servizio militare
obbligatorio. Hazoot ha quindi aggiunto che «sebbene l’UNIFIL (la forza provvisoria
dell’ONU in Libano, ndr), composta ora da 10mila effettivi di paesi europei, è determinata
a che la situazione non torni ad essere come prima che si riscaldasse il conflitto, noi
abbiamo cambiato il nostro concetto operativo (...) Ora abbiamo preso misure perché
Hezbollah non torni ad attestarsi alla frontiera (...) Quel che è più importante, si è
intensificato l’addestramento (delle truppe, ndr)», specialmente dei riservisti, per la
mancanza di preparazione mostrata e le numerose perdite sofferte.
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Panama / ONU. 7 novembre. Panama nel Consiglio di Sicurezza. L’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite ha designato formalmente Panama a sostituire l’Argentina nel Consiglio
di Sicurezza per il biennio 2007-2008. Assieme a Panama, entreranno nel Consiglio, il
primo gennaio, Italia, Belgio, Sud Africa e Indonesia. La candidatura di Panama era emersa
dopo il ritiro di Guatemala e Venezuela, che per ben 47 volte si erano disputati il seggio in
rappresentanza dell’America Latina. Il governo di Caracas, anche se non è riuscito a
ottenere la designazione, ha comunque impedito che il seggio fosse occupato dal Guatemala,
proposto dagli Stati Uniti in funzione anti-Chávez.
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Panama / ONU. 7 novembre. Tenuto conto delle relazioni sempre più tese tra Stati Uniti e
Venezuela, Washington temeva che se Caracas fosse riuscita a entrare nel Consiglio avrebbe
tentato di mettere in discussione la sua supremazia nell’organismo e rallentare il
raggiungimento di posizioni comuni sulle maggiori questioni internazionali sul tappeto,
come il problema del nucleare iraniano. Nel merito Chávez era stato chiaro: in caso di
elezione, il Venezuela avrebbe evitato l’imposizione di sanzioni contro il regime di
Ahmadinejad dando credito alle affermazioni di quest’ultimo di voler sviluppare solo l’uso
civile del nucleare. Inoltre, come dichiarato dal rappresentante venezuelano alle Nazioni
Unite, Francisco Arias Cardenas, la tribuna del Consiglio sarebbe divenuta strumento per
dare voce alle nazioni più piccole e più povere. La vetrina del massimo organo ONU
avrebbe permesso a Hugo Chávez di condurre con maggiore efficacia la sua lotta contro
l’egemonia statunitense globale. Gli eventi sono andati in modo differente da quanto sperato
dal presidente venezuelano. Dopo uno stallo trascinatosi per 47 votazioni in cui il Guatemala
era sempre stato in vantaggio (eccetto in un caso in cui si era raggiunta la parità) senza
tuttavia mai riuscire a ottenere i due terzi dei voti necessari per ottenere la maggioranza, i
rappresentanti dei due paesi in lizza hanno deciso di ritirarsi in favore di una candidatura di
compromesso: quella di Panama.
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Panama / Venezuela / ONU. 7 novembre. Le motivazioni alla base della sconfitta di
Chávez appaiono essere due. In primis, il discorso da lui tenuto il 20 settembre scorso
16
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all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in cui paragonava la figura del presidente
George Bush al diavolo e attaccava senza mezzi termini o perifrasi la politica estera della
sua amministrazione. Secondo l’ambasciatore della Tanzania Augustine Mahiga, molti paesi
membri, pur condividendo gli argomenti trattati da Chávez, hanno considerato le sue parole
come indice di cattivo gusto e come prova di una sostanziale incapacità del Venezuela di
svolgere un ruolo costruttivo nel Consiglio. Altro fattore che può aver fatto la differenza
nella contesa con il Guatemala sono state anche le vaste pressioni diplomatiche ed
economiche esercitate dagli Stati Uniti contro quei Paesi che avrebbero potuto votare per il
Venezuela. Gli USA, dosando bastone e carota (cioè minacce e promesse di aiuti economici
e di cooperazione militare), sono riusciti in molti casi a contrastare analoghi impegni di
sostegno economico assunti da Chávez. Secondo Larry Birns, direttore del Council on
Hemispheric Affairs, se una nazione intendeva evitare di incorrere nelle ire statunitensi,
faceva meglio a votare contro il Venezuela.
Catalogna. 8 novembre. Nasce il nuovo esecutivo. Il governo dell’Intesa si ripromette di
«non ripetere gli errori del passato». I prossimi quattro anni dovrebbero vedere un
esecutivo tripartitico con il presidente Montilla (PSC, socialisti catalani), ed i vicepresidenti
Carod-Rovira (ERC, Esquerra Republicana de Catalunya, indipendentisti di sinistra) e Joan
Saura (ICV, sinistra rosso-verde catalana). L’impegno è per un esecutivo stabile che si
occupi dei temi indicati come più importanti per i catalani, cioè quelli sociali e l’economia.
José Montilla, il futuro presidente catalano, ha ripetuto che governeranno «senza sottoporsi
a tutele di partito né ingerenze esterne». Obiettivo: garantire la «continuità di una buona
situazione economica» in Catalogna. Allo stesso tempo ha dichiarato che si tenterà di
concretare al massimo le possibilità dello Statuto, tanto sul tema della gestione dei fondi
quanto sul «riconoscimento della nostra identità nazionale». Carod-Rovira, uno dei due
vicepresidenti e massimo dirigente dell’ERC, ha enfatizzato l’interesse del governo a
mantenere «la coesione nazionale e sociale», elementi che per i repubblicani catalani –ha
sostenuto– vanno di pari passo, ed ha aggiunto che, proprio per garantire meglio entrambi
gli obiettivi, non c’è di meglio che una coalizione di governo come quella appena nata, nella
quale convivono «persone che si considerano nazionalisti catalani ed altri no».
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Spagna / Italia / Euskal Herria. 8 novembre. ETA avrebbe trasferito nel nord Italia il
proprio apparato militare di vertice. Lo avrebbe fatto per ragioni tattiche, in seguito alla
tregua permanente dichiarata nel marzo scorso e che dovrebbe aprire le porte a un negoziato
per la soluzione politica del conflitto con Madrid e Parigi. Lo scrive il quotidiano spagnolo
Abc nella sua edizione on-line citando fonti bene informate. Lo spostamento dalla Francia in
Italia dell’apparato militare con alla testa il suo capo, Garikoitz Aspiazu Rubina, detto
‘Txeroki’, «sarebbe avvenuto» –si legge sul sito web del giornale– «con la conoscenza del
governo spagnolo e il ‘permesso’ delle forze di sicurezza italiane, che avrebbero
apparentemente ricevuto da Roma il compito di vigilare ma non intervenire se non in caso
di un’azione delittuosa». Tale disponibilità italiana sarebbe «la conseguenza diretta» –
afferma Abc– «dell’appoggio manifestato dal presidente del Consiglio Romano Prodi al
processo di pace voluto dal premier spagnolo Jose Luis Rodriguez Zapatero, durante la sua
recente visita a Madrid». Il ripiegamento della struttura militare dell’ETA in Italia –secondo
le fonti citate da Abc– «avrebbe lo scopo di metterla in zona di maggior sicurezza
mantenendola al tempo stesso abbastanza vicina al territorio spagnolo in caso di rottura
della tregua». La notizia è stata smentita dal governo italiano.
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Nicaragua. 8 novembre. Vince Daniel Ortega con il 38% ed il FSLN torna al potere dopo
16 anni «di capitalismo selvaggio». Ieri il Consiglio elettorale l’ha proclamato vincitore
delle elezioni di domenica. Reazioni ambigue da Washington, calde dall’Avana. Entusiasmo
a Caracas. Nove i punti di distacco dal suo principale avversario, il banchiere Eduardo
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Montealegre della Alianza liberal nicaraguense, uno dei due tronconi con cui si è presentata
la destra alle urne. Le prime parole di Ortega, al potere dopo 16 anni di governi di destra da
lui definiti «di capitalismo selvaggio», sono state caute: ha escluso cambiamenti radicali
nella politica economica, ha promesso di rispettare l’iniziativa privata e l’economia di
mercato e di onorare gli accordi con gli organismi finanziari internazionali, si è impegnato a
mantenere «la stabilità», a favorire tutti i tipi di investimenti stranieri e a unirsi con tutti i
gruppi sociali e politici «per attaccare la povertà e creare posti di lavoro». Dopo tre lustri
di neo-liberismo, il Nicaragua è il paese più povero dell’America latina solo davanti
all’inarrivabile Haiti: l’80% dei 6 milioni di nicaraguensi vive con meno di 2 dollari al
giorno. Ortega assumerà il potere il 10 gennaio.
•
Nicaragua. 8 novembre. Washington ha fatto contro Ortega una sfacciata campagna
contro, intrisa di ogni tipo di minacce. Gli Stati Uniti avevano appoggiato l’esponente
dell’Alianza Liberal Nicaragüense Eduardo Montealegre con tutti i mezzi, giungendo a
minacciare un blocco delle rimesse degli emigranti nel caso di un’affermazione sandinista.
Svariati congressisti repubblicani in processione a Managua avevano minacciato anche la
sospensione di ogni aiuto. L’ambasciatore statunitense Paul Trivelli aveva tentato di favorire
un’unica candidatura della destra, ma si era scontrato con il rifiuto di Montealegre e del
liberal-somozista José Rizo, del Partido Liberal Constitucionalista, di confluire in una lista
comune. Trivelli, interferendo a ogni piè sospinto nella politica interna, aveva sostenuto
oltre ogni decenza uno dei due candidati della destra, il liberista banchiere Eduardo
Montealegre. Se la destra fosse andata alle urne unita si sarebbe imposta su Ortega come nel
‘90, nel ‘96 e nel 2001. Stavolta, però, l’isterica intromissione del «gigante del nord» gli si è
ritorta contro.
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Nicaragua. 8 novembre. Non mancano i critici da sinistra di Ortega. Per giungere al potere,
ha stretto patti con personaggi ultraconservatori come l’ex presidente Arnoldo Alemán (cui
ha garantito copertura contro diverse accuse di corruzione), ha accettato come
vicepresidente l’ex leader della Contras Jaime Morales Carazo, infine si è avvicinato alle
posizioni più retrive della gerarchia cattolica. Fino al punto di votare in Parlamento insieme
alle destre, qualche giorno fa, la penalizzazione dell’aborto in ogni caso (anche quando sia
in pericolo la vita della madre o quando la gravidanza sia frutto di una violenza). Con la
nuova legge, che abroga una normativa in vigore da un secolo, anche le donne che
ricorreranno all’aborto terapeutico e i medici che le assisteranno rischiano pesanti pene
detentive. I dissidenti hanno dato vita al Movimiento Renovador Sandinista, il cui leader
indiscusso, l’ex sindaco di Managua Herty Lewites, poteva aspirare alla massima carica
dello Stato. La sua morte, per infarto, agli inizi di luglio, ha rappresentato un duro colpo per
le speranze dei rinnovatori: Edmundo Jarquin, candidato di ripiego, ex ambasciatore
sandinista a Washington, non ha ottenuto neppure il 7% dei suffragi.
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Nicaragua. 8 novembre. Tra chi critica da sinistra Ortega c’è chi si dice sicuro che
«qualcosa di sinistra» la farà, dovendo rispondere al proprio zoccolo duro, fatto soprattutto
dai diseredati di questo paese, oltre che di parte della nuova classe sociale formatasi durante
la passata rivoluzione. Lancerà una nuova campagna di alfabetizzazione, appronterà un
programma contro la denutrizione, disporrà blandi crediti per i piccoli contadini. Ma con gli
Stati Uniti Ortega finirà col mantenere il piede in due scarpe, giocando sul ricatto di finire
tout-court nelle mani del venezuelano Hugo Chávez. E sapendo a sua volta di essere egli
stesso costantemente sotto ricatto in un parlamento dove la destra (ri)unita potrebbe in
qualsiasi momento metterlo in minoranza. Gli toccherà dunque negoziare tutto, a partire
dall’accordo con il Fondo Monetario in imminente scadenza in Nicaragua, così come ogni
aiuto e finanziamento internazionali.
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Nicaragua. 8 novembre. Congratulazioni più o meno sincere da parte dei leader
dell’America latina. Convinte quelle di Cuba. La vittoria del sandinismo, secondo Carlos
Lage, vicepresidente di Cuba, è una sconfitta per gli Stati Uniti e sancisce la nascita di un
nuovo membro nel fronte bolivariano. Entusiasta il Venezuela (che finanzia la sua
campagna e che ha inviato già due carichi di petrolio raffinato per i municipi amministrati
dal Fronte) per bocca di Chávez: «L’America latina sta lasciando per sempre il suo ruolo di
cortile di casa dell’impero nord-americano. Yankees go home!».
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Venezuela. 8 novembre. «Dobbiamo prepararci alla transizione ed al cambio di governo».
Lo ha dichiarato Manuel Rosales, candidato dell’opposizione alle presidenziali del 3
dicembre, preannunciando una riunione con i vertici militari. Rosales ha anche parlato di un
Plan V: «Venezuela in piazza a reclamare la vittoria del popolo». Con il Plan V gli
antichavisti sono invitati a rimanere nei pressi del seggio anche dopo aver votato, per
vigilare su presunti brogli. Una dichiarazione che sta provocando tensione nel paese.
«L’opposizione vuole creare il caos», ha replicato il presidente Chávez, e «destabilizzare il
paese all’indomani del voto». «Faccio un appello», ha detto rivolgendosi all’opposizione,
«perché non andiate ad annunciare che il 3 dicembre sono pronti i brogli, che il 4 il popolo
deve scendere in piazza e darsi alla violenza e che il 5 le forze armate verranno a riportare
l’ordine. Niente di tutto ciò avverrà, ne sono sicuro e noi faremo in modo che non avvenga».
In un’intervista a Telesur il viceministro degli Esteri Yuri Pimentel ha commentato: «Questa
gente sa in anticipo di essere sconfitta e pertanto cerca di generare caos, di suscitare
instabilità. Stanno riscaldando la piazza per creare un clima che permetta loro, attraverso i
media, di diffondere la convinzione che il trionfo è assicurato, ma che potrebbe essere
rubato dal governo». Secondo i sondaggi, il presidente Chávez è in testa nelle intenzioni di
voto con 20 o 30 punti di distacco rispetto al suo diretto avversario.
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Euskal Herria. 9 novembre. Dodici anni e sette mesi per due articoli. Una sentenza senza
precedenti contro un militante di ETA. Sconcertato anche Patxi López, dirigente del PSE
(diramazione basca del PSOE di Zapatero). In un’intervista a Antena 3 Televisión López l’ha
giudicata «sproporzionata» e, con realismo politico, ha invitato ad «applicare la legge
tenendo conto delle circostanze e della situazione in ogni momento». Sul caso di Iñaki de
Juana, che ha finito di scontare 20 anni di carcere, anche il segretario generale del PSE a
Gipuzkoa, Miguel Buen, ha parlato di una sentenza «la più dura dettata per un “reato di
minacce” in tempi di democrazia». Iñaki de Juana ha intanto intrapreso un nuovo sciopero
della fame, dopo averne cessato uno, recente, di 63 giorni. Nel merito Buen ha dichiarato
che la vicenda potrebbe pregiudicare il processo aperto in Euskal Herria.
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Francia / Repubblica centrafricana. 9 novembre. Il presidente della Repubblica
Centrafricana, François Bozizé, ha rinnovato il proprio appello a Parigi perché l’esercito
francese intervenga contro i ribelli dell’Union des forces démocratiques pour le
rassemblement, che dallo scorso 30 ottobre ha conquistato la città settentrionale di Birao.
Secondo Bozizé, il trattato di assistenza difensiva firmato dai due Paesi obbligherebbe
Parigi, che non si è ancora pronunciata sulla questione, a intervenire. La Francia ha almeno
200 soldati nel Paese, teatro negli anni 2002 e 2003 di una guerra civile che ha provocato
migliaia di morti. Bozizé ha più volte accusato il Sudan di appoggiare i ribelli dell’UFDR,
che dal canto loro hanno chiesto di poter trattare con il governo.
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Unione Europea / Turchia. 9 novembre. Joseph Borrel, presidente in carica del
Parlamento Europeo in visita in Italia, ha fatto sapere che, per decidere se la Turchia
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diventerà oppure no un paese membro dell’Unione Europea, dovrà passare un periodo di
almeno 15 o 20 anni.
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Israele. 9 novembre. La destra sociale di Yisrael Beitenu e neo ministro per le «minacce
strategiche» e vice del primo ministro Ehud Olmert ha costruito la sua ascesa su decine di
sezioni costruite nelle principali città. Lieberman vuole trattare gli arabi come i ceceni e
punta a diventare premier. Il suo programma di espulsione degli arabi israeliani scavalca a
destra persino Le Pen o Heider, poiché non prende di mira il solito obiettivo, gli immigrati,
ma 1,4 milioni di cittadini israeliani (un quinto della popolazione). Le reazioni alla nomina
di Lieberman a ministro sono state minime, quasi nulle, non solo da parte dei governi
occidentali ma anche di quelli arabi. E il leader dell’ala più radicale della destra anti-araba
non ha nascosto la sua soddisfazione di fronte al complice silenzio di Stati Uniti ed Europa.
Tutto ciò favorisce il suo progetto di diventare nel giro di qualche anno il capo indiscusso di
tutta la destra e, magari, primo ministro. Non è un caso che a temere maggiormente
Lieberman sia proprio il Likud di Benyamin Netanyahu. Yisrael Beitenu da partito
«russofono» negli ultimi mesi è diventato una macchina molto complessa, con ramificazioni
in tutta la società israeliana.
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Israele. 9 novembre. Dalle lotte sociali contro l’installazione dei ripetitori dei telefoni
cellulari in aree densamente popolate a quella per la difesa dei diritti dei lavoratori precari. È
il protagonismo del partito di Lieberman raccontato dal giornalista Meron Rapaport sul
quotidiano israeliano Ha’aretz. Lieberman ha diviso Israele in nove regioni ed in ognuna di
esse sono presenti almeno 50 sezioni del suo partito. In alcune città Yisrael Beitenu ha uffici
in ogni quartiere. «Lieberman segue molti casi individuali, famiglie che hanno bisogno di
aiuto, villaggi che chiedono infrastrutture, comunità che vogliono essere ascoltate. Il Likud
lavora in modo massiccio solo due mesi prima delle elezioni, Yisrael Beitenu non smette
mai, è impegnato tutto il tempo», dice Lia Shemtov, ex dirigente del Likud ora passata con il
partito di Lieberman. Yossi Verter, uno dei più noti commentatori politici israeliani, ritiene
che il ministero «per le minacce strategiche» tenderà inevitabilmente a sovrapporsi a quello
di Peretz (difesa) e di Tzipi Livni (esteri). Lieberman infatti avrà contatti regolari con i capi
dei servizi segreti e dovrà elaborare strategie (militari?, diplomatiche?) che non potranno
non riguardare le responsabilità al momento assegnate a Peretz e Livni. A cominciare dalla
questione iraniana.
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Israele. 9 novembre. Lieberman propone di passare alla futura entità nazionale palestinese i
territori popolati da arabi in Israele –fondamentalmente il cosiddetto «triangolo» in Galilea–
in cambio dei territori popolati da israeliani in Cisgiordania. Lieberman non spiega cosa
accadrà nelle città israeliane che hanno popolazioni miste, popolazioni beduine o arabe o
druse che non fanno parte del territorio che è disposto a cedere –«generosamente», dice–
allo Stato-bantustan palestinese. Né entra nel merito del problema della presenza dei coloni
israeliani in Cisgiordania. Resta la centralità del suo progetto di espulsione di arabi israeliani
per una purezza dello Stato d’Israele. Nessuno, nel governo israeliano, è uscito e nemmeno
si è dissociato pubblicamente ed energicamente dal razzismo di Lieberman. Significative le
parole dello scrittore David Grosman durante la cerimonia in ricordo di Rabin: «Olmert e
Peretz hanno nominato un piromane a capo dei pompieri». Solo un’obiezione allo scrittore,
sui «pompieri»...
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Palestina. 9 novembre. «Intifada, vogliamo la terza Intifada». Michele Giorgio, de il
Manifesto, raccoglie per le strade di Gaza le «ondate di rabbia e dolore per il massacro di
Beit Hanoun. Ieri erano in tanti ad invocare una nuova rivolta palestinese contro
l’occupazione israeliana. Adulti, giovani e donne con la disperazione scritta in volto,
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convinti che non esista altra soluzione per mettere fine alle sofferenze dei palestinesi,
rinchiusi nell’enorme prigione a cielo aperto di Gaza e soffocati dal muro, da centinaia di
posti di blocco, sbarramenti e recinzioni in Cisgiordania. E il fermento non poteva non
raggiungere anche la Cisgiordania dove da mesi non si registravano scontri tra forze di
occupazione e manifestanti palestinesi. Persino Gerusalemme est - rimasta lontana dalle
cronache insanguinate di questi ultimi anni –osserva da ieri sera i tre giorni di lutto per le
vittime di Gaza, proclamati dal premier Haniyeh». Giorgio raccoglie anche testimonianze:
«Meglio morire da martire (attentatore suicida, ndr) che rimanere prigioniero tutta la vita»,
diceva ieri Mansur Yazji, 22 anni, di Jabaliya, venuto a dare una mano ai soccorritori al
lavoro a Beit Hanoun. «O noi o loro (gli israeliani, ndr), questo è il punto. Sono pronti a
massacrarci tutti, anche i bambini, non li vogliamo nella nostra terra, li cacceremo via»,
aggiungeva Samer, un altro giovane giunto sul luogo della strage pochi minuti dopo il
cannoneggiamento israeliano. Frasi dure, risultato della rabbia e della disperazione, ma
ormai comuni a tanti palestinesi di Gaza che non credono più a un compromesso politico
con Israele.
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Palestina. 9 novembre. A dettare la posizione palestinese, scrive Michele Giorgio su il
Manifesto, sono le dichiarazioni militanti di Hamas che ai palestinesi risultano più credibili
delle promesse di cambiamento fatte da Abu Mazen sulla base di vaghe assicurazioni
ricevute da USA e Unione Europea. «L’assenza di prospettive politiche concrete, a causa
dell’unilateralismo e del militarismo sfrenato di Israele, sta indebolendo Abu Mazen,
sempre più irrilevante agli occhi della popolazione, e creando le condizione per una terza
Intifada. Di fronte a ciò è deprimente e, soprattutto, preoccupante il silenzio della Comunità
internazionale», dice Jamal Zakut, un noto esponente della società civile di Gaza,
sottolineando che statunitensi ed europei non stanno aiutando il loro alleato Abu Mazen, al
contrario lo affondano con le loro politiche contro i palestinesi. Hamas intanto continua a
rafforzarsi, prosegue Giorgio, grazie anche alle operazioni militari israeliane. Ieri il leader in
esilio del movimento islamico, Khaled Meshaal, da Damasco ha minacciato Israele di
rappresaglie durissime e, più di tutto, ha parlato da leader di fatto dei palestinesi. Abu
Mazen presidente rischia di ruminarlo solo nelle stanze del suo quartier generale a Ramallah
perché nelle strade comanda sempre di più Hamas
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Arabia Saudita. 9 novembre. Indifferenza generale in Iraq e nel mondo arabo dopo la
sconfitta di Bush. Né in Iraq, né nel mondo arabo alcuno ha mostrato entusiasmo. «Gli arabi
non devono rallegrarsi», ha dichiarato ieri Mohamed Al-Zolfa, membro del Majlis al-Sura
(Consiglio Consultivo saudita). «Storicamente, il partito democratico ha mantenuto un
sostegno ad Israele maggiore di quello dei repubblicani».
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Afghanistan. 9 novembre. «Quest’anno le milizie talebane hanno fronteggiato il governo
afgano e le forze occidentali con una intensità inaspettata». A dichiararlo è Richard
Boucher, assistente del segretario di Stato USA per gli affari del centro e del sud asiatico.
Secondo quanto riportato da Boucher, gli sforzi per estendere l’autorità del governo Karzai
nelle province sono stati ostacolati «da una resistenza non preventivata». Sotto accusa il
ruolo del Pakistan: ufficiali maggiori afgani accusano tale paese di fornire sostegno ai
taliban, con soldi, addestramento ed altre forme di assistenza. Gli ufficiali dell’intelligence
afgana sostengono di aver fornito prove concrete di questo coinvolgimento
all’amministrazione statunitense.
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Afghanistan / Pakistan. 9 novembre. Kabul non vuole il muro. «Il terrorismo non sarà
sradicato con la costruzione di un muro lungo la linea Durand tracciata dai colonialisti
britannici più di un secolo fa per separare i suoi possedimenti d’Afghanistan e che divide in
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due il territorio pastun. La miglior forma di lottare contro il terrorismo è attaccarlo alle sue
radici», ha dichiarato Karim Rahimi, portavoce del presidente afgano. La possibilità di
costruire un muro di frontiera con il Pakistan era stata proposta nei giorni scorsi da
Islamabad per impermeabilizzare la frontiera. La stampa afgana scrive compatta che la
proposta di Islamabad pretende che Kabul riconosca la linea Durand come frontiera tra i due
paesi.
•
Nepal. 9 novembre. «La lotta armata è finita». Il leader dei guerriglieri maoisti nepalesi,
Prachanda, ha annunciato ieri di porre fine ai 10 anni di lotta armata, dopo aver siglato,
martedì all’alba, un accordo di pace storico con i partiti politici del Nepal. I leader dei
principali partiti hanno espresso ieri la loro soddisfazione nonostante abbiano unanimemente
riconosciuto che «resta molto da fare». In base all’accordo la guerriglia lascerà le armi in
magazzini custoditi dall’ONU prima del 21 di questo mese e si incorporerà nel Parlamento e
in un governo ad interim a fine mese. La richiesta maoista di un referendum per decidere di
abolire la monarchia è stata rinviata ad una futura Assemblea Costituente.
•
Sri Lanka. 9 novembre. Uccisi 65 civili «per sbaglio»: scuse alla Olmert (primo ministro
israeliano) del governo di Colombo, che esprime «rincrescimento» per il raid delle forze
armate cingalesi contro un campo profughi della città orientale di Vaharai, zona controllata
dai ribelli Tamil. Le autorità, ha specificato un portavoce governativo, sono costrette ad
attuare rappresaglie militari per estirpare la ribellione delle Tigri. «Le azioni delle autorità
sono inevitabili». Il cannoneggiamento dei governativi ha colpito due scuole piene di civili
sfollati. Per le Tigri di Liberazione della Terra Tamil (LTTE) l’attacco si è prolungato per
ore. «L’assurdità e la crudeltà dell’attacco contro una popolazione rifugiata indifesa che è
stata soggetto a blocchi per ogni tipo di prodotto esenziale è difficile da capire», affermano
in un comunicato.
•
USA. 9 novembre. La metà dei 124 cimiteri militari degli Stati Uniti non ha più spazio per
accogliere nuove sepolture. Il governo sta cercando di rimediare all’emergenza.
•
USA. 9 novembre. Secondo Il Foglio, il sacrificio di Rumsfeld –chiesto da molti dei
candidati repubblicani, da quasi tutti gli opinionisti di destra e di sinistra e finanche dei
giornali militari– da parte di Bush non è solo una mossa per trovare un compromesso con la
maggioranza democratica al Congresso ed evitare lo spettro dei prossimi due anni
presidenziali da passare a rispondere alle domande delle Commissioni investigative del
Congresso guidate dai democratici. La scelta di Bush segnalerebbe un possibile
cambiamento della politica militare USA dei prossimi mesi, e forse non solo militare. Il
profilo di Gates farebbe intuire che a Washington, Bush a parte, il nuovo dominus non sarà
più Dick Cheney ma il gruppo di repubblicani di scuola “realista”, vicini a Bush senior e
raccolti intorno al suo ex segretario di stato, James Baker. Il prossimo segretario della
Difesa, intanto, è membro della Commissione bipartisan guidata da Baker e Lee Hamilton
che sta lavorando da tempo a quella che nei circoli dell’establishment della politica estera
USA è considerata come «l’ultima speranza per mettere a posto l’Iraq».
•
USA. 9 novembre. In tale contesto la Commissione Baker avrebbe rifiutato il piano di
tripartizione dell’Iraq presentato dal senatore democratico Joe Biden, e rigettata anche dal
nuovo Parlamento iracheno. Le indiscrezioni intorno ad un “piano Baker”, a cui ha lavorato
anche Gates, affermano che per risolvere la crisi irachena occorre «abbandonare
moderatamente i sogni di rivoluzione democratica e provare a coinvolgere l’Iran e la Siria,
cioè due dei paesi dell’asse del male». Tale piano sarebbe però un’inversione di rotta così
totale della politica degli ultimi anni di Bush che il quotidiano italiano la giudica una
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eventualità improbabile, anche se possibile, tanto che Bush ha ribadito che non ci sarà alcun
ritiro delle truppe dall’Iraq.
•
USA / Cuba. 9 novembre. Per il quindicesimo anno consecutivo l’ONU condanna
l’ultraquarantennale (dal 1962) blocco economico degli USA contro Cuba. La risoluzione
resta senza effetti pratici per il rifiuto di Washington ad applicarla. 183 i sì, 4 i no (USA,
Israele, Palau, Isole Marshall) e un’astensione (la Micronesia). Prendendo la parola prima
della votazione, il ministro degli Esteri cubano, Felipe Pérez Roque, ha dichiarato: «La
guerra economica scatenata dagli Stati Uniti contro Cuba, la più prolungata e crudele che
si sia mai conosciuta, è un atto di genocidio e costituisce una violazione flagrante del diritto
internazionale e della Carta delle Nazioni Unite».
•
Messico / USA. 9 novembre. In un discorso pronunciato ad un’assemblea di leader ispanici
a Washington, il neopresidente messicano (entrerà in carica il prossimo 1° dicembre) Felipe
Calderon ha dichiarato che considera «deplorevole» l’intenzione statunitense di
incrementare i lavori di costruzione del muro che separa gli Stati Uniti dal Messico. Un
mese fa, infatti, il presidente statunitense Bush aveva approvato l’ampliamento del muro che
corre lungo il confine con il Messico, nonostante una forte opposizione parlamentare. Stime
ufficiali statunitensi affermano che lo scorso anno i messicani arrestati lungo le frontiere
siano stati più di un milione.
•
Italia 10 novembre. L’imam sequestrato a Milano dalla CIA denuncia torture. L’egiziano
Abu Omar, sequestrado da agenti del servizio segreto statunitense nel 2003 in una strada di
Milano, ha dichiarato di essere stato torturato con scariche elettriche, di essere stato
rinchiuso in una cella dove i topi salivano sul suo corpo, di aver subìto svariati abusi con
minacce anche di abusi sessuali. Tutto questo nel centro di detenzione in Egitto dove era
stato condotto dagli agenti statunitensi. Lo scrive l’edizione di ieri del Corriere della Sera.
Osama Mustafà Hassan Nasr ha scritto uan dichiarazione giurata ai procuratori di Milano
che stanno indagando sul suo sequestro.
•
Francia / Israele. 10 novembre. Parigi accusa: i caccia di Tel Aviv violano la Risoluzione
dell’ONU. Il volo in picchiata di due caccia israeliani, arrivati a tiro di missile sopra i caschi
blu francesi in aperta violazione della risoluzione 1701, ha provocato un «quasi scontro» tra
le forze dell’ONU e Tsahal, e una grave crisi tra Francia e Israele. È accaduto alle 9.14 del
31 ottobre. Si è arrivati «a due secondi» da una nuova guerra alla base di Deir Kifa, quartier
generale delle forze francesi dell’Unifil, nel Libano Sud. Conferma dall’esercito. «È soltanto
grazie al sangue freddo dei militari francesi che abbiamo evitato una catastrofe» ha detto il
capitano Christophe Prazuk, portavoce dello Stato Maggiore, precisando che «la sequenza di
preparazione per il lancio dei missili era stata ultimata». Da Tel Aviv: «La nostra
aviazione non effettua mai sorvoli offensivi sul Libano sud». L’appello francese a «cessare
immediatamente tali azioni» è però già caduto nel vuoto. Nella sola giornata di ieri, sono
state contate almeno dodici violazioni dello spazio aereo libanese da parte di F-15 israeliani.
Sono 1650 i caschi blu francesi impegnati nell’Unifil. La Francia cederà il comando della
forza all’Italia il prossimo primo febbraio.
•
Serbia. 10 gennaio. Il presidente serbo Boris Tadic ha indetto elezioni parlamentari
anticipate per il prossimo 21 gennaio. La decisione potrebbe influenzare la tempistica con
cui l’ONU dovrà decidere della sorte del Kosovo, la provincia serba a maggioranza albanese
amministrata dall’ONU dal 1999, e che sogna l’”indipendenza”. I sei paesi del “Gruppo di
contatto” (USA, Gran Bretagna, Italia, Francia, Germania e Russia), che insieme all’ONU
decideranno sul Kosovo, avevano in precedenza fatto intendere che la loro scelta verrà
23
comunicata dopo le prossime elezioni serbe, per non influenzare la campagna elettorale a
favore del partito radicale nazionalista serbo.
•
Polonia. 10 novembre. Arrivano gli F-16 statunitensi. Celebrato ieri in gran pompa l’arrivo
dei primi quattro caccia made in USA F-16, recentemente ordinati alla Lockheed Martin,
che sostituiranno gli obsoleti russi Mig-29. I primi due F-16 sono atterrati ieri alla base
militare
di
Krzesiny,
non
lontano
da
Poznan.
•
Kosovo. 10 novembre. Gli albanesi del Kosovo sono pronti a dichiarare unilateralmente
l’indipendenza se il Consiglio di Sicurezza dell’ONU rinvierà la decisione sullo status della
provincia meridionale della Serbia, sotto controllo ONU dal 1999. Lo ha dichiarato ieri notte
Veton Suroi, uno dei negoziatori che si occupa della questione, parlando apertamente del
«piano B». I kosovaro-albanesii hanno dichiarato che non accetteranno null’altro che
l’indipendenza, cui Belgrado si oppone.
•
Israele / Palestina. 10 novembre. La mattanza d’Israele a Beit Hanun? «Crimini di guerra»
e «terrorismo». Non usa mezzi termini l’osservatore ONU nei territori occupati, Riyad
Mansour, che ha condannato ieri il silenzio del Consiglio di Sicurezza sull’aggressione
israeliana a Beit Hanun, e chiesto di «responsabilizzare i suoi esecutori in accordo con la
legge internazionale». «Per essere onesti, uno degli aspetti più deplorevoli consiste nel fatto
che la Palestina ha inviato innumerevoli lettere a tutti i membri del Consiglio di Sicurezza,
ed il Consiglio non ha fatto niente», prosegue Mansour. «Quanti palestinesi devono ancora
morire prima che il Consiglio agisca?».
•
Palestina. 10 novembre. ONG contro il “Muro dell’Apartheid” israeliano. Un gruppo di
Organizzazioni non governative (ONG) italiane che lavorano nei Territori Occupati ha
chiesto agli Stati membri delle Nazioni Unite di rendere effettivo il parere reso dalla Corte
Internazionale di Giustizia il 9 Luglio 2004, cioè riconoscere l’illegalità rappresentata dalla
costruzione del muro nei Territori Occupati, compresa Gerusalemme Est, non fornire aiuto o
assistenza per mantenere la situazione creata da tale costruzione, nonché assicurare il
rispetto da parte di Israele del diritto internazionale codificato nella Quarta Convenzione di
Ginevra. Le ONG si sono anche rivolte ai membri ONU, e in particolare al governo italiano,
affinché venga fatta pressione su Israele per smantellare il muro costruito all’interno dei
Territori Occupati.
•
Afghanistan. 10 novembre. Catastrofe umanitaria in Afghanistan. In una lettera indirizzata
alle Nazioni Unite, Human Rights Watch ha chiesto al Consiglio di Sicurezza di intervenire
per risolvere l’emergenza sfollati in Afghanistan. Le persone costrette a lasciare le proprie
abitazioni a causa delle azioni NATO sarebbero più di ottantamila: «una vera e propria
catastrofe umanitaria». Dall’inizio del 2006, secondo i dati ufficiali, la guerra in
Afghanistan ha causato 5.452 morti, di cui 969 civili, 3.147 combattenti taliban o presunti
tali, 1.159 militari afgani, 36 miliziani irregolari e 178 soldati della Coalizione.
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India. 10 novembre. Le forze speciali della polizia indiana hanno ucciso oggi nove
guerriglieri maoisti, di cui cinque donne, nello stato di Andra Pradesh. I commando antiguerriglia hanno teso un’imboscata ai ribelli nel distretto di Kadapa, circa 400 chilometri a
sud della capitale statale di Hyderabad. L’Andhra Pradesh è lo Stato indiano maggiormente
interessato dalla pluridecennale guerriglia maoista indiana, che sostiene di combattere
contro la povertà e lo sfruttamento delle popolazioni rurali locali.
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•
Cina. 10 novembre. Centinaia di agenti di polizia hanno disperso nel villaggio di Sanzhou,
nella regione meridionale del Guangdong, i contadini che da 24 ore occupavano un
magazzino tenendo in ostaggio decine di funzionari comunisti, dopo aver interrotto la
cerimonia di inaugurazione cui questi partecipavano con un gruppo di investitori esteri.
Negli scontri si sono registrati diversi feriti tra i contadini. In molte regioni cinesi, i
contadini protestano da anni per l’esproprio dei loro terreni, rivenduti a investitori privati, di
fronte a risarcimenti irrisori da parte dello Stato. I contadini chiedono di rendere pubblici i
dati delle vendite, accusando il governo di aver intascato una parte dei guadagni.
•
USA. 10 novembre. La sostituzione di Rumsfeld per Gates rafforza Condoleezza Rice. La
segretaria di Stato, Condoleezza Rice, uscirebbe rafforzata dopo la sconfitta repubblicana
che è costata la testa al suo vecchio avversario, Donald Rumsfeld, rimpiazzato alla guida del
Pentagono da Robert Gates, un veterano, come quella, della Presidenza di Bush padre. La
Rice e Gates si conoscono bene dall’epoca nella quale servirono Bush nel Consiglio
Nazionale di Sicurezza tra 1989 e 1991. Per la rivista progressista Rolling Stone, l’elezione
di Gates, un «confidente» della Rice, è una «giocata maestra dell’attuale segretaria di
Stato» ed «un duro colpo per Dick Cheney (vicepresidente USA, ndr)». Danielle Pletka,
analista del centro di ricerche conservatore AEI (American Enterprise Institute) sfuma
questa affermazione, segnalando che, in ogni caso, «l’influenza di Rumsfeld è diminuita
molto negli ultimi anni». Non manca chi invoca ora il «multilateralismo» della Rice,
coincidendo con le crescenti voci in tal senso tra i repubblicani. Insomma, siamo alle solite:
unilaterialismo e multilateralismo (cioè, in quest’ultimo caso, coinvolgimento degli
alleati/subalterni sul piano degli oneri finanziari e dell’invio di truppe cammellate nei teatri
di guerra aperti dagli Stati Uniti) sono le due facce imperiali di Washington che si
avvicendano, rispettivamente, a seconda dei suoi momenti di forza e di ripiegamento.
•
USA. 10 novembre. Una spia coinvolta nell’Irangate dirigerà il Pentagono. Il nuovo capo
del Pentagono, Robert Gates, è un personaggio vicino al clan Bush, un uomo la cui storia
dice che ha trascorso 27 anni della sua vita tra le spie al servizio di sei presidenti ed è finito
sotto inchiesta per questo. Fino a mercoledì era membro della commissione «indipendente»
di studi sull’Iraq che presiede l’ex segretario di Stato James Baker e per i democratici Lee
Hamilton. Ha fama di «pragmatico». Gates cominciò la sua carriera nello spionaggio
statunitense dai gradini più bassi per divenire capo della CIA dal novembre 1991 al gennaio
1993, sotto la presidenza di George Bush, padre dell’attuale mandatario. La sua biografia
dice che svolse un ruolo «chiave» durante la prima Guerra del Golfo (1991), così come
durante la crisi degli ostaggi in Iran (1979) e l’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979).
Ma è per i suoi atti nel cosiddetto Irangate, sotto il mandato di Reagan, per il quale è sotto
inchiesta senza imputazioni a suo carico. Si tratta della vendita di armi statunitensi all’Iran
per finanziare la Contra nicaraguense.
•
Irlanda del Nord. 11 novembre. Sinn Féin realizzerà 60 riunioni con la base repubblicana.
Nonostante la dirigenza del movimento repubblicano abbia già reso pubblica la decisione di
appoggiare l’Accordo di St. Andrews (Scozia) per il ripristino delle istituzioni, l’avallo
definitivo scaturirà dalla posizione che emergerà dentro il partito sulla questione del nuovo
corpo di polizia nordirlandese, che è una delle condizione previste dall’Accordo e che gli
unionisti pongono come precondizione per un esecutivo multipartitico nordirlandese ed il
trasferimento di Giustizia e Polizia all’esecutivo di Belfast. Il DUP (Democratic Unionist
Party) ha intanto reso noto che, nonostante la consultazione interna per posta abbiano dato a
maggioranza il sostegno al suddetto Accordo, la decisione è di non appoggiare né respingere
la proposta. Per il dirigente dell’UUP (Ulster Unionist Party), Reg Empey, la dichiarazione
del DUP è «una conferma che le negoziazioni in Scozia sono fallite». Il governo britannico
25
•
si prepara intanto per presentare la legislazione necessaria per dare valore legale
all’Accordo.
Irlanda del Nord. 11 novembre. Divisioni nel DUP sul contenuto dell’Accordo di St.
Andrews ed il sostegno al documento dei governi britannico ed irlandese. Durante una
riunione a Lurgan, il 26 ottobre scorso, Paisley si è visto obbligato a ricordare
all’eurodeputato Jim Allister che è lui il leader del partito. È accaduto nel corso di un
accalorato dibattito sul documento presentato dai due governi nelle negoziazioni in Scozia.
Il reverendo Ian Paisley ha sbottato urlando che se il DUP non appoggiasse l’accordo, gli
unionisti potrebbero prepararsi «per qualcosa di peggiore», riferendosi all’avvertimento di
Londra di permettere a Dublino, se non fossero ripristinate le istituzioni, di partecipare
nell’assunzione delle decisioni, una possibilità che ripugna gli unionisti. Indiscrezioni su
questa riunione interna del DUP sono state filtrate da alcuni degli oppositori all’Accordo al
quotidiano Belfast Telegraph, ma un portavoce del partito le ha bollate come una versione
«costruita da infiltrati» alla riunione. Sono seguite, però, pubbliche esternazioni
dell’eurodeputato Allister dubbioso sui benefici del documento per la comunità unionista.
•
Libano. 11 novembre. I ministri di Hezbollah lasciano il governo Siniora. I cinque ministri
dei movimenti sciiti Hezbollah e Amal si sono dimessi dal governo libanese del premier
Fuad Siniora. Lo ha riferito la radio Voce del Libano. Le dimissioni fanno seguito alla
brusca interruzione dei colloqui per la formazione di un «governo di unità nazionale», che
sono stati sospesi a tempo indeterminato dopo quattro tornate di discussioni che erano state
avviate lunedì. L’opposizione esige un terzo dei posti nel futuro Esecutivo, più in
consonanza con il proprio sostegno tra la popolazione libanese. A monte esiste, del resto,
una discussa legge elettorale che penalizza la proporzionalità del voto. Le dimissioni dei
ministri Fawzi Sallukh (Esteri), Mohammed Fneish (Energia), Hamad Trade (Lavoro), Talal
Sahili (Agricoltura) e Mohammad Khalife (Sanità) sono state annunciate in un comunicato
congiunto di Hezbollah e Amal. Nel comunicato, si afferma tra l’altro che i ministri sciiti
dell’«attuale governo» Siniora «non possono più dare copertura a ciò di cui non sono
convinti». La nota, in cui si «augura buona fortuna ai ministri che restano» al governo,
afferma inoltre che le dimissioni dei ministri di Hezbollah e Amal «non significano il venir
meno dell’accettazione dei punti concordati nel dialogo nazionale» della primavera scorsa,
compresa l’istituzione di un tribunale «a carattere internazionale» per giudicare i
responsabili dell’ assassinio dell’ex premier Rafik Hariri, nel febbraio 2005.
•
Israele / Palestina. 11 novembre. Relatore ONU chiede una reazione alla mattanza
israeliana a Beit Hanun. Il relatore speciale dell’ONU sul Diritto a una Viya Degna, Millon
Kothari, ha condannato ieri il massacro di Beit Hanun ed ha chiesto la reazione della
“comunità internazionale”. «La spiegazione da parte di Israele che questo atto criminale
gratuito è stato un errore è inaccettabile». «Il bombardamento delle abitazioni e
l’assassinio di civili sono stati una tattica premeditata per imporre una punizione
collettiva», ha detto.
•
Iran / Israele. 11 novembre. Il portavoce dell’esercito iraniano, Ali Fazli, ha dichiarato che
«l’Iran risponderà a qualsiasi azione militare contro il Paese». Ieri sera, il vice ministro
della Difesa israeliano, Ephraim Sneh, in un’intervista al Jerusalem Post non aveva escluso
un’azione militare preventiva contro le istallazioni nucleari iraniane. «La considero l’ultima
spiaggia. Ma, talvolta, l’ultima spiaggia è la sola spiaggia». Sneh ha aggiunto di sperare
che le sanzioni della comunità internazionale contro l’Iran possano trovare attuazione ma
«le speranze non sono molto forti». L’Iran ha rivolto formali proteste anche all’ONU
parlando di molteplici minacce da parte di Israele.
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Iran / Israele. 11 novembre. Teheran condanna il silenzio dell’Occidente. La guida
suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, ha condannato ieri il «silenzio» dell’Occidente
in relazione al massacro causato dal regime israeliano nella città palestinese di Beit Hanun.
«Il silenzio dell’Occidente di fronte a questa enorme atrocità mostra che le vite degli
uomini, donne e bambini valgono poco per i fautori dei diritti umani», ha sostenuto
Khamenei alla radio pubblica iraniana.
•
Russia / Georgia / Ossezia del Sud. 11 novembre. Il ministro degli Esteri russo, Sergei
Lavrov, ha dichiarato che le “elezioni alternative” che la Georgia ha preparato in
concomitanza con il referendum e le elezioni organizzate dalle autorità indipendentiste
dell’Ossezia del Sud, rischiano di far esplodere un conflitto armato. Assieme al voto per
l’indipendenza e per l’elezione del presidente dell’autoproclamata repubblica dell’Ossezia
del Sud (voto condannato e non riconosciuto da USA, NATO, UE, OCSE e dalla Georgia),
le autorità di Tbilisi hanno infatti organizzato per domani un voto alternativo nei villaggi
sud-osseti sotto controllo delle forze georgiane. Un voto gestito dall’Unione per la Salvezza
degli Osseti (ONG appoggiata dai servizi militari georgiani) e che vedrà candidati
presidenziali alternativi a quelli delle elezioni organizzate dalle autorità separatiste. Si
potrebbero dunque avere in Ossezia del Sud due presidenti: il sicuramente riconfermato
Eduard Kokoity, separatista sostenuto da Mosca, e Dimitri Sanakoev, il favorito tra i cinque
candidati delle elezioni alternative in quanto sostenuto da Tbilisi. Secondo Lavrov, «a
questo seguirà la creazione di un governo alternativo sud-osseto riconosciuto da Tbilisi, che
si doterà di apparati di sicurezza propri e che quindi creerà enormi problemi per i caschi
blu russi presenti in zona. La tensione aumenterà certamente e le già esistenti divisioni
etniche tra osseti e georgiani residenti in Ossezia del Sud sfoceranno in un confronto
militare».
•
Georgia / Ossezia del sud. 11 novembre. La NATO ha condannato il previsto referendum
indipendentista di domani nella provincia dell’Ossezia del Sud, nello Stato della Georgia.
«Da parte della NATO, mi unisco ad altri leader nel respingere il cosiddetto “referendum”
e le cosiddette “elezioni” nella regione dell’Ossezia meridionale in Georgia», ha dichiarato
in un comunicato il Segretario generale della NATO, Jaap de Hoop Scheffer.
•
USA. 11 novembre. Bush punito da una parte della destra religiosa statunitense, cioè
fondamentalisti cristiani e neosionisti. Secondo diversi istituti di analisi sul voto di medio
termine di qualche giorno fa negli States, il 30% di quest’area ha dato il proprio voto non
più ai repubblicani, ma ai democratici. Questa diserzione sarebbe risultata decisiva in Ohio,
Virginia e Montana, stati questi due ultimi in cui lo scarto di voti è stato di poche migliaia di
voti. Gli scandali sessuali e di corruzione sarebbero all’origine di questa scelta. Oltre al fatto
che i fondamentalisti hanno chiesto provvedimenti più rigoristi di quelli varati da Bush.
•
USA / Iraq. 11 novembre. «Le dimissioni di Rumsfeld non segnano una svolta, l’ex
ministro della difesa è solo l’agnello sacrificale offerto da Bush, che cercherà di
coinvolgere il partito avversario nel pantano iracheno». Ne è convinto il direttore di
Counterpunch, Alexander Cockburn, intervistato da il Manifesto. «Dopo la sconfitta,
l’amministrazione repubblicana doveva spendere qualcuno e lui era proprio l’uomo da
spendere. Il nuovo ministro della difesa, Bob Gates, fa parte dell’entourage di James Baker
che è la nuova eminenza grigia». Questo significherà una perdita d’influenza del
vicepresidente Dick Cheney: «George Bush adesso prenderà direttive da James Baker e
dagli uomini di suo padre e non più da Cheney che non faceva più parte del clan di Bush
Senjor che anzi era in pieno scontro con loro e che si è dimostrato incredibilmente
incompetente». Nella prospettiva delle presidenziali del 2008, Cockburn sostiene che «al
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partito repubblicano poteva andare peggio, potevano mantenere la maggioranza in una
delle camere o persino in ambedue, il che li avrebbe posti in una situazione drammatica per
il 2008, come soli responsabili dello sfascio. Così invece possono coinvolgere i democratici
nella correità per il casino in Iraq. E possono prepararsi nel 2008 a sostenere un candidato
come John McCain, che è comunque una follia. Già ora McCain dice che se, con il ritiro
delle truppe USA, l’Iraq finisce spaccato in tre –cosa che comunque sta avvenendo anche
con le nostre truppe lì– sarà un’umiliazione per gli Stati uniti. E dal punto di vista
dell’impero ha ragione. Per l’impero è un’umiliazione ritirarsi dall’Iraq lasciando uno
sfascio».
•
USA / Iraq. 11 novembre. Come si comporteranno i democratici sull’Iraq? Secondo
Cockburn «anche se gli elettori si sono espressi in modo netto e chiaro per un ritiro
immediato dall’Iraq, dal punto di vista della loro logica, i democratici non potranno andare
molto lontano su questa via, altrimenti si accolleranno la responsabilità di questo schiaffo
all’impero. I democratici non possono fare granché in ogni caso. Che te li vedi ad abrogare
il Patriot Act, a chiudere i tribunali militari segreti, ad abrogare gli spropositati regali
fiscali che Bush ha concesso ai ricchi, a formulare una disciplina della contabilità delle
grandi corporations, ad adottare una politica ambientale aggressiva contro gli inquinatori,
ad instaurare un servizio sanitario nazionale, a rivedere il trattato di libero commercio
(ricordati che il Nafta, il trattato di libero commercio nordamericano, fu ratificato da Bill
Clinton)? Non succederà niente di tutto questo. Metteranno qualche borsa di studio in più
per un po’ di studenti disagiati, porteranno il salario minimo a 7.55 dollari che comunque è
ridicolo: se adesso al vicino casa adolescente offri 7 dollari l’ora per tagliare l’erba del tuo
prato ti sputa in un occhio. Le lavoratrici immigrate clandestinamente dal Messico
percepiscono un salario di 15 dollari l’ora per fare le collaboratrici domestiche. E il
parlamento statunitense adotta quest’audace aumento a 7,5 dollari! Ma non fateci ridere. I
democratici dovranno per forza limitarsi a riformine di piccolo cabotaggio di questo tipo».
•
USA / Iraq. 11 novembre. Nella commissione Baker si rivede un altro uomo di Bush:
Lawrence Eagleb, esperto di politica estera, ha sostituito Robert Gates che, nominato capo
del Pentagono, ha dovuto lasciare l’Iraq Study Group.
•
Somalia. 12 novembre. Gli islamici hanno occupato oggi Bandiradley, dopo una violenta
battaglia con le truppe fedeli al governo. Si tratta di un centro strategico ad appena 70 km
dalla regione semiautonoma del Puntland, feudo del presidente ad interim somalo Abdullahi
Yusuf. Il portavoce delle Corti islamiche centrali Mahamed Jama ha detto che la battaglia è
avvenuta dopo che le truppe governative avevano tentato un attacco.
•
Cecenia. 12 novembre. Chi comanda in Cecenia? Da un lato, l’autorità quotidiana è
assicurata da milizie locali la cui lealtà a Mosca è sempre meno evidente. Con le loro lunghe
barbe e le uniformi, sono miliziani che assomigliano ai guerriglieri. Migliaia di essi sono ex
combattenti indipendentisti. «Si parla di milizie pro-russe ma sono di fatto formazioni
militari claniche leali solo ai loro capi», segnala l’esperto militare russo Pavel
Fewlgenhauer. Questo esercito ceceno legalizzato è agli ordini di di Ramzan Kadirov, figlio
del mufti morto per mano della guerriglia indipendentista nel 2004. La forza e
l’indispensabilità attuale di Kadirov spiega in gran parte perché il presidente russo, Vladimir
Putin, lo tiene come alleato e chiude gli occhi sulla sua campagna di islamizzazione e sulle
accuse di brutalità della sua guardia pretoriana. «Kadirov è stata l’unica alternativa per la
Russia di vincere la guerriglia», assicura Julia Latynina, giornalista specialista sulla
Cecenia, che aggiunge: «I russi non controllano il territorio ceceno. Il territorio è
controllato da quelli che hanno combattuto la Russia». Kadirov impone leggi islamiche e
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combina la sua politica con brutalità e con generose elargizioni del denaro pubblico. Una
situazione che non pochi esperti russi definiscono paradossale e che comincia a far parlare di
una apparente vittoria russa in Cecenia. «Putin non può ignorare Ramzan Kadirov in
Cecenia», afferma Alexei Malachenko, dell’Istituto Carnegie di Mosca. «Ma Ramzan ha
molti nemici, non solo in Cecenia ma anche a Mosca, dove molti vedono di malocchio la
presenza di un dirigente locale forte in Cecenia». «Da un momento all’altro, tutto
riesploderà», assicura Charles Blandy, specialista in conflitti dell’accademia militare
britannica Sandhurst.
•
Cina. 12 novembre. Venti persone sono rimaste ferite in violenti scontri con la polizia
antisommossa, inviata dalle autorità per reprimere una rivolta popolare scoppiata a
Guangan, nella provincia centrale di Sichuan. La gente del posto ha assaltato il locale
ospedale dopo la morte di un bambino, Xiong Hongwie, ricoverato per un’intossicazione.
Prima di visitare il bambino, i medici hanno chiesto a suo padre di pagare 639 yuan (63
euro). Ma l’uomo ha potuto dare loro solo quello che aveva, 123 yuan (circa 12 euro). I
responsabili dell’ospedale dichiarano di aver prestato ugualmente le cure al bambino. La
popolazione di Guangan però non ci crede e imputa la morte del bambino alle mancate cure.
•
USA. 12 novembre. Baker e il suo “Iraq Study Group” sono stati investiti «di una autorità
quasi mistica», ha scritto il Financial Times. A Washington si confida nel pacchetto di
misure che il Gruppo proporrà come ultimo sforzo per conciliare sciiti e sunniti, e per
l’indicazione delle scadenze sul disimpegno degli Stati Uniti. Baker ha recentemente detto
che gli USA dovrebbero essere pronti a parlare con i nemici, e non solo con gli amici, e
potrebbe suggerire contatti diretti, come del resto ha fatto ieri il primo ministro britannico
Tony Blair, con l’Iran e con la Siria per cercare la collaborazione di questi due vicini
dell’Iraq. L’acuirsi della violenza e l’allungarsi della lista delle perdite statunitensi, per non
parlare della sconfitta dei repubblicani alle elezioni, sta accentuando la frenesia della Casa
Bianca di trovare una via d’uscita dal pantano iracheno che suoni non come un rovescio
storico ma come una accettabile sconfitta militare ed una limitazione il più possibile
assorbile ed indolore dei danni (geo)politici nell’area.
•
USA / Israele. 12 novembre. Gli Stati Uniti pongono il veto ad una risoluzione ONU che
condanna Israele per la mattanza di palestinesi a Beit Hanun (in maggioranza donne e
bambini) e la sua campagna di incursioni militari a Gaza partita dallo scorso giugno e che ha
provocato centinaia e centinaia di morti. L’ambasciatore USA all’ONU, John Bolton, ha
giustificato la decisione presa nel Consiglio di Sicurezza dicendo che la risoluzione «non
apporta niente alla causa della pace». Il documento ha avuto il sostegno di dieci paesi e
quattro astensioni (Gran Bretagna, Danimarca, Giappone e Slovacchia) tra i membri
permanenti e a rotazione nell’organo di massima decisione dell’ONU. Con l’intento di
trovare anche il consenso di Washington e di alcuni paesi europei, sempre reticenti se
bisogna condannare Israele, faccia quel che faccia, il documento era stato rivisto e si era
introdotta una censura del lancio di missili da Gaza verso Israele, che sino ad oggi non ha
provocato nemmeno una vittima, e si era ritirato la definizione di «massacro» per l’attacco a
Beit Hanun. La risoluzione chiedeva una «cessazione immediata di tutti gli atti di violenza e
le attività militari tra la parte palestinese e israeliana». Si tratta della 31^ volta che gli Stati
Uniti pongono il veto a risoluzioni nel Consiglio di Sicurezza relazionate con il conflitto
palestinese-israeliano. L’ultima fu il 13 luglio scorso, in un documento che condannava altre
mattanze militari di Israele nei territori di Gaza. Soddisfazione è stata espressa in queste ore,
per il veto USA, da Tel Aviv.
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•
USA. 12 novembre. Un alunno di dieci anni della scuola elementare di Steiner Ranch,
Texas, è stato punito con provvedimenti disciplinari e invitato a sottoporsi a un chek-up
psichiatrico per aver visitato «siti Internet inappropriati» durante le ore di laboratorio
informatico. I siti incriminati sono quelli sulle cosiddette “teorie cospirative” riguardanti gli
attentati dell’11 settembre come 911truth.org o infowars.com. «Inappropriate» anche le
ricerche fatte dall’alunno su Google: “9/11 cover-up” o informazioni sulla loggia massonica
“Skull and Bones”.
•
Gran Bretagna. 13 novembre. Oltre 160 guardie carcerarie in Gran Bretagna sarebbero
coinvolte nello scandalo delle torture inflitte ai detenuti nella prigione di Wormwood
Scrubs, a Londra. È quanto emerge da un rapporto del Servizio penitenziario britannico
pubblicato ieri, nel quale si denuncia il «regime di terrore» instaurato dalla polizia nel
carcere londinese attraverso pestaggi, molestie sessuali e intimidazioni.
•
Unione Europea / Polonia / Russia. 13 novembre. Varsavia blocca l’apertura dei negoziati
tra Unione Europea e Russia sul rinnovo di un partenariato strategico. Alla riunione dei
ministri degli esteri, Varsavia ha sfoderato il veto, esigendo che Mosca elimini l’embargo
sulle importazioni di carne polacca, in vigore da un anno, e che ratifichi la Carta sull’energia
dell’UE, da cui ne conseguirebbe una possibilità di accesso di soggetti terzi alla rete di
distribuzione del gas e del petrolio russo. Il veto polacco potrebbe rallentare le trattative per
un accordo di partenariato con la Russia considerato strategico per garantire
l’approvigionamento energetico. I primi negoziati erano iniziati ad ottobre al vertice europeo
di Lahti, cui era stato invitato anche il presidente russo Putin. Per cercare di superare le
riserve polacche, mercoledí si svolgerà una riunione degli ambasciatori all’Unione, sperando
in una soluzione che tolga i venticinque dall’imbarazzo, prima del vertice euro-russo della
settimana prossima.
•
Unione Europea / Polonia / Russia. 13 novembre. Secondo l’agenzia di analisi geopolitica
Stratfor, il veto polacco riflette l’esistenza in particolare di due problematiche nella politica
di Varsavia. In primo luogo i rapporti con la Russia, il cui blocco delle importazioni agricole
polacche per più di un anno è una misura che ha aumentato ulteriormente i problemi interni.
L’energia è in tale contesto la preoccupazione principale di Varsavia. Certo conta il fatto che
le importazioni di petrolio e gas provengono proprio da Mosca: non dimentichiamo
comunque che quasi il 60% del fabbrisogno energetico polacco è coperto dal carbone. Per
Varsavia l’energia è soprattutto un mezzo di contrattazione (politica, economica…) con
Mosca, ed in tal senso il progetto russo-tedesco di una pipeline sotto il Mar Baltico che
aggiri il territorio polacco toglie molta influenza a Varsavia. In secondo luogo, la posizione
della Polonia all’interno dell’Unione Europea è quella di un membro di secondo rango, dove
Francia, Germania e Gran Bretagna sono indubbiamente i paesi che maggiormente contano.
In tal senso, il veto polacco esprime il bisogno di Varsavia di far sentire la sua voce sia a
Mosca ma anche agli altri Stati europei.
•
Unione Europea / Polonia / Russia. 13 novembre. Cosa provocherà la posizione di
Varsavia? Mosca cercherà misure per punire ulteriormente Varsavia. Il che potrà
danneggiare gli interessi di approvvigionamento di Stati europei, come ha dimostrato
l’interruzione delle forniture di gas all’Ucraina dello scorso gennaio. La Russia è il
principale fornitore di petrolio e gas nel continente. All’interno dell’Unione Europea,
inoltre, non si permetterà di certo che sia la Polonia a dettare il contenuto dei rapporti con
Mosca, a prescindere dal fatto se sì è d’accordo con Mosca oppure no. Anche perché
consistenti sono gli interessi commerciali in gioco.
30
•
Somalia. 13 novembre. L’Unione delle Corti islamiche, che da alcuni mesi controlla la
capitale somala Mogadiscio e buona parte del sud del Paese, ha annunciato di aver preso
possesso della città di Bandiradley, nella regione di Mudug, al confine con la regione semiautonoma settentrionale del Puntland. Secondo fonti locali, il bilancio degli scontri sarebbe
di almeno otto morti. La mossa delle Corti, che mirano a conquistare anche la parte
settentrionale del Paese, arriva un giorno dopo il disconoscimento, da parte del governo di
transizione di Baidoa, degli accordi presi tra le Corti e il portavoce del Parlamento per
riavviare i colloqui di pace.
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Palestina. 13 novembre. In una riunione tenutasi ieri al Cairo, i Paesi della Lega Araba
hanno reso noto che interromperanno l’embargo imposto ai territori palestinesi a seguito
della formazione del governo di Hamas, il quale non riconosce l’esistenza dello Stato di
Israele. La decisione è arrivata dopo il veto, imposto dagli USA, a una risoluzione ONU che
avrebbe condannato Israele per i bombardamenti della scorsa settimana a Beit Hanoun, nella
striscia di Gaza, bombardamenti che provocarono la morte di 18 civili palestinesi. La
decisione della Lega Araba è più politica che pratica, visto che sarà molto difficile riattivare
il flusso di aiuti verso i territori a causa della riluttanza delle banche, che temono possibili
rappresaglie da parte degli Stati Uniti.
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Iraq / Gran Bretagna. 13 novembre. Una bomba, esplosa ieri al passaggio di una pattuglia
navale sul fiume Shatt al-Arab, nell’Iraq meridionale, ha provocato la morte di 4 soldati
britannici e il ferimento di altri 3. L’esercito britannico ha reso noto che condurrà
un’inchiesta sull’attacco, il primo ad una pattuglia navale della Gran Bretagna dall’inizio
della guerra. Le autorità di Londra sono preoccupate perché, finora, le pattuglie navali erano
state utilizzate proprio per ridurre i rischi di attentati rispetto agli spostamenti via terra.
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Ucraina. 13 novembre. Viktor Yushenko, presidente ucraino, ha preferito assistere al
concerto di Toto Cutugno piuttosto che al congresso del suo partito, Nostra Ucraina. Il
partito aveva ignorato l’appello di Yushenko di aderire alla coalizione dell’ex rivale Viktor
Yanukovic e durante il congresso ha confermato la scelta di passare all’opposizione,
presentando una mozione di sfiducia nei confronti dell’attuale premier.
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Georgia / Ossezia del sud. 13 novembre. Giornata di referendum ed elezioni ieri
nell’Ossezia del sud. Nella regione che rivendica l’indipendenza dalla Georgia si sono
tenute due distinti referendum ed elezioni presidenziali sul futuro istituzionale della regione.
Nella tornata elettorale organizzata dalle autorità nella capitale dell’Ossezia del Sud,
Tskhinvali, secondo i dati preliminari forniti dalle autorità ossete l’opzione
dell’indipendenza avrebbe ricevuto il 99% dei voti (affluenza alle urne, il 95% degli aventi
diritto). Sull’altro referendum, tenutosi nei circoscritti territori dell’Ossezia del Sud
controllati dalle autorità georgiane, in cui è stato chiesto se si volevano avviare trattative con
Tbilisi per l’istituzione di un sistema di governo federale, non si hanno invece notizie.
Riguardo le elezioni presidenziali, nella principale delle due Eduard Kokoiti, presidente di
fatto dal 2001 dell’autoproclamatasi Repubblica dell’Ossezia del Sud sostenuta da Mosca,
ha vinto, secondo i risultati preliminari, con il 95% dei consensi. Secondo la portavoce del
governo ossetino a Tskhinvali sarebbero stati inoltre presenti circa 30 osservatori
provenienti da paesi quali il Venezuela, la Giordania, l’Ucraina, la Lettonia, nonché
rappresentanti dell’Abkhazia e del territorio moldavo della Transnistria.
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Georgia / Ossezia del sud. 13 novembre. Nell’elezione “alternativa” organizzata nei
territori dell’Ossezia del Sud controllati dalle autorità georgiane, è stato dichiarato
presidente invece Dmitri Sanakoyev –ex primo ministro della Repubblica dell’Ossezia del
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Sud e, secondo i funzionari di Tskhinvali, al soldo di Tbilisi– con più dell’80% dei voti. La
commissione elettorale “alternativa” –situata presso il villaggio di Eredvi, controllato dalle
autorità georgiane– non ha rilasciato statistiche in merito al numero degli elettori iscritti alle
liste elettorali. Si è limitata a riportare che i votanti erano stati 42mila. Secondo Uruzmag
Karkusov, a capo della Commissione elettorale “alternativa”, seggi elettorali erano presenti
sia nei territori controllati dalle autorità georgiane, che in alcuni villaggi controllati dalle
autorità ossetine. Affermazioni recisamente smentite da queste ultime. Kokoiti ha definito
Sanakoyev e Karkusov, a capo della commissione elettorale alternativa ed ex consigliere di
Kokoiti, “traditori della loro patria e traditori della gente dell’Ossezia del Sud”. Kokoiti ha
anche aggiunto che chiederà a Tbilisi l’estradizione di entrambi.
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Georgia / Ossezia del sud. 13 novembre. Il referendum, ha affermato Kokoiti in una
conferenza stampa, è «un argomento molto forte, anche per coloro i quali ora rifiutano di
riconoscerne gli esiti. Possiamo dire che l’Ossezia del Sud è stata riconosciuta». Agli
elettori è stato chiesto se concordavano o meno nel mantenere l’attuale status di Stato
indipendente e se si desiderava o meno che l’Ossezia del Sud venisse riconosciuta
internazionalmente; un simile referendum era già stato organizzato nel 1992, dopo due anni
di guerra civile. L’autonomia dell’Ossezia non è riconosciuta dalla comunità internazionale,
neppure dalla Russia che pure ne sostiene le spinte secessioniste. Il referendum è stato
promosso proprio con l’intento di formalizzare l’indipendenza e costringere il mondo a
prenderne atto. Si tratta solo della prima tappa. L’obiettivo della regione, dove vivono circa
70mila persone, è in realtà quello di unirsi all’Ossezia del Nord e aderire, come un unico
paese, alla Federazione russa. Obiettivo contro il quale si oppone il governo di Tiblisi che
non intende rinunciare al proprio controllo sulla regione.
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Georgia / Ossezia del sud. 13 novembre. Kokoiti ha promesso agli elettori dell’Ossezia del
Sud una serie di miglioramenti, tra i quali un innalzamento dei salari e la costruzione di un
oleodotto verso la Russia per migliorare i rifornimenti energetici. Nei materiali stampati per
la campagna elettorale ha definito il referendum «un invito alla pace» e accusato gli Stati
Uniti di armare la Georgia «preparandola ad aggredire». Nell’altra elezione presidenziale
Sanakoyev, i cui cartelloni elettorali erano appesi al di fuori di quasi tutti i seggi elettorali
nei villaggi controllati dalle autorità georgiane, ha goduto di un’ampia copertura da parte
della stampa georgiana. Il trentasettenne ha però ampiamente evitato di entrare nei dettagli
delle sue posizioni politiche. Gli altri 4 candidati hanno contestato questa “elezione
alternativa”. Secondo Mamuka Areshidze, analista che risiede a Tbilisi, se la gente
impoverita dell’Ossezia del Sud prenderà più o meno seriamente la pretesa di Sanakoyev di
essere loro presidente dipenderà in gran parte dalla sua capacità di influire sull’economia.
«Questo è l’errore più grande del governo georgiano, non hanno mai dimostrato agli
ossetini o alla gente dell’Abkhazia i motivi per i quali era nei loro interessi far parte della
Georgia».
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Georgia / Ossezia del sud. 13 novembre. Il Consiglio d’Europa, l’OCSE e gli Stati Uniti
hanno criticato l’organizzazione delle due tornate elettorali in Ossezia del Sud, alleata di
Mosca, i cui cittadini tengono passaporto russo ed usano il rublo. Le critiche, comunque,
non sembrano aver intimorito le autorità di Tskhinvali. «Chi sono per ridurci al silenzio?»,
ha affermato in modo retorico la portavoce del governo osseto Gagloyeva in un’intervista
dello scorso 11 novembre. «I loro specifici interessi politici nel Caucaso per loro sono più
importanti del nostro destino». La Georgia ha affermato che non terrà conto del referendum,
secondo quanto ha affermato il primo ministro georgiano Zurab Nogaideli in un’intervista al
Financial Times, secondo cui il referendum «è una provocazione con l’appoggio della
Russia, che servirà solo a far crescere le tensioni nella zona di conflitto e nella regione». La
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Russia, dal canto suo, ha affermato che il referendum ha avuto un «carattere simbolico»,
nonostante gli sforzi dell’Occidente per minimizzarne la portata. Ieri a Bruxelles, il ministro
georgiano per l’integrazione euro-atlantica, Guiorgi Baramidzé, ha invece paragonato il
comportamento dei Russi nei confronti dei Georgiani a quello della Germania nazista nei
confronti degli ebrei. «La gente subisce persecuzioni sulla base della sua appartenenza
etnica, le aziende georgiane sono state chiuse. Ci fu lo slogan “Non comprate dagli ebrei”,
ora c’è lo slogan “Impedite ai georgiani di fare affari”».
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Pakistan. 13 novembre. Il premier pakistano Shaukat Aziz ha definito «inaccettabili» i raid
compiuti dall’esercito statunitense in Pakistan. Ribadendo la propria alleanza con
Washington nella «guerra al terrorismo», Aziz ha però dichiarato che la sovranità del
Pakistan è inviolabile, e che i raid aerei condotti dagli USA nelle regioni di confine con
l’Afghanistan possono destabilizzare il Paese, creando forti malcontenti tra la popolazione
civile. L’esercito statunitense lancia periodici raid aerei principalmente in Pakistan,
Afghanistan e Yemen con il pretesto di colpire militanti di al Qaeda.
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USA. 13 novembre. L’amministrazione statunitense starebbe valutando la possibilità di
un’apertura diplomatica verso Siria ed Iran per facilitare la soluzione della crisi irachena,
secondo quanto riferito da Josh Bolten, uno dei più stretti consiglieri del presidente George
Bush. L’apertura sarebbe in linea con quanto raccomandato dall’Iraq Study Group, il gruppo
composto da repubblicani e democratici guidato dall’ex-Segretario di Stato James Baker.
L’ambasciatore siriano a Washington, Imad Moustapha, ha dichiarato alla BBC che il suo
governo sarebbe felice di collaborare per la soluzione della questione irachena, aggiungendo
però che gli USA dovrebbero prima ammettere che la loro strategia è fallita.
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Venezuela. 13 novembre. Il presidente venezuelano Hugo Chávez ha aperto la base militare
La Carlota, a Caracas, che fu teatro di un tentato colpo di stato nel 2002, per ospitare il
concerto della cantante colombiana Shakira. Chávez ha deciso di farlo perché la cantante
non trovava un luogo adatto alla sua esibizione, e ha aggiunto di voler assistere al concerto.
La Carlota è la base in cui per 48 ore Chávez fu rinchiuso ed escluso dal potere dai golpisti
sostenuti da Washington. Poi la situazione rientrò grazie alle truppe a lui fedeli e alle
proteste massicce dei suoi sostenitori. Da allora la base militare è rimasta chiusa.
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USA / Vietnam. 13 novembre. Funzionari di Hanoi e Washington hanno dichiarato che a
breve partiranno i lavori per affrontare il problema dei danni ambientali causati dall’utilizzo,
nei centri vietnamiti, dell’”agente orange”. Questo era il nome in codice, usato dall’esercito
statunitense, per indicare un erbicida impiegato ampiamente dagli USA durante la guerra del
Vietnam. L’agente orange (arancio) è un liquido incolore: il suo nome deriva dal colore
delle strisce presenti sui fusti usati per il suo trasporto. L’impiego militare ufficiale era per
rimuovere le foglie degli alberi e togliere “copertura” ai Viet Cong. Si scoprì
successivamente che l’agente arancio ha come sottoprodotti delle diossine tossiche ritenute
responsabili di malattie e difetti alla nascita sia nella popolazione vietnamita che nei veterani
di guerra statunitensi. In totale furono riversati sul Vietnam circa 40 milioni di litri. Una di
tali tossine, una forma di diossina conosciuta come TCDD (1), è particolarmente mortale: 80
grammi di TCDD potrebbero uccidere l’intera popolazione di New York se versati nelle
riserve d’acqua. Recenti ricerche hanno rivelato che circa 170 kilogrammi di TCDD furono
gettati sul Vietnam. L’”agente arancio” venne prodotto sotto contratto per l’esercito da
Diamond Shamrock, Dow Chemical Company, Hercules, Monsanto, T-H Agricultural &
Nutrition, Thompson Chemicals e Uniroyal.
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USA / Vietnam. 13 novembre. Le prime segnalazioni degli effetti nocivi sulla salute
derivanti dall’esposizione all’agente arancio furono fatte dai veterani di guerra USA: furono
segnalati vari tipi di cancro, seri problemi gastrointestinali e malformazioni nei bambini nati
dopo la guerra. Il governo degli Stati Uniti si è a lungo astenuto dall’approfondire la
questione, fino a quando l’ammiraglio Elmo Zumwalt, sicuro che la morte del figlio per
cancro fosse dovuta alla lunga esposizione al diserbante durante le missioni di pattuglia in
Vietnam, ottenne l’attenzione del governo USA. Le ricerche vennero dunque
originariamente intraprese dall’esercito USA per avere un miglior conteggio di quanti
veterani prestarono servizio in aree irrorate. Uno studio effettuato recentemente ha collegato
l’uso del defogliante con quasi tutti i tipi di cancro conosciuti sugli uomini e con molte altre
disfunzioni letali. I veterani che parteciparono alla guerra in Vietnam ricettevero un
risarcimento di $180 milioni nel 1984. La Croce Rossa Vietnamita ha registrato circa un
milione di persone disabili a seguito della esposizione al diserbante e, da alcune stime, si
calcolano circa 2 milioni di persone affette da problemi di salute derivanti dalle tossine
spruzzate. Va rilevato come studi condotti dal governo USA insieme ad alcune delle
industrie chimiche coinvolte, abbiano portato alla conclusione che non ci siano prove di una
diretta connessione tra l’agente arancio e i problemi di salute che gli vengono attribuiti e
che le componenti chimiche hanno comunque vita breve nell’ambiente. Nuovi studi
effettuati però, incluso quello del Journal of Occupational and Environmental Medicine
dell’agosto 2003, riportano che le componenti chimiche come il TCDD rimangono tuttora
concentrate nel terreno, e quindi nella catena alimentare, in molte parti del Vietnam. La
catena alimentare è la principale responsabile dell’elevato tasso di TCDD nella popolazione
vietnamita, nonostante la contaminazione sia avvenuta 30-40 anni prima delle analisi in
questione. Elevati tassi di TCDD sono stati riscontrati nel latte materno di donne che vivono
in zone bombardate nonchè in animali selvatici e domestici.
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Lituania. 14 novembre. Vilnius disapprova la decisione polacca di bloccare i colloqui tra
Unione Europea e Russia ed invita a ricercare un compromesso a cui il paese si dichiara
specificatamente interessato. Secondo il ministro degli esteri Vaitekunas, la bozza di
accordo tra Russia ed Unione è «buona ed accettabile».
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Israele / Palestina. 14 novembre. “Riconoscere” Israele? Ramattan Mussa Abu Marzuk,
dirigente di Hamas in esilio a Damasco, ha dichiarato che «al nuovo governo di unità
nazionale non viene richiesto di riconoscere Israele e pertanto non lo farà. Perché mai la
Palestina, che non è ancora uno Stato, dovrebbe riconoscere Israele?».
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Iran. 14 novembre. «Gli Stati Uniti e tutti i paesi suoi alleati ora hanno finalmente
accettato di vivere con un Iran nucleare». Lo ha dichiarato il presidente iraniano Mahmoud
Ahmadinejad che ha aggiunto che l’obiettivo dell’Iran è di produrre energia nucleare in
grandi quantità. «Siamo solo all’inizio del cammino, dobbiamo arrivare a 60mila
centrifughe», ha concluso Ahmadinejad, secondo cui Teheran potrebbe completare entro il
prossimo marzo il suo programma nucleare. «Con la saggezza e la resistenza della nazione,
oggi la nostra posizione si è stabilizzata. Nutro molte speranze che nell’anno in corso
potremo festeggiare la piena nuclearizzazione dell’Iran».
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Russia / Cecenia. 14 novembre. L’uso della tortura nei confronti dei prigionieri ceceni, da
parte delle autorità filorusse, è «sistematico e diffuso». Lo denuncia oggi, in un rapporto
presentato alla stampa, l’associazione Human Rights Watch. Il documento, che cita sessanta
casi nelle cento pagine del testo, è stato sconfessato da Ziad Sabsabi, premier del governo
ceceno e plenipotenziario moscovita nella repubblica caucasica.
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India / Cina. 14 novembre. Scaramucce tra Nuova Delhi e Pechino. Alla vigilia della visita
di Hu Jintao in India, si sta riaprendo la controversia tra i due Stati per il possesso di alcune
zone di confine. «L’Arunachal è parte integrale dell’India», ha detto oggi Pranab
Mukherjee, ministro indiano degli Affari esteri, in una indiretta risposta a Pechino. Ieri
l’ambasciatore cinese Sun Yuxi, in un’intervista televisiva, aveva affermato che «l’intero
Arunachal Pradesh è territorio cinese e Tawang è solo una parte di questo». Critico anche
S.K. Singh, governatore dell’Arunachal Pradesh, che ha definito «arrogante» questa
posizione e «molto poco appropriato per un ambasciatore fare un simile commento». Dalla
guerra sino-indiana del 1962 i due Stati discutono l’esatto tracciato dei 3.500 km di confine.
New Delhi contesta il diritto di Pechino sopra 38mila mq di terreno arido, gelido e disabitato
sull’altopiano tibetano che la Cina le ha tolto durante la guerra. La Cina, a sua volta, reclama
90mila mq di territorio nell’Arunachal Pradesh. In questa zona si trovano Tawang e il suo
monastero, vestigia del buddismo Mahayana; qui è nato il sesto Dalai Lama, a
dimostrazione –dice Pechino– che il distretto era parte del Tibet. Dal 1981 sono in corso
colloqui ma con scarsi progressi. L’Arunachal Pradesh, Stato dell’India nord-orientale al
confine con Cina, Buthan e Birmania, è una terra di verdi foreste rigogliose, di valli solcate
da fiumi profondi e di bellissimi altipiani. È prevalentemente montuosa, essendo attraversata
dalla catena dell’Himalaya che si sviluppa lungo il crinale settentrionale attraversando lo
stato in direzione nord-sud.
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India / Cina. 14 novembre Nel 2005, durante la visita del premier cinese Wen Jiabao in
India, erano stati definiti dei “parametri politici e principi guida” per definire la
controversia. Di recente esperti cinesi hanno chiesto la “restituzione” della zona di Tawang
come precondizione per risolvere la disputa. Ma l’India ritiene la zona di sua proprietà e di
importanza strategica come “porta” sulla regione himalayana. Si prevede che la questione
sarà affrontata dal presidente Hu Jintao durante il viaggio a New Delhi che inizierà il 20
novembre. Negli ultimi anni i due giganti mondiali, rivali storici, hanno iniziato a
collaborare in settori come l’energia, la sicurezza e la difesa, mentre gli scambi commerciali
crescono e si prevede arrivino a 20 miliardi di dollari Usa nel 2006. La Cina non nasconde
l’ambizione di diventare entro pochi anni il primo partner commerciale dell’India,
soppiantando gli Stati Uniti. Sono stati ripresi anche rapporti culturali, dopo 40 anni di
profondo gelo, e il 2006 è stato dichiarato “Anno dell’amicizia” tra i due popoli. Il 6 luglio è
stata riaperta dopo oltre 40 anni la ferrovia tra Lhasa in Tibet e Kolkata nello Stato di
Sikkim che corre per il passo Nathu a 4.310 metri di altezza, antica via della seta dove per
secoli sono passati la gran parte dei commerci tra i due Stati. Ma la disputa di confine
rimane una irrisolta fonte di contrasto. La Cina da decenni propone di cedere l’occidentale
Aksai Chin (che copre il 20% del Kashmir) in cambio dell’orientale Arunachal Pradesh. Ma
l’India ha dichiarato che nessuna “zona abitata” potrà essere oggetto di revisione e questo
rende inaccettabile qualsiasi richiesta sull’Arunachal Pradesh. Intanto nel 2005 Pechino ha
riconosciuto come territorio indiano il Sikkim, ex regno buddista. In cambio New Delhi ha
cessato le proteste in sede internazionale sulla violazione dei diritti umani in Tibet.
•
USA. 14 novembre. Donald Rumsfeld, ex segretario alla Difesa USA, è stato denunciato,
davanti a una corte federale in Germania, per il suo ruolo nei casi di torture di prigionieri
nelle carceri irachene e in quella di Guantanamo. Lo ha reso noto uno dei componenti del
pool di avvocati di diverse nazioni che ha presentato oggi la denuncia.
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Bolivia. 14 novembre. Il ministro della Difesa della Bolivia, Wálkar San Miguel, ha
smentito oggi che il suo paese preveda di installare nuove basi militari alla frontiera con il
Cile con l’appoggio del Venezuela. «Questa è un’interpretazione sbagliata», ha dichiarato
Wálker, ammettendo però che La Paz costruirà con risorse nazionali un avanposto militare
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nella zona del fiume Silala, vicino alla frontiera con il Cile e che lavora a un convegno di
cooperazione con il Venezuela
•
Italia / Russia. 15 novembre. L’ENI ha annunciato un accordo bilaterale con la compagnia
russa Gazprom per la fornitura diretta di 3 billioni di metri cubi l’anno di gas naturale in
Italia a partire dal 2010. Per Gazprom l’accordo sarebbe un primo passo nell’accesso in
Europa. In cambio, Gazprom ed ENI acquisteranno attività in comune.
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Germania. 15 novembre. Quarantaquattro capi d’accusa per Peter Hartz, ex capo del
personale della Volkswagen, rinviato a giudizio per aver pagato profumatamente, secondo la
procura di Braunschweig, l’ex capo del consiglio di fabbrica e “pezzo grosso” del sindacato
Ig Metall, Klaus Volkert. Hartz è famoso in Germania per avere ispirato le contestatissime
riforme sul lavoro del governo Schröder.
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ONU / Africa. 15 novembre. Jean-Marie Guehenno, responsabile delle Nazioni Unite per
le operazioni di “mantenimento della pace” (“peace-keeping”), ha fatto sapere che l’ONU
avvierà una missione nella repubblica Centrafricana e in Ciad. Secondo il rappresentante
dell’ONU lo scopo di questa operazione è aiutare i profughi fuggiti dal Darfur, regione
occidentale del Sudan grande quasi due volte l’Italia.
•
Pakistan. 15 novembre. La commissione d’inchiesta provinciale dell’Alta Corte di
Peshawar sul bombardamento aereo che lo scorso 30 ottobre distrusse una madrasa a Bajaur
uccidendo 83 «sospetti militanti di al Qaeda» ha stabilito con certezza che nessuna delle
vittime era legata ad ambienti «terroristici»: si trattava solo di studenti coranici di età
compresa tra i 9 e i 18 anni. Sul luogo del massacro, ha rivelato l’inchiesta, non sono state
rinvenute né armi né munizioni. E, non ultimo, molti testimoni hanno riferito che prima
dell’attacco «si sono sentiti aerei americani volare sulla zona».
•
Pakistan. 15 novembre. Il Pakistan ha effettuato con successo un test nucleare, lanciando
un missile “Hatf V” (Ghauri) dalla gittata di 1.300 km. Lo ha annunciato l’esercito di
Islamabad. Il lancio è stato eseguito per «controllare parametri tecnici», ha detto un
portavoce. Al test, effettuato da una località non specificata, ha assistito anche il primo
ministro pachistano Shaukat Aziz. Proprio ieri, rappresentanti di India e Pakistan –entrambi
dotati di bomba atomica, e non firmatari del Trattato di non proliferazione– avevano
annunciato la preparazione di un accordo per limitare il rischio di un conflitto nucleare tra di
loro.
•
Afghanistan. 15 novembre. La violenza aumenterà. Un generale statunitense ha ammesso
davanti a una commissione del Congresso di Washington, che il prossimo anno la violenza
in Afghanistan aumenterà ancora. Michael Maples, a capo dell’Agenzia di intelligence della
difesa USA, ha detto alla commissione che i guerriglieri afghani sono riusciti ad allargare la
base delle loro operazioni, sebbene abbiano subito diverse perdite in battaglia. «Quest’anno
il livello di violenza sarà probabilmente doppio rispetto a quello visto nel 2005. E nel 2007
gli insorti useranno probabilmente tattiche più visibili, più aggressive e più letali», ha detto
Maples.
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USA / Unione Europea. 15 novembre. Deutsche Börse rinuncia ad acquistare Euronext ed
apre la strada alla fusione tra quest’ultima e il New York stock exchange. Con una eventuale
fusione con la borsa di New York, si avrebbe una Borsa transatlantica la più grande del
mondo. La capitalizzazione borsistica combinata tra i due soggetti sfiorerà i 22mila miliardi
di euro, lasciando ben indietro le altre borse di valore mondiale, come Londra e Tokyo. Il
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New York stock exchange controlla anche le piazze di San Francisco e Chicago, mentre
Euronext riunisce Parigi, Amsterdam, Bruxelles e Lisbona. Ma il settore è destinato a
conoscere ulteriori colpi di scena. Analisti annunciano per l’anno prossimo la nascita di una
nuova piattaforma paneuropea per la contrattazione. L’iniziativa è di 7 grandi banche
d’affari: le statunitensi Citigroup, Goldman Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley più
Credit Suisse, Deutsche Bank, UBS Warburg. L’obiettivo è raccogliere liquidità in tutto il
continente, facendo concorrenza alle borse esistenti.
•
USA / Unione Europea. 15 novembre. Intanto John Thain, presidente del New York Stock
Exchange, ha esplicitamente dichiarato che l’ambizioso obiettivo della Borsa di New York è
di realizzare un mercato finanziario globale integrato, capace di poter funzionare 24 ore al
giorno in maniera tale da coprire tutti i fusi orari del pianeta. Mercato, naturalmente, targato
New York. Sempre esplicitamente, John Thain ha dichiarato che fra i progetti del NYSE
Group Inc. figura l’acquisizione di una borsa europea ed una asiatica da incorporare nel
NYSE Group Inc. Per quanto concerne l’Europa, si dà quasi per scontato che l’acquisizione
dovrebbe riguardare il London Stock Exchange. Negli ultimi anni il London Stock
Exchange è stato più volte oggetto di tentativi di acquisizione. Ci hanno provato con scarso
successo gli svedesi della OMX –il gruppo nordico che unisce le Borse di Copenaghen,
Helsinki, Riga, Stoccolma, Tallinn e Vilnius– come senza esito è stato il tentativo dei
tedeschi di Deutsche Börse.
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