Presentazione - SelectedWorks

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Presentazione - SelectedWorks
University of Urbino
From the SelectedWorks of Mario Pianta
2014
Presentazione
Mario Pianta
Available at: https://works.bepress.com/mario_pianta/113/
Giovanni Arrighi
Il lungo XX secolo
Denaro, potere e le origini del nostro tempo
Presentazione di Mario Pianta
Nuova edizione, Il Saggiatore, Milano, 2014
Presentazione
Il lungo XX secolo di Giovanni Arrighi è uno dei testi più importanti del dopoguerra nel campo delle scienze
sociali. Un «classico», apparso in inglese vent’anni fa, nel 1994, che qui viene presentato in una nuova
edizione, ampliata dal Poscritto pubblicato nel 2009, poco prima della morte dell’autore. Al centro del Lungo
XX secolo c’è l’evoluzione del capitalismo su scala mondiale – con il susseguirsi di cicli di accumulazione – e
il suo intreccio con l’evoluzione del sistema di potere internazionale – i cicli di egemonia mondiale. Vi si
propone una teoria che unisce processi economici, politici e sociali, integrata in una narrazione storica degli
ultimi 500 anni, di cui viene infine esplorata la capacità di anticipare gli sviluppi futuri.
L’originalità di Arrighi consiste appunto in una visione del sistema capitalistico mondiale come
successione – a partire dal XV secolo – di cicli di accumulazione, che vedono alternarsi fasi di espansione
produttiva e fasi di espansione finanziaria, e di cicli di egemonia, con l’ascesa e il declino di una potenza
dominante. Il ciclo di accumulazione – seguendo Karl Marx e Fernand Braudel – è caratterizzato al suo avvio
da un’espansione materiale, con l’allargamento della produzione e del commercio di beni; quando poi tale
sviluppo incontra il proprio limite, emerge una crisi, a cui il «centro» capitalistico risponde con un’espansione
finanziaria che rilancia – temporaneamente – l’accumulazione, fino a una crisi terminale che porta alla
riorganizzazione del sistema mondiale del capitalismo.
Arrighi estende la logica dell’accumulazione del capitale descritta da Marx con riferimento ai singoli
investimenti (la sequenza di denaro come capitale monetario, merce, capitale monetario allargato) alla logica
del capitalismo nel suo complesso. Nella prima fase di espansione materiale l’investimento di capitale
alimenta la crescita della produzione. Il capitale perde la sua forma liquida e flessibile e viene immobilizzato
in un particolare insieme di merci e mezzi di produzione. All’inizio l’espansione materiale produce grandi
profitti monopolistici per i capitalisti che ne sono stati protagonisti, ma con il passare del tempo il flusso di
capitali investiti nelle stesse attività non trova più un parallelo aumento delle opportunità di investimento e
di profitto. Emerge così una maggiore concorrenza tra capitali, che riduce il tasso di profitto.
Il punto di svolta è dato da una «crisi spia», in cui il capitale investito nell’espansione materiale si riduce
e il processo di accumulazione rallenta. La mancanza di opportunità di profitto spinge i capitalisti a
mantenere in forma liquida una parte crescente dei capitali. Questo crea le condizioni per una fase di
espansione finanziaria, in cui i capitali puntano a ottenere profitti e accumulazione senza passare per
investimenti materiali. In tal modo l’offerta di capitali monetari si allarga rapidamente, insieme alla
domanda di liquidità e all’indebitamento, anche per l’effetto della crisi sulle finanze pubbliche e private.
L’espansione finanziaria consente un periodo di rinnovata crescita e accumulazione del capitale, ma alla fine
porta a un crollo: le bolle speculative che avevano gonfiato le quotazioni di borsa o i valori immobiliari
scoppiano, i debiti accumulati – sia dalle imprese che dai governi – diventano insostenibili, molte banche
falliscono, la produzione non ottiene più credito e la caduta dell’economia può trasformarsi in una
depressione prolungata. È questa la «crisi terminale» del ciclo di accumulazione.
Il processo di accumulazione si verifica su scala mondiale in base alla gerarchia che si viene a creare tra un
«centro», dove confluiscono l’accumulazione stessa e il potere di decisione di grandi imprese e banche, e una
«periferia» che assume un ruolo subalterno come fonte di forza-lavoro e risorse materiali e finanziarie, oltre
che come mercato di sbocco e destinazione di investimenti esteri diretti.
Per Arrighi, la sequenza dei cicli di accumulazione è accompagnata da una successione di cicli egemonici
(una definizione che si fonda sul concetto di egemonia di Antonio Gramsci) nella sfera dei rapporti politici
tra stati. Lo sviluppo dell’accumulazione su scala mondiale, infatti, ha bisogno della presenza di un potere
politico che organizzi i mercati, protegga gli investimenti, assicuri i profitti. È quindi necessaria
l’affermazione di un paese capace di esercitare un’egemonia internazionale e di definire il centro del sistema
mondiale in cui il capitalismo è storicamente organizzato; intorno a esso si struttura una periferia di paesi
subalterni sul piano politico. Come nella fase ascendente il potere egemonico e l’accumulazione del capitale
procedono di pari passo, così la fine dell’espansione materiale e la finanziarizzazione si associano a una
diminuzione del potere del centro egemonico: nelle parole di Fernand Braudel, l’ascesa della finanza è «il
segnale dell’autunno» per il potere del paese leader.
Le fasi finali dei cicli sono caratterizzate da una transizione economica e politica. L’accumulazione del
capitale tende a spostarsi verso una nuova area, che emerge come centro di un nuovo stadio di espansione
materiale; un passaggio alimentato dalla stessa espansione finanziaria precedente, che muove i capitali dai
vecchi ai nuovi centri di accumulazione. Nei rapporti interstatali emerge così un periodo di «caos
sistemico», seguito dal progressivo consolidamento di un diverso ordine mondiale, con una nuova potenza
egemone. Le fasi di transizione sono sempre caratterizzate da una forte incertezza economica – sulle
attività emergenti, sui mercati di sbocco, sugli investimenti più promettenti – e da un’elevata instabilità
politica, che rendono incerta anche l’evoluzione dei rapporti tra stati e gli assetti istituzionali destinati a
definire la nuova egemonia mondiale.
Nel Lungo XX secolo Arrighi individua quattro cicli di accumulazione ed egemonia, dal XV secolo a oggi:
un ciclo genovese-iberico dal XV secolo all’inizio del XVII; un ciclo olandese dal XVII secolo alla metà del
XVIII; un ciclo britannico dalla metà del XVIII secolo all’inizio del XX; un ciclo statunitense apertosi all’inizio
del XX secolo. In quest’ultimo ciclo, gli Stati Uniti hanno preso il posto dell’impero britannico come potenza
egemone, in una transizione che si completò con la Seconda guerra mondiale. Tale ciclo ha avuto una lunga
fase di espansione materiale – dagli anni quaranta agli anni settanta del Novecento – caratterizzata dalla
produzione industriale «fordista», che è stata messa in crisi dalle lotte sociali nel centro, dalla crescente
competizione con Europa, Giappone e Asia orientale e dalle difficoltà nel controllare i paesi della periferia.
Al rallentare dell’accumulazione, a partire dagli anni ottanta i capitali dei paesi del centro si sono spostati
verso investimenti finanziari più «liquidi», alla ricerca di rendimenti maggiori. Esattamente come durante la
Belle époque, al termine dell’egemonia britannica, l’espansione finanziaria dagli anni ottanta ai primi anni
del 2000 ha consentito una momentanea ripresa dell’accumulazione, ma ha anche rappresentato il «segnale
dell’autunno» del ciclo americano, fino alla crisi terminale del 2008. Il Poscritto a questa nuova edizione
esamina proprio le lezioni che Il lungo XX secolo può offrire per capire la crisi attuale, la complessità della
transizione in corso e gli scenari possibili per il futuro.
La capacità anticipatrice di Giovanni Arrighi è di grande rilievo e abbraccia molteplici fronti di ricerca. Il
primo e più immediato elemento riguarda l’interpretazione della crisi scoppiata nel 2008. Negli ultimi
trent’anni la ricerca economica mainstream ha posto la crescita economica come orizzonte indiscutibile, una
crescita fondata sull’espansione della finanza e sulla liberalizzazione di mercati ritenuti in grado di
autoregolarsi. Si è teorizzata la «fine dei cicli economici», arrivando ad affermare – l’ha fatto Robert Lucas
all’American Economic Association nel 2003 – che per la macroeconomia «il problema centrale di prevenire
la depressione è stato risolto a tutti gli effetti». Già nel 1999, all’apice dell’espansione americana trainata
dalla «new economy» e dalla finanza, Giovanni Arrighi e Beverly Silver, in Caos e governo del mondo,
sostenevano che:
L’espansione finanziaria globale degli ultimi vent’anni circa non è né un nuovo stadio del capitalismo
mondiale, né il prodromo di una «imminente egemonia dei mercati globali». Piuttosto, è il segno più
chiaro del fatto che ci troviamo nel bel mezzo di una crisi egemonica. In quanto tale, l’espansione può
essere considerata un fenomeno temporaneo che si concluderà più o meno catastroficamente, a
seconda di come la crisi sarà affrontata dalla potenza egemonica in declino […]. L’unica domanda che
rimane aperta a questo riguardo non è se, ma fra quanto tempo e quanto catastroficamente l’attuale
dominio globale dei mercati finanziari non regolamentati crollerà (Arrighi e Silver, 2003, pp. 316317).
La finanziarizzazione dell’economia da cui è scaturita la crisi del 2008 non è dunque una «degenerazione»
eccezionale del capitalismo, risultato di comportamenti individuali scorretti o di errori nelle politiche, come
ha poi argomentato, a crisi ormai avvenuta, l’economia mainstream. D’altro canto, le interpretazioni
«keynesiane» della crisi – per esempio quella di Paul Krugman – sottolineano il ruolo, nel caso degli Stati
Uniti, dell’eccesso di debito privato provocato dalla deregolamentazione della finanza. Joseph Stiglitz e altri
autori, inoltre, chiamano in causa gli squilibri delle bilance dei pagamenti internazionali, i problemi della
domanda e gli effetti delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito. Tutti i «keynesiani» criticano poi
le politiche di austerità che, specie in Europa, hanno trasformato la crisi in prolungata depressione.
Tuttavia, nell’interpretazione di Arrighi – la più convincente tra le molte avanzate – l’espansione finanziaria
non è che la modalità con cui l’accumulazione capitalistica si trasforma quando l’aumento della produzione di
beni non è più sufficiente a sostenere i profitti dei paesi al centro del sistema mondiale. L’espansione
finanziaria porta inevitabilmente alla crisi perché non può sostenere un processo di accumulazione duraturo; le
lezioni della storia insegnano che con la crisi finanziaria crolla l’intera organizzazione economica e politica di
un particolare ciclo di sviluppo del capitalismo.
Negli ultimi trent’anni i conflitti sociali, l’esaurimento del modello della grande industria, i limiti ambientali
allo sviluppo, la scarsa dinamica della domanda – insieme all’emergere delle grandi capacità produttive
dell’Asia orientale – hanno spinto gli Stati Uniti e buona parte dell’Europa a spostare gli investimenti
dall’economia reale alla finanza. Alla perduta competitività industriale si è sostituita una supremazia nei mercati
dei capitali su scala globale. Ma per attrarre a Wall Street e nella City di Londra i capitali di tutto il mondo è
stato necessario liberalizzare i flussi di capitale di tutti i paesi, allentare le regole per banche, borse e patrimoni,
assicurare rendite finanziarie molto elevate, ridurre o aggirare l’imposizione fiscale su di esse. Questo è quanto
avvenuto negli ultimi trent’anni: una nuova belle époque della finanza, destinata a tramontare e a trascinare con
sé l’ordine internazionale su cui si sosteneva.
Il secondo tema su cui occorre sottolineare la capacità anticipatrice di Arrighi è la dimensione
autenticamente globale della sua analisi, fondata sui rapporti tra centro e periferia del sistema mondiale.
Conta qui l’esperienza personale dell’autore – sia professionale che politica – nell’Africa della
decolonizzazione prima, nell’Italia delle lotte sociali poi e, infine, negli Stati Uniti, con il gruppo di ricerca
sul «sistema-mondo» diretto insieme a Immanuel Wallerstein. Un percorso ricostruito nella splendida
intervista autobiografica rilasciata a David Harvey, pubblicata in italiano nella raccolta Capitalismo e
(dis)ordine mondiale (manifestolibri, Roma 2010; vedi anche l’introduzione di Giorgio Cesarale).
Dall’inizio del suo lavoro di ricerca Arrighi ha tenuto insieme in maniera del tutto originale non solo –
come abbiamo visto – economia e politica, ma anche l’ottica sul centro e sulla periferia dei processi di
accumulazione e nei rapporti di potere. Per ricostruire l’evoluzione del capitalismo, la sua analisi ha intrecciato
rotte commerciali e conflitti, imperi e colonie, imprese multinazionali dei paesi ricchi e strutture sociali dei
paesi poveri, sempre utilizzando fonti di assoluto rilievo, documentazioni originali, connessioni impreviste e
feconde. Ne sono prova i capitoli centrali del Lungo XX secolo, ma anche in precedenza lo stesso sguardo sul
sistema mondiale era stato alla base di analisi sull’economia politica dell’Africa, sulle dinamiche della crisi
mondiale degli anni settanta, sulle disuguaglianze mondiali.
Così, ben prima che si parlasse di globalizzazione, Giovanni Arrighi aveva già esplorato i processi di
accumulazione e i rapporti di dominio su scala globale, studiando la complessità dei flussi di merci, capitali e
persone in un sistema mondiale nel quale gli sviluppi della periferia sono essenziali per spiegare le forme di
accumulazione e di potere del centro e, viceversa, le forme di integrazione subalterna delle società ai margini
del capitalismo sono il riflesso di ciò che avviene nel cuore dell’egemonia mondiale. Un contributo di
particolare rilievo riguarda il concetto di «semiperiferia» – così per esempio erano definiti i paesi dell’Europa
meridionale nei primi decenni del dopoguerra –, cioè l’area intermedia del sistema-mondo in cui si
intrecciano fenomeni di espansione produttiva e dipendenza, di modernità e arretratezza, in un quadro assai
instabile degli assetti politici.
Il terzo argomento su cui Arrighi ha fornito un apporto rilevante è l’ascesa dell’Asia orientale e della
Cina, che rappresenta il nucleo del suo ultimo libro, Adam Smith a Pechino (2008). L’attenzione per l’Asia
orientale nasce dalle conclusioni stesse del Lungo XX secolo, in cui il successo economico dell’area viene
individuato come il più importante tra i fenomeni di espansione produttiva che potrebbero prefigurare un
nuovo ciclo di accumulazione. Arrighi ha esaminato in profondità il rapido sviluppo della Cina,
sottolineando il forte controllo politico dei processi economici. Nelle sue riforme economiche, il governo
cinese è partito dalle campagne e dal miglioramento di produttività e redditi dei contadini; ha rinnovato le
imprese di stato e sostenuto le «imprese di municipalità e di villaggio», programmando un forte sviluppo
industriale ad alta intensità di lavoro, che tuttavia ha provocato gravi costi sociali e distruzioni ambientali.
Ha poi attirato le imprese multinazionali e i loro investimenti esteri, ma lo ha fatto dettando le condizioni per
il trasferimento di conoscenze e processi produttivi, così da sviluppare nuove specializzazioni nei settori a
tecnologia avanzata. In più, in opposizione alle prescrizioni neoliberiste (il cosiddetto Washington
consensus), il governo cinese ha evitato di liberalizzare oltre misura le attività finanziarie, ha mantenuto il
cambio ancorato al dollaro e il controllo sui movimenti di capitale, creando così la cornice di stabilità
necessaria per la straordinaria espansione produttiva degli ultimi decenni.
Ora che la Cina è la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti, il nuovo ciclo di accumulazione
imperniato sull’Asia orientale – con Pechino al centro – è ben visibile a tutti. Eppure i nuovi assetti
dell’economia mondiale si differenziano dai cicli di espansione materiale del passato: il paese emergente – la
Cina – ha un mercato interno dal ruolo limitato e continua a esportare enormi quantità di merci e capitali verso
il paese in declino – gli Stati Uniti – prolungandone il ruolo guida. Non ci sono ancora segnali che l’ascesa
economica della Cina possa farne un paese egemone, capace di sostituire gli Stati Uniti al centro di un nuovo
ordine mondiale. Come Arrighi sostiene nel Poscritto a questo volume, oggi la transizione egemonica appare
complicata dall’enorme potere militare statunitense, dalle possibilità di un recupero di potere dell’Occidente e
dai rischi di caos sistemico generalizzato. Ma, con l’ascesa dell’Asia orientale, si prospetta anche lo scenario di
un riequilibrio di potere e ricchezza fra le aree del mondo, fondato su rapporti di mercato meno asimmetrici e
su una pluralità di opzioni politiche. La questione, per Arrighi, resta aperta, e il suo esito dipenderà sì dai
processi economici e politici, ma anche dalle nostre azioni collettive.
Il quarto tema su cui Arrighi ha fornito contributi anticipatori è proprio la funzione dei conflitti nel sistema
mondiale. Analizzare i processi economici e le loro ricorrenze cicliche non significa affatto cadere in un
determinismo che elimina le possibilità di cambiamento per effetto dell’agire umano. Capire i meccanismi di
fondo dell’accumulazione e dell’egemonia non significa escludere il ruolo che possono avere i fattori
contingenti o l’azione individuale o collettiva. Il capitale in cerca di accumulazione e il sistema degli stati in
cerca di potere non sono infatti gli unici protagonisti sulla scena mondiale. Lo sviluppo del capitale crea da sé
i propri antagonisti: un movimento operaio che dalla «rivoluzione mondiale» del 1848 in poi si è dato
strutture organizzative stabili, ovvero sindacati e partiti, sia nella variante socialdemocratica che in quella
comunista. Analogamente, la gerarchia del sistema-mondo crea i propri antagonisti nei movimenti di
liberazione nazionale e nelle forme di resistenza al dominio della potenza egemonica (gli imperi coloniali
europei prima, la superpotenza americana poi).
Queste risposte «antisistemiche» si sono evolute in un orizzonte d’azione di scala nazionale e si sono
poste l’obiettivo di conquistare il potere dello stato, come si sostiene in Antisystemic Movements, scritto da
Arrighi nel 1989 insieme a Terence Hopkins e Immanuel Wallerstein. Tale scelta, sia nelle socialdemocrazie
occidentali, sia nei paesi del «socialismo reale» e nel Terzo mondo dopo la decolonizzazione, ha
istituzionalizzato e burocratizzato partiti e sindacati, allontanandoli dalle richieste della base e integrandoli
nell’ordine internazionale definito dall’egemonia statunitense.
La protesta contro quest’ordine sociale internazionale è venuta con la «rivoluzione mondiale» del 1968,
destinata ad alimentare successive ondate di mobilitazioni sociali che hanno avuto per protagonisti soggetti
differenziati: le categorie più deboli dei lavoratori salariati e gruppi di status contraddistinti da identità e
condizioni sociali diverse, dagli studenti alle donne, dai gruppi etnici e religiosi agli immigrati. L’obiettivo
ha cessato di essere la presa del potere statale o la costruzione di organizzazioni stabili, e le lotte si sono
sviluppate da un lato con l’immediatezza di rivendicazioni specifiche per migliorare le condizioni di lavoro
e di vita, e dall’altro su temi globali – la natura distruttiva del capitalismo, il rifiuto della guerra, la difesa
dell’ambiente, la giustizia sociale – che hanno aperto la via a legami internazionali tra movimenti di tipo
nuovo.
Tratteggiando questo scenario, Arrighi ha anticipato lo sviluppo che dalla fine degli anni novanta hanno
registrato i movimenti contro la globalizzazione neoliberista, e nel 2003 quelli contro la guerra degli Stati
Uniti in Iraq: mobilitazioni di rilievo mondiale e con una diffusione geografica senza precedenti. Si trattava
dei primi passi verso la costruzione di movimenti globali contrapposti alla logica del capitalismo e del potere
egemonico, fautori di un progetto di «globalizzazione dal basso» antitetica a quella neoliberista. Una
conferma della possibilità di organizzare il conflitto sociale allo stesso livello – quello mondiale – in cui
hanno luogo i processi di accumulazione ed egemonia. Non è certo una sfida facile, come ha mostrato la
crisi del 2008 che, accanto al crollo della finanza e all’instabilità politica, ha prodotto anche l’arretramento e
la frammentazione dei movimenti, riportando le mobilitazioni su scala nazionale, soprattutto in forma di
resistenza contro gli effetti della recessione. La crisi del sistema mondiale ha finito così per logorare anche
le capacità di risposta a livello internazionale dei soggetti sociali. Per Arrighi, tuttavia, l’azione collettiva
resta il principale strumento per il cambiamento a nostra disposizione.
L’ampiezza dei contributi di Giovanni Arrighi, che attraversano di continuo i confini disciplinari, ha
paradossalmente limitato il suo impatto diretto sugli studi economici, politici e sociali. Le sue opere sono
state al centro dei dibattiti della New Left Review, la maggiore rivista culturale in lingua inglese della
sinistra, e hanno influenzato gli economisti radical americani più di quelli europei. La tradizione di ricerca
sul sistema-mondo si è allargata a una varietà di lavori, soprattutto sociologici, storici e sui paesi della
periferia, in gran parte debitori nei confronti di Arrighi. I problemi affrontati dai suoi studi restano al cuore
dell’agenda di ricerca internazionale in molti altri campi. Alla Johns Hopkins University esiste oggi un
Arrighi Center for Global Studies diretto da Beverly Silver, sua compagna di vita e di lavoro. Eppure, la sua
influenza potrebbe e dovrebbe essere ben maggiore; le sue analisi sono ricche di stimoli, tanto importanti
quanto spesso ignorati, per gli studiosi di economia e di Relazioni internazionali, mentre la sua critica del
capitalismo ha molto da insegnare alle nuove generazioni interessate alla politica.
Le tesi di Arrighi non hanno mancato di scatenare dibattiti, anche accesi, su temi che comprendono la
rivoluzione industriale e le origini del capitalismo, i rapporti centro-periferia, la definizione della finanza, il
neoliberismo, la democrazia. Su questi argomenti, molte sue intuizioni meriterebbero di essere sviluppate
con analisi più approfondite dei meccanismi economici e politici. Proviamo a esplorare alcune di queste
direzioni di ricerca.
Una prima questione deriva dal fatto che Arrighi – come tutto l’approccio del sistema-mondo –
ridimensiona l’importanza della rivoluzione industriale nella nascita del capitalismo, concentrandosi più sui
sistemi di scambio che sul processo di produzione, e sottovalutando la discontinuità rappresentata dalle
nuove macchine e tecnologie. Una maggiore attenzione alle forme della produzione, al progresso tecnico e
alle sue applicazioni potrebbe rendere più precisa la ricostruzione di come i processi produttivi prendono
forma, consentono rendimenti crescenti e profitti elevati e alimentano le fasi di espansione produttiva dei
cicli di accumulazione.
Il secondo tema da approfondire riguarda gli specifici meccanismi economici che consentono
l’accumulazione nei paesi del centro, sottraendo risorse e surplus alla periferia. Il controllo dei mercati, la
proprietà delle imprese, le reti di produzione internazionale e, in tempi di finanza globale, i flussi di capitale e
il ruolo del debito estero sono fenomeni chiave in questo senso. Ma sarebbe importante individuare più nel
dettaglio le forme in cui tutto ciò avviene, le variabili fondamentali di questi processi e le possibilità concrete
di intervenire per ridurre la dipendenza della periferia.
Il terzo spunto di ricerca attiene alla finanza, che – come hanno osservato alcuni critici – Arrighi esamina
in termini ancora troppo generali. Analisi più approfondite potrebbero mettere meglio in luce i rapporti tra
capitale industriale e capitale finanziario, e le dinamiche da cui nascono i profitti finanziari. La complessità
dei flussi finanziari, interni e internazionali, è cresciuta in maniera significativa: investimenti diretti e
immobiliari, operazioni di borsa e sul debito pubblico, affari sui derivati e sul mercato finanziario «ombra»,
speculazioni sui cambi e sulle materie prime. Sarebbe importante ricostruire i legami di questi fenomeni con
le relazioni che si stabiliscono tra grandi banche e altri soggetti economici, tra creditori e debitori, tra paesi
di origine dei capitali e paesi di destinazione.
Il significato del neoliberismo è un’altra questione che meriterebbe un approfondimento. Per Arrighi, che
utilizza il termine soltanto in alcuni saggi più recenti, non si tratta di una fase nuova del capitalismo, il quale
è scandito dalla successione dei cicli di accumulazione e di egemonia. Pur riconoscendo il maggior potere
dei mercati nei confronti degli stati, e l’impoverimento della classe operaia nei paesi del centro come
risultato della delocalizzazione della produzione nei paesi semiperiferici, Arrighi sembra trascurare la rottura
politica rappresentata, negli anni ottanta, dall’ascesa al potere di Margaret Thatcher e Ronald Reagan e dalla
loro agenda di liberalizzazione dei mercati e riduzione del ruolo dello stato e della politica. D’altra parte,
Arrighi coglie bene il riflesso del neoliberismo sul piano internazionale quando evidenzia il tentativo degli
Stati Uniti di rispondere al declino egemonico con un rilancio del proprio potere finanziario e militare.
Merita infine grande attenzione l’assenza della democrazia nelle analisi di Arrighi. Questa non compare
tra gli elementi ritenuti in grado di condizionare l’evoluzione dei rapporti tra stato e capitale attraverso le
politiche pubbliche (per esempio, la diffusione dei diritti politici e sociali, il welfare state, le politiche per
l’occupazione), né è affrontata la questione se la democrazia politica abbia qualche rapporto con i cicli di
accumulazione e di egemonia. Se è comprensibile ritenere che la democrazia interna agli stati abbia una
scarsa influenza sui loro comportamenti nel sistema internazionale, meno convincente è escluderla
dall’insieme dei fattori chiave per capire l’evoluzione del movimento operaio (anche nell’ottica
dell’alternativa tra riformismo e rivoluzione), la degenerazione del «socialismo reale» e le opache dinamiche
della politica cinese. Prevale invece in Arrighi una rappresentazione dei conflitti incentrata sullo scontro tra
capitale e lavoro (di cui peraltro non si trascurano le diversità interne alla forza-lavoro) da un lato, e tra
centro e periferia dall’altro. Uno schema che fatica a cogliere la portata conflittuale di movimenti – come le
mobilitazioni globali nate negli anni novanta – che non puntano alla presa del potere statale, ma a
condizionare le forme di autorità del capitale e del sistema egemonico. Per questi movimenti la democrazia
costituisce un valore e un percorso di partecipazione, deliberazione e conflitto in grado di mettere in
discussione il funzionamento dell’economia e della politica, e di porre con forza i grandi problemi di
ingiustizia sociale e insostenibilità ambientale del capitalismo di oggi.
Il rilievo delle questioni ancora aperte, a vent’anni dalla pubblicazione di quest’opera, conferma il valore
del lungo percorso di ricerca di Arrighi, e la vitalità dell’intreccio di orientamenti teorici, interpretazione
storica e urgenza dell’azione politica che hanno caratterizzato tutta la sua vita intellettuale. L’importanza di
capire come si evolve il capitalismo, attraverso processi economici e rapporti di potere internazionali –
tenendo in considerazione le possibilità del conflitto sociale –, è la lezione di fondo che un libro come Il
lungo XX secolo può offrire anche ai lettori del secolo successivo.
Mario Pianta
aprile 2014