Capitalismo e (dis)ordine mondiale - SelectedWorks

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Capitalismo e (dis)ordine mondiale - SelectedWorks
University of Urbino
From the SelectedWorks of Mario Pianta
2010
Capitalismo e (dis)ordine mondiale
Giovanni Arrighi
Available at: http://works.bepress.com/mario_pianta/74/
INCISIONI
GIOVANNI ARRIGHI
CAPITALISMO
E (DIS)ORDINE MONDIALE
a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta
Indice
Introduzione
Le lezioni di Giovanni Arrighi
di Giorgio Cesarale
© 2010 manifestolibri srl
via Bargoni 8 – Roma
per i capitoli 1, 2, 3
copyright New Left Review, 1990, 1991, 2009
per il capitolo 4 e 5
copyright degli autori
Traduzioni di Giulio Azzolini, Laura Cantelmo, Sara Labanti, Guido Parietti,
Silvia Pianta.
ISBN 978-88-7285-610-9
www.manifestolibri.it
[email protected]
newsletter www.manifestolibri.it/registra
7
1. I tortuosi sentieri del capitale. Intervista con David Harvey
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2. Secolo marxista, secolo americano. L’evoluzione del movimento
operaio nel mondo
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3. Le disuguaglianze mondiali
109
4. Capitalismo e (dis)ordine mondiale
di Giovanni Arrighi e Beverly Silver
143
5. Dopo il neoliberismo. Il nuovo ruolo del Sud del mondo
di Giovanni Arrighi e Lu Zhang
181
Bibliografia completa di Giovanni Arrighi
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Introduzione
Le lezioni di Giovanni Arrighi
di Giorgio Cesarale*
Vogliamo ringraziare per la collaborazione alla realizzazione di questo
libro Beverly Silver, compagna di vita e di lavoro di Giovanni Arrighi, per
la sua disponibilità e i suoi consigli.
Nel dibattito sulla attuale crisi economica globale è diventato
ormai quasi senso comune la critica all’incapacità della scienza economica dominante di indicare e interpretare adeguatamente le cause di questa crisi, e in particolare di uno dei suoi fenomeni più abbaglianti, e cioè
il processo di finanziarizzazione. Che legami ha questo processo con ciò
che, peraltro impropriamente, si chiama “economia reale”? Che nesso
vi è fra questo processo e la vorticosa espansione economica di intere
regioni del pianeta (il Sud-est asiatico delle quattro “tigri”, della Cina,
del Vietnam ecc.)? Quale ruolo giocano in esso gli Stati, da quelli in
ascesa a quelli in più evidente difficoltà? Sono domande cruciali, che
obbligano a fornire una risposta alta e convincente. D’altro canto, per
rispondere a queste domande è necessario collocare l’attuale crisi e la
turbolenza globale che l’accompagna entro un orizzonte storico e geografico più largo. Uno “sguardo corto” sulla crisi è precisamente ciò che
può impedire di comprenderla in tutta la sua complessità. E tuttavia è
proprio da questo “sguardo corto” che la maggior parte degli osservatori e degli studiosi appare caratterizzata. Le eccezioni sono rare1: tra queste c’è Giovanni Arrighi (1937-2009), una delle figure più rilevanti,
insieme ad Andre Gunder Frank, Immanuel Wallerstein e Terence
Hopkins, dell’approccio “sistemico” allo studio della storia e della struttura del capitalismo globale, dei movimenti sociali anticapitalistici, delle
disuguaglianze mondiali di reddito e dei processi di modernizzazione.
Nel discorso di Arrighi l’attuale crisi e l’inarrestabile processo di finanziarizzazione che le si collega sono interpretati alla luce dell’intera traiettoria di sviluppo del capitalismo mondiale, dalle città-Stato italiane rinascimentali all’ascesa degli Stati uniti alla guida del sistema economico
internazionale. In questa prospettiva, il processo di finanziarizzazione
che segna la nostra epoca deve essere inteso sia come sintomo della
decadenza dello Stato attualmente egemone a livello internazionale, gli
Stati uniti, sia come condizione della riapertura, in un diverso contesto
geografico, di un nuovo ciclo di espansione economica “materiale”
(industriale e commerciale).
L’eccezionalità della figura di Arrighi, il quale, e non solo ai nostri
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occhi2, appare come uno dei massimi studiosi dell’economia-mondo
capitalistica della seconda metà del Novecento, ci fa ritenere che siano
ormai giunti i tempi per avviare una riflessione a tutto tondo sulla sua
opera. È un compito, questo, di cui anche altrove si è espressa l’importanza3, e di cui urge preparare le condizioni di realizzazione. È anche a
tale scopo che è stata concepita la presente iniziativa editoriale: essa
infatti contiene materiali – dall’intervista autobiografica concessa quasi
in punto di morte a David Harvey (uno dei più insigni teorici marxisti
contemporanei, autore de La crisi della modernità e Breve storia del neoliberismo) ad alcuni dei più importanti, e ancora inediti in italiano, saggi
di teoria sociale e di interpretazione storica scritti da Arrighi – che possono aiutare a ricostruire meglio il suo profilo intellettuale complessivo,
il senso della sua operazione teorica.
Su questi scritti e sulle ragioni che ci hanno condotto a proporne la
traduzione in italiano diremo qualcosa al termine dell’introduzione. In
via preliminare, tuttavia, vorremmo provare a offrire al lettore il nostro
punto di vista sia sull’itinerario intellettuale percorso da Arrighi sia sul
significato della sua opera.
L’ECONOMIA POLITICA DELL’AFRICA
In relazione ai “fatti” che hanno costellato la sua biografia vi è, in
verità, poco o nulla da aggiungere a quanto è detto da Arrighi stesso
nella intervista ad Harvey. Proveniente dai ranghi di una famiglia borghese antifascista, Arrighi compie gli studi universitari di economia alla
Bocconi con l’intenzione di procurarsi le competenze necessarie a dirigere l’azienda del padre, nel frattempo deceduto. Ma, come capo
d’azienda, Arrighi si accorge subito di non riuscire: decide perciò di
cambiare ambiente di lavoro e di proseguire la carriera accademica,
diventando assistente volontario. È un’occupazione, però, che non gli
fornisce di che mantenersi: Arrighi è perciò costretto prima ad accettare
un impiego come apprendista manager presso la multinazionale angloolandese Unilever e poi a candidarsi per un posto di docente di economia presso una sede distaccata in Rhodesia (l’odierno Zimbabwe)
dell’Università di Londra. Sono gli anni in Africa della “decolonizzazione”, delle lotte di liberazione nazionale e della formazione di nuove
entità statali autonome. Arrighi si fa da subito intellettualmente e anche
politicamente partecipe di questa atmosfera: il suo primo e importante
saggio, The Political Economy of Rhodesia (da noi tradotto poi con il
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titolo Struttura di classe e sovrastrutture in Rhodesia), è scritto proprio
nel 1965, e cioè nell’anno in cui di solito si fa cadere la fine del processo
di decolonizzazione.
Arrighi fin dal suo arrivo in Rhodesia non nutre illusioni sulla possibilità di trasformare il riscatto nazionale dei popoli africani in un
riscatto economico e sociale: la struttura polarizzata del capitalismo
mondiale, per la riproduzione della quale vi è la necessità da parte dei
“centri” del sistema di drenare dividendi e profitti dagli investimenti
compiuti nei paesi africani e di realizzarli in modo molto “selettivo”
(tutti ad alta intensità di capitale e non indirizzati alla produzione di
beni strumentali), è un serio ostacolo a un decollo, in particolare industriale, di questi paesi. La Rhodesia rappresenta peraltro, da questo
punto di vista, una sorta di case study privilegiato: è infatti uno dei
pochi paesi africani in cui sia esistita, per uno strano scherzo del destino
– i sovrainvestimenti nel settore minerario, causati da un errore di valutazione, della British South Africa Company, e il tentativo, da parte di
quest’ultima, di recuperarli stimolando uno sviluppo del paese e delle
sue forze sociali –, una borghesia agraria nazionale in qualche modo
interessata a puntare sulla crescita del paese. Non solo: è uno dei pochi
paesi dell’Africa sub-sahariana ad aver ospitato un compiuto processo
di proletarizzazione della propria forza-lavoro agricola, soprattutto a
causa del crollo della produttività subito, tra gli anni Trenta e Sessanta,
dai terreni posseduti dai produttori agricoli indipendenti. Esistendone
le condizioni sociali (la presenza, da un lato, di una borghesia interessata all’allargamento della base produttiva e, dall’altro, di una riserva di
forza lavoro disponibile a vendersi sul mercato), sembra offrirsi uno
scenario ideale per una transizione compiuta al capitalismo; eppure tale
transizione non si dà. E non si dà per ragioni che successivamente Arrighi chiamerà “sistemiche”: ciò che conta in ultima istanza è la struttura
del capitalismo a livello mondiale, non la particolare configurazione
produttiva e sociale all’interno di un determinato Stato-nazione. Se il
sistema capitalistico mondiale poggia sulla costante riproduzione
dell’asimmetria fra regioni forti e deboli del pianeta, provare a guidare
un paese “arretrato” verso lo “sviluppo” è un’impresa senza possibilità
di successo. A meno che, dice qui Arrighi ispirato da Samir Amin, non
si lavori sulla déconnexion, sullo sganciamento, dai paesi capitalistici sviluppati, e si provveda a rompere con forza il cordone ombelicale che
lega quest’ultimi ai paesi del Terzo mondo.
Si apre, con ciò, il versante più politico della riflessione di Arrighi
sull’Africa tropicale; versante che trova la sua più ampia esplicitazione nei
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saggi scritti dopo che il governo allora in carica in Rhodesia lo espelle dal
paese per attività sovversive, costringendolo a trovare riparo in Tanzania,
all’università di Dar es Salaam. In questi saggi (L’offerta di lavoro in una
prospettiva storica, Società multinazionali, aristocrazie del lavoro e sviluppo
economico nell’Africa tropicale, Socialismo e sviluppo economico nell’Africa
tropicale, Nazionalismo e rivoluzione nell’Africa sub-sahariana) e, in specie
negli ultimi due, scritti con John Saul, Arrighi radicalizza la propria posizione, contestando i luoghi comuni del socialismo africano e del marxismo più volgare. Gli obiettivi critici sono, in particolare, due:
1) l’idea che occorra, per garantire lo “sviluppo”, “scendere a patti” con il grande capitale internazionale;
2) l’idea che non sia economicamente e politicamente produttivo
intervenire sulla distribuzione del reddito di questi paesi, malgrado questa consegni nelle mani delle burocrazie statali e degli scaglioni medi e
superiori dei lavoratori, anche formalmente proletarizzati, delle grandi
imprese private una quota della ricchezza sociale nazionale assolutamente sproporzionata.
Su quest’ultimo punto, e sulla sua importanza anche negli sviluppi
successivi del continente africano, Arrighi non ha peraltro mai smesso di
insistere: nel suo ultimo, corposo, saggio sulle vicende africane, The
African Crisis, apparso nel 2002 sulle pagine della “New Left Review”,
la stessa involuzione autoritaria degli Stati africani, che li ha resi facile
preda dei golpe militari, è fatta risalire alla tendenza delle burocrazie,
pubbliche e private, di conservare a ogni costo i privilegi garantiti loro
dalla esistente distribuzione del reddito.
CRISI ED EGEMONIA NELL’ITALIA DEGLI ANNI SETTANTA
In Tanzania Arrighi rimane tre anni, dal 1966 al 1969, fino a quando non è richiamato in Italia a insegnare presso uno degli epicentri del
movimento del ’68, la nuova Facoltà di Sociologia dell’Università di
Trento. Qui il suo insegnamento riscuote un successo quasi immediato.
Gli studenti del movimento, infatti, pur con qualche rilevante dissenso
interno – che Arrighi nell’intervista ad Harvey rievoca in modo sapido –
affluiscono copiosi alle sue lezioni, attratti dalla fama di studioso “terzomondista” e “radicale” che Arrighi si è fatto in virtù della pubblicazione, nell’estate del 1969 presso la casa editrice Einaudi, del suo primo
libro, Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, che raccoglie tutti i
suoi saggi redatti nel periodo africano.
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Il periodo italiano dura dal 1969 al 1979, ed è a sua volta suddiviso
in due parti: nella prima, che va dal 1969 al 1973, l’azione di Arrighi si
svolge sull’asse Milano-Torino, e cioè tra la sinistra extraparlamentare e,
per dirla con Raniero Panzieri, le lotte operaie nello sviluppo capitalistico; nella seconda, invece, che va dal 1973 al 1979, Arrighi, trasferitosi a
insegnare a Cosenza, all’Università della Calabria, abbandona di nuovo
il terreno dello “sviluppo”, per reimmergersi nello studio dei processi di
proletarizzazione degli immigrati, questa volta calabresi.
Nelle ricerche condotte nella fase calabrese Arrighi porta a nuova
verifica il risultato cui era già giunto negli studi sul reclutamento della
forza-lavoro in Rhodesia: la proletarizzazione, la creazione di grandi
riserve di forza lavoro prive dell’accesso ai mezzi di produzione, non è,
contro Marx e il marxismo, la conditio sine qua non dello sviluppo capitalistico. E non lo è perché, sia per i rhodesiani migrati dalla campagna
alla città sia per i calabresi spostatisi in Nord Italia, la proletarizzazione
coincide con la richiesta di alti salari, i quali abbassano il saggio di profitto – e quindi la convenienza a investire dei capitalisti – e procurano al
proletario quelle risorse monetarie che possono aiutarlo a ritrasformarsi
in soggetto economico indipendente. Come si può agevolmente constatare, Arrighi viene qui articolando una tesi che già lo colloca nei fatti dal
lato della scuola sistemica di Wallerstein, Frank e Hopkins, che, come è
noto, ha largamente insistito sulla non centralità del lavoro salariato per
la nascita e la promozione dello sviluppo capitalistico. In forme diverse,
è una tesi che emergerà anche dai suoi più recenti lavori sulla Cina, riassunti nel capitolo 5 di questo volume.
Sennonché, per quanto importante, a noi non pare che la fase calabrese aggiunga molto di più a quanto già maturato da Arrighi in Africa.
Più determinante ci pare il corpo di esperienze teorico-pratiche acquisite da Arrighi a contatto con la fase ascendente del ciclo delle lotte operaie italiane degli anni Settanta, quella che va dall’autunno caldo del
1969 alla stagione contrattuale del 1973. In questa postazione, Arrighi
avverte in presa diretta i primi effetti dello scatenarsi della crisi capitalistica mondiale nel quinquennio 1968-1973, dall’apparizione delle prime
vampate inflazionistiche negli Stati uniti allo shock petrolifero, passando
per la fine, sancita da Nixon nel 1971, della convertibilità fra dollaro e
oro. E subito avverte l’importanza di questa crisi: come interpretarla?
Che cosa ne sarà dell’ordine mondiale a egemonia statunitense stabilitosi dopo la fine della Seconda guerra mondiale? Che conseguenze avrà
tutto ciò per i movimenti sociali anticapitalistici?
Al di là dei molteplici e apparentemente divergenti interessi tema-
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tici che Arrighi ha coltivato lungo il resto della sua vita, a noi pare che
questo sia stato il fuoco principale della sua attività teorica dopo il 1973.
Non a caso, uno dei testi più rilevanti di Arrighi negli anni Settanta è il
saggio Verso una teoria della crisi capitalistica4. In questo saggio, Arrighi
comincia ad articolare una distinzione teorica cui terrà fede fino al suo
ultimo libro, Adam Smith a Pechino5, e cioè quella fra una crisi capitalistica causata dalla caduta del saggio di profitto e una crisi capitalistica
causata dalla sovrapproduzione, dall’assenza di domanda di merci.
Entrambe sono determinate dal livello di remunerazione della forzalavoro salariata: solo che in un caso, il primo, la crisi è determinata
dall’alto livello di remunerazione (e di potere in fabbrica) del lavoro
salariato, che diminuisce la quota dei profitti disponibili ai capitalisti;
nell’altro, il secondo, la crisi è determinata dal basso livello di remunerazione (e di potere in fabbrica) del lavoro salariato, che, poiché sul mercato ha poco da spendere, lascia invenduto un grande quantitativo di
merci. Arrighi era – e lo è in parte rimasto fino alla fine – dell’idea che la
crisi mondiale scatenatasi negli anni Settanta fosse del primo tipo, in
virtù dell’elevato potere contrattuale e politico conquistato nella golden
age dalle organizzazioni sindacali e politiche della classe operaia. Questo
provvedeva, contro il parere a riguardo di buona parte della sinistra
marxista e non, a differenziare la crisi degli anni Settanta da quella degli
anni Trenta, che era stata, invece, una crisi del secondo tipo, una crisi da
sovrapproduzione.
Pur non priva di interesse e di un certo grado di utilità euristica,
questa distinzione non ci sembra tuttavia “tenere”: tutto il peso, nella
eziologia delle crisi capitalistiche, è fatto ricadere sulla forza, contrattuale e politica, della classe operaia, dimenticando il nesso, altrettanto fondamentale nella genesi delle crisi capitalistiche, fra le rivoluzioni tecnologiche e la crescita delle pressioni competitive. Insomma, senza considerazione della crescita del quoziente tecnologico della produzione e
della concorrenza, un adeguato schema interpretativo della crisi non è
articolabile. Arrighi di questo in qualche modo si è venuto progressivamente rendendo conto, tant’è che sia in Lungo XX secolo6, il suo opus
magnum, sia in Adam Smith a Pechino, è venuto rettificando il suo schema iniziale di interpretazione dell’origine della crisi degli anni Settanta,
facendo adeguato spazio alla questione della intensificazione, negli anni
immediatamente precedenti al suo scoppio, della concorrenza intercapitalistica.
V’è da dire, peraltro, che la fedeltà all’idea che fosse stato l’elevato
tasso di conflittualità operaia a determinare lo scoppio della crisi non ha
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sempre reso ad Arrighi un buon servizio in termini analitici: fino ad anni
’80 inoltrati, infatti, Arrighi ha ritenuto irrevocabile la forza conquistata
dalla classe operaia nei paesi del centro, con la conseguenza di sottovalutare, forse più del dovuto, gli effetti sociali della rivoluzione monetarista e neoliberale di Reagan e della Thatcher.
In ogni caso, anche se per altri motivi, lo schema elaborato con
Verso una teoria della crisi capitalistica comincia ad apparirgli non pienamente soddisfacente già a metà degli anni Settanta, allorché inizia la
redazione di Geometria dell’imperialismo7. Ciò che in quello schema
non trovava posto erano essenzialmente due punti:
1) lo sviluppo ineguale del capitalismo a livello mondiale;
2) la composizione etnica e culturale della forza-lavoro a livello
mondiale.
Sono due punti caratteristicamente “leniniani”, due pilastri della
teoria leniniana dell’imperialismo. Ma ad Arrighi la teoria leniniana
dell’imperialismo, contrariamente a gran parte della sinistra rivoluzionaria del tempo, appariva, ed è sempre più apparsa dopo, largamente
inservibile. A renderla tale era stato lo sviluppo dei rapporti economici e
politici dopo la Seconda guerra mondiale: la fase della acuta conflittualità interimperialistica, quella nella quale Lenin aveva forgiato la sua teoria, era terminata e al suo posto era subentrato l’impero informale statunitense, la “pacifica” ricostruzione dell’ordine del mercato mondiale
sotto l’egida delle agenzie economiche e politiche internazionali a guida
statunitense (Onu, Fmi, Banca mondiale ecc.). La categoria di “imperialismo” era quindi diventata senza referente oggettivo. Per dissiparne
fino in fondo l’indeterminatezza, Arrighi in Geometria dell’imperialismo
allestisce una raffinata analisi, basata su una matrice teorica ricavata da
Imperialism di Hobson: vi sono quattro diversi tipi di relazioni interstatali in epoca moderna (colonialismo, impero formale, impero informale,
imperialismo), e l’errore di Lenin è stato di pensare che l’imperialismo
segnasse, all’interno del sistema capitalistico, la fase “suprema” di sviluppo delle relazioni interstatali.
Si tratta di un punto cui Arrighi non rinuncerà più, e che anzi troverà ulteriore esplicitazione nella sua più matura teoria sistemica. Certo,
una critica della categoria leniniana di “imperialismo” che fa a meno di
indagare quello che a noi appare come il suo nocciolo teorico (l’imperialismo come fase contrassegnata dal dominio del capitale finanziario inteso come unità di capitale bancario e industriale) non si può dire propriamente riuscita. Se si vuole, questa è la spia di un problema che, in
qualche modo, Arrighi si è, fin da allora, trascinato dietro. Il problema è
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il seguente: Arrighi diventerà in seguito famoso come uno dei più acuti
teorici della centralità, entro l’assetto capitalistico contemporaneo, del
processo di finanziarizzazione. E tuttavia, come hanno notato eminenti
critici (Peter Gowan8, Robert Pollin9, Richard Walker10), non è mai
chiaro in Arrighi che cosa la categoria di “finanza” celi dentro di sé. Le
operazioni finanziarie saranno sempre analizzate a un grado troppo alto
di generalità teorica, non saranno mai indagate nella loro concretezza. Il
sospetto che questi critici hanno avanzato è che l’incapacità di Arrighi di
svolgere una analisi concreta della finanza nasconda una fondamentale
indeterminatezza concettuale, analoga a quella da egli rimproverata
all’imperialismo leniniano.
Comunque sia, ad Arrighi va riconosciuto il merito di aver colto
fin dall’inizio, e di averlo ribadito anche in seguito, che l’aprirsi della crisi capitalistica mondiale non avrebbe coinciso con il riaccendersi di rivalità di tipo “mercantilistico” e con la ripresa di politiche protezionistiche. Come è soprattutto argomentato in un saggio di grande densità
teorica, Una crisi di egemonia11, a impedire la resurrezione di queste
rivalità e di queste politiche erano, in particolare, due caratteristiche
apparse nell’ordine economico mondiale soprattutto a muovere dalla
fine della Seconda guerra mondiale:
1) il prevalere dell’investimento diretto all’estero sul “semplice”
commercio internazionale;
2) una competizione oligopolistica giocata non sui prezzi ma sulla
innovazione di prodotto.
Entrambe queste caratteristiche hanno a che fare con il nuovo tipo
di impresa insediatosi sulla scena economica mondiale nel Novecento: la
multinazionale o transnazionale, integrata verticalmente e governata tramite una robusta burocrazia manageriale. Ora, dice Arrighi riferendosi
alla prima caratteristica, elevare barriere all’investimento diretto all’estero di questo tipo di impresa o potrebbe risultare inutile – estendendosi
queste imprese non attraverso transazioni, ma attraverso apertura di
filiali nei paesi in cui si effettua l’investimento – o potrebbe essere controproducente, perché impedirebbe, suscitando reazioni omologhe nei
paesi concorrenti, alle imprese transnazionali del paese “mercantilista”
o “protezionista” di compiere le medesime operazioni di espansione. La
competizione, invece, giocata non sui “prezzi” ma sulle innovazioni di
“prodotto” impedisce, più semplicemente, che si scatenino “guerre di
prezzo”, capaci di minacciare seriamente per ciascuna impresa transnazionale il livello dato di domanda delle merci.
La vera posta in gioco della crisi degli anni Settanta – e con ciò ci
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siamo approssimati a uno dei punti più qualificanti del discorso di Arrighi – era costituita dalla capacità degli Stati uniti di continuare a fungere
da regolatore del mercato mondiale. Questa capacità, dice Arrighi a
cavallo fra anni Settanta e anni Ottanta, era stata definitivamente mandata in frantumi. Gli Stati uniti, infatti, soprattutto dopo aver sancito nel
1971 la fine della convertibilità fra dollaro e oro, avevano rinunciato a
rappresentare gli interessi generali della intera classe capitalistica mondiale, per badare solo alla crescita delle attività capitalistiche localizzate
entro i propri confini. Gli Stati uniti avevano smesso, cioè, di essere
gramscianamente “egemonici”, abbandonando il mercato mondiale
all’instabilità e all’anarchia. Oggi è diventato abbastanza comune, anche
presso gli studiosi di relazioni internazionali, fare ricorso, per indagare
le dinamiche di potere mondiali, alla categoria gramsciana di “egemonia”. Ma non bisognerebbe dimenticare di rendere merito a coloro, e
Arrighi è fra questi, che per primi hanno reso ciò possibile, esplorando
le potenzialità in termini di interpretazione delle relazioni internazionali
contenute nel concetto gramsciano di “egemonia”12.
In un certo senso, il saggio Una crisi di egemonia si colloca teoricamente – pur essendo stato pubblicato qualche anno più tardi della sua
conclusione – al margine estremo del periodo italiano. Questo perché ci
pare che qui Arrighi tenda a ragionare sulla crisi degli anni Settanta in
termini più strettamente marxisti di quanto farà in seguito. L’idea che
soggiace al saggio è ancora, infatti, quella tipica di molte delle interpretazioni marxiste della crisi: dopo un trentennio di matrimonio felice fra
Stato e capitale, quest’ultimo, per fuoriuscire dalla crisi di redditività
che lo investe a partire dagli inizi degli anni Settanta, avrebbe rotto questo matrimonio, e le regole scritte e non scritte che lo avevano suggellato. Il capitale, cioè, per dare piena soddisfazione ai suoi impulsi accumulativi avrebbe riguadagnato completa libertà d’azione, soprattutto
rispetto ai vincoli imposti dai compromessi sociali e politici stipulati nella fase precedente, quella del boom.
L’INCONTRO CON LA SCUOLA SISTEMICA
Nel 1979, con il suo trasferimento a Binghamton, alla State University di New York e al Fernand Braudel Center, si apre il periodo
americano di Arrighi, che è durato fino alla morte nel 2009. Questo
periodo coincide con una più piena inscrizione della sua operazione
concettuale sotto le insegne della teoria sistemica di Wallerstein, Frank e
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Hopkins e con una riformulazione dello schema di interpretazione della
crisi fino ad allora adottato. In realtà, come abbiamo già anticipato, i
legami di Arrighi con i sistemici sono stati profondi fin dagli inizi: Wallerstein e Frank sono citati con molto favore per le loro tesi avverse allo
“sviluppo” e alla “modernizzazione” fin da Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa. Per ricapitolare, quattro ci paiono anzitutto gli elementi sistemici dell’Arrighi del periodo africano e italiano:
1) la superiorità di un approccio analitico che indaghi il capitalismo su scala mondiale e non su scala nazionale;
2) l’articolazione gerarchica del sistema capitalistico mondiale, la
sua divisione in zone centrali e periferiche;
3) la disgiungibilità di proletariato e capitalismo;
4) l’importanza dei gruppi di status (le identità di razza, nazione e
genere) nella composizione sociale e politica della forza-lavoro mondiale.
Sennonché, malgrado l’ispirazione sistemica abbia avvolto Arrighi
fin dagli inizi, non si deve sottovalutare l’impatto avuto sul suo pensiero
dal trasferimento negli Stati uniti e dal rafforzamento della sua collaborazione con i principali esponenti della scuola sistemica. A noi, in particolare, pare che i sistemici siano stati decisivi nello sviluppo intellettuale
di Arrighi soprattutto per averlo indirizzato verso l’apprezzamento della
centralità dell’insegnamento di Fernand Braudel per la comprensione
del capitalismo moderno. Fino agli ultimi scritti del periodo italiano,
Braudel è pressoché assente; la sua figura comincia appunto a stagliarsi
con nettezza dopo l’apertura della collaborazione con i sistemici.
Braudel rappresenta per Arrighi un punto di svolta perché gli fornisce le basi per comprendere il nesso fra capitalismo e ciò che Polanyi
ha chiamato haute finance. Dicevamo in precedenza che nell’indagine
sulla categoria di ‘imperialismo” Arrighi aveva mancato il terreno del
capitalismo finanziario. L’esclusione, o poco più avanti la sottovalutazione13, nella considerazione analitica di questa categoria del ruolo giocato
nella sua elaborazione da Hilferding ne erano state manifestazioni eloquenti. Eppure, fin dagli anni Settanta Arrighi non aveva trascurato di
osservare la crescente propensione del capitale a effettuare, per sfuggire
alla compressione dei profitti sul terreno produttivo, investimenti di
tipo finanziario. La tendenza si era poi rafforzata decisamente a partire
dal ’79, con il repentino e vertiginoso rialzo dei tassi di interesse deciso
dalla Federal Reserve a guida Volcker, con la nuova politica economica
di Reagan e la crisi messicana del debito nel 1982. Come interpretare,
però, questo revival della finanziarizzazione, posto che la posizione leniniana, che fa della finanziarizzazione lo stadio “supremo” del capitali-
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smo, era per Arrighi ormai irrimediabilmente compromessa?
È qui che sopraggiunge Braudel: questi infatti aveva osservato in
Civiltà materiale, economia e capitalismo, che, da un lato, la finanziarizzazione è una caratteristica ricorrente dello sviluppo capitalistico fin dal XVI
secolo, e che, dall’altro lato, quando questa finanziarizzazione si dà, essa è
sintomo dell’“autunno”, della decadenza, di un certo ciclo egemonico. Di
colpo, ad Arrighi venivano offerti i mezzi per interpretare il nesso fra crisi
e finanziarizzazione, emerso negli anni Settanta, fuori dallo schema leniniano: tale nesso poteva ora essere interpretato su uno sfondo storico più
largo e complesso, quello costituito dal capitalismo nella sua intera traiettoria di sviluppo, e, soprattutto, poteva ora essere compreso come indice
dell’obsolescenza di una egemonia. L’esplosione negli anni ’80 della finanziarizzazione all’interno della cittadella capitalistica statunitense era perciò
sintomo dell’avanzamento del processo di decadenza di quest’ultima,
anziché, come argomentato da più parti, della sua rinascita.
Con ciò, anche i legami di Arrighi con la scuola sistemica diventano più intimi. Arrighi accetta ora dei sistemici le seguenti tesi:
1) il capitalismo è un modo di accumulazione di ricchezza e non,
come in Marx, un modo di produzione;
2) come tale, il capitalismo ha una storia più lunga di quella tradizionalmente assegnatagli dai marxisti. Non nasce nel XVIII secolo, con
la “rivoluzione industriale”, ma alla fine del Medioevo;
3) in questa storia, il capitalismo è stato contrassegnato dal succedersi di diversi cicli egemonici, ovvero dalla nascita, dallo sviluppo e dal
tramonto di diverse egemonie.
4) queste egemonie si esercitano sull’insieme, gerarchicamente articolato, dell’economia-mondo capitalistica, e cioè su quella combinazione funzionale, tipica della modernità, fra unità del mercato mondiale,
divisione internazionale del lavoro e sistema interstatale.
5) i soggetti egemonici sono nell’economia-mondo capitalistica gli
Stati, i quali esercitano una leadership sia sul sistema-mondo nel suo
complesso, regolandolo e ordinandolo a loro immagine e somiglianza,
sia sugli altri singoli Stati.
Nella versione di Arrighi, consegnata soprattutto al Lungo XX
secolo, i cicli egemonici sono quattro:
1) il ciclo genovese-iberico, dal XV secolo agli inizi del XVII;
2) il ciclo olandese, dalla fine del XVI secolo alla metà del XVIII;
3) il ciclo britannico, dalla seconda metà del XVIII secolo agli inizi
del XX;
4) il ciclo statunitense, dalla fine del XIX secolo fino ad oggi14.
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EGEMONIA E CICLO SISTEMICO DI ACCUMULAZIONE
Ma che cosa regola il ritmo vitale delle egemonie, la loro ascensione e poi il loro tramonto? È qui che Arrighi introduce la sua idea forse
più originale – che gli garantisce un posto di assoluta preminenza entro
la scuola sistemica contemporanea – e cioè quella di “ciclo sistemico di
accumulazione”. Wallerstein aveva detto che uno Stato era da considerarsi in posizione egemonica all’interno dell’economia-mondo capitalistica quando le imprese che in esso risiedono operano in modo più efficiente delle altre in tutte e tre le “maggiori arene economiche – produzione agro-industriale, commercio, e finanza. Il margine di efficienza di
cui parliamo deve essere così grande da consentire a queste imprese di
mettere fuori gioco le imprese che risiedono in altre grandi potenze, non
solo nel mercato mondiale in generale, ma anche in particolar modo
all’interno dei mercati interni delle stesse potenze rivali”15. Arrighi fa un
passo innanzi: tenta di descrivere la logica interna di ogni ciclo egemonico. E questa logica è rinvenuta nella marxiana formula generale del
capitale (D-M-D’), nell’accrescimento di valore (D’) del capitale originario anticipato (D) tramite l’acquisto e poi il consumo produttivo di M,
dei fattori produttivi soggettivi (il lavoro) e oggettivi (le macchine). Solo
che, mentre in Marx D-M-D’ descrive lo schema generale di ogni singolo investimento capitalistico, in Arrighi descrive lo schema di sviluppo
di ogni blocco egemonico: questo si afferma prima attraverso una fase di
espansione materiale, di crescita delle sue operazioni industriali e commerciali – fase rappresentata dal primo segmento del ciclo, da D-M – e
poi, esauritesi, a causa della crescita dei salari e della concorrenza intercapitalistica, le opportunità di investimento redditizio nella sfera materiale dell’attività economica, attraverso una fase di espansione finanziaria – rappresentata dal secondo segmento del ciclo, da M-D’. La fase di
espansione finanziaria è, tuttavia, in quanto chiusura dell’intero ciclo, il
momento dell’“autunno” del blocco egemonico in questione. Gli succederà un nuovo blocco egemonico, che compirà il medesimo percorso.
In Arrighi è cruciale lo sguardo sui meccanismi che regolano i rapporti fra lo Stato egemonico in declino con quello in ascesa. Anche qui è
Marx a fornire la giusta chiave teorica: attraverso il sistema del debito e
del credito internazionale, dice Marx nel Capitale, si trasferisce capitale
da un paese, in declino, che ne ha in sovrappiù a uno, in ascesa, che ne
ha bisogno per avviare la sua espansione produttiva. Nella storia
dell’accumulazione originaria moderna, tutti i centri capitalistici già
affermati (Venezia, Olanda, Inghilterra) si sono comportati in questo
18
modo nei confronti dei centri capitalistici emergenti (Olanda, Inghilterra, Stati uniti). Sennonché per Arrighi l’idea di Marx diventa pienamente fruibile scientificamente solo quando la si sottragga al contesto in cui
è fissata, quello costituito dal discorso sull’accumulazione originaria.
Questa tipologia di trasferimento di ricchezza ha infatti interessato tutte
le transizioni egemoniche, e non solo quelle collocate agli albori del
capitalismo. Tutte, tranne una, l’ultima, quella che, a giudizio di Arrighi,
noi staremmo vivendo: la transizione dall’egemonia americana a qualcosa d’altro, di cui ancora non è possibile individuare compiutamente il
profilo. In quest’ultimo caso, infatti, è l’egemonia declinante che, anziché investire all’estero, si fa prestare capitali da tutto il mondo.
Le ragioni per cui ciò sta accadendo costituiscono in particolare il
tema delle ultime fatiche teoriche di Arrighi, Caos e governo del mondo16
(pubblicato in collaborazione con Beverly J. Silver) e Adam Smith a
Pechino, e sono ben sintetizzate nel capitolo 4 di questo volume. La
risposta di Arrighi si concentra sul divorzio che, nell’ultimo ciclo egemonico, si sarebbe verificato fra capacità militari e capacità finanziarie:
il possesso di un ineguagliabile arsenale militare garantirebbe agli Stati
uniti la possibilità di esercitare una continua pressione sulle potenze
emergenti, per sottrarre loro risorse finanziarie.
Le transizioni egemoniche non sono però processi fluidi e uniformi. In genere, sono accompagnate dall’esplosione dell’anarchia nei rapporti interstatali e dell’instabilità nei rapporti economico-sociali interni e
internazionali, in breve da ciò che Arrighi chiama “caos sistemico”. Le
potenze emergenti si dimostrano così davvero capaci di assumere entro
di sé funzioni egemoniche solo se, oltre a essere in grado di assorbire i
capitali in eccesso della potenza egemonica declinante, si mostrano
anche in grado di domare il caos sistemico. Per farlo, i paesi emergenti
devono essere rispetto alla potenza in declino:
1) più larghi e diversificati geograficamente;
2) più efficienti economicamente e organizzativamente;
3) più capaci di governare, tramite appropriate agenzie, mercato
mondiale e sistema interstatale;
4) più inclusivi socialmente all’interno;
5) più capaci di rappresentare gli interessi sociali generali presenti
nel sistema-mondo, da quelli più direttamente borghesi a quelli delle
forze organizzate del lavoro subalterno.
Sono punti che pur investendo tutti i processi di transizione egemonica, vengono meglio esemplificati dall’ultima delle transizioni verificatesi, quella dalla Gran Bretagna agli Stati uniti. In questo caso, gli Sta-
19
ti uniti hanno offerto al processo accumulativo:
1) un territorio, uno spatial fix per dirla con Harvey, più vasto e
vario, senza perdere il carattere insulare di quello inglese;
2) un modello di impresa, la multinazionale, più profittevole economicamente e più efficiente organizzativamente della manifattura
inglese;
3) un quadro di agenzie di regolazione del mercato e del sistema
interstatale più complesso e stratificato (dall’Fmi all’Onu) di quello
inglese, basato su gold standard e concerto europeo;
4) un patto sociale, il New Deal, più aperto di quello inglese alla
soddisfazione degli interessi dei lavoratori;
5) un New Deal globale, non fondato sul colonialismo e sulla conservazione degli equilibri dati fra i diversi paesi capitalistici, ma capace
di elevare il livello di ricchezza di tutte le classi capitalistiche e di porzioni significative del proletariato mondiale.
Al caos sistemico che accompagna le transizioni egemoniche succede quindi una riorganizzazione sistemica, che è storicamente ogni volta diversa per ciascuna transizione egemonica. Nel caso del passaggio
egemonico fra Gran Bretagna e Stati uniti vi è, per esempio, una differenza storica relativa al rapporto fra egemonia e classi subalterne. Gli
Stati uniti hanno pacificato le loro relazioni sociali interne prima della
loro ascesa egemonica; la Gran Bretagna dopo.
La logica sistemica che soggiace alla sequenza che va dalle cittàStato italiane agli Stati uniti non è priva di una sua necessità: alla crescita
delle sfide ambientali, alla crescente difficoltà di ripristinare ogni volta le
migliori condizioni possibili del processo di accumulazione, si deve
rispondere, da parte delle potenze egemoniche in ascesa, mobilitando
più risorse (territoriali, organizzative ecc.) e maggiori capacità di governo e di regolazione. A essere modificata da questa logica è la stessa visione del capitalismo, ormai costretto a muoversi entro un fitto reticolo di
determinazioni geografiche e storiche.
I MOVIMENTI ANTISISTEMICI
Il capitale in cerca di accumulazione e gli Stati alla ricerca del potere non sono tuttavia gli unici protagonisti sulla scena mondiale. Lo sviluppo del capitale crea i propri antagonisti, un movimento operaio che
dalla “rivoluzione mondiale” del 1848 si è dato strutture organizzative
stabili – sindacati e partiti, sia nella variante socialdemocratica sia nella
20
variante comunista. Analogamente, la gerarchia del sistema-mondo crea
i propri antagonisti nei movimenti di liberazione nazionale e nelle forme
di resistenza al dominio della potenza egemonica – gli imperi coloniali
europei prima, la superpotenza americana poi. Entrambe queste risposte antisistemiche, come si sostiene nel libro Antisystemic movements17,
si sono sviluppate soprattutto entro un orizzonte nazionale con l’obiettivo di conquistare il potere dello Stato.
Questo ha portato a una istituzionalizzazione e burocratizzazione
dei movimenti antisistemici – sia nel caso delle socialdemocrazie occidentali, sia nei paesi del “socialismo reale” e di quelli del Terzo mondo
dopo la decolonizzazione – che li ha allontanati dalle richieste della loro
base sociale, integrandole nell’ordine internazionale definito dall’egemonia degli Stati uniti.
La protesta contro quest’ordine sociale e mondiale è venuta con la
“rivoluzione mondiale” del 1968, destinata ad alimentare ondate successive di mobilitazioni sociali che hanno avuto per protagonisti soggetti
diversi – le categorie più deboli dei lavoratori salariati e gruppi di status
individuati sulla base di identità e condizioni sociali eterogenee, dagli
studenti alle donne, dalle minoranze etniche e religiose agli immigrati
ecc. Il loro obiettivo non è più la presa del potere statale o la costruzione di stabili organizzazioni politiche, ma, da un lato, la soddisfazione di
immediate rivendicazioni “locali” per migliorare le condizioni di vita e
di lavoro e, dall’altro lato, la costruzione di campagne su temi globali
che aprono la via a legami internazionali tra i movimenti. In questo
modo, la sfida che i movimenti pongono al potere del capitale e degli
Stati è destinata ad influenzare l’evoluzione del sistema mondiale, indirizzandone il cambiamento.
L’ULTIMA GRANDE CRISI E L’ASCESA DELLA CINA
Allorché abbiamo parlato del passaggio di Arrighi dal periodo italiano a quello americano, dicevamo che il suo schema di interpretazione
della crisi cambia. La redazione di Lungo XX secolo a questo avrebbe
dovuto servire, a rendere, vale a dire, più chiara la sua nuova lettura della crisi apertasi negli anni Settanta. La sproporzione quantitativa esistente nel libro fra le parti dedicate alla descrizione dei quattro cicli egemonici del capitalismo storico e le parti più determinatamente indirizzate
ad affrontare il nuovo scenario dischiusosi con la crisi dell’egemonia statunitense non deve ingannare: l’obiettivo rimane quello di offrire una
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analisi della crisi più credibile di quelle disponibili nel panorama intellettuale odierno (dalle letture regolazioniste a quelle basate sulla decisività del passaggio dal “capitalismo organizzato” al “capitalismo flessibile”). In parte, è già evidente, dopo quanto abbiamo detto in precedenza,
dove Arrighi è intervenuto per modificare il suo schema originario di
interpretazione: l’ultima crisi, con il suo inevitabile corollario costituito
dal processo di finanziarizzazione, non è che la riproduzione, per limitarci alla penultima transizione egemonica, della Grande depressione
del 1873-1896 che colpì l’egemonia britannica. E tuttavia, le cose sono
ancora più complesse: nel precedente schema veniva adombrata l’idea,
dicevamo più marxista, di una liberazione del capitale dai vincoli che gli
Stati, in virtù del “patto socialdemocratico” stipulato nell’immediato
secondo dopoguerra, gli avevano imposto. Era una posizione, per alcuni
versi, anche più vicina a quella che si è venuta consolidando successivamente in alcune aree del dibattito sulla cosiddetta “globalizzazione”. Ma
Arrighi soprattutto a partire da Lungo XX secolo respinge fermamente
questa posizione: a suo giudizio parlare di “egemonia dei mercati globali” o di “neoliberismo” senza ulteriore specificazione non ha senso alcuno. Perché questo ri-orientamento teorico?
A nostro giudizio la risposta, o almeno parte di essa, sta di nuovo
in Braudel (ripreso su questo punto anche dagli altri sistemici): questi
differenzia nettamente fra mercato e capitalismo sulla base della presenza o meno della concorrenza. Il mercato, poiché è attraversato dalla
concorrenza, è il luogo dei bassi profitti, mentre il capitalismo, poiché è
popolato dai monopoli, è il luogo degli alti profitti. I capitalisti naturalmente, visto che sono marxianamente pervasi dal demone dell’accumulazione, preferiscono installarsi sul terreno capitalistico piuttosto che su
quello del mercato. Ma come vi riescono? Vi riescono stabilendo una
relazione simbiotica con il potere dello Stato, facendosi promuovere da
esso. Ai piani alti del capitalismo, cioè, capitale e Stato sono inestricabilmente connessi. Ma ai piani alti vi è anche, e diremmo soprattutto, la
haute finance. La simbiosi è quindi soprattutto fra capitale finanziario e
Stato.
Per stabilire questa connessione organica fra capitale e Stato, Arrighi ricorre anche a un altro argomento, tratto da Weber: per avviare i
processi di espansione materiale e poi, ancora di più, quelli di espansione finanziaria, occorre vincere la concorrenza per attrarre a sé il capitale
mobile, la liquidità che fluisce a livello mondiale. Ma questa concorrenza è di solito attuata e vinta solo dagli Stati, anzi da Stati che dispongano
di una sufficiente concentrazione di potenza. Anche a questo livello,
22
quindi, pensare il capitale senza lo Stato non è per Arrighi teoricamente
possibile.
Da tutto ciò scaturiscono due conseguenze, una più particolare e
l’altra più generale. La più particolare è relativa alla crisi apertasi negli
anni Settanta: questa non può essere collegata all’“egemonia dei mercati
globali” o al neoliberismo, perché finanziarizzazione e industrializzazione di nuovi paesi (dalle quattro “tigri” asiatiche alla Cina) sono concepibili solo sulla base di una intensa e prolungata attività statale. La più
generale è relativa, invece, al “ciclo sistemico di accumulazione”: poiché
l’espansione, materiale e finanziaria, del capitalismo è inscindibilmente
legata allo Stato, a ricoprire il ruolo di soggetto del ciclo è un blocco
organico e articolato di agenzie governative e imprenditoriali. Su questo
punto, sul necessario impasto di capitale e Stato che governa i cicli di
accumulazione, la distanza da Marx e dal marxismo – anche da un
marxismo, per altri versi, molto vicino alle sue posizioni, come quello di
Harvey – ci sembra molto ampia.
Tutto ciò il lettore può trovarlo più ampiamente svolto in quello
che ci sembra il libro migliore di Arrighi, il già menzionato Lungo XX
secolo (“lungo”, come il XVI secolo in Braudel e Wallerstein, proprio
perché cominciato con la Grande depressione del 1873-1896 e, in fondo, non ancora terminato) e anche nel capitolo 4 di questo volume.
Rimane da fare, all’interno del nostro viaggio interpretativo, un’ultima
fermata, quella relativa ad Adam Smith a Pechino. Qui, dentro uno scenario teorico in cui rifluiscono molti dei temi già trattati nei libri precedenti (l’interpretazione, in un dibattito serrato e appassionante con
Robert Brenner, della crisi apertasi negli anni Settanta, il ciclo sistemico
di accumulazione, il rapporto fra logica territoriale e statuale e logica
capitalistica), appare un nuovo asse problematico: l’interpretazione di
ciò che Kenneth Pomeranz ha chiamato la “grande divergenza”, la divaricazione, dopo la fine del XVIII secolo, dei sentieri di sviluppo fra
Occidente e Cina. È una divaricazione, allo stesso tempo, fra Marx e
Smith, fra uno sviluppo capitalistico trainato dai massicci investimenti
labour-saving e dalle trasformazioni tecnologiche e uno sviluppo di mercato trainato da una rivoluzione industriosa ad alta intensità di lavoro,
fra un percorso “innaturale” di crescita economica, che comincia dal
commercio, passa per l’industria e finisce con l’agricoltura, e un percorso “naturale”, che comincia dall’agricoltura, passa per l’industria e termina con il commercio. Questa divaricazione ha permesso all’Occidente, prima, di recuperare il gap di ricchezza e benessere che ancora lo
23
divideva dalla Cina nel secolo XVIII secolo, e, poi, di superarla, anche
grazie alla superiorità militare garantita dallo sviluppo tecnologico accelerato. Ma l’epoca della “grande divergenza” è ormai finita: il Partito
comunista cinese, quasi ispirandosi alle raccomandazioni di Adam
Smith (donde il titolo del libro), ha sapientemente puntato su un efficace mix di “buona” concorrenza intercapitalistica, promozione della divisione sociale e non tecnica del lavoro, investimento nelle tecnologie capital-saving, valorizzazione di nuovi modelli di impresa (le cosiddette
“imprese di municipalità e di villaggio”), governo “centralizzato” degli
strumenti creditizi e monetari, che ormai quasi consente alla Cina di
attestarsi sui livelli di ricchezza occidentali. Chiusa la “grande divergenza” che cosa ne seguirà? Un caos sistemico generalizzato, una nuova
transizione egemonica, con la Cina a prendere il posto degli Stati uniti,
o la realizzazione dell’“utopia” smithiana, un riequilibrio, cementato dal
mercato, di potere e ricchezza fra tutte le aree in cui il mondo è diviso?
La risposta è per Arrighi aperta, e affidata al libero corso degli avvenimenti.
Uno dei meriti più duraturi di Arrighi, e della scuola sistemica nel
suo complesso, è quello di aver scompaginato le frontiere disciplinari
che si sono fissate nelle scienze storico-sociali: la divisione fra scienze
nomotetiche (sociologia, economia) e idiografiche (storia) non ha alcun
fondamento. Peraltro, Arrighi questo lo ha affermato fin da Sviluppo
economico e sovrastrutture in Africa, dove si protesta energicamente contro la tendenza dell’economia neoclassica a separare rigidamente il “fatto” economico dalla storia e dalla società. Il capitalismo è un oggetto
complesso, per comprendere il quale occorre guadagnare profondità
storica, affinare lo sguardo sociologico e saper utilizzare il metro geografico. È anche da qui che derivano gli altri meriti della ricerca di Arrighi:
l’aver indagato le dinamiche globali prima della globalizzazione, l’aver
capito la centralità del processo di finanziarizzazione, l’aver intuito
l’importanza del nesso fra capitale e potere statale dentro i cicli mondiali
di accumulazione. E tuttavia non sono pochi neanche i punti in cui Arrighi pare non riuscire pienamente persuasivo: la sottovalutazione, che
tocca il suo picco proprio in Adam Smith a Pechino, della “rivoluzione
industriale”, l’indeterminatezza in cui è avvolto il nesso fra produzione
della ricchezza e finanza, l’indebita “spazializzazione”, nel ciclo sistemico di accumulazione, del rapporto fra primo e secondo segmento del
ciclo (fra D-M, produzione e commercio, e M-D’, la finanza), un nesso
fra capitale e forma-Stato che lascia scoperto il piano delle forme di
24
governo o auto-governo della società (che nesso vi è, cioè, fra cicli sistemici di accumulazione e politica democratica e non?), la scarsa attenzione per una sfida globale come quella ecologica (appena riscattata dalle
pagine finali di Adam Smith a Pechino), un legame fra necessità delle
riorganizzazioni sistemiche e contingenza della storia che è contingente
anch’esso (è un elemento, questo, su cui non a caso anche Harvey insiste nell’intervista ad Arrighi). È anche su questi punti che la discussione
deve proseguire.
I SAGGI DEL VOLUME
Qualche parola, infine, sui saggi qui proposti. Ciascuno di essi
integra tematicamente, da una diversa prospettiva, il materiale testuale
di Arrighi già disponibile sul mercato editoriale. Dell’intervista ad Harvey si è detto, e non vi ritorneremo sopra. Il secondo saggio, Secolo
marxista, secolo americano. La formazione del movimento operaio nel
mondo, si occupa, invece, di una questione di cui Arrighi si era ripromesso di parlare in Lungo XX secolo e che invece non riuscì, da ultimo,
a introdurre nel libro: la storia del movimento operaio novecentesco letta alla luce della teoria sistemica. Il saggio è, infatti, incardinato attorno
alla polarità fra riformismo socialdemocratico bernsteiniano (il modello
vincente di movimento operaio nei paesi del centro) e leninismo (il
modello vincente di movimento operaio nei paesi della periferia). In
chiusura, ci si diffonde sulle possibilità del movimento operaio nel futuro: queste sono del tutto affidate alla costruzione di quei “movimenti
antisistemici” su cui ci siamo trattenuti poco sopra.
Nel terzo saggio, Le disuguaglianze mondiali, Arrighi invece riflette, sempre in modo sistemico, sulla questione delle disuguaglianze mondiali. Il risultato teorico principale del saggio è duplice: all’affermazione
della chiusura, nel secondo dopoguerra, del differenziale di reddito fra i
paesi europei e quelli del Nord America – quindi fra i paesi del centro –
si contrappone la constatazione del mantenimento del differenziale pregresso di reddito fra i paesi del centro e quelli della periferia (ex blocco
sovietico e paesi del Sud del mondo). In chiusura, la riflessione si concentra sulle potenzialità del socialismo in un tale contesto. Va detto che
le conclusioni analitiche del testo, come registrato anche da Harvey
nell’intervista, andrebbero aggiornate, vista la crescita del reddito nei
paesi del Sud-est asiatico. Ma Arrighi è rimasto fino all’ultimo convinto
della loro bontà: grazie, in particolare, alla Cina si sono ridotte le spere-
25
quazioni internazionali di reddito, ma grazie alla Cina è anche aumentato il tasso di disuguaglianza all’interno degli Stati.
Il quarto saggio, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, è una limpida
e riuscita sistematizzazione delle tesi sostenute da Arrighi in Lungo XX
secolo e dallo stesso insieme a Beverly Silver in Caos e governo del mondo. Importa qui soprattutto sottolineare come in questo saggio Arrighi e
Silver insistano sul carattere effimero della New Economy e della politica
estera “unilateralista” inaugurata dagli Stati uniti all’alba degli anni
Duemila. Nel poscritto, allegato a questo testo, Arrighi e Silver confermano, a cinque anni di distanza, la validità delle proposizioni analitiche
del loro saggio.
Nel quinto e ultimo saggio, Dopo il neoliberismo. Il nuovo ruolo del
Sud del mondo, qui pubblicato in contemporanea con la versione inglese, si avvalorano le possibilità, con l’inasprirsi della crisi delle politiche
neoliberiste dettate dal centro e l’assestamento della crescita cinese, che
sorga una nuova Bandung, un nuovo patto fra i paesi che una volta venivano chiamati “in via di sviluppo”. Una Bandung tuttavia diversa dalla
prima, quella nata negli anni Cinquanta e subito dopo fallita, perché
fondata non su una solidarietà di tipo puramente politico, ma sulla più
solida roccia della progressiva convergenza, fra i paesi del Sud del mondo, dei rispettivi interessi economici.
NOTE
*
Ringrazio Mario Pianta per gli utili commenti ad una precedente versione del
testo. Naturalmente l’intera responsabilità di quanto scritto rimane mia.
1
Ha insistito giustamente su questo punto TOM REIFER, Capital’s Cartographer.
Giovanni Arrighi: 1937-2009, in “New Left Review”, 60 (2009), p. 119.
2
Il board della “New Left Review” ha definito Arrighi come “one of the finest
lights of the period through which we lived”.
3
LIAM CAMPLING, Editorial Introduction to the Symposium on Giovanni Arrighi’s
Adam Smith in Beijing, in “Historical Materialism”, 18 (2010), p. 32.
26
4
Pubblicato prima, in italiano, nel 1972-1973 su “Rassegna comunista”, 2, 3, 4 e
7 (1972-3) e poi, in inglese, sulla “New Left Review”, 111 (Sept-Oct 1978). È stato
ripubblicato anche in GIOVANNI ARRIGHI et al., Dinamiche della crisi globale, a cura di
R. Parboni, Editori Riuniti, Roma 1988, pp. 85-113.
5
Adam Smith in Beijing. Lineages of the Twenty-First Century, Verso, LondonNew York 2007; tr. it., Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano 2008.
6
The Long Twentieth Century. Money, Power, and the Origins of Our Times,
Verso, London-New York 1994; tr. it., Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del
nostro tempo, il Saggiatore, Milano 1996.
7
Pubblicato nel 1978, in contemporanea, per Feltrinelli e New Left Books.
8
Cfr. Review di GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY SILVER ET AL., Chaos and Governance in the Modern World System, in “New Left Review”, 13 (2002), pp. 140-141.
9
Cfr. Contemporary Economic Stagnation in World Historical Perspective, in
“New Left Review”, 219 (1996), pp. 114-116. Arrighi ha risposto a Pollin in Financial
Expansions in World Historical Perspective. A Reply to Robert Pollin, in “New Left
Review”, 224 (1997), pp. 154-159.
10
Cfr. Karl Marx between Two Worlds: The Antinomies of Giovanni Arrighi’s
Adam Smith in Beijing, in “Historical Materialism”, 18 (2010), p. 61.
11
A crisis of hegemony è stato pubblicato in edizione originale in S. AMIN ET AL.,
Dynamics of global crisis, MacMillan, London 1982, pp. 11-54 e in italiano in Giovanni
Arrighi et al., Dinamiche della crisi globale, cit., pp. 153-201.
12
La relazione di Arrighi con Gramsci è, in verità, ancora più complessa e meriterebbe un’indagine a parte. Nell’intervista ad Harvey sono rievocate le circostanze biografiche del suo interesse per Gramsci: l’amicizia con Romano Madera, uno dei pochi
quadri “gramsciani” della sinistra extraparlamentare italiana degli anni Settanta – in
generale, come è noto, poco incline a farsi affascinare dall’elaborazione teorica del pensatore dei Quaderni –, la costituzione del Gruppo Gramsci, la valorizzazione nella battaglia sociale e politica di quegli anni dei concetti di “autonomia”, “intellettuale organico” ecc.
13
Cfr. GIOVANNI ARRIGHI, “Imperialismo”, in Enciclopedia, Einaudi, Torino
1979, vol. VII, pp. 161-174.
14
Wallerstein ha invece la tendenza a parlare di tre cicli egemonici (olandese, britannico, statunitense). Si tratta di una differenza importante anche se non essenziale per
il discorso che stiamo conducendo: Arrighi è dell’idea che il capitalismo sia nato nel
contesto delle città-Stato italiane del XIV e XV secolo e non in corrispondenza della
più tarda epoca delle scoperte geografiche.
15
IMMANUEL WALLERSTEIN, Alla scoperta del sistema mondo, Manifestolibri, Roma
2003, p. 284.
16
Ed. originale: GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET AL., Chaos and Governance in the Modern World System, University of Minnesota Press, Minneapolis 1999;
tr. it., Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari,
Bruno Mondadori, Milano 2003.
17
Pubblicato per Verso nel 1989 da Arrighi insieme a Terence Hopkins e Immanuel Wallerstein e tradotto in Italia, con lo stesso titolo, tre anni più tardi da Manifestolibri.
27
Capitolo 1
I tortuosi sentieri del capitale.
Intervista con David Harvey*
Ci potresti parlare delle tue origini familiari e della tua formazione
culturale?
Sono nato a Milano nel 1937. Per parte di madre la mia famiglia
era di origini borghesi. Mio nonno, figlio di svizzeri emigrati in Italia,
era partito da un livello di aristocrazia operaia fino a diventare lui stesso
industriale nei primi anni del XX secolo. Produceva macchine per il settore tessile e in seguito apparecchiature per il riscaldamento e condizionatori. Mio padre era toscano, figlio di un ferroviere. Era venuto a Milano e aveva trovato lavoro nella fabbrica del mio nonno materno, finendo poi per sposare la figlia del proprietario. In seguito vi furono tensioni
che portarono mio padre a fondare una propria impresa in concorrenza
con quella del suocero. Erano entrambi antifascisti, il che ebbe grande
influenza sulla mia prima infanzia che fu dominata dalla guerra,
dall’occupazione nazista dell’Italia settentrionale dopo la resa di Roma
nel 1943, la Resistenza e l’arrivo degli Alleati.
Mio padre morì in un incidente d’auto quando avevo 18 anni.
Decisi allora di portare avanti la sua azienda, benché mio nonno mi consigliasse il contrario, così entrai all’Università Bocconi come studente di
economia nella speranza che ciò mi aiutasse a capire come gestire la fabbrica. La Facoltà di Economia era un caposaldo di indirizzo neoclassico,
neppure minimamente sfiorato dalla teoria keynesiana e non mi fu di
nessun aiuto nella gestione dell’impresa paterna. Alla fine mi resi conto
che dovevo chiuderla. Trascorsi due anni in una delle fabbriche di mio
nonno raccogliendo dati sull’organizzazione della produzione. Quello
studio mi convinse che l’elegante equilibrio generale dei modelli neoclassici non serviva affatto per capire la produzione e distribuzione del
reddito. Questo fu l’argomento della mia tesi di laurea. Mi fu poi assegnato un incarico come assistente volontario, cioè non pagato, che allora
in Italia era il primo gradino della carriera universitaria. Per vivere trovai
un impiego alla Unilever come apprendista manager.
29
Perché nel 1963 ti recasti in Africa a lavorare presso l’University College di Rhodesia e Nyasaland?
La ragione è semplice. Venni a sapere che le università britanniche
pagavano chi insegnava e faceva ricerca, contrariamente a quanto avveniva in Italia, dove l’assistente volontario doveva lavorare senza stipendio per quattro o cinque anni prima di poter sperare in una retribuzione. All’inizio degli anni Sessanta gli inglesi fondavano sedi universitarie
in tutti i territori dell’ex-impero come sedi distaccate delle università
della madrepatria. L’UCRN dipendeva dall’Università di Londra. Avevo
fatto domanda per due sedi, una in Rhodesia e l’altra a Singapore. Mi
chiamarono a Londra per un colloquio, mi offrirono una cattedra di
economia e io accettai.
Fu una vera rinascita intellettuale. La tradizione neoclassica basata
su modelli matematici a cui ero abituato non aveva nulla da dire su ciò
che trovavo in Rhodesia o sulla realtà della vita africana. All’UCRN mi
trovavo a fianco di antropologi sociali, come Clyde Mitchell che stava
già lavorando sull’analisi delle reti e Jaap Van Velsen, che stava introducendo l’analisi situazionale, in seguito ridefinita come analisi estesa dei
casi-studio. Seguivo regolarmente i seminari di entrambi e ne fui fortemente influenzato. Abbandonai gradualmente i modelli astratti per
l’antropologia sociale che si basava su teorie di carattere empirico e storico. Cominciò così la mia lunga marcia dall’economia neoclassica verso
la sociologia storico-comparativa.
Questo era il contesto del tuo saggio del 1966, Struttura di classe e
sovrastrutture in Rhodesia, che analizzava le modalità di sviluppo della
classe capitalistica in quel territorio e delle sue specifiche contraddizioni,
spiegando le dinamiche che avevano portato alla vittoria del Partito del
Fronte Rhodesiano degli ex-coloni nel 1962 e alla Dichiarazione di indipendenza unilaterale di Smith nel 1965. Quale fu lo stimolo da cui nacque
quel saggio, quanto fu importante per te, considerandolo oggi?
Quel saggio fu scritto grazie ai consigli di Van Velsen, che era
estremamente critico sui miei modelli matematici. Avevo scritto una
recensione del libro di Colin Leys, European Politics in Southern Rhodesia, e Van Velsen mi consigliò di ampliarla fino a farne un articolo. Qui,
e in L’offerta di lavoro in una prospettiva storica, analizzavo le modalità in
cui la completa proletarizzazione dei contadini rhodesiani avesse creato
delle contraddizioni all’accumulazione capitalistica, finendo per creare
30
più problemi che vantaggi al settore capitalistico1. Fintanto che la proletarizzazione era stata parziale aveva creato delle condizioni in cui i contadini sussidiavano l’accumulazione capitalistica, poiché essi producevano parte dei loro mezzi di sussistenza, ma quanto più i contadini diventavano proletari, tanto più il meccanismo cominciava a non funzionare.
I lavoratori totalmente proletarizzati potevano essere sfruttati solo se
ricevevano un salario che consentisse loro di vivere. Così, invece di facilitare lo sfruttamento, la proletarizzazione lo rendeva più difficile da
attuare e spesso richiedeva che il regime divenisse più repressivo. Martin Legassick e Harold Wolpe, ad esempio, sostenevano che in Sudafrica l’apartheid fosse dovuta principalmente alla necessità di una maggiore
repressione della forza lavoro, poiché essa aveva subito un processo di
completa proletarizzazione e non poteva più sussidiare l’accumulazione
di capitale com’era avvenuto in precedenza. L’intera regione sudafricana
che andava dal Sudafrica al Botswana, passando per l’ex Rhodesia, il
Mozambico, il Malawi che a quel tempo si chiamava Nyasaland, fino al
Kenya come estremità nord orientale, era caratterizzata da giacimenti
minerari, da un’agricoltura stanziale e da un’estrema povertà dei contadini. È molto diversa dal resto dell’Africa, compreso il nord. L’economia
dei paesi dell’Africa occidentale era sostanzialmente agricola. Ma la
regione meridionale – quella che Samir Amin ha chiamato “l’Africa delle riserve di lavoro” – sotto molti aspetti rappresentava un paradigma di
estrema spoliazione dei contadini, quindi di proletarizzazione. Molti di
noi sostenevano che tale processo di espropriazione estrema era contraddittorio. All’inizio aveva creato delle condizioni in cui i contadini
sussidiavano l’agricoltura capitalistica, lo sfruttamento minerario, la produzione manifatturiera e così via. Ma aveva provocato sempre maggiori
difficoltà per lo sfruttamento, lo spostamento e il controllo di quel proletariato che si veniva creando. Il lavoro a cui allora ci dedicavamo – il
mio L’offerta di lavoro in una prospettiva storica e i lavori ad esso correlati di Legassick e Wolpe – portò alla definizione di quello che venne
chiamato il paradigma dell’Africa meridionale sui limiti della proletarizzazione e dell’espropriazione.
Diversamente da coloro che tuttora identificano lo sviluppo capitalistico con la proletarizzazione tout court – come Robert Brenner, ad
esempio – l’esperienza dell’Africa meridionale dimostrava come la proletarizzazione di per sé non favorisca lo sviluppo capitalistico – ben altre
condizioni sono necessarie. Quanto alla Rhodesia, individuai tre fasi nel
processo di proletarizzazione, una sola delle quali favoriva l’accumulazione capitalistica. In una prima fase i contadini avevano reagito allo svi-
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luppo capitalistico delle campagne fornendo prodotti agricoli e avrebbero fornito forza lavoro solo in cambio di alti salari. Tutta l’area fu
caratterizzata da scarsità di mano d’opera perché il diffondersi dell’agricoltura capitalistica o dello sfruttamento minerario creava una domanda
di prodotti locali che i contadini africani furono rapidamente in grado
di soddisfare; essi partecipavano all’economia monetaria vendendo prodotti invece che mano d’opera. Uno degli scopi dell’aiuto statale all’agricoltura dei coloni era quello di creare concorrenza per i contadini africani, per far sì che fossero costretti a vendere mano d’opera invece che
prodotti. Ciò condusse a un lungo processo che andò da una proletarizzazione parziale a una completa, il che, come ho già detto, rappresentava tuttavia un processo contraddittorio. Il problema del modello semplificato “proletarizzazione come modello di sviluppo capitalistico” sta nel
fatto che esso ignora non solamente le realtà del capitalismo dei coloni
dell’Africa meridionale, ma anche quella di molti altri casi, come gli Stati uniti stessi, dove il modello fu del tutto diverso – una combinazione di
schiavitù, genocidio dei nativi e immigrazione di mano d’opera eccedente dall’Europa.
Sei stato uno dei nove docenti arrestati per attività politica durante la
repressione del giugno 1966 sotto il governo Smith, vero?
Sì, ci tennero in prigione per una settimana e poi fummo espulsi.
Sei poi andato a Dar es Salaam, che a quel tempo sembrava essere un
paradiso di scambi intellettuali. Parlaci di quel periodo e della tua collaborazione con John Saul.
Furono giorni entusiasmanti, sia dal punto di vista intellettuale che
politico. Quando giunsi a Dar es Salaam nel 1966 la Tanzania aveva
conquistato l’indipendenza da pochi anni. Nyerere favoriva una forma
di socialismo di tipo africano. Nel periodo della rottura tra Cina e Urss
manteneva una posizione equidistante e intratteneva ottimi rapporti con
i paesi scandinavi. Dar es Salaam divenne l’avamposto di tutti movimenti di liberazione nazionale dell’Africa meridionale, dalle colonie portoghesi alla Rhodesia, al Sudafrica. Rimasi tre anni all’università e feci
incontri di ogni tipo: attivisti del Black Power statunitense, studiosi e
intellettuali come Immanuel Wallerstein, David Apter, Walter Rodney,
Roger Murray, Sol Picciotto, Catherine Hoskins, Jim Mellon, che fu poi
uno dei fondatori dei Weathermen, Luisa Passerini che lavorava a una
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ricerca sul Frelimo e molti altri, tra cui, naturalmente, John Saul.
Lavorando con John Saul a Dar es Salaam spostai i miei interessi
dal reclutamento di mano d’opera ai movimenti di liberazione nazionale
e ai nuovi regimi emergenti dalla decolonizzazione. Eravamo scettici sulla capacità di quei regimi di emanciparsi da quello che cominciava ad
essere definito come neocolonialismo e di mantenere le promesse di sviluppo economico. Ma tra di noi c’era una differenza che credo permanga tuttora: la cosa mi sconcertava assai meno di quanto non accadesse a
lui. Per me quelli erano movimenti di liberazione nazionale e non movimenti di carattere socialista, anche quando adottavano la retorica socialista. Si trattava di regimi populisti, perciò non mi aspettavo molto al di
là della liberazione nazionale, che ambedue consideravamo di per sé
molto importante. Ma se, al di là di quello, vi fossero possibilità di sviluppo di tipo politico rimase un motivo di contrasto tra di noi su cui
scherziamo ancor oggi quando ci incontriamo. Tuttavia i saggi che scrivemmo insieme erano pienamente condivisi.
Al tuo ritorno in Europa il mondo che hai trovato era molto diverso
da quello che avevi lasciato sei anni prima?
Sì. Tornai in Italia nel 1969 e mi trovai subito immerso in due
situazioni. Una fu all’Università di Trento, dove mi venne offerto un
posto di professore associato. Trento era allora il centro della militanza
studentesca, oltre a essere l’unica Università italiana a rilasciare la laurea
in Sociologia. La mia nomina era sostenuta dal Comitato organizzatore
dell’Università, tra cui Nino Andreatta, democristiano, il liberalsocialista
Norberto Bobbio e Francesco Alberoni: era un tentativo di domare il
movimento degli studenti reclutando un estremista. Al mio primo seminario avevo solo quattro o cinque studenti, ma nel semestre autunnale,
dopo la pubblicazione del mio libro sull’Africa nell’estate del 1969, alle
mie lezioni c’erano quasi mille studenti2. Il mio corso divenne un grande
evento e spaccò persino Lotta continua: la corrente di Boato voleva che
gli studenti frequentassero le mie lezioni per sentire una critica di tipo
radicale alle teorie sullo sviluppo, mentre i seguaci di Rostagno cercavano di disturbare lanciando sassi nell’aula dal cortile.
La seconda situazione fu a Torino, tramite Luisa Passerini, importante divulgatrice degli scritti situazionisti, e con una notevole influenza
su molti dei quadri di Lotta continua, anch’essi attratti allora dal Situazionismo. Mi spostavo da Trento a Torino, passando per Milano – dal
centro del movimento studentesco al centro del movimento dei lavora-
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tori. Mi sentivo attratto da questo movimento e allo stesso tempo mi
preoccupava il suo rifiuto della “politica”. A volte nelle assemblee vi
erano militanti operai che si alzavano per dire: “Basta con la politica. La
politica ci porta nella direzione sbagliata. Ciò che serve è essere uniti”.
Per me fu un trauma notevole arrivare dall’Africa e scoprire che i sindacati comunisti erano considerati reazionari e repressivi dai lavoratori in
lotta e che in questo vi era un considerevole elemento di verità. La reazione contro i sindacati del Pci si trasformò in una reazione contro tutti
i sindacati. Potere operaio e Lotta continua si proponevano come alternativa sia ai sindacati che ai partiti di massa. Insieme a Romano Madera, che era ancora studente, ma anche quadro politico di indirizzo
gramsciano – una rarità all’interno della sinistra extraparlamentare –
cominciammo a pensare a una strategia di carattere gramsciano per il
movimento.
Fu così che emerse per la prima volta l’idea di autonomia – di
autonomia intellettuale della classe operaia. Oggi essa viene solitamente
attribuita ad Antonio Negri, ma in realtà era nata dall’interpretazione di
Gramsci da noi elaborata nei primi anni Settanta nel Gruppo Gramsci,
fondato da Madera, da Passerini e da me. Consideravamo che il nostro
principale contributo al movimento non fosse fornire un sostituto di sindacati o partiti, ma un aiuto offerto alle avanguardie dei lavoratori da
parte di studenti e intellettuali perché sviluppassero la loro autonomia –
autonomia operaia – attraverso la comprensione dei processi più ampi a
livello nazionale e globale all’interno dei quali si attuava la loro lotta. In
termini gramsciani questo significava formare gli intellettuali organici
della classe operaia in lotta. A questo scopo costituimmo i “Collettivi
politici operai” noti come “area dell’autonomia”. Man mano che si sviluppava la loro pratica autonoma, il Gruppo Gramsci avrebbe esaurito
il suo ruolo e avrebbe potuto sciogliersi. Quando il gruppo di fatto si
sciolse nell’autunno del 1973, entrò in scena Negri e trascinò i “Collettivi politici operai” e l’“area dell’autonomia” in una direzione avventuristica molto lontana da quanto si era inteso all’inizio.
C’era qualcosa secondo te che accomunava le lotte di liberazione africane e quelle della classe operaia italiana?
Ciò che le accomunava erano gli ottimi rapporti che avevo con
movimenti più ampi. Volevano sapere su quale base partecipassi alla
loro lotta. La mia posizione era la seguente: “Non intendo dirvi che cosa
fare, dato che voi conoscete la vostra situazione molto meglio di me. Ma
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ho maggiori possibilità di comprendere il contesto più ampio entro il
quale si sviluppa la lotta. Così il nostro rapporto deve basarsi sul fatto
che voi mi riferite della vostra situazione e io vi dico come si collega nei
confronti del contesto più ampio che voi non potete conoscere, o che,
da dove vi trovate, potete vedere in modo parziale”. Su questa base vi
furono sempre ottimi rapporti sia con i movimenti di liberazione
dell’Africa meridionale che con i lavoratori italiani.
Gli articoli del 1972 sulla crisi del capitalismo si fondavano su
scambi di questo tipo3. Ai lavoratori veniva detto: “c’è la crisi economica, dobbiamo starcene tranquilli. Se continuiamo le lotte, la fabbrica
verrà portata altrove”. Così i lavoratori ci chiedevano: “Siamo in crisi? E
quali sono le conseguenze? Dobbiamo starcene buoni solo per questo?”. Gli articoli che comprendevano Verso una teoria della crisi capitalistica vennero concepiti all’interno di questa problematica, definita dai
lavoratori stessi, che dicevano: “Dicci che cosa sta accadendo nel mondo esterno e che cosa ci dobbiamo aspettare”. Il punto di partenza
dell’articolo era: “Le crisi hanno luogo sia che voi lottiate o no – non
sono effetto della militanza operaia, o di “errori” nella gestione manageriale, ma sono alla base dell’accumulazione capitalistica stessa”. Quello
era l’orientamento di partenza. Scrivevo agli inizi della crisi, prima che
se ne riconoscesse l’esistenza. Divenne importante come schema di riferimento e mi è servito per monitorare negli anni quanto stava avvenendo. E ha funzionato abbastanza bene.
Torneremo ancora sulla teoria delle crisi capitalistiche, ma prima
volevo chiederti del tuo lavoro in Calabria. Nel 1973, proprio nel momento in cui cominciava il riflusso del movimento, accettasti una cattedra a
Cosenza, vero?
Uno dei motivi del mio interesse per l’Università di Calabria era
quello di proseguire la mia ricerca sul reclutamento della forza lavoro in
una nuova sede. In Rhodesia avevo avuto modo di constatare come, nel
momento in cui gli africani avevano raggiunto una completa proletarizzazione, ovvero, per essere più precisi, quando se ne erano resi conto,
avevano iniziato a lottare per ottenere un salario che permettesse loro di
vivere nelle aree urbane. In altri termini, la storia secondo cui “siamo
scapoli, i membri delle nostre famiglie continuano a vivere in campagna
da contadini” non regge più quando si deve vivere in città. Era quanto
dicevo in L’offerta di lavoro in una prospettiva storica. Ciò divenne ancora più chiaro in Italia poiché c’era un problema: negli anni Cinquanta e
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nei primi Sessanta i migranti provenienti dal sud venivano portati nelle
regioni industriali del nord e facevano i crumiri. Ma alla fine degli anni
Sessanta essi si trasformarono in avanguardie della lotta di classe, il che
è tipico dei migranti. Quando riuscii a costituire un gruppo di ricercatori in Calabria, feci loro leggere gli antropologi sociali che si erano occupati dell’Africa e in particolare di migranti, dopo di che analizzammo la
mano d’opera di origine calabrese. Le domande erano: che cosa aveva
creato le condizioni per quella migrazione? E quali erano i suoi limiti –
posto che, a un certo punto, invece di creare una mano d’opera docile
da usare per ridurre il potere contrattuale della classe operaia del nord,
anche i migranti diventavano avanguardie di lotta?
Da quella ricerca emersero due cose. Primo, lo sviluppo capitalistico non ha necessariamente bisogno della completa proletarizzazione.
D’altro canto, le migrazioni da luoghi lontani non provenivano da territori dove aveva luogo un’espropriazione, ai migranti era persino possibile acquistare terreni dai proprietari. Ciò avveniva grazie al sistema di
primogenitura, per il quale solo il figlio maggiore ereditava la terra. Per
tradizione, i figli cadetti finivano negli ordini religiosi o nell’esercito, finché le migrazioni verso paesi lontani non offrirono un’importante alternativa per guadagnare il necessario per l’acquisto di terreni nel paese
d’origine e avere una propria impresa agricola. In zone di grande
povertà, viceversa, dove il lavoro era interamente proletarizzato, non ci
si poteva permettere di emigrare. L’unico modo per farlo fu, per esempio, quando in Brasile fu abolita la schiavitù nel 1888 e vi era bisogno di
sostituirla con mano d’opera a basso salario. Reclutarono lavoratori dalle aree più povere dell’Italia meridionale, pagarono loro il viaggio e li
resero stanziali in Brasile per sostituire gli schiavi emancipati. Queste
sono forme diverse di migrazione, ma generalmente non sono i più
poveri ad emigrare, è necessario avere mezzi e agganci per farlo.
Il secondo risultato della ricerca calabrese aveva delle affinità con la
ricerca condotta in Africa. Anche qui la disponibilità alla lotta di classe nei
luoghi in cui si erano trasferiti dipendeva dal fatto che considerassero la
condizione in cui si trovavano una soluzione di vita permanente oppure no.
Non è sufficiente dire che è la situazione del luogo di insediamento
a determinare i salari e le condizioni di lavoro. Si deve dire qual è il limite oltre il quale i migranti percepiscono che il loro sostentamento proviene dal lavoro salariato – questo è il punto focale da individuare e
monitorare. Ciò che emergeva, tuttavia, era soprattutto una critica
diversa dell’idea di proletarizzazione come processo tipico dello sviluppo capitalistico.
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La prima stesura di quella ricerca ti fu rubata dall’auto a Roma, perciò la versione finale fu redatta negli Stati uniti, molti anni dopo il tuo trasferimento a Binghamton nel 1979, dove si sviluppava l’analisi del sistema-mondo. Era la prima volta che affrontavi apertamente il confronto con
Wallerstein e Brenner sul rapporto tra proletarizzazione e sviluppo capitalistico?
Sì, anche se non lo feci in modo sufficientemente esplicito, pur
citando en passant sia Wallerstein che Brenner. Il saggio è nel complesso, infatti, una critica ad entrambi4. Wallerstein sostiene la teoria secondo cui i rapporti di produzione sono determinati da come essi si pongono all’interno di una struttura centro-periferia. A suo parere nella periferia si tende ad avere rapporti di lavoro coercitivi, non si ha una proletarizzazione completa, come invece si raggiunge nel centro. Sotto certi
punti di vista Brenner pensa il contrario, ma per altri rispetti le loro teorie sono simili: sono i rapporti di lavoro a determinare la posizione nella
struttura centro-periferia. In entrambi c’è un legame diretto tra struttura
centro-periferia e i rapporti di produzione. La ricerca calabrese dimostrò che ciò era falso. All’interno della situazione periferica noi individuammo tre diversi percorsi che si sviluppavano contemporaneamente
e che si rafforzavano a vicenda. Per di più, i tre percorsi mostravano
notevoli affinità con gli sviluppi che storicamente caratterizzavano situazioni del centro di tipo diverso. Uno di essi è molto simile al modello
“Junker” di Lenin – il latifondo con una completa proletarizzazione; un
altro assomigliava al percorso “americano” di Lenin, con fattorie medie
e piccole fortemente inserite nel mercato. Lenin non ha un terzo percorso, quello che noi chiamammo “svizzero”: migrazioni verso paesi lontani e successivamente investimento e acquisizione di proprietà nella terra
d’origine. In Svizzera non vi è l’espropriazione dei contadini, ma una
tradizione migratoria che ha portato al consolidarsi di piccoli agricoltori. Per quanto riguarda la Calabria è interessante notare che i tre percorsi, che altrove si collocano in posizioni del centro, si trovano invece alla
periferia – il che costituisce una critica sia del processo unico di proletarizzazione di Brenner sia del tentativo di legare i rapporti di produzione
alla posizione geografica, come teorizzato da Wallerstein.
La tua Geometria dell’imperialismo uscì nel 1978, prima che tu
andassi negli Usa. Nel rileggerlo mi ha colpito la metafora di tipo matematico – la geometria – a cui fai ricorso per spiegare la teoria imperialista di
Hobson – che risulta utilissima. Ma al suo interno c’è una questione geo-
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grafica molto utile: mettendo insieme Hobson e il capitalismo, all’improvviso tu fai emergere la categoria dell’egemonia come spostamento dalla
geometria alla geografia. Qual è stato lo stimolo iniziale che ti ha indotto a
scrivere Geometria e quale importanza ha per te?
dovetti estrapolare questa idea e coniugarla con quanto venivo apprendendo da Pursuit of power di William McNeill, il quale a sua volta
sostiene, da un altro punto di vista, che il sistema delle città-Stato precedette e preparò l’affermarsi di un sistema di Stati territoriali.
A quel tempo mi infastidiva la confusione terminologica sul termine “imperialismo”. Il mio intento era di dissipare un po’ di quella confusione creando uno spazio topologico in cui si potessero distinguere
l’uno dall’altro i differenti concetti riferiti all’imperialismo su cui spesso
sorgeva confusione. Ma come esercizio sull’imperialismo, per me funzionò anche come transizione verso la categoria di egemonia. Lo dissi
esplicitamente nella postfazione alla seconda edizione, quella del 1983,
dove asserivo che la categoria gramsciana di egemonia poteva essere più
utile che quella di “imperialismo” nell’analisi delle dinamiche contemporanee tra gli Stati. Da questo punto di vista ciò che io e altri facemmo
fu semplicemente riapplicare la categoria gramsciana di egemonia
all’ambito delle relazioni tra gli Stati, in cui era originariamente collocata
prima che Gramsci l’applicasse a un’analisi dei rapporti di classe
all’interno di uno Stato. Così facendo, ovviamente, Gramsci arricchì il
concetto sotto molti aspetti che in precedenza non erano visibili. Il passaggio alla sfera internazionale fu favorito da questo arricchimento.
Un’altra idea, alla quale attribuisci maggiore profondità teorica, ma
che deriva comunque da Braudel, è il concetto secondo cui l’espansione
finanziaria annuncia l’autunno di un sistema egemonico e precede il passaggio a una nuova egemonia. Si direbbe che questo è un punto chiave de
Il lungo XX secolo.
Un riferimento fondamentale per il tuo saggio Il lungo XX secolo, pubblicato nel 1994, è rappresentato da Braudel. Dopo averne assimilato il pensiero, ora ti senti di muovergli qualche obiezione?
L’obiezione è abbastanza facile. Braudel rappresenta una fonte
d’informazione ricchissima sul tema dei mercati e del capitalismo, ma
manca di un quadro teorico. O meglio, come ebbe a dire Charles Tilly, è
talmente eclettico da avere innumerevoli teorie parziali la cui somma è
nessuna teoria. Non ci si può basare solo su Braudel, bisogna avvicinarsi
a lui avendo bene in mente cosa si vuole cercare e si vuole trarre da lui.
Un tema su cui mi sono concentrato e che distingue Braudel da Wallerstein e dagli altri analisti del sistema-mondo, per non dire degli storici
dell’economia di impostazione tradizionale, marxisti o altro – è l’idea
che il sistema degli Stati-nazione come emerse nei secoli XVI e XVII, fu
preceduto da un sistema di città-Stato e che le origini del capitalismo è
là che vanno cercate, nelle città-Stato. Questo distingue l’Occidente,
ovvero l’Europa, dalle altre parti del mondo. Ma se si segue Braudel ci si
perde, dato che si viene portati in molte direzioni diverse. Ad esempio,
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Sì. L’idea era che l’organizzazione capitalistica dominante di una
certa epoca sia anche dominante nell’espansione finanziaria, che ha luogo quando l’espansione materiale delle forze produttive raggiunge il
limite. La logica di questo processo – sebbene ancora una volta Braudel
non la fornisca – è che quando la concorrenza aumenta, gli investimenti
nell’economia materiale diventano sempre più rischiosi e quindi si
accentua la preferenza per la liquidità da parte di chi controlla l’accumulazione, il che, a sua volta, crea le condizioni per l’espansione finanziaria. L’altra questione, naturalmente, è come si creino le condizioni di
domanda di espansione finanziaria. A questo riguardo, ho fatto riferimento alla teoria di Weber secondo cui la concorrenza tra gli Stati per il
capitale mobile costituisce la specificità storica su scala mondiale
dell’era moderna. Sostenevo che tale concorrenza crea le condizioni per
la domanda di espansione finanziaria. È fondamentale l’idea di Braudel
dell’“autunno” come fase conclusiva di un processo di leadership
nell’accumulazione – che va da quella materiale a quella finanziaria, e
finisce con essere sostituita da un’altra leadership. Ma lo è pure l’idea di
Marx secondo cui l’autunno di uno Stato particolare che vive un’espansione finanziaria, rappresenta anche la primavera per un altro Stato: il
surplus accumulato a Venezia va in Olanda; quello accumulato in Olanda va in Gran Bretagna e quello accumulato in Gran Bretagna va negli
Stati uniti. In tal modo Marx completa ciò che è insito nell’idea di
autunno di Braudel: l’autunno diventa primavera in qualche altro luogo,
provocando una serie di sviluppi interconnessi tra loro.
Il lungo XX secolo analizza questi cicli successivi di espansione capitalistica e di potere egemonico dal Rinascimento ai nostri giorni. Nel tuo
testo le fasi di espansione materiale del capitale finiscono per esaurirsi sotto la spinta di un eccesso di concorrenza, dando luogo a fasi di espansione
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finanziaria la cui estinzione fa precipitare una situazione di caos tra gli Stati che si risolve con l’emergere di un nuovo potere egemonico capace di
ristabilire l’ordine globale, riavviando nuovamente il ciclo di espansione
materiale grazie a un nuovo blocco sociale. Stati egemoni sono stati a turno Genova, i Paesi Bassi, la Gran Bretagna e gli Stati uniti. Fino a che
punto consideri la loro affermazione, che pone fine ogni volta a un periodo
di turbolenza, come frutto di fatti contingenti?
Domanda bella e difficile! C’è sempre un elemento di contingenza.
Allo stesso tempo la ragione per cui queste transizioni durano così a
lungo, attraversando periodi di turbolenza e di caos, è che le forze che
poi emergono per organizzare il sistema attraversano un processo di
apprendimento. Ciò appare chiaro nel caso più recente, quello degli
Stati uniti. Alla fine del XIX secolo gli Stati uniti presentavano già delle
caratteristiche che li rendevano possibili successori della Gran Bretagna.
Ma ci vollero più di mezzo secolo, due guerre mondiali e una depressione catastrofica prima che essi sviluppassero le strutture e le idee che,
dopo la Seconda guerra mondiale, li misero in grado di assumere veramente l’egemonia. Fu soltanto una contingenza a rendere possibile
l’egemonia degli Stati uniti che potenzialmente esisteva già nel XIX
secolo o c’è qualcosa d’altro? Non lo so. Chiaramente vi era un aspetto
geografico contingente – il Nord America aveva una diversa configurazione spaziale rispetto all’Europa, che permise la formazione di uno Stato che non avrebbe potuto sorgere nella stessa Europa, se si esclude la
parte orientale, dove a sua volta la Russia si stava espandendo territorialmente. Ma c’era anche un elemento sistemico: la Gran Bretagna creò un
sistema di credito internazionale che a un certo punto favorì in modo
particolare la formazione degli Stati uniti.
È certo che, fossero mancati gli Stati uniti, con la loro particolare
configurazione storico-geografica, la storia sarebbe stata molto diversa.
A chi sarebbe andata l’egemonia? Si possono fare solo congetture. Ma ci
furono gli Stati uniti, che si stavano costruendo, sotto molti aspetti, sul
modello olandese e su quello britannico. Genova era un po’ diversa:
non dico mai che è stata egemone; era più vicina al tipo di organizzazione finanziaria internazionale che si verifica nelle diaspore, compresa la
diaspora cinese contemporanea. Ma non era egemone in senso gramsciano come lo furono l’Olanda e la Gran Bretagna. La geografia conta
molto, ma anche se questi tre Stati erano così diversi sotto l’aspetto spaziale, essi si erano costruiti sulla base di caratteristiche organizzative
apprese dallo Stato che li aveva preceduti. La Gran Bretagna trasse mol-
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tissimo dall’esempio olandese, così come gli Stati uniti dalla Gran Bretagna. Si tratta di Stati interconnessi – una sorta di effetto valanga. Perciò,
sì, c’è un effetto dovuto alla contingenza, ma ci sono anche collegamenti
sistemici.
Il lungo XX secolo non si occupa del destino del movimento
operaio. Non te ne sei occupato perché a quel tempo lo consideravi di
secondaria importanza oppure perché l’architettura del libro, il cui sottotitolo è Denaro, potere e le origini del nostro tempo, era così ambiziosa e
complessa che trattare anche di quello l’avrebbe appesantita?
Per la seconda ragione. Il lungo XX secolo originariamente avrebbe
dovuto essere scritto a quattro mani con Beverly Silver, che ho incontrato per la prima volta a Binghamton, e doveva essere diviso in tre parti.
Una sulle egemonie, che in effetti costituisce il capitolo 1, la seconda
doveva trattare del capitale – l’organizzazione del capitale, l’impresa – in
sostanza, la concorrenza; la terza avrebbe affrontato il lavoro – il lavoro
e i rapporti capitalistici, il movimento operaio. Ma la scoperta della
finanziarizzazione come modello ricorrente all’interno del capitalismo
storico mandò all’aria l’intero progetto. Mi costrinse a tornare indietro
nel tempo, cosa che mai avrei voluto fare, dato che il libro doveva effettivamente trattare del lungo XX secolo, vale a dire dalla grande depressione del decennio 1870 fino ai nostri giorni. Quando scoprii il paradigma
della finanziarizzazione fui preso di sorpresa e Il lungo XX secolo divenne sostanzialmente un libro sul ruolo del capitale finanziario nello sviluppo storico del capitalismo, a partire dal secolo XIV. Così fu Beverly a
occuparsi del lavoro nel suo Forces of Labour, uscito nel 20035.
Il vostro libro comune, Caos e governo del mondo, del 1999, rispetta il piano iniziale de Il lungo XX secolo?
Sì. In Caos e governo del mondo vi sono capitoli sulla geopolitica,
sull’impresa, sul conflitto sociale, ecc.6. Il progetto originale non fu dunque mai abbandonato, ma non compare ne Il lungo XX secolo, dato che
non riuscivo a concentrarmi sulla ricorrenza ciclica dell’espansione
finanziaria e dell’espansione materiale e contemporaneamente trattare
del lavoro. Una volta spostato il centro d’attenzione nella definizione di
capitalismo verso un’alternanza di espansione materiale e finanziaria,
diventa molto difficile mantenere il lavoro dentro il modello. Non solo
occuperebbe molto spazio, ma c’è anche una notevole variazione nel
41
tempo e nello spazio dei rapporti capitale-lavoro. Innanzi tutto, come
sottolineiamo in Caos e governo del mondo, c’è un’accelerazione nella
storia sociale. Quando si mettono a confronto un regime di accumulazione con un altro, ci si accorge che nella transizione dall’egemonia
olandese a quella britannica nel secolo XVIII, il conflitto sociale arriva
tardi, in concomitanza con l’espansione finanziaria e le guerre. Nella
transizione attuale – verso destinazione ignota – l’esplosione del conflitto sociale alla fine degli anni Sessanta e nei primi Settanta ha preceduto
l’espansione finanziaria ed è avvenuto senza guerre tra le maggiori
potenze.
In altre parole, se prendiamo in considerazione la prima metà del
XX secolo, è in prossimità delle guerre mondiali e poco dopo la loro
conclusione che si hanno le più importanti lotte dei lavoratori. Questa
era la base della teoria della rivoluzione di Lenin: le rivalità tra i vari
capitalismi, trasformandosi in guerre, avrebbero creato le condizioni
favorevoli alla rivoluzione, il che si può osservare empiricamente fino
alla Seconda guerra mondiale. In un certo senso, si potrebbe dire che,
nella transizione attuale, l’accelerazione del conflitto sociale ha evitato
che gli Stati capitalistici si facessero la guerra tra loro. Perciò, tornando
alla tua domanda, ne Il lungo XX secolo ho scelto di concentrarmi
sull’espansione finanziaria, sui cicli sistemici di accumulazione capitalistica e sulle egemonie mondiali. Ma in Caos e governo del mondo siamo
ritornati al tema delle interrelazioni tra conflitto sociale, espansione
finanziaria e transizioni egemoniche.
Nella discussione sull’accumulazione originaria, Marx si occupa del
debito nazionale, del sistema creditizio, della bancarotta – in un certo
senso dell’integrazione tra finanza e Stato che si verificava durante l’accumulazione originaria – come di fenomeni essenziali che influenzano il
modo in cui si evolve il sistema capitalistico. Ma l’analisi del Capitale
non tratta del sistema creditizio fino al Terzo libro, perché Marx non vuole occuparsi del concetto di interesse, anche se il sistema creditizio diventa
una questione fondamentale per la centralizzazione del capitale, per
l’organizzazione del capitale fisso e così via. Questo pone la questione di
come effettivamente funzioni la lotta di classe sul tema dei rapporti tra
Stato e finanza, rapporti che assumono il ruolo vitale che hai indicato.
Nell’analisi di Marx sembra esserci una lacuna: da una parte dice che la
dinamica principale è tra capitale e lavoro, dall’altra il lavoro non pare
essere fondamentale nei processi di cui tu parli – spostamenti di egemonia, salti di livello. Si capisce come Il lungo XX secolo abbia avuto diffi-
42
coltà a integrare il lavoro nell’analisi, poiché in un certo senso il rapporto
capitale-lavoro non è centrale in quell’aspetto della dinamica capitalistica.
Concordi su questo punto?
Certamente, con una precisazione: il fenomeno dell’accelerazione
della storia sociale a cui accennavo. Le lotte operaie degli anni Sessanta
e Settanta, ad esempio, sono state un fattore di fondamentale importanza nella finanziarizzazione degli anni Settanta e Ottanta e nel modo in
cui essa si è evoluta. Il rapporto tra lotte degli operai e degli oppressi e
la finanziarizzazione cambia nel tempo e recentemente ha assunto caratteristiche prima inesistenti. Ma se si cerca di spiegare il periodico ritorno dell’espansione finanziaria non ci si può concentrare troppo sul lavoro, altrimenti si parla soltanto del ciclo più recente. Si finisce per commettere l’errore di considerare il lavoro come causa dell’espansione
finanziaria, mentre i cicli precedenti si sono attivati senza l’intervento
delle lotte operaie e degli oppressi.
Riferendoci ancora alla questione del lavoro, potremmo tornare al
tuo saggio del 1990 sul cambiamento del movimento operaio mondiale,
Secolo marxista, secolo americano7, dove sostenevi che nel Manifesto la
considerazione in cui Marx tiene la classe operaia è profondamente contraddittoria, giacché sottolinea la crescente importanza del potere collettivo
del lavoro, man mano che procede lo sviluppo capitalistico, e al contempo
il suo progressivo immiserimento legato alla presenza di un esercito industriale attivo e di un esercito di riserva. Marx, come fai notare, pensava che
le due tendenze avrebbero investito la medesima base sociale, però hai
sostenuto che nei fatti all’inizio del XX secolo esse subirono una polarizzazione spaziale: in Scandinavia e nel mondo anglo-sassone prevalse la prima, in Russia e più a Oriente, prevalse la seconda. Bernstein colse l’opportunità offerta dalla prima, Lenin dalla seconda – il che causò la frattura tra
riformisti e rivoluzionari all’interno del movimento operaio. Nell’Europa
centrale – Germania, Austria e Italia – secondo te vi è stato un equilibrio
più fluttuante tra esercito attivo e esercito di riserva, con gli equivoci di
Kautsky, che, incapace di scegliere tra riforma e rivoluzione, contribuì alla
vittoria del fascismo. Alla fine del saggio dici che potrebbe emergere una
ricomposizione del movimento operaio, con il ritorno della povertà in
Occidente, legata alla disoccupazione diffusa e con un nuovo potere collettivo dei lavoratori all’Est – era il tempo della nascita di Solidarnosc – con
la possibilità di ricomporre quello che lo spazio e la storia avevano diviso.
Qual è il tuo parere oggi riguardo a questa possibilità?
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La prima cosa da dire è che, oltre a questo scenario ottimistico di
livellamento delle condizioni della classe operaia in una prospettiva globale, nel saggio ce n’era uno più pessimistico, che metteva in evidenza
quello che ho sempre considerato un serio problema nel Manifesto di
Marx ed Engels. C’è un salto logico insostenibile sotto l’aspetto intellettuale e storico – l’idea che, per il capitale, ciò che oggi noi chiameremmo genere, etnia, nazionalità, non abbia alcuna importanza. Che l’unica
cosa che interessa al capitale sono le possibilità di sfruttamento e che
quindi il gruppo sociale più sfruttabile all’interno della classe lavoratrice
è quello che verrà impiegato, senza discriminazioni di razza, etnia o
genere. Questo è assolutamente vero. E tuttavia non è detto che i vari
gruppi sociali all’interno della classe lavoratrice lo accetteranno tranquillamente. In effetti, proprio quando c’è una generalizzazione della
proletarizzazione e i lavoratori sono sottoposti a questo potere del capitale, essi utilizzeranno tutte le differenze di status che si possono individuare o costruire per ottenere un trattamento privilegiato da parte dei
capitalisti. Essi si mobiliteranno sulle basi del genere, della nazionalità,
dell’etnia o altro per avere un trattamento privilegiato dal capitale.
Perciò Secolo marxista, secolo americano non è ottimista come
potrebbe sembrare, perché mette in evidenza la tendenza esistente
all’interno della classe lavoratrice ad accentuare le differenze di status per
proteggersi dalla tendenza del capitale a trattare i lavoratori come massa
indifferenziata da impiegare solo nella misura in cui consente al capitale di
ottenere profitti. L’articolo si concludeva con una nota ottimistica, dicendo che vi è una tendenza al livellamento, ma allo stesso tempo che ci si
deve aspettare che i lavoratori lottino per proteggere se stessi attraverso la
formazione o il consolidamento di gruppi basati sullo status.
Questo significa che la distinzione tra esercito attivo ed esercito industriale di riserva tende ad essere definita sulla base dello status e della razza?
Dipende. Se osserviamo il processo in una dimensione globale –
nella quale l’esercito di riserva non è costituito solo da disoccupati, ma
anche da disoccupati occulti e da emarginati – allora tra i due eserciti
esiste decisamente una divisione di status. La nazionalità è stata usata da
segmenti della classe lavoratrice, dell’esercito attivo, come segno di
distinzione rispetto all’esercito di riserva globale. Questo è meno evidente a livello nazionale. Se prendiamo gli Stati uniti o l’Europa, la divisione di status tra l’esercito attivo e quello di riserva è molto meno evidente. Ma con l’attuale immigrazione da paesi molto più poveri, sono
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cresciuti gli atteggiamenti anti-immigrati che sono una manifestazione
della tendenza a creare distinzioni di status all’interno della classe lavoratrice. Perciò il quadro è molto complesso, specie se si osservano i flussi migratori transnazionali e una situazione in cui l’esercito di riserva è
concentrato soprattutto nel Sud globale, più che al Nord.
Nel 1991 nel tuo articolo, Le disuguaglianze mondiali, dimostri la
straordinaria stabilità nella gerarchia della ricchezza tra le regioni del mondo durante il XX secolo. L’entità del divario nel reddito pro-capite tra il
centro nel Nord/Ovest, la semi-periferia e la periferia nel Sud/Est del
mondo è rimasto inalterato, anzi, si è accentuato dopo mezzo secolo di sviluppo8. Il comunismo, come tu dici, non è riuscito a colmare questo divario
in Russia, nell’Europa dell’Est e in Cina, pur non avendo operato peggio
del capitalismo in America latina, nell’Asia sud-orientale o in Africa, mentre sotto altri punti di vista aveva operato decisamente meglio - una distribuzione più equa del reddito all’interno della società e una maggiore indipendenza dello Stato dal centro Nord-occidentale. Dopo vent’anni la Cina
ha rotto lo schema che tu descrivevi a quel tempo. Fino a che punto ciò ti
ha stupito?
Innanzi tutto non si deve esagerare l’importanza della rottura dello
schema da parte della Cina. Il livello di reddito pro-capite in Cina era
così basso – e lo è tuttora se confrontato con quello dei paesi ricchi –
che persino i progressi più rilevanti vanno visti con cautela. La Cina ha
raddoppiato la sua posizione nei confronti dei paesi più ricchi, ma ciò
significa solo passare dal 2% al 4% del reddito pro-capite medio dei
paesi ricchi. È vero che la Cina è stata determinante nel provocare una
riduzione delle disuguaglianze di reddito tra i vari paesi. Se si esclude la
Cina, la situazione del Sud è peggiorata a partire dagli anni Ottanta; se
la si tiene in considerazione, allora il Sud è un po’ migliorato, proprio
grazie al progresso della Cina. Ma naturalmente vi è stata anche una
notevole crescita delle disuguaglianze all’interno della Repubblica
Popolare, quindi la Cina negli ultimi decenni ha contribuito alla crescita
delle disuguaglianze all’interno degli Stati a livello mondiale. Unendo le
due misure – la disuguaglianza tra paesi e all’interno degli Stati – a livello statistico, la Cina ha provocato una riduzione della disuguaglianza su
scala globale. Ma non si deve esagerare con questo dato – la situazione
mondiale è ancora segnata da enormi divari che vengono ridotti a piccoli passi. È comunque importante, perché cambia i rapporti di potere tra
gli Stati. Continuando così, potrebbe persino arrivare a cambiare la
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distribuzione globale del reddito, che è ancora molto polarizzata, rendendola più normale, come la intendeva Pareto.
Se questo mi ha stupito? In un certo senso sì. Infatti questa è la
ragione per cui negli ultimi quindici anni ho spostato i miei interessi verso lo studio dell’Asia orientale, avendo compreso che essa – se si esclude
il Giappone, naturalmente – pur essendo parte del Sud, presentava delle
caratteristiche che la mettevano in condizione di dar vita a uno sviluppo
che non rientrava in quello schema di disuguaglianze stabili tra le regioni. Contemporaneamente nessuno ha mai sostenuto – io no di certo –
che la stabilità della distribuzione del reddito a livello globale significava
anche immobilità per certi Stati o certe regioni. Una struttura abbastanza stabile di disuguaglianze può permanere, con alcuni paesi che salgono e altri che scendono. Fino a ora, entro certi limiti, le cose sono andate così. In particolare dagli anni Ottanta e Novanta lo sviluppo più
importante è stata la biforcazione tra un’Asia orientale molto dinamica e
un’Africa che andava precipitando in basso, in particolare l’Africa meridionale – ancora una volta “l’Africa delle riserve di lavoro”. È proprio
questa biforcazione a interessarmi più di ogni altra cosa: per quale ragione l’Asia orientale e l’Africa si sono mosse a tal punto in direzioni opposte. È un fenomeno molto importante da capire, poiché aiuterebbe
anche a cambiare l’idea che abbiamo delle basi del successo nello sviluppo capitalistico, chiarendo fino a che punto esso sia basato
sull’espropriazione – la completa proletarizzazione dei contadini – come
si è visto nell’Africa meridionale, oppure sulla parziale proletarizzazione
verificatasi in Asia orientale. Perciò la divergenza tra queste due regioni
pone una importante questione di natura teorica che ancora una volta
mette in discussione l’identificazione fatta da Brenner dello sviluppo
capitalistico con la completa proletarizzazione della forza lavoro.
Ancora prima, nel 1999, in Caos e governo del mondo sostenevi che
l’ascesa dell’Asia orientale e in modo particolare della Cina, avrebbe provocato il declino dell’egemonia americana. Contemporaneamente avanzavi
l’ipotesi che in futuro sarebbe stata questa la regione in cui il lavoro avrebbe sfidato più duramente il capitale a livello mondiale. È stato osservato
che c’è una tensione tra queste prospettive – l’ascesa della Cina come
potenza rivale degli Stati uniti e le lotte crescenti della classe lavoratrice in
Cina. Quale relazione vedi tra le due?
La relazione è strettissima, poiché, prima di tutto, diversamente da
quanto molti pensano, i contadini e gli operai cinesi hanno una millena-
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ria tradizione di lotte che non trova paragoni in nessuna altra parte del
mondo. Di fatto molte transizioni dinastiche furono favorite da ribellioni, scioperi e manifestazioni – non solo di lavoratori e contadini, ma
anche di commercianti. Una tradizione che permane ancora oggi.
Quando Hu Jintao, alcuni anni fa, disse a Bush: “Non si preoccupi che
la Cina provi a sfidare il dominio degli Stati uniti, abbiamo troppe
preoccupazioni al nostro interno”, alludeva a una delle principali caratteristiche della storia cinese: come contrastare la concomitanza di ribellioni interne delle classi subalterne e di invasioni esterne, fino al XIX
secolo, da parte dei cosiddetti “barbari” provenienti dalle steppe, e, successivamente, a partire dalle guerre dell’oppio, dal mare. Questi sono
sempre stati problemi fondamentali per i governi cinesi e hanno posto
limiti molto stretti al ruolo della Cina nelle relazioni internazionali.
L’impero cinese nel tardo XVIII secolo e nel XIX secolo era sostanzialmente una specie di welfare state pre-moderno. Tali caratteristiche furono riprodotte nell’evoluzione successiva. Negli anni Novanta Jiang
Zemin ha scatenato le forze capitalistiche. I tentativi di metterle sotto
controllo si collocano nel contesto di questa tradizione molto più lunga.
Se le ribellioni delle classi subalterne cinesi porteranno a un nuovo welfare state, questo inciderà sul modello delle relazioni internazionali nei
prossimi venti o trent’anni. Ma l’equilibrio tra le classi in Cina al
momento è ancora incerto.
C’è contraddizione tra essere il principale centro di lotte sociali ed
essere una potenza emergente? Non necessariamente – negli anni Trenta gli Stati uniti erano all’avanguardia nelle lotte dei lavoratori proprio
mentre cresceva la loro egemonia. Che queste lotte avessero successo
nel pieno della grande depressione fu un fattore che contribuì a rendere
gli Usa egemoni dal punto di vista sociale anche per la classe lavoratrice.
Ciò vale anche per l’Italia, dove l’esperienza americana divenne un
modello per alcuni sindacati di ispirazione cattolica.
Notizie recenti dalla Cina segnalano preoccupazione sull’alto tasso di
disoccupazione provocato dalla recessione mondiale e una serie di misure
per contrastarla. Ne potrebbe conseguire un modello di sviluppo secondo
linee che, alla fine, costituirebbero una sfida per il capitalismo globale?
Il problema è se le misure prese dalle autorità cinesi, in risposta
alle lotte dei gruppi subalterni, possano funzionare altrove, dove non si
danno le stesse condizioni. Se la Cina possa diventare un modello per
altri Stati – in particolare per altri grandi Stati del Sud, quali l’India –
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dipende da molte specificità storiche e geografiche che forse non si possono riprodurre altrove. I cinesi lo sanno e non si pongono come modello da imitare. Quanto avviene in Cina sarà fondamentale per i rapporti
tra la Repubblica popolare cinese e il resto del mondo, ma non come
modello per gli altri. E tuttavia da quelle parti vi è una interpenetrazione
delle lotte – di operai e contadini contro lo sfruttamento, ma anche contro problemi ambientali e la devastazione ecologica – che è difficile
riscontrare altrove. In questo momento le lotte stanno crescendo e sarà
importante vedere la risposta del governo. Penso che il cambiamento di
leadership a Hu Jintao e Wen Jiabao sia quantomeno legato all’inquietudine di fronte alla prospettiva di abbandonare una lunga tradizione di
welfare. Dobbiamo tenere d’occhio la situazione e stare attenti ai possibili esiti.
Tornando al problema delle crisi del capitalismo, il tuo saggio del
1972, Verso una teoria della crisi capitalistica presenta un confronto tra la
lunga recessione del periodo 1873-96 e le previsioni, rivelatesi esatte, di
un’altra crisi dello stesso tipo che storicamente ha avuto inizio nel 1973.
Da allora sei tornato più volte su questo confronto, mettendo in evidenza
le affinità, ma anche le importanti differenze tra le due. Però hai scritto
meno della crisi iniziata nel 1929. Ritieni che la grande depressione continui ad essere meno importante?
No, non meno importante, essendo stata la crisi più grave mai vissuta dal capitalismo; di certo fu un momento di svolta. Insegnò alle
future potenze a fare in modo che l’esperienza non si ripetesse. Esistono
svariati strumenti più o meno riconoscibili per prevenire un nuovo crollo di quella portata. Anche oggi, benché il crollo della borsa venga paragonato a quello degli anni Trenta, penso – ma potrei sbagliarmi – che sia
gli organismi monetari che i governi che contano stiano facendo tutto il
possibile per evitare che il crollo dei mercati finanziari abbia gli stessi
effetti sociali degli anni Trenta. Non se lo possono permettere politicamente e quindi se la cavano alla meno peggio e facendo quello che possono. Persino Bush – e Reagan prima di lui – con tutta la sua ideologia
del libero mercato, si è affidato in modo estremo a politiche keynesiane
di spesa in deficit. Una cosa è l’ideologia, altro è quello che fanno, dato
che reagiscono a situazioni politiche che non possono permettersi di
lasciar peggiorare più di tanto. Gli aspetti finanziari possono assomigliare a quelli del Trenta, ma c’è maggiore consapevolezza ed esistono vincoli più stretti perché i governi non lascino che la cosiddetta economia
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reale venga colpita come negli anni Trenta. Non sto dicendo che la grande depressione è stata meno importante, ma sono convinto che non si
ripeterà in un futuro prossimo. La situazione dell’economia mondiale è
radicalmente diversa. Negli anni Trenta era molto segmentata, il che
potrebbe aver creato le condizioni per il tracollo. Adesso è molto più
integrata.
In Verso una teoria della crisi capitalistica descrivi un profondo conflitto strutturale all’interno del capitalismo, in cui distingui tra le crisi provocate da un livello di sfruttamento troppo alto, che porta a una crisi di
realizzazione per l’inadeguata domanda effettiva, e quelle provocate da un
tasso di sfruttamento troppo basso, che riduce la domanda di mezzi di produzione. Fai ancora questa distinzione e, se sì, potresti dire che ci troviamo
in una crisi di realizzazione camuffata da un indebitamento personale e da
una finanziarizzazione crescente a causa del contenimento dei salari che ha
contraddistinto il capitalismo negli ultimi trent’anni?
Sì, credo che nel corso degli ultimi trent’anni ci sia stato un cambiamento nella natura delle crisi. Fino ai primi anni Ottanta erano caratterizzate dalla diminuzione del tasso di profitto causata dalla concorrenza crescente tra le agenzie capitalistiche e dal fatto che i lavoratori erano
più attrezzati a difendersi di quanto non lo fossero durante le precedenti
depressioni – sia alla fine del secolo XIX che negli anni Trenta. Questa
era la situazione negli anni Settanta. La contro-rivoluzione monetarista
di Reagan e della Thatcher mirava a corrodere quel potere, la capacità
delle classi lavoratrici di auto-proteggersi – non era l’unico obiettivo, ma
era uno dei più importanti. Credo che tu ti riferisca a qualche consigliere della Thatcher che afferma che quello che hanno fatto era …
… la creazione di un esercito industriale di riserva; esattamente …
… ciò che Marx dice che dovrebbero fare! Questo ha cambiato la
natura della crisi. Negli anni Ottanta e Novanta e adesso, negli anni
Duemila, stiamo assistendo a una vera e propria crisi di sovrapproduzione, con tutte le sue caratteristiche. I redditi sono stati ridistribuiti a favore di gruppi e classi che hanno grande liquidità e tendenze speculative;
in tal modo i redditi non tornano in circolazione come domanda effettiva, ma si danno alla speculazione creando bolle che regolarmente scoppiano. Perciò, sì, da crisi conseguente alla caduta del tasso di profitto
per l’aumento della concorrenza tra i capitali, la crisi si è trasformata in
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crisi di sovrapproduzione dovuta alla scarsità sistemica di domanda
effettiva, creata dalle tendenze dello sviluppo capitalistico.
Un recente rapporto del National Intelligence Council ha previsto la
fine del dominio globale degli Stati uniti per il 2025 e il sorgere di un
mondo più frammentato, multipolare, più conflittuale. Pensi che il capitalismo come sistema mondiale richieda, come condizione di possibilità, una
potenza egemone unica? L’assenza di una tale potenza equivale necessariamente a un caos sistemico instabile – è impossibile un equilibrio tra potenze di peso quasi uguale?
No, non direi che è impossibile. Molto dipende da quanto e fino a
che punto la potenza egemone attuale accetti un compromesso. Il caos
degli ultimi sei o sette anni si deve alla reazione dell’amministrazione Bush
all’11 settembre 2001; da un certo punto di vista è stato un caso di “suicidio di una grande potenza”. È molto importante il comportamento della
potenza in declino, perché è capace di creare caos. Tutto il “Progetto per
un nuovo secolo americano” è stato un rifiuto di accettare il declino, ed è
stato una catastrofe. C’è stata la sconfitta militare in Iraq e la conseguente
tensione finanziaria relativa alla posizione degli Usa nell’economia mondiale che l’ha trasformata da paese creditore nella nazione più pesantemente indebitata della storia mondiale. La sconfitta in Iraq è più grave di
quella del Vietnam, poiché in Indocina c’era una lunga tradizione di guerriglia: avevano un capo del calibro di Ho Chi Minh e avevano già sconfitto i francesi. Per gli americani in Iraq la tragedia è che, anche nelle condizioni migliori, sarà ben difficile che vincano la guerra e ora stanno cercando di uscirne in qualche modo salvando la faccia. La resistenza che hanno
opposto al compromesso ha portato prima a un’accelerazione del loro
declino e poi a molta sofferenza e grande caos. L’Iraq è un disastro. La
quantità di profughi è molto superiore a quella del Darfur.
Non si capisce bene che cosa voglia fare Obama. Se pensa di poter
ribaltare il declino avrà delle brutte sorprese. Quello che può fare è
gestire con intelligenza il declino – vale a dire, cambiare la politica da
“Noi non trattiamo. Vogliamo un altro secolo americano” a una gestione del declino, individuando politiche che si adattino al cambiamento
nei rapporti internazionali. Non so se seguirà questa strada perché è
molto ambiguo; o perché in politica certe cose non si possono dire, o
perché non sa cosa fare, o perché è ambiguo e basta. Non lo so. Ma il
cambiamento da Bush a Obama offre davvero possibilità di gestire il
declino degli Stati uniti in modo tale che non sia catastrofico. Bush ha
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avuto l’effetto contrario: la credibilità dei militari americani è stata ancor
più corrosa, la posizione finanziaria si è aggravata in modo disastroso.
Perciò il compito che Obama si trova davanti adesso penso sia quello di
gestire il declino in modo intelligente. Questo è quello che può fare. Ma
la sua idea di escalation in Afganistan è, a dir poco, preoccupante.
Nel corso del tempo, mentre il tuo lavoro si fondava sul concetto
marxiano di accumulazione capitalistica, non hai risparmiato critiche a
Marx – la sua sottovalutazione delle lotte di potere tra gli Stati, la sua
indifferenza per lo spazio geografico, le contraddizioni nella sua analisi della classe lavoratrice. Da molto tempo subisci il fascino di Adam Smith, che
occupa un ruolo centrale nel tuo lavoro più recente, Adam Smith a Pechino. Quali riserve nutri su di lui?
Le riserve sono le stesse che su di lui nutriva Marx. Marx ha tratto
molto da Smith – la tendenza alla caduta del tasso di profitto sotto
l’impatto della concorrenza inter-capitalistica, ad esempio, è un’idea di
Smith. Il Capitale è una critica dell’economia politica; Marx criticava
Smith per aver ignorato quanto accadeva nei segreti laboratori della
produzione – come diceva lui. La concorrenza inter-capitalistica può
ridurre il tasso di profitto, ma viene contrastata dalla tendenza e
dall’abilità dei capitalisti di spostare i rapporti di potere con la classe
lavoratrice a proprio favore. Da questo punto di vista la critica di Marx
all’economia politica di Smith era fondamentale. Si deve comunque stare attenti al periodo storico, perché quella di Marx era una costruzione
teorica che partiva da presupposti che possono non corrispondere alla
realtà storica di luoghi e periodi particolari. Noi non possiamo dedurre
realtà empiriche da costruzioni teoriche. La validità della sua critica a
Smith va valutata sulla base degli eventi storici. Ciò vale per Smith, per
Marx come per chiunque altro.
Una delle conclusioni di Marx, specie nel Primo libro del Capitale, è
che l’attuazione del sistema di libero mercato di Smith porta all’aumento
delle disuguaglianze di classe. Fino a che punto l’attuazione del regime
smithiano a Pechino comporta il rischio di disuguaglianze di classe ancora
più nette in Cina?
Nel capitolo teorico su Smith in Adam Smith a Pechino sostengo
che nelle sue opere non troviamo alcuna nozione di auto-regolamentazione dei mercati come si trova nel neoliberismo. La mano invisibile è
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quella dello Stato, che dovrebbe agire in modo decentrato, con un minimo di interferenza burocratica. Nella sostanza, l’azione del governo in
Smith è a favore del lavoro e non del capitale. Dice esplicitamente di
non essere favorevole a provocare competizione tra lavoratori per ottenere una riduzione dei salari, ma è favorevole alla concorrenza tra capitalisti affinché si riduca il profitto a un minimo accettabile che compensi
il rischio. Le moderne teorie ribaltano totalmente il suo pensiero. Però
non è chiaro dove voglia arrivare la Cina oggi. All’epoca di Jiang Zemin,
negli anni Novanta, andava certamente nella direzione di una competizione tra i lavoratori a favore del capitale e del profitto, su questo non vi
sono dubbi. Adesso si registra un’inversione di tendenza che, come ho
detto, tiene conto non solamente della tradizione della Rivoluzione e
dell’era maoista, ma anche degli aspetti di welfare della Cina tardoimperiale sotto la dinastia Ching negli ultimi anni del XVIII e nel XIX
secolo. Non scommetto sugli esiti della Cina, ma dobbiamo saper vedere dove sta andando.
In Adam Smith a Pechino fai riferimento anche all’opera di Sugihara
che contrappone una “rivoluzione industriosa”, ai primordi dell’era moderna in Asia orientale, basata sul lavoro intensivo e su un saggio rapporto con
la natura, alla “rivoluzione industriale” basata sulla meccanizzazione e su di
un utilizzo predatorio delle risorse naturali, dicendo di sperare in una convergenza delle due tendenze per l’umanità futura. Secondo te a che punto si
trova oggi l’equilibrio tra queste due tendenze in Asia orientale?
È un equilibrio molto precario. Diversamente da Sugihara non
sono così ottimista da pensare che nella tradizione asiatica la “rivoluzione industriosa” sia talmente radicata da tornare a essere dominante, o
possa per lo meno giocare un ruolo importante in qualsiasi formazione
ibrida possa emergere. Questi concetti sono più importanti per tenere
sotto controllo quanto avviene, piuttosto che per dire “l’Asia va in questa direzione, oppure gli Usa vanno in quell’altra”. Abbiamo bisogno di
vedere che cosa fanno realmente. Si sa che le autorità cinesi sono preoccupate per l’ambiente e per le lotte sociali, però poi fanno cose assolutamente stupide. Forse stanno elaborando un piano, ma non mi pare che
vi sia sufficiente consapevolezza del disastro ecologico provocato dalla
civiltà dell’automobile. Da questo punto di vista è già stata una follia in
Europa copiare gli Stati uniti, e lo è ancor di più in Cina. Ai cinesi ho
sempre detto negli anni Novanta e Duemila che andavano a visitare le
città sbagliate. Se vogliono vedere come si possa essere ricchi senza
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distruggere l’ambiente devono andare ad Amsterdam e non a Los Angeles. Ad Amsterdam tutti vanno in bicicletta: alla stazione ci sono
migliaia di biciclette parcheggiate per tutta la notte, dato che la gente
arriva in treno, prende la bicicletta al mattino e la sera la riporta lì. Mentre in Cina, dove la prima volta che ci andai negli anni Settanta non esistevano automobili – c’era solo qualche autobus in un mare di biciclette
– ora le biciclette sono state messe da parte. Sotto questo aspetto il quadro è molto confuso, preoccupante e pieno di contraddizioni. L’ideologia della modernizzazione ha perso credito dovunque, ma in Cina resta
forte, anche se in modo molto ingenuo.
Da Adam Smith a Pechino si evince che a noi occidentali occorrerebbe qualcosa come una rivoluzione industriosa e dunque questa categoria
non riguarda solo la Cina, ma potrebbe estendersi molto di più.
Sì. Ma la tesi fondamentale di Sugihara è che lo sviluppo tipico
della rivoluzione industriale, cioè la sostituzione del lavoro con le macchine e l’energia, non presenta solo limiti ecologici, come sappiamo, ma
anche limiti economici. Infatti i marxisti dimenticano spesso che l’idea
di Marx dell’aumento della composizione organica del capitale, che porta alla riduzione del profitto, deve fare i conti con il fatto che incrementare l’uso delle macchine e dell’energia intensifica la concorrenza tra i
capitalisti al punto da ridurre il profitto, oltre ad essere distruttiva
dell’ambiente.
Sugihara sostiene che ci sono limiti alla separazione tra management e lavoratori, alla crescente importanza del management rispetto al
lavoro, alla perdita di qualifiche del lavoro, compresa la capacità di
auto-gestirsi, che è tipica della rivoluzione industriale. Nella rivoluzione
industriosa c’è una crescente mobilitazione di tutte le risorse delle famiglie, che consente lo sviluppo, o per lo meno il mantenimento, dell’abilità gestionale dei lavoratori. In definitiva i vantaggi di queste capacità di
gestione diventano più importanti dei vantaggi derivanti della separazione tra concezione ed esecuzione, tipica della rivoluzione industriale.
Penso che abbia ragione, nel senso che questo è essenziale per comprendere l’attuale ascesa della Cina. Conservare queste capacità di autogestione ha posto limiti molto seri al processo di proletarizzazione. Ora la
Cina è in grado di avere un’organizzazione dei processi lavorativi che si
basa più che altrove sull’abilità di autogestione dei lavoratori. Probabilmente nella nuova situazione della Cina questa è una delle principali
fonti del vantaggio competitivo cinese.
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Questo ci potrebbe far tornare alla politica del Gruppo Gramsci per
quanto riguarda i processi lavorativi e l’ autonomia?
Sì e no. Ci sono due diverse forme di autonomia. Ora stiamo parlando di autonomia di gestione, mentre l’altra era autonomia delle lotte,
nell’antagonismo dei lavoratori verso il capitale. In quel caso l’autonomia era su come formulare un programma che unisse i lavoratori nella
lotta contro il capitale, piuttosto che dividere il lavoro creando le condizioni per la riaffermazione del potere del capitale sul luogo di lavoro. La
situazione attuale è ambigua. Molti guardano all’autogestione cinese
considerandola un modo per subordinare il lavoro al capitale – in altre
parole il capitale risparmia sulle spese di gestione. Queste capacità di
gestione vanno contestualizzate – dove, quando e a quale scopo, non è
tanto facile classificarle in un modo o nell’altro.
Nel 1991 hai terminato il tuo articolo su Le disuguaglianze mondiali sostenendo che, dopo il crollo dell’Urss, l’inasprimento e l’ampliamento
dei conflitti sulle scarse risorse nel Sud del mondo – la guerra Iran-Iraq o
la Guerra del Golfo sono emblematiche – costringono l’Occidente a creare
strutture embrionali di governo mondiale per affrontarli; il G7 come strumento di governo della borghesia globale, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale come Ministero delle finanze, il Consiglio di
sicurezza dell’Onu come Ministero della difesa. Ipotizzi che queste strutture nel giro di quindici anni potrebbero finire in mano a forze non conservatrici. In Adam Smith a Pechino parli di una società di mercato mondiale, senza più alcuna potenza egemone, come di un futuro di qualche speranza. Che relazione esiste tra queste due prospettive?
In primo luogo, non ho detto che le strutture di governo mondiale
sarebbero sorte in seguito ai conflitti nel Sud del mondo. Molte di esse
erano organizzazioni nate a Bretton Woods, istituite dagli Stati uniti
dopo la Seconda guerra mondiale come meccanismi necessari a evitare i
problemi che nascono dai mercati autoregolati nell’economia globale, e
come strumenti di governo. Quindi strutture embrionali di governo
mondiale sono esistite dal dopoguerra in poi. Negli anni Ottanta si è
verificato un aumento di turbolenza e di instabilità, di cui i conflitti nel
Sud erano un aspetto, e queste istituzioni hanno dovuto gestire l’economia mondiale in modo diverso rispetto al passato. Potrebbero passare
sotto il controllo di forze non conservatrici? Il mio atteggiamento verso
queste istituzioni è sempre stato ambivalente, poiché sotto molti aspetti
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riflettono un equilibrio di potere tra gli Stati del Nord e del Sud –
all’interno degli Stati del Nord, tra Nord e Sud e così via. In linea di
principio, non c’è nulla che escluda la possibilità che tali istituzioni possano funzionare per governare l’economia globale in modo tale da promuovere una più equa distribuzione del reddito su scala mondiale. Ma è
accaduto esattamente il contrario, negli anni Ottanta il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale sono divenuti gli strumenti della
contro-rivoluzione neoliberista, promuovendo una distribuzione più
disuguale del reddito. Ma poi, come ho detto, alla fine non è peggiorata
tanto la distribuzione del reddito tra Nord e Sud, c’è stata piuttosto una
grande biforcazione all’interno dello stesso Sud, con l’Asia orientale che
andava a gonfie vele e l’Africa meridionale che andava malissimo, e le
altre regioni in mezzo.
Che relazione ha tutto ciò con il concetto di società di mercato
mondiale di cui tratto in Adam Smith a Pechino? A questo punto è chiaro che uno Stato mondiale, anche del tipo più embrionale e confederale
possibile, sarà molto difficile da realizzare, non è ipotizzabile in modo
serio per il prossimo futuro. Ci sarà una società di mercato mondiale nel
senso che gli Stati si rapporteranno tra loro attraverso meccanismi di
mercato che non sono affatto lasciati a se stessi, ma vengono regolamentati. Questo valeva anche per il sistema sviluppato dagli Stati uniti, che
era estremamente regolamentato; l’eliminazione di tariffe e quote di
importazione, o le restrizioni alla mobilità del lavoro erano sempre
negoziate dagli Stati – in particolare da Stati uniti ed Europa, e poi tra
questi e gli altri paesi. Ora la questione è quale tipo di regolamentazione
verrà introdotta per evitare un crollo del mercato analogo a quello degli
anni Trenta. Quindi la relazione tra i due concetti è che l’organizzazione
dell’economia mondiale si baserà principalmente sul mercato, ma con
un’importante partecipazione degli Stati nel regolare l’economia.
Ne Il lungo XX secolo hai delineato tre possibili esiti del caos sistemico a cui ha condotto l’onda lunga della finanziarizzazione iniziata negli
anni Settanta: un impero mondiale controllato dagli Stati uniti, una
società di mercato mondiale in cui nessuno Stato domina sugli altri, oppure una nuova guerra mondiale che distruggerebbe il genere umano. In tutte e tre le eventualità il capitalismo, nel modo in cui si è storicamente sviluppato, scomparirebbe. In Adam Smith a Pechino concludi che, con il
fallimento dell’amministrazione Bush, la prima ipotesi si può escludere,
mentre restano le altre due. Non esiste, però, nel tuo pensiero, almeno sul
piano logico, la possibilità che la Cina possa emergere progressivamente
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come nuova potenza egemone, sostituendo gli Stati uniti, senza modificare
le strutture del capitalismo e del territorialismo da te descritte? Escludi
una possibilità di questo genere?
Non la escludo, ma cominciamo col puntualizzare quanto sostengo. Il primo dei tre scenari che ho delineato alla fine de Il lungo XX
secolo è quello di un impero mondiale governato non solo dagli Stati
uniti, ma dagli Stati uniti insieme ai loro alleati europei. Non ho mai
pensato che gli Usa sarebbero stati così imprudenti da promuovere da
soli un nuovo secolo americano – era come progetto troppo folle da
considerare – e naturalmente è subito fallito, con gravi contraccolpi. Tra
i responsabili della politica estera statunitense c’è una corrente che vuole ricostruire i rapporti con l’Europa messi a dura prova dall’unilateralismo dell’amministrazione Bush. Questa è ancora una possibilità, anche
se meno probabile di prima. Il secondo punto è che una società di mercato mondiale e l’accresciuto potere della Cina nell’economia globale
non si escludono a vicenda. Se si considera come la Cina si è comportata
storicamente con i suoi vicini, si vede che i rapporti si sono basati più
sugli scambi economici che sulla potenza militare: ed è ciò che avviene
anche oggi. Spesso si fraintende questo, si pensa che io dipinga i cinesi
come più morbidi o migliori rispetto all’Occidente, non è questo il punto. Il punto sono i problemi di governance di un paese come la Cina, di
cui abbiamo parlato. La Cina ha una tradizione di ribellioni che nessun
altro paese di quelle dimensioni e così densamente popolato ha mai
affrontato. I suoi governanti sono ben consapevoli della possibilità di
nuove invasioni dal mare – in altre parole, dagli Usa. Come faccio notare nel capitolo 10 di Adam Smith a Pechino, gli Stati uniti hanno diversi
piani riguardo alla Cina, nessuno dei quali è del tutto rassicurante per
Pechino. A parte il piano Kissinger, che prevede una cooptazione della
Cina, gli altri ipotizzano una nuova Guerra fredda contro la Cina oppure il suo coinvolgimento in una serie di guerre con paesi vicini, nelle
quali gli Usa avrebbero il ruolo di “beato terzo”. Se, come penso, la
Cina emergerà come nuovo centro dell’economia globale, il suo ruolo
sarà del tutto differente da quello dei paesi egemoni precedenti. Non
solo per i contrasti di tipo culturale, radicati nelle differenze storico-geografiche, ma proprio perché la diversità della storia e della geografia
dell’Asia orientale avrà un impatto sulle nuove strutture dell’economia
globale. Se la Cina sarà egemone, lo sarà in modo molto diverso dagli
altri. Il potere militare sarà molto meno importante del potere culturale
ed economico – di quello economico in particolare. Dovranno giocare la
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carta dell’economia molto più di quanto abbiano mai fatto gli Usa, gli
inglesi o gli olandesi.
Prevedi un’integrazione più vasta in Asia orientale? Si parla, ad
esempio, di creare una specie di Fondo monetario regionale, di unificare le
monete. Vedi la Cina al centro di un potere egemonico dell’Asia orientale,
piuttosto che come paese singolo? E in tal caso, come si collega tutto ciò
con il crescente nazionalismo in Corea del Sud, Giappone e Cina?
La cosa più interessante in Asia orientale è il modo in cui, in definitiva, l’economia condiziona i rapporti e le politiche degli Stati tra loro,
a dispetto dei loro nazionalismi. I nazionalismi sono ben radicati, ma
dipendono da una ragione storica che in Occidente spesso si dimentica:
Corea, Cina, Giappone, Thailandia e Cambogia erano Stati nazionali
ben prima che esistesse un solo Stato-nazione in Europa. Hanno tutti
storie di tensioni nazionaliste l’uno verso l’altro, in un contesto di natura
prevalentemente economica. Di tanto in tanto scoppiavano guerre e
l’atteggiamento dei vietnamiti nei confronti della Cina, o dei coreani nei
confronti del Giappone è profondamente radicato nella memoria di
quelle guerre. Al contempo sembra però essere l’economia a dominare.
È stato sorprendente vedere come il ritorno nazionalista in Giappone
con il governo Koizumi sia stato improvvisamente frenato quando si è
capito che le imprese giapponesi volevano fare affari con la Cina. Anche
in Cina c’è stata una forte ondata di manifestazioni anti-giapponesi, ma
poi sono finite. Il quadro generale in Asia orientale è che ci sono
profonde spinte nazionaliste, ma contemporaneamente c’è la tendenza a
superarle in nome degli interessi economici.
L’attuale crisi del sistema finanziario mondiale sembra la conferma
più clamorosa che si potesse immaginare delle previsioni teoriche che hai
sviluppato da tempo. C’è qualche aspetto della crisi che ti ha sorpreso?
Le mie previsioni erano molto semplici. La ricorrente tendenza alla
finanziarizzazione è, come diceva Braudel, il segno dell’autunno di una
particolare espansione materiale, centrata su uno Stato particolare. Ne Il
lungo XX secolo considero lo sviluppo della finanziarizzazione come la
spia della crisi di un regime di accumulazione, e facevo notare che col
tempo – di solito circa mezzo secolo – ad essa segue la crisi terminale.
Per gli Stati che in precedenza si erano affermati come egemoni è stato
possibile individuare sia la crisi-spia sia, successivamente, la crisi termi-
57
nale. Quanto agli Stati uniti, ho ipotizzato che la crisi-spia si fosse registrata negli anni Settanta e che la crisi terminale dovesse ancora venire –
ma sarebbe arrivata. In che modo sarebbe arrivata? L’ipotesi di base era
che quell’espansione finanziaria fosse fondamentalmente insostenibile
poiché attirava verso la speculazione più capitali di quanti si potessero
gestire – in altri termini, quest’espansione finanziaria aveva la tendenza a
sviluppare bolle di vario tipo. Prevedevo che quell’espansione finanziaria avrebbe finito per portare a una crisi terminale perché le bolle sono
insostenibili oggi come lo sono state in passato. Non avevo previsto,
però, i dettagli delle bolle: il boom delle attività legate a internet, le
imprese dot.com, oppure la bolla immobiliare.
Inoltre sono stato ambiguo su quale fosse il punto a cui eravamo
arrivati negli anni Novanta, quando ho scritto Il lungo XX secolo. In
qualche modo pensavo che la belle époque degli Stati uniti fosse finita,
mentre invece era solo all’inizio. Era stato Reagan a prepararla provocando una grave recessione, che aveva poi creato le condizioni per la
successiva espansione finanziaria; ma è stato poi Clinton a controllare la
belle époque, che è poi terminata con il crollo finanziario degli anni Duemila, soprattutto del Nasdaq, la Borsa delle imprese tecnologiche. Con
l’esplosione della bolla immobiliare a cui stiamo assistendo, la crisi terminale dell’egemonia finanziaria statunitense è divenuta del tutto evidente.
Quello che distingue il tuo lavoro dagli altri nel tuo campo è l’attenzione alla flessibilità, adattabilità e fluidità dello sviluppo capitalistico
all’interno del contesto del sistema inter-statale. Eppure nello schema della
longue durée, la prospettiva dei 500, 150 e 50 anni che hai adottato
nell’analisi della posizione dell’Asia orientale nel sistema inter-statale,
emergono dinamiche straordinariamente chiare, nettissime nella loro
determinazione e semplicità9. Come definiresti la relazione tra contingenza
e necessità nel tuo pensiero?
Qui ci sono due questioni: una riguarda la mia considerazione della flessibilità dello sviluppo capitalistico e l’altra è il ricorrere di certe
regolarità, e fino a che punto siano determinate dalla contingenza o dalla necessità. Quanto alla prima, l’adattabilità del capitalismo, deriva dalla mia esperienza giovanile nelle imprese. All’inizio avevo provato a
gestire l’azienda di mio padre, che era relativamente piccola; poi feci
una tesi sull’azienda di mio nonno, che era una società di medie dimensioni, poi litigai con mio nonno e andai a lavorare all’Unilever, che a
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quel tempo era la seconda multinazionale al mondo per numero di
dipendenti. Ho avuto così la fortuna – dal punto di vista dell’analisi delle imprese capitalistiche – di lavorare in imprese sempre più grandi, il
che mi ha aiutato a capire che non si può parlare di impresa capitalistica
in generale, dato che le differenze tra quella di mio padre, quella di mio
nonno e l’Unilever erano incredibili. Ad esempio, mio padre impiegava
tutto il suo tempo visitando i clienti nelle zone di produzione tessile e
studiando i problemi tecnici che essi avevano con le macchine. Poi tornava in fabbrica e ne discuteva con il suo ingegnere per personalizzare
le macchine per ogni cliente. Quando tentai di gestire la sua impresa
non avevo strumenti: tutto si fondava su abilità e conoscenze che facevano parte dell’esperienza di mio padre. Potevo visitare i clienti, ma non
sapevo risolvere i loro problemi – non riuscivo neppure a capirli. Non
c’era speranza. Da giovane, quando dicevo a mio padre: “Se arrivano i
comunisti avrai problemi”, lui rispondeva: “No, non avrò problemi,
continuerò a fare quello che ho sempre fatto, avranno bisogno di gente
che faccia queste cose”.
Quando chiusi l’azienda di mio padre per andare da mio nonno
trovai un’organizzazione più fordista. Non studiavano i problemi dei
clienti, producevano macchine standardizzate, che piacessero o no ai
clienti. Gli ingegneri progettavano macchine sulla base di quello che
ritenevano sarebbe stato il mercato, e dicevano ai clienti: questo è quello
che abbiamo. Era una forma embrionale di produzione di massa, con
catene di montaggio embrionali. Quando andai all’Unilever quasi non
vedevo la produzione. C’erano molte fabbriche: una faceva margarina,
un’altra sapone, un’altra profumi. C’erano dozzine di prodotti diversi,
ma il centro dell’attività non erano né la produzione, né la vendita, ma la
finanza e la pubblicità. Questo m’insegnò che è difficilissimo individuare una forma specifica come “tipicamente” capitalistica. In seguito, studiando Braudel, mi resi conto che l’idea della natura estremamente
adattabile del capitalismo poteva essere osservata nella storia.
Uno dei maggiori problemi della sinistra, ma anche della destra, è
pensare che esista un’unica forma di capitalismo che storicamente si
autoriproduce, mentre invece il capitalismo si è trasformato in modo
sostanziale – soprattutto su base globale – con modalità inaspettate. Per
molti secoli il capitalismo ha utilizzato la schiavitù, e sembrava talmente
vincolato alla schiavitù, sotto tutti punti di vista, da non poterne farne a
meno. Poi fu abolita la schiavitù e il capitalismo non solo sopravvisse ma
prosperò più che mai, sviluppandosi sulla base del colonialismo e
dell’imperialismo. A quel punto pareva che colonialismo e imperialismo
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fossero essenziali – ma poi, dopo la Seconda guerra mondiale, il capitalismo li ha abbandonati, e sopravvisse più prospero. Nel corso della storia
del mondo il capitalismo si è continuamente trasformato e questa è una
delle sue caratteristiche principali: sarebbe davvero miope cercare di fissare una volta per tutte le caratteristiche del capitalismo senza prendere
in considerazione queste trasformazioni cruciali. Ciò che rimane costante
in tutte queste mutazioni e definisce l’essenza del capitalismo è perfettamente espresso dalla formula del capitale di Marx “Denaro-MerceDenaro allargato” (D-M-D’), alla quale mi riferisco per individuare
l’alternanza di espansione materiale e finanziaria. Osservando la Cina
odierna, possiamo dire che forse si tratta di capitalismo o forse no – credo che la questione sia ancora aperta. Ma se lo consideriamo capitalismo,
non è uguale a quello delle epoche precedenti, è totalmente trasformato.
Il problema è identificarne le specificità, in quale modo è diverso dai
capitalismi precedenti, sia che lo chiamiamo capitalismo o altro.
E la seconda parte della domanda – l’affermarsi di caratteristiche particolari nella longue durée, e le trasformazioni di scala?
C’è una dimensione geografica molto chiara nei cicli ricorrenti di
espansione materiale e finanziaria, ma questo è un aspetto che si nota se
non si resta concentrati su un paese particolare – perché in tal caso si
vede un processo tutto diverso. Molti storici hanno fatto così: si concentrano su un paese e ne analizzano le linee di sviluppo. Invece in Braudel
l’idea è che l’accumulazione di capitale proceda per salti, e se non si salta con lei non si riesce a seguirla da un territorio all’altro, non la si vede.
Se ti concentri sull’Inghilterra o sulla Francia ti perdi i fatti più importanti dello sviluppo capitalistico in una prospettiva storica mondiale. Ti
devi spostare con lei per capire che il processo di sviluppo capitalistico è
sostanzialmente questo passaggio da una condizione nella quale ciò che
tu hai definito come spatial fix è divenuto troppo angusto e la competizione si è accentuata, a un altro assetto in cui un nuovo spatial fix, con
scala e finalità più ampie, consente al sistema un altro periodo di espansione materiale. E poi, naturalmente, a un certo punto il ciclo si ripete.
Quando ho formulato per la prima volta questa teoria, traendone
lo schema da Braudel e Marx, non avevo ancora avuto modo di apprezzare fino in fondo il concetto da te elaborato di spatial fix nel duplice
significato di localizzazione del capitale fisso investito e di soluzione per
le precedenti contraddizioni dell’accumulazione capitalistica. C’è una
necessità intrinseca in queste dinamiche che deriva dal processo di accu-
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mulazione; questo mobilita denaro e risorse su scala crescente, che portano a problemi di aumento di concorrenza e sovra-accumulazione. Il
processo capitalistico di accumulazione di capitale – contrapposto
all’accumulazione di capitale non capitalistica – ha un effetto valanga
che provoca un’intensificarsi della competizione e riduce il tasso di profitto. Così, coloro che si trovano nella posizione migliore per individuare
un nuovo spatial fix realizzano il nuovo assetto, in un contesto ogni volta
più ampio. Prima le città-Stato, che accumulavano grandi masse di capitale in piccoli luoghi, poi l’Olanda del Seicento, che era più di una cittàStato, ma meno di uno Stato-nazione, poi la Gran Bretagna del Settecento e dell’Ottocento, con il suo impero di vastità planetaria, e infine
nel Novecento gli Stati uniti, di dimensioni continentali.
Ora il processo non può procedere nello stesso senso, mancando
un contesto ancora più ampio in grado di sostituire gli Stati uniti. Vi
sono grandi Stati-nazione – di fatto “Stati-civiltà”, come la Cina e
l’India, che non sono più estese degli Usa in termini di spazio, ma hanno
una popolazione cinque o sei volte superiore. Così ora stiamo passando
a un nuovo meccanismo: invece di andare da un contesto a un altro più
ampio in termini spaziali, andiamo da uno spazio a bassa densità di
popolazione a contenitori ad alta densità. Per di più, prima ci si spostava da un paese ricco a un altro paese ricco. Adesso ci muoviamo invece
da un paese ricchissimo a paesi sostanzialmente poveri – il reddito procapite in Cina è ancora un ventesimo di quello degli Stati uniti. Da un
lato si potrebbe dire: “Bene, l’egemonia, se è questo di cui stiamo parlando, si sta spostando dai ricchi ai poveri”. Ma d’altro lato questi paesi
hanno al loro interno enormi differenze e disuguaglianze. È tutto molto
confuso, sono tendenze contraddittorie ed è necessario elaborare ulteriori strumenti concettuali per comprenderle.
Adam Smith a Pechino si conclude con la speranza di una comunità
di civiltà, che vivano in modo paritario, con un rispetto condiviso per la
Terra e le risorse naturali. Useresti il termine “socialismo” per questa visione, o lo consideri superato?
Non avrei difficoltà a definirlo socialismo, ma purtroppo questo
termine è stato eccessivamente identificato con il controllo dello Stato
sull’economia. Non ho mai pensato che questa fosse una buona idea.
Vengo da un paese dove lo Stato viene disprezzato e in molti casi considerato inaffidabile. Identificare il socialismo con lo Stato crea grossi
problemi. Di conseguenza, se un sistema mondiale di questo tipo doves-
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se essere chiamato socialista, dovrebbe essere ridefinito in termini di
rispetto reciproco tra gli esseri umani e di rispetto collettivo per la natura. Ma lo si dovrebbe organizzare attraverso scambi di mercato regolati
dagli Stati, in modo tale da rafforzare i lavoratori e indebolire il capitale,
secondo l’idea smithiana, piuttosto che attraverso la proprietà e il controllo statale dei mezzi di produzione. Il problema del termine “socialismo” è che se ne è abusato in molti modi, screditandolo. Se mi chiedi
un termine migliore, non ne ho idea, penso che dovremmo cercarne un
altro. Tu sei bravissimo a coniare nuove espressioni e dovresti darci dei
suggerimenti.
Va bene, dovrò pensarci.
Devi riuscire a trovare un termine che sostituisca socialista, liberandolo dall’identificazione con lo Stato legata alla sua storia, per avvicinarlo a un’idea di maggiore uguaglianza e di rispetto reciproco. Lascio a te
questo compito.
2
GIOVANNI ARRIGHI, Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, cit..
Cfr. GIOVANNI ARRIGHI, Verso una teoria della crisi capitalistica, prima pubblicato
in “Rassegna comunista”, 2, 3, 4 e 7 (1972-3) e poi in GIOVANNI ARRIGHI ET AL., Dinamiche
della crisi mondiale, a cura di R. Parboni, Editori Riuniti, Roma 1988, pp. 85-111.
4
Cfr. GIOVANNI ARRIGHI, FORTUNATA PISELLI, Capitalist Development in Hostile
Environments: Feuds, Class Struggles and Migrations in a Peripheral Region of Southern
Italy, in “Review (Fernand Braudel Center)”, 4 (1987).
5
BEVERLY J. SILVER, Forze del lavoro. Movimenti operai e globalizzazione dal 1870,
Bruno Mondadori, Milano 2008.
6
GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER et al., Caos e governo del mondo, Bruno
Mondadori, Milano 2003.
7
G IOVANNI A RRIGHI , Marxist Century, American Century: The Making and
Remaking of the World Labour Movement, in “New Left Review”, I/179 (Jan-Feb
1990), pp. 29-64, cap. 2 di questo volume.
8
GIOVANNI ARRIGHI, World Income Inequalities and the Future of Socialism, in
“New Left Review”, I/189 (Sept-Oct 1991), pp. 39-65, cap. 3 di questo volume.
9
GIOVANNI ARRIGHI, TAKESHI HAMASHITA, MARK SELDEN (ed. by), The Resurgence of East Asia: 500, 150 and 50 Year Perspectives, Routledge, London 2003.
3
NOTE
*
The Winding Paths of Capital. Interview by David Harvey, in “New Left
Review”, 56 (2009), pp. 61-94. Traduzione dall’inglese di Laura Cantelmo. Una versione precedente della traduzione è apparsa sul sito www.overleft.it
1
Si vedano rispettivamente: GIOVANNI ARRIGHI, Struttura di classe e sovrastrutture in Rhodesia, in ID., Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, Einaudi, Torino
1969; COLIN LEYS, European Politics in Southern Rhodesia, Clarendon Press, Oxford
1959; GIOVANNI ARRIGHI, L’offerta di lavoro in una prospettiva storica, in ID., Sviluppo
economico e sovrastrutture in Africa, cit..
62
63
Capitolo 2
Secolo marxista, secolo americano.
L’evoluzione del movimento operaio mondiale*
Nei paragrafi conclusivi della prima sezione del Manifesto del Partito Comunista, Marx ed Engels propongono due diversi argomenti sulla
ragione per la quale il dominio della borghesia giungerà al termine. Da
un lato, la borghesia “non è capace di dominare perché non è capace di
garantire l’esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua schiavitù,
perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale,
invece di essere da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società non
può vivere sotto la classe borghese, vale a dire l’esistenza della classe
borghese non è più compatibile con la società”. Dall’altro lato: “Il progresso dell’industria, di cui la borghesia è veicolo involontario e passivo,
fa subentrare all’isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la
loro unione rivoluzionaria, risultante dall’associazione. Con lo sviluppo
della grande industria, dunque, viene tolto di sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa
produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del
proletariato sono del pari inevitabili”1. La mia tesi è che queste due previsioni rappresentano allo stesso tempo la forza e la debolezza dell’eredità marxiana. Rappresentano la sua forza perché, in molti aspetti cruciali, sono state convalidate da tendenze fondamentali dell’economiamondo capitalistica nei 140 anni successivi. Rappresentano invece la sua
debolezza perché i due scenari sono in parziale contraddizione l’uno
con l’altro e – per di più – la contraddizione è rimasta irrisolta nelle teorie e nelle pratiche dei seguaci di Marx.
La contraddizione, a mio parere, è la seguente. Il primo scenario è
quello dell’impotenza del proletariato. La concorrenza impedisce che il
proletariato condivida i benefici del progresso industriale, e lo porta a
un tale stato di povertà che, invece che una forza produttiva, diventa un
peso morto per la società. Il secondo scenario, invece, è quello del crescente potere del proletariato. Il progresso dell’industria sostituisce la
concorrenza con l’unione dei proletari, in modo tale da indebolire la
capacità della borghesia di appropriarsi dei benefici del progresso industriale.
65
Per Marx, ovviamente, non c’era nessuna contraddizione. La tendenza verso l’indebolimento del proletariato riguardava l’esercito industriale di riserva e intaccava la legittimità del governo della borghesia. La
tendenza verso il rafforzamento del proletariato riguardava invece l’esercito industriale attivo e diminuiva la capacità della borghesia di appropriarsi del surplus. Inoltre, queste due tendenze non erano concepite
come indipendenti l’una dall’altra. Quando la capacità della borghesia
di appropriarsi del surplus diminuisce, si manifestano due effetti riguardanti l’esercito industriale di riserva. Si riducono i mezzi a disposizione
della borghesia per “nutrire” l’esercito di riserva, ovvero per far sì che
esso si riproduca, e diminuisce l’incentivo a impiegare forza lavoro proletaria per aumentare il capitale, facendo così aumentare, ceteris paribus,
l’esercito industriale di riserva. Quindi, l’aumento del potere dell’esercito industriale attivo di resistere allo sfruttamento si traduce pressoché
automaticamente in una perdita di legittimità dell’ordine borghese.
Allo stesso tempo, la perdita di legittimità dovuta all’incapacità di
assicurare la sopravvivenza dell’esercito di riserva finisce per tradursi in
un potere maggiore (e qualitativamente superiore) dell’esercito attivo.
Nella visione di Marx, infatti, l’esercito attivo e quello di riserva erano
costituiti dalle stesse persone, che si assumeva passassero pressoché continuamente dall’uno all’altro. Gli stessi individui avrebbero fatto parte
dell’esercito attivo oggi e di quello di riserva domani, a seconda
dell’andamento delle imprese, delle attività e dei luoghi di produzione.
L’ordine borghese avrebbe così perso legittimità allo stesso tempo tra i
membri dell’esercito di riserva e di quello attivo, alimentando così la
tendenza di chi si trova a essere parte dell’esercito attivo a trasformare
l’associazione dei lavoratori nel processo produttivo da strumento di
sfruttamento da parte della borghesia a strumento di lotta contro la borghesia.
Tre postulati
La forza di questo modello sta nella sua semplicità. È basato su tre
postulati. Primo, come Marx avrebbe affermato nel Terzo libro del Capitale, il limite del capitale è il capitale stesso. In altre parole, lo sviluppo e
la fine del capitale sono inscritte nei suoi “geni”. L’elemento dinamico è
“il progresso dell’industria”, senza il quale l’accumulazione capitalistica
non può procedere. Ma l’avanzamento dell’industria sostituisce la concorrenza tra i lavoratori, su cui si basa l’accumulazione, con la loro unione. Prima o poi, l’accumulazione capitalistica si sconfigge da sé.
66
Questa visione deterministica, tuttavia, si riferisce solo al sistema
nel suo insieme e su un ampio arco temporale; l’esito in particolari luoghi e tempi rimane completamente indeterminato. Si verificano sconfitte
e vittorie del proletariato, ma entrambe sono necessariamente temporanee e localizzate e tendono ad essere controbilanciate dalla logica della
concorrenza tra imprese capitalistiche e tra proletari. L’unico elemento
inevitabile nel modello è che nel lungo periodo l’accumulazione capitalistica crea le condizioni per un aumento delle vittorie del proletariato
rispetto alle sue sconfitte, finché l’ordine borghese viene eliminato,
sostituito o completamente trasformato.
I tempi e le modalità della transizione a un ordine post-borghese
restano a loro volta indeterminati. Dato che la transizione dipende da
una molteplicità di vittorie e sconfitte che si combinano in modo imprevedibile nello spazio e nel tempo, poco è detto nel Manifesto sul profilo
della società futura, eccetto che essa avrebbe avuto l’impronta della cultura proletaria – quale che questa possa essere al momento della transizione.
Un secondo postulato è che gli agenti del cambiamento sociale a
lungo termine e su larga scala sono personificazioni di tendenze strutturali. La concorrenza tra capitalisti assicura il progresso dell’industria e la
concorrenza tra lavoratori salariati assicura l’afflusso di profitti alla borghesia. Il progresso dell’industria, tuttavia, significa una crescente cooperazione all’interno del processo di produzione, e, a un certo stadio di
sviluppo, questa trasforma il proletariato da un insieme di individui in
competizione tra di loro in una classe coesa capace di mettere fine allo
sfruttamento.
Coscienza e organizzazione sono riflessi di processi strutturali di
concorrenza e cooperazione che non dipendono da una volontà individuale o collettiva. Le molteplici lotte dei proletari sono un elemento
essenziale per trasformare i cambiamenti delle strutture economiche in
cambiamenti nell’ideologia e nell’organizzazione, ma hanno a loro volta
radici nei processi strutturali. Questa è l’unica “nozione” che può essere
utilmente “portata” al proletariato dall’esterno:
I comunisti non sono un partito particolare di fronte agli altri partiti
operai.
I comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato.
I comunisti non pongono principi speciali sui quali vogliano modellare il
movimento proletario.
I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo per il fatto che
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da una parte essi mettono in rilievo e fanno valere gli interessi comuni,
indipendenti dalla nazionalità, dell’intero proletariato, nelle varie lotte
nazionali dei proletari; e dall’altra per il fatto che sostengono costantemente l’interesse del movimento complessivo, attraverso i vari stadi di
sviluppo percorsi dalla lotta fra proletariato e borghesia2.
mezzi di sussistenza, o un membro di una classe universale che lotta
contro la borghesia. Tra la classe universale e l’individuo atomizzato non
c’è aggregazione intermedia capace di fornire sicurezza o status in competizione con l’appartenenza di classe. La concorrenza rende tali aggregazioni intermedie instabili e, di conseguenza, transitorie.
Il terzo postulato del modello è la supremazia dell’economia sulla
cultura e sulla politica. Il proletariato stesso è definito in termini puramente economici come “la classe degli operai moderni, che vivono solo
fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo fintantoché il loro
lavoro aumenta il capitale. Questi operai che sono costretti a vendersi al
minuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sono
quindi esposti a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le
oscillazioni del mercato”3.
Allo stesso modo, lo schema marxiano riduce le lotte per il potere
a un mero riflesso della concorrenza o della lotta di classe. Non c’è spazio per la ricerca del potere fine a se stessa. L’unica cosa che viene ricercata in sé è il profitto, la principale forma di surplus, attraverso la quale
si genera l’accumulazione. I governi sono strumenti della concorrenza o
del potere di classe, semplici comitati “per la gestione degli affari comuni all’intera borghesia”. Ancora una volta, è la concorrenza che impone
ai governi questo modello. Se non si conformano alle regole del gioco
capitalistico, sono destinati a perdere anche nel gioco del potere:
La condizione del proletariato
Tutta l’opera di Marx ha avuto come obiettivo smascherare la
mistificazione legata a considerare la forza lavoro una merce come le
altre. Essendo inseparabile dal suo proprietario, e quindi dotata di
volontà e intelligenza, la forza lavoro era diversa da ogni altro “articolo
commerciale”. Nello schema marxiano, però, questo emergeva solo nelle lotte del proletariato contro la borghesia, e anche lì solo come indifferenziata volontà e intelligenza del proletariato. Le differenze individuali
e di gruppo all’interno del proletariato sono minimizzate o respinte
come residui del passato, che vengono via via eliminati dalle leggi della
concorrenza. Il proletario non ha nazione né famiglia:
Per la classe operaia non hanno più valore sociale le differenze di sesso e
di età. Oramai ci sono solo strumenti di lavoro che costano più o meno a
seconda dell’età e del sesso4.
Il soggiogamento moderno al capitale, identico in Gran Bretagna e in
Francia, in America e in Germania, lo ha spogliato di ogni carattere
nazionale
Le separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparendo sempre più già con lo sviluppo della borghesia, con la liberta di commerciò, col mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e delle corrispondenti condizioni d’esistenza5.
Nello schema marxiano, quindi, il proletario è o un membro atomizzato in concorrenza con altri individui (ugualmente atomizzati) per i
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I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con la quale [la
borghesia] spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla
capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le
nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non
vogliono andare in rovina, le costringe a introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola, essa si crea un
mondo a propria immagine e somiglianza6.
In conclusione, l’eredità marxiana consisteva originariamente di un
modello della società borghese che presentava tre previsioni forti: 1) La
società borghese tende a polarizzarsi in due classi, la borghesia stessa e il
proletariato, inteso come una classe di lavoratori che si riproducono
solo finché trovano lavoro, e trovano lavoro solo finché la loro forza
lavoro fa incrementare il capitale; 2) L’accumulazione capitalistica tende
a impoverire e, allo stesso tempo, a rafforzare il proletariato all’interno
della società borghese. Il rafforzamento si riferisce al ruolo del proletariato come produttore di ricchezza sociale, l’impoverimento al suo ruolo
di forza lavoro pressoché mercificata, soggetta alle vicissitudini della
concorrenza; 3) Le leggi della concorrenza, socialmente e politicamente
cieche, tendono a far confluire queste due tendenze in una generale perdita di legittimità dell’ordine borghese, che provoca la sua sostituzione
da parte di un ordine mondiale senza concorrenza né sfruttamento.
Per valutare in che misura queste previsioni siano state confermate dalla successiva storia del capitalismo, è utile dividere i 140 anni che
69
ci separano dal 1848 in tre periodi di lunghezza analoga: dal 1848 al
1896; dal 1896 al 1948; e dal 1948 a oggi. Questa periodizzazione è
significativa per molti dei problemi in questione. Tutti i periodi corrispondono a un’“onda lunga” dello sviluppo economico, ciascuna comprendente una fase di “prosperità” in cui prevale la cooperazione, e
una fase di “depressione”, in cui prevale la concorrenza. Tuttavia, ogni
periodo di cinquant’anni ha le sue caratteristiche peculiari.Tra il 1848 e
il 1896 il capitalismo concorrenziale e la società borghese analizzati da
Marx raggiunsero il loro apogeo. In questo periodo nacque il movimento operaio moderno e divenne immediatamente la principale forza
anti-sistemica. Dopo una lunga lotta tra dottrine rivali, il marxismo
divenne l’ideologia dominante del movimento. Nel periodo dal 1896 al
1948 il capitalismo concorrenziale e la società borghese, come teorizzato da Marx, entrarono in una crisi prolungata che risultò fatale. Il
movimento operaio raggiunse il suo apogeo come principale forza antisistemica, e il marxismo si consolidò ed estese la sua egemonia sui
movimenti anti-sistemici. Tuttavia, nuove divisioni comparvero
all’interno di questi movimenti, e il marxismo stesso si spaccò in una
corrente rivoluzionaria e una riformista. Dopo il 1948 il capitalismo
manageriale emerse dalle ceneri del capitalismo concorrenziale come
struttura dominante dell’economia-mondo. La diffusione dei movimenti anti-sistemici crebbe ancora, ma con essa aumentò la frammentazione e gli antagonismi reciproci. Sotto la pressione di tali antagonismi,
il marxismo è caduto in una crisi dalla quale non si è ancora ripreso, e
dalla quale potrebbe non riprendersi più.
1. L’ASCESA DEL MOVIMENTO OPERAIO MONDIALE
Le tendenze e gli eventi fondamentali del primo periodo (18481896) confermarono le previsioni del Manifesto. La diffusione del libero
commercio e la rivoluzione dei trasporti nei 20-25 anni successivi al
1848 fecero del capitalismo concorrenziale una realtà globale come mai
prima. La concorrenza nel mercato globale s’intensificò e l’industria si
sviluppò rapidamente per la maggior parte del cinquantennio. La proletarizzazione degli strati intermedi della società si accentuò, anche se non
si diffuse ovunque in modo irreversibile, come si è spesso sostenuto. In
parte per la contrazione degli strati intermedi, in parte per l’aumento
del divario tra i redditi delle famiglie proletarie e delle famiglie borghesi,
e in parte per la maggiore concentrazione e segregazione residenziale
70
del proletariato, la polarizzazione della società in due classi distinte e
contrapposte sembrava una tendenza indiscutibile, seppur in misura
diversa tra paesi.
A venir in evidenza fu anche la tendenza dell’accumulazione capitalistica a impoverire e rafforzare allo stesso tempo il proletariato. La
maggiore concentrazione del proletariato associata alla diffusione
dell’industrializzazione rese molto più facile la sua organizzazione in sindacati, e la posizione strategica dei salariati nei nuovi processi di produzione diede a tali organizzazioni un potere considerevole, non solo
rispetto ai datori di lavoro, ma anche rispetto ai governi. I successi del
movimento operaio inglese nella fase di espansione dell’economia della
metà del diciannovesimo secolo, con la limitazione dell’orario di lavoro
giornaliero e l’estensione del diritto di voto, furono la più visibile, ma
non la sola, espressione di tale potere. Al contempo, tuttavia, il proletariato si impoveriva. A ogni vittoria le forze di mercato rispondevano
limitando la capacità dei lavoratori di resistere alle imposizioni economiche e politiche della borghesia. Fu in questo periodo che la disoccupazione acquistò nuove dimensioni qualitative e quantitative, riducendo i
miglioramenti nelle condizioni di lavoro e di vita del proletariato e
intensificando le pressioni competitive al suo interno.
Infine, come previsto dal Manifesto, le due opposte tendenze
all’impoverimento e al rafforzamento del proletariato ebbero l’effetto
comune di ridurre il consenso del proletariato nei confronti del dominio
della borghesia. Una circolazione relativamente libera delle merci, del
capitale e dei lavoratori all’interno degli Stati e tra Stati diversi diffuse i
costi e i rischi della disoccupazione tra le famiglie proletarie. La conseguente perdita di legittimazione portò a un nuovo livello di autonomia
politica del proletariato nei confronti della borghesia. Solo in quel
momento iniziò l’era dei partiti politici operai. Ma indipendentemente
dalla creazione di tali partiti, i lavoratori salariati in tutti i paesi del centro si liberarono della tradizionale subordinazione agli interessi politici
della borghesia e iniziarono a perseguire i propri interessi in modo indipendente e, se necessario, in opposizione ad essa. L’espressione più
spettacolare (e drammatica) di questa emancipazione politica fu la
Comune di Parigi del 1871. Nella Comune per la prima volta il proletariato detenne il potere politico “per due interi mesi” (come scrisse entusiasticamente Marx nella prefazione dell’edizione tedesca del 1872 del
Manifesto). Sebbene sconfitta, la Comune di Parigi fu salutata da Marx
71
come un esempio della futura organizzazione del proletariato come classe dominante.
La stretta corrispondenza delle tendenze e degli eventi del periodo
tra il 1848 e il 1896 con le previsioni del Manifesto spiega in gran parte
l’egemonia che Marx e i suoi sostenitori stabilirono sul nascente movimento operaio europeo. Il loro successo arrivò solo dopo prolungate
lotte intellettuali intorno all’irreversibilità storica della proletarizzazione
– se essa costituisse la giusta base a partire dalla quale far avanzare le lotte del presente per la società del futuro, come teorizzato da Marx, o se il
proletariato potesse storicamente recuperare la sua indipendenza economica perduta attraverso qualche forma di produzione cooperativa. Quest’ultima visione era stata propugnata in precedenza dagli owenisti in
Gran Bretagna e dai fourieristi in Francia, ma persisteva in nuove e
diverse forme tra i sostenitori di Proudhon e Bakunin in Francia, Belgio,
Russia, Italia e Spagna, e tra quelli di Lassalle in Germania.
La Prima Internazionale fu essenzialmente una cassa di risonanza
di questa lotta intellettuale, che vide Marx dalla parte dei sindacalisti
inglesi (gli unici veri rappresentanti di un proletariato industriale effettivamente esistente), in opposizione a un insieme di intellettuali rivoluzionari e riformisti (alcuni dei quali di estrazione proletaria) dell’Europa
continentale. Sebbene Marx riuscì quasi sempre a dominare la partita,
non ottenne mai una netta vittoria e, quando ci riuscì, l’impatto sul
movimento reale fu illusorio. Il momento della verità arrivò con la
Comune di Parigi. Le conclusioni che Marx trasse da quell’esperienza
(la necessità di costituire partiti operai legali in ogni paese come presupposto della rivoluzione socialista) gli alienarono, per ragioni opposte, le
simpatie dei rivoluzionari continentali e dei sindacalisti inglesi. La fine
dell’Internazionale era segnata7.
Verso una nuova Internazionale
Proprio mentre, intorno al 1873, la Prima Internazionale si stava
disgregando senza nessun vincitore e con molti sconfitti, la fase di “prosperità” della metà del secolo sfociò nella grande depressione della fine
del secolo, e si crearono le condizioni sia per lo sviluppo del movimento
operaio nella sua forma moderna, sia per il consolidamento dell’egemonia marxista sul movimento. L’intensificazione della pressione competitiva ampliò e approfondì i processi di proletarizzazione e moltiplicò le
occasioni di conflitto tra capitale e lavoro. Tra il 1873 e il 1896, gli scio-
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peri si propagarono come mai prima in un paese dopo l’altro, mentre
partiti operai nascevano in tutta Europa, secondo le linee enunciate da
Marx nel 1871. Nel 1896 una nuova Internazionale, basata stavolta su
partiti operai con una larga unità di intenti, divenne realtà.
Il successo del Manifesto nel prevedere le tendenze generali del
cinquantennio successivo fu ed è tuttora stupefacente. Tuttavia, non tutti i fatti rilevanti rientrarono nello schema marxiano, in particolare la
stessa politica proletaria. L’unico tentativo significativo da parte del proletariato di imporsi come classe dominante secondo le linee teorizzate
da Marx, la Comune di Parigi, fu quasi completamente priva di legami
con le tendenze che, secondo tale teoria, avrebbero dovuto portare alla
presa rivoluzionaria del potere. Non fu, infatti, il risultato di fattori
strutturali (il rafforzamento del proletariato dovuto al progresso industriale, combinato con il suo impoverimento dovuto alla mercificazione), ma soprattutto di fattori politici: la sconfitta della Francia da parte
della Prussia e le dure condizioni imposte dalla guerra. In altre parole, il
proletariato tentò una rivoluzione politica non per la crescente contraddizione tra l’aumento del suo sfruttamento e del suo potere nel processo
di produzione, ma perché lo Stato borghese aveva dimostrato di essere
incapace di “proteggere” la società francese in generale, e il proletariato
parigino in particolare, da un altro Stato.
Si potrebbe sostenere che la sconfitta in guerra fu solo il detonatore di contraddizioni strutturali che erano in realtà la vera causa
dell’esplosione. È senza dubbio vero che dove le contraddizioni strutturali erano più sviluppate (in Gran Bretagna, nel periodo esaminato, e
negli Stati uniti, a partire dalla fine degli anni Settanta del XIX secolo) il
livello di scontro diretto tra capitale e lavoro era più alto che altrove
(come si vede, ad esempio, dalla frequenza degli scioperi)8. Il problema
è, tuttavia, che le agitazioni operaie in questi paesi non mostrarono alcuna propensione a tradursi in rivoluzione politica. Se il proletariato industriale inglese (fino ad allora il più sviluppato come classe in sé, e, intorno al 1871, il più incline a usare l’arma dello sciopero) avesse mostrato
una qualche propensione rivoluzionaria, i suoi rappresentanti nella Prima Internazionale avrebbero assunto un atteggiamento più favorevole
riguardo alla Comune di Parigi. Il loro atteggiamento negativo fu in
realtà sintomatico di un rilevante problema della teoria marxiana, e probabilmente giocò un ruolo decisivo nell’indurre Marx ad abbandonare
il terreno della politica attiva.
Il distacco tra forme di lotta di classe dirette e indirette fu confermato in altro modo dopo la Comune di Parigi. Come abbiamo visto,
73
l’inizio della grande depressione della fine del XIX secolo coincise con
un forte aumento degli scioperi (la forma più diretta di lotta di classe) e
con la formazione dei partiti operai (una forma indiretta di lotta di classe). Anche se queste due tendenze sembrarono convalidare le previsioni
del Manifesto, il fatto che si presentassero in aree geografiche diverse
non corrispondeva allo schema marxiano. I paesi che erano in testa
quanto a frequenza degli scioperi (Gran Bretagna e Stati uniti) erano
quelli più in ritardo nella formazione di partiti operai; il contrario accadeva in Germania. In generale, la formazione di partiti operai sembrava
avere poco a che fare con lo sfruttamento economico, la formazione della classe operaia e il conflitto tra capitale e lavoro. I fattori determinanti
sembravano piuttosto essere la centralità reale o percepita dello Stato
nella regolazione sociale ed economica, e la lotta per i diritti civili fondamentali (in primo luogo il diritto di riunione e di voto) del e per il proletariato. In Germania, dove lo Stato era molto presente e al crescente
proletariato industriale erano negati i diritti fondamentali, la lotta di
classe prese la forma indiretta dell’organizzazione di un partito operaio.
Solo alla fine della grande depressione, in particolare nella fase di espansione economica successiva ad essa, la lotta di classe prese la forma di
uno scontro diretto tra capitale e lavoro. In Gran Bretagna e negli Stati
uniti, dove lo Stato era meno centralmente organizzato e al proletariato
erano già assicurati i diritti fondamentali, la lotta di classe prese la forma
dello sciopero e della formazione di sindacati, mentre i tentativi di formare significativi partiti operai nazionali ebbero successo solo molto più
tardi (in Gran Bretagna) o mai (negli Stati uniti).
Tali differenze verranno discusse nella prossima sezione. Per ora ci
limitiamo a notare che la storia della lotta di classe nel cinquantennio
successivo alla pubblicazione del Manifesto fornisce sia prove molto forti a supporto delle sue più importanti previsioni, sia materia di riflessione sulla validità della relazione, postulata da Marx ed Engels, tra lotta di
classe e rivoluzione socialista. Più specificamente, la formazione socioeconomica del proletariato industriale ha condotto allo sviluppo di forme dirette di lotta di classe, ma non allo sviluppo di tendenze politiche,
per non dire rivoluzionarie, all’interno del proletariato. L’atteggiamento
del proletariato nei confronti del potere politico è rimasto puramente
strumentale a meno che, come nell’Europa Continentale, le stesse condizioni politiche (relazioni tra Stati e relazioni tra Stato e cittadini) non
richiedessero una partecipazione politica più diretta e, se necessario,
rivoluzionaria. Nei grandi progressi di fine secolo del movimento ope-
74
raio (e del marxismo al suo interno), queste anomalie dovevano sembrare dettagli trascurabili. Inoltre, era ancora ragionevole aspettarsi che la
mano invisibile del mercato avrebbe appianato le divergenze nazionali, e
avrebbe fatto convergere il movimento operaio di tutti i paesi verso un
comune percorso di lotta, coscienza e organizzazione. Come si è compreso solo più tardi, quella che era stata un’anomalia irrilevante è diventata nella successiva metà del secolo una tendenza storica fondamentale,
che ha diviso il movimento operaio in due campi opposti e avversi.
2. GUERRE MONDIALI, MOVIMENTI E RIVOLUZIONE
Tra il 1896 e il 1948 l’ordine del mercato mondiale per gli attori
politici e sociali si spezzò, e le aspettative di Marx sull’omogeneizzazione
delle condizioni di vita del proletariato mondiale furono disattese.
Seguendo l’ideologia liberale del XIX secolo, Marx assumeva che il
mercato mondiale operasse sopra le teste, anziché attraverso l’azione
degli attori statali. Questo si rivelò un grave errore, perché il mercato
mondiale del suo tempo era anzitutto uno strumento del dominio inglese sul sistema statale allargato dell’Europa. In quanto tale, la sua efficacia si basava su una particolare distribuzione di potere e ricchezza tra
una molteplicità di gruppi dominanti il cui consenso, o per lo meno
acquiescenza, era essenziale al mantenimento dell’egemonia inglese.
La grande depressione del 1873-1896 costituì sia l’apice sia il punto terminale dell’ordine del mercato mondiale per come questo era stato
istituito nel XIX secolo. Un aspetto fondamentale della depressione fu
l’afflusso in Europa di grandi quantità di grano a basso costo dalle zone
d’oltremare (e dalla Russia). I principali beneficiari furono i produttori
d’oltremare (gli Stati uniti in primo luogo) e la stessa Gran Bretagna,
che era il principale importatore di grano e controllava la maggior parte
dell’intermediazione commerciale e finanziaria mondiale. A essere danneggiata fu soprattutto la Germania, poiché la sua crescente ricchezza e
potere si basavano molto sulla produzione agricola interna e molto poco
sull’organizzazione del commercio e della finanza mondiali. Minacciate
dai nuovi sviluppi, le classi dominanti tedesche reagirono rafforzando il
complesso militare-industriale con l’intenzione di sostituire o affiancare
la Gran Bretagna ai vertici dell’economia-mondo. Il risultato fu una lotta di potere aperta e generalizzata nel sistema interstatale, che si risolse
solo dopo due guerre mondiali.
Nel corso di questa lotta, l’ordine del mercato mondiale venne
75
limitato e del tutto sospeso durante e dopo la Prima guerra mondiale.
La fine dell’ordine del mercato mondiale non fermò, tuttavia, il “progresso dell’industria” e la “mercificazione del lavoro”, le due tendenze
che, nello schema marxiano, avrebbero dovuto generare un contemporaneo aumento del potere sociale e della miseria della forza lavoro. Al
contrario, le guerre mondiali e la loro preparazione furono fattori più
significativi, per il progresso industriale e la miseria di massa, di quanto
l’ordine di mercato fosse mai stato. Ma la fine del mercato mondiale
significò che il potere e la miseria del proletariato mondiale vennero
distribuiti in modo molto meno uniforme di prima.
In generale, nei periodi di mobilitazione bellica aumentava l’esercito industriale attivo (sia in assoluto, sia rispetto all’esercito di riserva)
nella maggior parte delle zone dell’economia-mondo, inclusi i paesi non
direttamente coinvolti in guerra. Inoltre, la crescente “industrializzazione della guerra” tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo aveva reso la
cooperazione delle reclute industriali importante quanto (se non di più)
la cooperazione delle reclute militari per gli esiti degli sforzi bellici. Il
potere sociale della forza lavoro aumentò così di pari passo con l’escalation della lotta per il potere nel sistema interstatale.
Tuttavia, le guerre mondiali assorbirono una crescente quantità di
risorse e disgregarono allo stesso tempo le reti di produzione e scambio
attraverso le quali queste stesse risorse venivano procurate. Di conseguenza, la capacità complessiva delle classi dominanti di accontentare le
richieste dei lavoratori si ridussero, o non crebbero con la stessa rapidità
del potere sociale del lavoro. Le guerre mondiali crearono così quella
combinazione di potere e povertà del proletariato che, nello schema
marxiano, avrebbe dovuto condurre a un’intensificazione della lotta di
classe e, da ultimo, alla fine del dominio del capitale.
Entrambe le guerre mondiali, in effetti, innescarono ondate globali
di lotte di classe. Gli scioperi diminuirono all’inizio delle due guerre,
per aumentare rapidamente negli ultimi anni dei conflitti. Le agitazioni
mondiali del lavoro toccarono picchi senza precedenti, che non sono
stati più eguagliati. Ciascun picco è stato associato a una rivoluzione
socialista, prima in Russia e poi in Cina. Anche se queste ondate di lotte
di classe non posero fine al dominio del capitale, determinarono cambiamenti fondamentali nei modi del suo esercizio. Questi cambiamenti
si svilupparono lungo due traiettorie radicalmente diverse e divergenti,
che corrispondono in modo piuttosto stretto alle posizioni prese da
Bernstein e Lenin nel corso della controversia sul revisionismo, la cosiddetta Bernstein Debatte.
76
In una delle sue risoluzioni finali, il Congresso dell’Internazionale
socialista del 1896 prevedeva un’imminente crisi generale che avrebbe
messo nell’agenda dei partiti socialisti la questione dell’esercizio del
potere statale. Sottolineava quindi per il proletariato di tutti i paesi
“l’impellente necessità di apprendere, in quanto cittadini dotati di
coscienza di classe, come amministrare gli affari dei loro rispettivi paesi
in vista del bene comune”. In linea con questa risoluzione, si decise che
i congressi futuri sarebbero stati aperti solo ai rappresentanti delle organizzazioni che si impegnassero nella trasformazione dell’ordine capitalistico in un ordine socialista e che fossero preparate a partecipare all’attività legislativa e parlamentare. Gli anarchici vennero quindi esclusi.
Movimento e fine
La fine della vecchia controversia tra i sostenitori di Marx e di
Bakunin segnò l’inizio di una nuova controversia tra gli stessi seguaci di
Marx. Se l’obiettivo di lavorare per la trasformazione socialista dell’ordine capitalistico era espresso in termini tanto vaghi e ambigui da potersi
adattare a tutte le sfumature di opinione tra i sostenitori di Marx, la
definizione di un obiettivo politico comune per il proletariato di tutti i
paesi poneva problemi teorici e pratici fondamentali. Eduard Bernstein
fu il primo a mettere allo scoperto tali problemi.
Anche se Bernstein è passato alla storia come il “grande revisionista” del pensiero marxiano, il suo revisionismo era molto moderato,
soprattutto rispetto a quello di alcuni dei suoi oppositori “ortodossi”. In
linea con i principi del socialismo “scientifico”, egli cercò una conferma
o una smentita delle tesi marxiane sull’aumento di lungo periodo sia del
potere sociale che della miseria del lavoro. Bernstein, come Marx, pensava che il modello migliore per il futuro del movimento operaio
nell’Europa continentale, e in particolare in Germania, fosse da ricercare nel passato e presente del movimento operaio inglese e concentrò
quindi la sua attenzione sulle tendenze di quest’ultimo.
Muovendo da tali premesse, Bernstein trovò molte prove che
sostenevano la prima tesi, ma poche che sostenevano la seconda: non
solo c’erano stati significativi miglioramenti dei livelli di vita e di lavoro
del proletariato industriale, ma la democrazia politica si era estesa e trasformata da strumento di subordinazione in strumento di emancipazione della classe operaia. Scrivendo alla fine della grande depressione del
1873-96 e all’inizio della belle époque del capitalismo europeo, egli non
vedeva motivi per cui queste tendenze si sarebbero dovute rovesciare
77
nel futuro. Le istituzioni liberali della società moderna erano destinate a
durare, ed erano sufficientemente flessibili per adattarsi a un aumento
indefinito del potere sociale del lavoro. Come in passato, tutto ciò che
era necessario era “una organizzazione e una azione energica” (corsivo
aggiunto). Una rivoluzione socialista, nel senso di una dittatura rivoluzionaria del proletariato, non era né necessaria né desiderabile9.
Bernstein riassunse la sua posizione nello slogan “Il movimento è
tutto, il fine è nulla”. Questo suonò come una provocazione sia per i
marxisti riformisti, sia per i rivoluzionari. In effetti, fu un riformista,
Karl Kautsky, a guidare l’attacco contro il revisionismo di Bernstein.
Kautsky affermava che le vittorie economiche e politiche del proletariato erano congiunturali, che una crisi generale era inevitabile e in procinto di verificarsi, e che in tale crisi la borghesia avrebbe provato a riprendere con la forza ogni concessione economica e politica fatta precedentemente al proletariato. In tali circostanze, tutto sarebbe andato perso, a
meno che il proletariato e le sue organizzazioni non fossero state pronte
a impadronirsi e a conservare, se necessario con mezzi politicamente
rivoluzionari, i vertici del potere statale ed economico. Cosi, sebbene
Kautsky conservasse tutte le ambiguità di Marx sulla relazione tra le lotte attuali del proletariato (il “movimento” nello slogan di Bernstein) e
gli obiettivi finali della rivoluzione socialista (il “fine”), la sua posizione a
quel tempo non era lontana dalla conclusione che il fine fosse tutto e il
movimento nulla.
Kautsky, tuttavia, non giunse mai a tale conclusione. Fu Lenin,
che era stato dalla parte di Kautsky contro Bernstein, a portare l’argomentazione di Kautsky alle sue logiche conclusioni. Se soltanto una
presa del potere statale da parte dei socialisti avrebbe potuto salvaguardare ed espandere le precedenti conquiste del movimento operaio, allora essa avrebbe dovuto avere netta priorità rispetto a queste
ultime. Ne seguiva che le conquiste del movimento operaio erano illusorie. In primo luogo, non tenevano conto delle future perdite che il
movimento operaio, lasciato a se stesso, avrebbe inevitabilmente
incontrato. In secondo luogo, riflettevano solo un lato della condizione del proletariato. Aggiungendo nuova enfasi alla tesi dell’“aristocrazia operaia”, Lenin respingeva implicitamente la visione di Marx che il
migliore esempio d’azione per il movimento operaio nell’Europa continentale e altrove fosse da ritrovare nella storia del movimento operaio inglese. L’aumento del potere sociale del lavoro in Gran Bretagna
era un fenomeno locale e di breve periodo, legato alla posizione del
paese nell’economia mondiale. L’avvenire del proletariato dell’Europa
78
continentale, e dell’impero russo in particolare, era l’aumento della
miseria e la continuazione dell’oppressione politica, malgrado la presenza di movimenti operai forti e ben organizzati.
Ne seguivano due conclusioni. In primo luogo, le conquiste (o gli
insuccessi) dei movimenti operai producevano idee sbagliate nella leadership e tra i membri del proletariato. La consapevolezza della necessità e della possibilità di una rivoluzione socialista poteva svilupparsi
solo fuori dai movimenti e doveva essere portata loro da un’avanguardia
rivoluzionaria di professione. In secondo luogo, le organizzazioni del
movimento operaio dovevano essere trasformate in “cinghie di trasmissione” capaci di far pervenire alle masse proletarie gli ordini delle avanguardie rivoluzionarie. Nella sua teorizzazione, il movimento era davvero nulla, un mero mezzo, e il fine tutto.
Un bilancio contraddittorio
Guardando retrospettivamente allo sviluppo effettivo del movimento operaio nell’intero periodo 1896-1948, troviamo moltissime cose
che convalidano tanto la posizione di Lenin quanto quella di Bernstein,
ma poche che confermano la posizione intermedia di Kautsky. Tutto
dipende dalla prospettiva che assumiamo. La previsione/prescrizione di
Bernstein che organizzazione e azione energica fossero sufficienti a
costringere o a indurre le classi dominanti ad adattarsi economicamente
e politicamente all’aumento di lungo periodo del potere sociale del lavoro, associato al progresso dell’industria, coglie l’essenza della traiettoria
del movimento operaio nel mondo anglosassone e scandinavo. Nonostante due guerre mondiali e una catastrofica crisi economica globale,
che Bernstein non seppe prevedere, il proletariato continuò in quelle
zone a conoscere un miglioramento di benessere economico e rappresentanza governativa commisurato al suo ruolo sempre più importante
nel sistema della produzione sociale.
I progressi più spettacolari si verificarono in Svezia e in Australia.
Ma gli avanzamenti più significativi dal punto di vista della politica
dell’economia-mondo ebbero luogo in Gran Bretagna (lo Stato egemonico in declino, ma ancora potere coloniale dominante) e negli Stati uniti (lo Stato egemonico emergente). Le organizzazioni del lavoro, che
avevano un ruolo marginale e subordinato nella politica nazionale di
entrambi gli Stati nel 1896, erano diventate nel 1948 il partito al governo in Gran Bretagna e una forza con un’influenza decisiva sul governo
negli Stati uniti. Questi risultati vennero raggiunti proprio secondo le
79
linee previste e prescritte da Bernstein, cioè attraverso azioni energiche e
ben organizzate, capaci di sfruttare ogni occasione per trasformare il
crescente potere sociale del lavoro in un maggior benessere economico e
rappresentanza politica. In questo contesto, l’obiettivo della rivoluzione
socialista non si affacciò mai, e le avanguardie rivoluzionarie del proletariato trovarono pochi sostenitori.
Tuttavia, il periodo tra il 1896 e il 1948 fu anche il periodo di maggior successo per le rivoluzioni socialiste, il periodo, cioè, in cui le autoproclamatesi avanguardie del proletariato assunsero il controllo sugli
Stati di quasi metà dell’Eurasia. Anche se diverse in molti aspetti, le
esperienze del proletariato nell’impero russo e in quello che era stato
l’impero cinese presentavano importanti analogie. Forti movimenti di
protesta (nel 1905 in Russia, tra il 1925 e il 1927 in Cina) non erano riusciti a migliorare le condizioni di vita del proletariato: la sua esperienza
era dominata dalla crescita della miseria di massa, piuttosto che da un
maggior potere sociale. L’escalation nella lotta di potere interstatale
(“l’imperialismo” nella teoria della rivoluzione di Lenin) aveva poi ulteriormente diminuito la capacità delle classi dominanti di garantire al
proletariato una minima protezione.
In tali circostanze un’avanguardia di rivoluzionari di professione,
esperti nell’analisi scientifica degli eventi sociali, delle tendenze e delle
congiunture, poteva trarre vantaggio dalla disgregazione delle reti di
potere nazionali e mondiali e realizzare con successo rivoluzioni socialiste. Il fondamento del potere di questa avanguardia era l’impoverimento
di masse sfruttate sempre più grandi, senza riguardo alla loro precisa
collocazione di classe. La crescente miseria sociale trasformava, infatti,
la grande maggioranza della popolazione in membri reali o potenziali
dell’esercito industriale di riserva e, allo stesso tempo, impediva a chiunque si trovasse nell’esercito industriale attivo di sviluppare un’identità di
classe distinta da quella di altri gruppi o classi subalterne. In questo contesto, i movimenti di protesta che si svilupparono sulla base della contingente e precaria condizione della forza lavoro salariata non garantivano né un’adeguata base per un movimento strutturato, né una direzione
per un’azione politica orientata verso la trasformazione socialista
dell’ordine sociale. I percorsi e gli strumenti di quella trasformazione si
dovevano sviluppare fuori dal movimento di protesta spontaneo delle
masse proletarie, e spesso in opposizione ad esso.
La caratteristica più impressionante di queste tendenze divergenti
(lo sviluppo del potere sociale del lavoro in alcune aree e di una rivoluzione socialista contro la miseria di massa in altre) è che, prese insieme,
80
dimostravano l’impenetrabilità storica del proletariato industriale alle
ideologie e alle pratiche del socialismo rivoluzionario. Dove il potere
sociale del proletariato industriale era forte e in crescita, la rivoluzione
socialista non trovava sostenitori; dove questa aveva sostenitori, il proletariato industriale non aveva potere sociale. Come abbiamo visto precedentemente, la correlazione inversa tra potere sociale del lavoro e orientamenti rivoluzionari era già comparsa in forma embrionale al tempo
della Comune di Parigi, ed era stata probabilmente la causa principale
dello scioglimento della Prima Internazionale. Di fronte alla scelta, teorica e politica, tra un movimento operaio forte ma riformista in Gran
Bretagna e uno rivoluzionario ma debole in Francia, Marx scelse di non
scegliere e lasciò la questione in sospeso.
Scelte fatali
Quando il marxismo cominciò a istituzionalizzarsi, contro le intenzioni originarie di Marx ed Engels, una scelta doveva essere fatta, anche
perché la separazione tra potere sociale e orientamenti rivoluzionari del
proletariato stava aumentando piuttosto che diminuire. Bernstein pose
il problema e scelse di stare dalla parte del potere sociale del lavoro (il
“movimento”); Lenin scelse di stare dalla parte delle inclinazioni rivoluzionarie che venivano dalla crescente miseria di massa (il “fine”
nell’antinomia di Bernstein); Kautsky, come Marx trent’anni prima, scelse di non scegliere. Fu questa, in fin dei conti, la sua unica legittima pretesa all’“ortodossia”.
La decisione di non scegliere ebbe implicazioni politiche disastrose. Se la scelta di Bernstein fu convalidata dalle successive affermazioni
del movimento operaio nel mondo anglosassone e in Scandinavia, e la
scelta di Lenin dalle successive affermazioni della rivoluzione socialista
in quelli che erano stati l’impero russo e l’impero cinese, la decisione di
Kautsky di non scegliere si rivelò una strategia politica disastrosa, per le
successive affermazioni della contro-rivoluzione nell’Europa centrale e
meridionale. Le cause dell’ascesa del fascismo e del nazionalsocialismo,
infatti, possono essere trovate, almeno in parte, nella cronica incapacità
delle più importanti organizzazioni della classe operaia di scegliere tra
un deciso riformismo e una decisa azione rivoluzionaria.
Questa cronica incapacità di scegliere era senza dubbio connessa
alla situazione sociale più complessa che le organizzazioni operaie avevano di fronte in queste regioni, una situazione caratterizzata da una
crescita sia del potere sociale che della miseria, piuttosto che dal preva-
81
lere di una delle due tendenze. La contraddizione era reale e localizzata.
Essa generò all’interno del proletariato industriale forti orientamenti
rivoluzionari insieme a propensioni più riformiste, una combinazione
che lasciò la leadership del movimento in un dilemma permanente. La
scelta di Kautsky di non scegliere, e l’impressionante apparato teorico e
politico che la sosteneva, fornì moltissime giustificazioni a una leadership che, invece di far pendere la bilancia in una determinata direzione,
rifletteva passivamente le divisioni che spaccavano il movimento, accrescendo la confusione e il disorientamento politico.
Non è possibile sapere se un’azione riformista o rivoluzionaria più
decisa da parte della socialdemocrazia tedesca avrebbe portato a esiti
diversi nella successiva storia tedesca e mondiale. Ma, se non bisogna
sminuire le responsabilità storiche della socialdemocrazia tedesca (o
anche del socialismo italiano) nell’aprire la strada al nazionalsocialismo
e al fascismo, non bisogna neanche ingigantirle. Infatti, i successi egemonici delle élite reazionarie nell’impadronirsi del potere in paesi tanto
diversi come la Germania, il Giappone e l’Italia avevano sia cause sistemiche mondiali sia cause locali. Le cause sistemiche mondiali erano la
combinazione dei processi di disintegrazione dell’ordine del mercato
mondiale e dell’escalation nella lotta di potere interstatale esaminata
all’inizio di questa sezione. Questi processi diedero importanza ai preparativi di guerra, che nel XX secolo consistevano, da un lato,
nell’espansione e modernizzazione del complesso militare-industriale, e
dall’altro, nell’accesso esclusivo o privilegiato alle risorse economiche
globali necessarie per quell’espansione e modernizzazione. In Stati
caratterizzati da uno squilibrio strutturale tra un apparato militare-industriale troppo esteso e una ristretta base economica, le ideologie revansciste esercitavano una forte attrattiva su gruppi sociali di tutti i tipi,
incluse frazioni non irrilevanti del proletariato industriale.
In tali circostanze, l’indeterminatezza politica generata dagli orientamenti contraddittori del proletariato industriale nei confronti del
riformismo e della rivoluzione contribuirono a indebolire la legittimità
delle organizzazioni operaie, indipendentemente dal loro ruolo
nell’accrescere tale incertezza. A prescindere dalle sue cause, l’ascesa del
nazionalsocialismo in Germania divenne l’evento decisivo che fece precipitare in un nuovo ciclo generalizzato di guerra e lotte di classe. Proprio nel corso di questo ciclo, le organizzazioni del lavoro divennero un
fattore con un’influenza politica determinante sulle grandi potenze del
mondo anglosassone e sull’assetto dei regimi socialisti rivoluzionari che
giunsero a includere quasi metà dell’Eurasia.
82
È importante sottolineare che questa prodigiosa espansione del
potere politico di rappresentanti – eletti o autonominatisi – del proletariato industriale si verificò nel contesto di una quasi totale scomparsa di
vocazioni rivoluzionarie autonome da parte del proletariato industriale
stesso. Durante e dopo la Seconda guerra mondiale quest’ultimo non
tentò in nessun luogo di prendere il potere statale attraverso “comuni”
o “soviet”, neanche nei paesi sconfitti, come aveva fatto in Francia nel
1871, in Russia nel 1917 e in Germania e Austria-Ungheria tra il 1919 e
il 1920. L’espansione dei territori governati da regimi socialisti e rivoluzionari era essenzialmente dovuta a una vittoria di eserciti contro altri
eserciti, una versione proletaria della “funzione del Piemonte” nell’unificazione italiana di Gramsci10.
Nell’Europa orientale i regimi comunisti furono istituiti, in maniera sostanziale se non formale, dall’esercito sovietico. Altrove, come in
Jugoslavia, Albania e, soprattutto, in Cina, i regimi comunisti furono
istituiti da eserciti indigeni creati e controllati da élite politiche rivoluzionarie e da quadri che avevano preso la guida della lotta di liberazione
nazionale contro i poteri dell’Asse. Anche in Italia e in Francia, dove i
partiti comunisti acquisirono l’egemonia su rilevanti settori del proletariato industriale, tale influenza era in gran parte il risultato della leadership formatasi nella lotta armata contro l’occupazione tedesca. Respinta
dal movimento operaio dei paesi del centro, la rivoluzione socialista
trovò sostenitori nuovi e reattivi nei movimenti di liberazione nazionale.
3. L’EGEMONIA DEGLI STATI UNITI E LA TRASFORMAZIONE DEL MOVIMENTO
OPERAIO MONDIALE
Nel 1948 una semplice estrapolazione delle principali tendenze
sociali e politiche della prima metà del secolo avrebbe indicato una fine
imminente del dominio del capitale. Ogni ciclo generalizzato di guerra e
di lotta di classe aveva portato a grandi progressi della rivoluzione socialista nella periferia e nella semiperiferia dell’economia-mondo e a grandi
progressi del potere sociale e politico del proletariato industriale nei
paesi del centro. Se le tendenze non fossero cambiate, l’unica questione
aperta sarebbe stata non se il capitalismo sarebbe sopravvissuto, ma
quale combinazione di riforme e rivoluzione l’avrebbe distrutto.
Ma il rovesciamento delle tendenze ci fu, e nel ventennio successivo il capitalismo conobbe una nuova “età dell’oro” di espansione senza
precedenti. Lo sviluppo più rilevante fu la pacificazione delle relazioni
83
interstatali e la ricostruzione del mercato mondiale sotto l’egemonia
degli Stati uniti. Fino al 1968, tale ricostruzione fu parziale e fortemente
dipendente dalle capacità militari e finanziarie degli Stati uniti. Poi, tra il
1968 e il 1973, il collasso del sistema di Bretton Woods e la sconfitta
americana in Vietnam mostrarono che queste capacità da sole non erano
né sufficienti né necessarie per la ricostruzione del mercato mondiale. È
proprio dal 1973 in poi che il mercato mondiale sembra essere diventato, entro certi limiti, una “forza autonoma” che nessuno Stato, neanche
gli Stati uniti, può controllare. Stati, grandi imprese e agenzie governative, coordinandosi, possono stabilire i limiti del mercato mondiale, ed
effettivamente lo fanno, ma non senza difficoltà e conseguenze non desiderate. Di fatto, sembrerebbe che in nessun momento della storia del
capitalismo l’ordine del mercato mondiale si sia tanto avvicinato
all’idealtipo marxiano come negli ultimi 15-20 anni.
Oggi, le basi sociali del mercato mondiale sono piuttosto diverse
da quelle del XIX secolo. Alla fine della guerra, gli Stati uniti non provarono a ristabilire lo stesso tipo di mercato mondiale che era crollato
nei cinquant’anni precedenti. A parte le lezioni storiche di tale collasso e
le differenze strutturali tra il capitalismo inglese del XIX secolo e quello
degli Stati uniti del XX secolo, che verranno discusse in seguito, il potere e l’influenza ottenuti dalle organizzazioni del lavoro negli Stati uniti e
in Gran Bretagna e le vittorie della rivoluzione socialista in Eurasia rendevano tale ricostruzione né possibile, né auspicabile. I settori più illuminati delle classi dominanti statunitensi avevano da tempo capito che
non era possibile alcun ritorno all’ordine strettamente borghese del XIX
secolo. Un nuovo ordine mondiale non poteva essere fondato sul potere
sociale e sulle aspirazioni della sola borghesia mondiale, ma doveva
anche includere la più ampia parte del proletariato mondiale che essi
ritenessero integrabile.
L’aspetto più importante di questa strategia fu l’appoggio degli
Stati uniti alla “decolonizzazione” e all’espansione/consolidamento del
sistema degli Stati sovrani. Come Wilson prima di lui, Franklin D. Roosevelt condivideva implicitamente l’idea di Lenin che la lotta per i territori e i popoli tra i paesi capitalistici del centro era un gioco a somma
negativa che creava condizioni favorevoli alle rivoluzioni socialiste e al
tramonto del dominio mondiale del capitale. Se l’ondata di rivoluzioni
socialiste in Eurasia doveva essere fermata prima che fosse troppo tardi,
questa lotta doveva essere conclusa e doveva essere riconosciuto il diritto all’autodeterminazione delle frazioni più deboli della borghesia e del
proletariato mondiale.
84
Un obiettivo secondario, ma comunque molto importante, della
strategia egemonica mondiale di Roosevelt era il riconoscimento del
potere sociale del lavoro negli Stati uniti e la sua estensione all’estero.
Questa politica aveva diversi vantaggi per la coalizione di interessi che
era giunta al governo negli Stati uniti. Dal punto di vista del capitalismo
delle grandi imprese, tale politica avrebbe creato in Europa e altrove
mercati interni per consumi di massa simili a quello degli Stati uniti,
aprendo la strada a un’ulteriore espansione transnazionale. Dal punto di
vista delle organizzazioni del lavoro, tale politica riduceva la minaccia
delle pressioni concorrenziali che venivano dai più bassi livelli di remunerazione presenti in tutti gli altri paesi del mondo. Dal punto di vista
del governo, infine, e in modo più decisivo, una politica di riconoscimento interno ed espansione all’estero del potere sociale del lavoro
significava soprattutto che gli Stati uniti potevano presentarsi, ed essere
largamente percepiti, come i portatori degli interessi non solo del capitale ma anche del lavoro. Fu questa politica, insieme al sostegno alla
decolonizzazione, a trasformare la supremazia militare e finanziaria
degli Stati uniti in una vera egemonia mondiale11.
Il potere militare e finanziario americano divenne così il veicolo
attraverso il quale l’ideologia e la prassi del primato del movimento sul
fine, tipiche del movimento operaio americano, furono esportate ovunque tale potere arrivasse. L’esportazione ebbe particolare successo in
quei paesi sconfitti (Germania occidentale e Giappone) dove l’esercito
Usa, da solo o insieme ai suoi alleati, manteneva un potere di governo
assoluto e, allo stesso tempo, dove l’industrializzazione era progredita
abbastanza da garantire alle organizzazioni del lavoro una solida base
sociale. Anche dove ebbe più successo, tuttavia, questa ristrutturazione
dall’alto dei rapporti di classe, da parte di una potenza straniera, non
avrebbe portato a molto se non fosse stata accompagnata, come avvenne, dalla ricostruzione dell’ordine del mercato mondiale e da una rapida
diffusione delle strutture di accumulazione su cui si basava il potere
sociale del lavoro negli Stati uniti.
Nella sezione precedente il movimento operaio degli Stati uniti è
stato esaminato come parte di un modello anglosassone più generale, in
cui il “movimento” prevaleva sul “fine”. Tuttavia, nel periodo tra le due
guerre, il movimento operaio americano giunse a incarnare meglio di
ogni altro paese il potere sociale che l’accumulazione di capitale metteva
nelle mani del lavoro. In altri paesi, specialmente in Gran Bretagna,
Australia e Svezia, un forte movimento operaio aveva trovato espressione nell’ascesa di partiti laburisti, che pur restando sotto il suo controllo,
85
potevano agire come sostituti e forze di complemento del movimento se
e quando era necessario. Negli Stati uniti non c’era stato tale sviluppo;
al massimo, un partito già esistente era diventato il principale rappresentante politico delle organizzazioni del lavoro. Il movimento operaio
avanzava o arretrava a seconda delle sue capacità di mobilitarsi e organizzarsi.
Le nuove strutture di accumulazione
Queste capacità erano la conseguenza non desiderata delle trasformazioni strutturali del capitale statunitense nella precedente metà del
secolo. A questo riguardo, la grande depressione del 1873-96 era stata
un punto di svolta decisivo. Fu in quel periodo che il capitale americano
aveva creato strutture di accumulazione integrate verticalmente e amministrate burocraticamente che corrispondevano al pieno sviluppo della
“produzione di plusvalore relativo” di Marx12.
Come ha puntualmente dimostrato Harry Braverman, la creazione
di queste strutture di accumulazione fu associata a una scomposizione
di classe tale per cui, mentre il processo di produzione diventava più
complesso, le capacità richieste ai lavoratori diventavano minori e più
facili da acquisire (portando così alla “dequalificazione”)13. Questa
ristrutturazione della divisione tecnica del lavoro indebolì il potere
sociale della classe dei lavoratori salariati relativamente poco numerosa
(principalmente gli operai professionali) che era in possesso delle competenze necessarie per compiere mansioni complesse. Tuttavia, la diminuzione del potere sociale degli operai professionali era solo una faccia
della medaglia. L’altra era l’aumento del potere sociale che ottenne la
classe ben più numerosa dei lavoratori salariati destinati a compiere le
mansioni più semplici (i semi-qualificati).
La “dequalificazione” fu, in verità, un’arma a doppio taglio, che
facilitò da una parte il processo di valorizzazione del capitale, rendendolo più problematico da un’altra. La valorizzazione del capitale era facilitata perché era resa meno dipendente dalle conoscenze e dalle abilità
degli operai professionali. Ma ciò si legava a un’imponente espansione
delle gerarchie manageriali (le “tecnostrutture” di Galbraith), la cui
valorizzazione dipendeva dalla velocità del processo di produzione e,
quindi, dalla volontà di una larga massa di lavoratori a basse qualifiche
di cooperare l’uno con l’altro e con il management per far funzionare i
flussi di produzione alla velocità richiesta. Questa maggiore importanza
dello sforzo produttivo di una larga massa di lavoratori a basse qualifi-
86
che per la valorizzazione di tecnostrutture complesse e costose conferì al
potere sociale del lavoro una base nuova e più ampia.
Questa nuova base si manifestò per la prima volta nel corso della
lunga ondata di scioperi e agitazioni operaie che si dispiegò negli Stati
uniti tra la metà degli anni Trenta e la fine degli anni Quaranta del XX
secolo. L’ondata di scioperi cominciò come reazione spontanea della
base militante del proletariato industriale ai tentativi del capitale di scaricare sulla forza lavoro il peso della grande depressione dei primi anni
Trenta14. La principale, e di fatto unica, organizzazione pre-esistente del
proletariato industriale di una qualche rilevanza (l’American Federation
of Labour, la Federazione americana del lavoro, Afl) non fece nulla per
lanciare gli scioperi. Divenne attiva nell’organizzazione e guida del
movimento solo quando quest’ultimo si era mostrato capace di sostenersi da sé e di costruire strutture organizzative alternative, che si concretizzarono nel Congress of Industrial Organisations (il Congresso delle
organizzazioni industriali, Cio).
Le lotte ebbero un successo particolare nel periodo della mobilitazione bellica, che, come già segnalato, aumentò il potere sociale del
lavoro. Nonostante il maccartismo, la maggior parte delle vittorie degli
anni di guerra fu consolidata nel periodo di smobilitazione, e per diecivent’anni il proletariato industriale americano conobbe un benessere
economico e un’influenza politica senza precedenti e senza pari. Tuttavia, il potere sociale del lavoro negli Stati uniti venne anche contenuto;
le forme di lotta più efficaci furono delegittimate, il conflitto istituzionalizzato, e l’espansione delle grandi imprese all’estero conobbe
un’improvvisa accelerazione.
La tendenza del capitalismo delle grandi imprese Usa a espandere
a livello transnazionale le proprie attività anticipò di molto l’ondata di
scioperi degli anni Trenta e Quaranta del XX secolo. Era insita nel processo d’integrazione verticale e di burocratizzazione del management,
che, apparso sul finire del XIX secolo, costituì la forma essenziale di
espansione del capitale. Negli anni Trenta e Quaranta, tuttavia, l’escalation nella lotta per il potere interstatale ostacolò seriamente gli investimenti diretti Usa in Europa e nelle sue colonie, proprio nel momento in
cui l’aumento del potere sociale del lavoro in patria rendeva l’espansione estera più vantaggiosa e urgente. Non dovrebbe sorprendere, quindi,
che non appena Washington ebbe creato le condizioni più favorevoli
all’espansione delle grandi imprese nell’Europa occidentale (soprattutto
attraverso il Piano Marshall), il capitale americano colse l’occasione e si
avviò a ricostruire l’Europa a sua immagine e somiglianza.
87
Il capitale statunitense non fu l’unico attore coinvolto in questa
ricostruzione dell’Europa. I governi e le aziende europee si unirono
prontamente all’impresa, in parte per eguagliare i nuovi standard di
potere e ricchezza stabiliti dagli Stati uniti e in parte per affrontare la
concorrenza portata in mezzo a loro dalle imprese Usa. Il risultato fu
un’espansione senza precedenti delle capacità produttive, che incorporava le nuove strutture di accumulazione sperimentate per la prima volta negli Stati uniti nella prima metà del secolo. Con le nuove strutture di
accumulazione si verificò anche un considerevole aumento del potere
sociale del lavoro in Europa, che si manifestò tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta con un ciclo di scioperi che presenta
forti analogie con quello sviluppatosi negli Stati uniti tra gli anni Trenta
e Quaranta. In primo luogo, tale ciclo si basava largamente sulla capacità di mobilitarsi e di auto-organizzarsi della base del proletariato industriale. Le organizzazioni operaie preesistenti, indipendentemente dal
loro orientamento ideologico, non ebbero alcun ruolo nell’avvio delle
lotte, e furono coinvolte nella guida e organizzazione della protesta solo
quando questa si mostrò capace di resistere e di costruire strutture organizzative alternative. Spesso, i nuovi movimenti entrarono in conflitto
con le organizzazioni operaie tradizionali, perché queste tentavano di
imporre i loro obiettivi politici, mentre i movimenti lottavano per mantenere la propria autonomia rispetto a obiettivi estranei alla propria condizione sociale.
In secondo luogo, le basi della mobilitazione e dell’auto-organizzazione del proletariato industriale erano del tutto interne alla condizione
proletaria. La mobilitazione autonoma del proletariato era una risposta
spontanea e collettiva ai tentativi del capitale di scaricare le crescenti
pressioni competitive dell’economia-mondo sulla forza lavoro, peggiorando il rapporto tra salari e produttività (in primo luogo esigendo un
maggiore sforzo produttivo). E l’auto-organizzazione si avvalse dell’organizzazione tecnica del processo di produzione per coordinare disparate azioni di lotta.
In terzo luogo, il movimento ebbe molto successo, non solo per
quanto riguarda i suoi obiettivi immediati, ma anche nell’indurre le classi dominanti a riconoscere il potere sociale dimostrato dal lavoro nelle
lotte. Tra il 1968 e il 1973, i livelli di remunerazione salirono rapidamente in tutta l’Europa occidentale, avvicinandosi agli standard nordamericani. Contemporaneamente, o poco dopo, caddero le restrizioni formali
o sostanziali ai diritti civili e politici del proletariato industriale ancora
presenti in molti paesi dell’Europa occidentale.
88
L’espansione transnazionale
Alla fine, il riconoscimento del potere sociale del lavoro fu rallentato e poi fermato dal riorientamento dello sviluppo produttivo verso
zone più periferiche dell’economia-mondo. Fino al 1968, l’espansione
capitalistica transnazionale, misurata ad esempio dagli investimenti
diretti verso l’estero, fu essenzialmente un fenomeno americano, mentre
la controparte europea era un residuo delle precedenti attività ed esperienze coloniali. Anche imprese capitalistiche di paesi europei piccoli e
ricchi, come la Svezia e la Svizzera, si erano impegnate in questo tipo di
espansione, ma quelle dei paesi più grandi e più dinamici del centro,
come la Germania e il Giappone, brillavano per la loro assenza nella
costruzione di reti transnazionali di produzione e distribuzione.
Poi, tra il 1968 e il 1973, si verificò un’improvvisa accelerazione di
investimenti diretti all’estero nella quale i paesi fino ad allora in ritardo, in
particolare il Giappone, ebbero un ruolo preponderante. Nel 1988 il controllo di reti transnazionali di produzione e distribuzione era diventato una
caratteristica comune del capitale del centro, indipendentemente dalla
nazionalità, con quello giapponese prossimo a superare il capitale statunitense per estensione e portata. La leadership del Giappone nell’improvvisa
impennata di investimenti diretti all’estero negli anni Settanta e Ottanta
non era solo legata a tassi di crescita eccezionalmente alti. Dietri questi ultimi c’era la capacità del Giappone di anticipare e adattarsi rapidamente alle
tendenze dell’economia-mondo nei rapporti tra capitale e lavoro. Non
appena scioperi e costi di produzione iniziarono ad aumentare all’interno, il
capitale giapponese rilocalizzò rapidamente all’estero i processi produttivi
che più dipendevano da un’ampia disponibilità di manodopera a basso
costo. Per di più, almeno nei suoi stadi iniziali, l’espansione transnazionale
del capitale giapponese, a differenza di quello Usa, si orientò principalmente verso la riduzione dei costi, piuttosto che verso l’espansione dei redditi15.
La leadership del Giappone nell’espansione transnazionale del
capitale degli anni Settanta e Ottanta era fondata sull’anticipazione delle
difficoltà create all’accumulazione di capitale dalla generalizzazione delle
strutture del capitalismo delle grandi imprese all’intero centro dell’economia-mondo. Finché il capitalismo delle grandi imprese restava un
fenomeno quasi solo statunitense, le corporation Usa potevano scegliere
tra un’ampia gamma di possibilità l’area dove cercare di valorizzazione le
loro gerarchie manageriali. Questa mancanza di concorrenza fu la ragione principale per cui le grandi imprese americane negli anni Cinquanta e
per quasi tutti gli anni Sessanta riuscirono contemporaneamente a espan-
89
dere la loro base produttiva all’estero e in patria, riconoscere il potere
sociale del lavoro che accompagnava quell’espansione, e aumentare la
massa di profitti. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, le gerarchie manageriali del capitale americano si trovarono, tuttavia, a non esser più le sole a perseguire la valorizzazione fuori dal loro
ambito originario. Imprese capitalistiche dell’Europa occidentale e del
Giappone avevano sviluppato le stesse capacità, e le aree che offrivano
simili opportunità di espansione dei profitti erano diminuite. L’Europa
occidentale, che aveva rappresentato l’area primaria di valorizzazione del
capitale americano all’estero, stava a sua volta cercando uno sbocco redditizio per le proprie tecnostrutture sovradimensionate. Le opportunità
per investimenti diretti all’estero nel resto del mondo erano strettamente
limitate o da controlli statali centralizzati sulla produzione e distribuzione
(come nei paesi comunisti), o dalla miseria di massa (come in gran parte
del Terzo mondo), o da una combinazione dei due fattori.
La corsa alla riduzione dei costi degli anni Settanta e Ottanta ha le
sue radici in questa situazione di sovraffollamento, cioè in una situazione in cui troppe grandi imprese “inseguono” poche aree capaci di offrire opportunità di espansione redditizie. Negli anni Settanta, i tentativi
da parte di Stati e grandi imprese di sostenere l’espansione produttiva e
di riconoscere il crescente potere sociale del lavoro che l’accompagnava
si risolsero in un’accentuazione delle pressioni inflazionistiche. Tali pressioni, a loro volta, aumentarono la redditività della riduzione dei costi e
l’appetibilità delle attività speculative che, negli anni Ottanta, hanno
attratto crescenti risorse monetarie ed energie imprenditoriali.
La speculazione finanziaria e la riduzione dei costi sono stati così i
riflessi dell’incapacità delle grandi imprese di adattarsi al crescente potere sociale del lavoro. L’effetto principale è stato una diffusione limitata
ma significativa della miseria di massa nelle zone centrali. Il fenomeno
ha assunto forme diverse: la caduta dei salari reali (soprattutto negli Stati uniti), la crescita della disoccupazione (soprattutto nell’Europa occidentale) e un peggioramento del rapporto tra salari e sforzo produttivo
in quasi tutte le aree centrali.
Questa crescita della miseria di massa non si è tuttavia associata a
una diminuzione proporzionale del potere sociale del lavoro. La speculazione finanziaria riflette l’emergere di un’incompatibilità tra l’espansione del capitalismo delle grandi imprese e il crescente potere sociale
del lavoro. Non si può fermare questo senza bloccare la prima. L’effetto
principale è l’indebolimento del consenso sociale su cui il dominio del
capitale si è basato a partire dalla Seconda guerra mondiale.
90
La riduzione dei costi
Per quanto riguarda la riduzione dei costi, essa ha assunto tre forme principali: 1) la sostituzione delle riserve di lavoro salariato più
costose con altre più economiche all’interno di ogni Stato del centro –
attraverso, anzitutto, la femminilizzazione del lavoro salariato e, in
secondo luogo, l’impiego di manodopera immigrata di prima generazione, spesso illegale; 2) la sostituzione della forza lavoro più costosa con
quella, più economica, al di fuori dei confini nazionali, in particolare in
regioni più periferiche – principalmente attraverso la delocalizzazione
degli impianti e la sostituzione di produzioni nazionali con importazioni; 3) la sostituzione, nei processi produttivi, del lavoro dequalificato
con lavoro intellettuale e scientifico, principalmente attraverso l’automazione e l’uso di tecnologie basate sulla scienza.
Le due prime sostituzioni sono state le più importanti nella diffusione della miseria di massa tra il proletariato dei paesi del centro. Tuttavia, nessuna delle due implica una riduzione del potere sociale complessivo del proletariato mondiale. Implicano invece un trasferimento di
potere sociale da un settore a un altro del proletariato mondiale. Nei
paesi del centro, la sostituzione trasferisce potere sociale dagli uomini
alle donne e dai lavoratori nazionali agli immigrati, all’interno del proletariato industriale; la sostituzione oltre i confini nazionali trasferisce
potere sociale dal proletariato di uno Stato a quello di un altro. In
entrambi i casi, il potere sociale cambia di mano, ma resta nelle mani del
proletariato industriale.
L’automazione e le tecnologie basate sulla scienza implicano, invece, una riduzione del potere sociale del proletariato nella sua forma
attuale. Trasferendo il controllo della qualità e della quantità della produzione dai lavoratori salariati subordinati a manager, intellettuali e
scienziati, questa sostituzione trasferisce potere sociale da lavoratori
proletarizzati a lavoratori che, nel migliore dei casi, sono proletarizzati
solo nel senso che lavorano per uno stipendio. Tuttavia, tanto più tale
tendenza è forte e tanto più è consistente la forza lavoro manageriale e
tecnologica all’interno del sistema produttivo, quanto più si accentua la
tendenza del capitale a sottomettere questa forza lavoro al suo dominio,
e a rendere la sua proletarizzazione più sostanziale di quanto fosse prima. In questo caso, quindi, c’è un trasferimento di potere sociale dal
proletariato industriale, ma solo come premessa per un futuro ampliamento delle sue dimensioni e del suo potere.
Ne consegue che il deterioramento degli standard di vita del proleta-
91
riato nei paesi del centro è legato non tanto a una perdita, quanto a una
redistribuzione del potere sociale all’interno delle sue fila, presenti e future. Potere sociale e miseria di massa non sono più così polarizzati in settori
diversi del proletariato mondiale com’erano a metà del XX secolo. La
miseria di massa ha iniziato a diffondersi tra il proletariato dei paesi del
centro, mentre il potere sociale ha iniziato a diffondersi tra il proletariato
della periferia e della semiperiferia. In breve, ci stiamo avvicinando allo
scenario prefigurato da Marx e Engels nel Manifesto, nel quale il potere
sociale e la miseria di massa della forza lavoro investono gli stessi soggetti,
piuttosto che settori differenti e separati del proletariato mondiale.
In realtà, il potere sociale e la povertà materiale sono ancora distribuiti in modo estremamente non uniforme tra i vari settori del proletariato mondiale. Per quanto ci è possibile osservare, tale disparità si manterrà ancora per molto tempo. Tuttavia, la tendenza della prima metà
del XX secolo verso una polarizzazione spaziale del potere sociale e della miseria della forza lavoro in regioni differenti e distinte dell’economia-mondo ha iniziato a invertirsi. Tra il 1948 e il 1968, il potere sociale
precedentemente detenuto quasi esclusivamente dal proletariato industriale del mondo anglosassone si è diffuso tra il proletariato industriale
dell’intera zona centrale, che è giunta a includere la maggior parte
dell’Europa occidentale e il Giappone, mentre la miseria ha continuato
a essere l’esperienza predominante delle masse proletarizzate e semiproletarizzate del Terzo mondo. A partire grosso modo dal 1968, tuttavia, questa polarizzazione è diventata controproducente per l’ulteriore
espansione del capitale. Nelle regioni centrali, l’ampliamento del potere
sociale del lavoro ha iniziato a interferire seriamente con il controllo del
capitale sui processi di produzione, Nelle regioni periferiche, invece,
l’aumento della miseria del proletariato ha indebolito la legittimità del
dominio del capitale, impoverito i mercati, e interferito con la mobilitazione produttiva di larghi settori del proletariato.
Di fronte a questi ostacoli alla sua ulteriore espansione – ostacoli
che si rafforzano a vicenda – il capitale ha tentato di superare le sue difficoltà facendo in modo che la miseria di massa del proletariato della
semi-periferia e della periferia dell’economia-mondo condizionasse il
potere sociale del lavoro dei paesi del centro. Il tentativo è stato facilitato dall’attuale ricostruzione del mercato mondiale che, a partire dal
1968, è diventato sempre più indipendente dal potere e dagli interessi
specifici degli Stati uniti. Questo riflette, tra le altre cose, un’organizzazione transnazionale del processo di produzione e distribuzione che si
va allargando e approfondendo, attraverso la quale il capitale di ogni
92
nazione tenta di aggirare, contenere e indebolire il potere sociale del
lavoro del centro.
La riconfigurazione del proletariato
Il risultato è stato una profonda riconfigurazione dei soggetti che
costituiscono l’esercito industriale attivo e quello di riserva. Rispetto a
vent’anni fa, un settore molto più ampio dell’esercito industriale attivo
nel mondo è ora localizzato nella periferia e nella semiperiferia dell’economia-mondo, mentre l’esercito attivo del centro ospita al suo interno,
ai livelli più bassi, un gran numero di membri femminili e immigrati e, ai
livelli più alti, intellettuali e scienziati formalmente proletarizzati. Questa
riconfigurazione ha messo sotto pressione i lavoratori maschi dei paesi
del centro occupati ai livelli medi e bassi dell’esercito attivo, mettendoli
nella condizione di dover accettare livelli più bassi di remunerazione in
rapporto allo sforzo produttivo, pena l’estromissione dall’esercito attivo.
La resistenza contro questo deterioramento dei livelli di vita nel
centro è stata finora piuttosto debole e inefficace soprattutto perché i settori del proletariato industriale che ne sono stati investiti più direttamente sono stati colpiti anche da una perdita di potere sociale, mentre i settori che hanno acquistato potere sociale non hanno ancora conosciuto un
deterioramento significativo del loro standard di vita. Nel caso delle donne e degli immigrati che hanno occupato i ranghi più bassi del proletariato industriale, ci sono state due circostanze che hanno attenuato l’impatto del deterioramento. Da una parte, i livelli di retribuzione delle loro
occupazioni precedenti erano in molti casi anche più ridotti di quelli
ottenuti nei ranghi più bassi dell’esercito industriale attivo. D’altra parte,
essi continuano spesso a considerare le loro retribuzioni come supplementari ad altre entrate e il loro lavoro come aggiunta temporanea al loro
carico di lavoro quotidiano. Salari bassi rispetto allo sforzo richiesto sono
così maggiormente tollerati di quanto accadrebbe se essi fossero considerati come l’unica o principale fonte di reddito, e se lo sforzo fosse percepito come un’aggiunta permanente al loro quotidiano carico di lavoro.
Entrambe le circostanze sono però transitorie. Nel corso del tempo, i livelli di retribuzione si basano sulle condizioni attuali piuttosto
che su quelle passate. Inoltre, più si diffonde l’impiego della forza lavoro femminile e immigrata ai livelli più bassi dell’esercito industriale attivo, più i bassi salari diventano la principale fonte di reddito e lo sforzo
elevato diventa una condizione permanente. Quando ciò accade,
l’acquiescenza lascia spazio alla ribellione aperta, nella quale il potere
93
sociale delle donne e degli immigrati si rivolta contro la crescente di
miseria di massa nei paesi del centro. Anche negli anni Settanta e Ottanta le donne e gli immigrati nei paesi centrali hanno mostrato una forte
inclinazione a ribellarsi e a usare il loro potere sociale, ma non abbiamo
ancora registrato un’ondata di conflitti sociali specificamente centrati
sulle loro rivendicazioni. Se e quando ciò avverrà, tale ondata potrà interagire positivamente e negativamente con i movimenti di protesta dei
ranghi più alti dell’esercito industriale attivo.
Questi ranghi superiori sono sempre più occupati dal lavoro intellettuale e tecnico, che assume una gamma sempre più ampia di compiti
produttivi. Per ora, sono loro i principali beneficiari dell’attuale corsa
alla riduzione dei costi, che fa aumentare la domanda della loro forza
lavoro e fornisce loro beni di lusso relativamente poco costosi. Tuttavia,
più il loro peso nella struttura dei costi del capitale aumenta, più essi
diventeranno i principali destinatari della corsa alla riduzione dei costi.
A quel punto, ci si può aspettare che questi strati superiori dell’esercito
industriale attivo mobilitino il loro potere sociale in movimenti di protesta per impedire alla miseria di massa di diffondersi tra le loro fila.
Questi sono i movimenti del futuro del centro. Ma nella semiperiferia il futuro ha già avuto inizio. Gli anni Ottanta hanno conosciuto
esplosioni di agitazioni operaie in paesi diversi come la Polonia, il Sudafrica, e la Corea del Sud, solo per ricordare i casi più significativi. Nonostante i regimi politici e le strutture sociali radicalmente differenti, queste esplosioni presentano importanti caratteristiche comuni, alcune delle
quali somigliano a quelle dei cicli di lotta di classe degli anni Trenta e
Quaranta negli Stati uniti e della fine degli anni Sessanta e dell’inizio
degli anni Settanta nell’Europa occidentale. In tutti i casi, il conflitto
industriale si è largamente fondato sulla capacità di mobilitazione e
organizzazione della base del proletariato industriale. Le radici di queste
capacità sono del tutto interne alla condizione proletaria e consistono
nello squilibrio fondamentale tra il nuovo potere sociale e la vecchia
miseria di massa del proletariato industriale.
Le somiglianze sono, sotto questi riguardi, impressionanti, ma le
differenze tra quest’ultimo ciclo e quelli precedenti sono altrettanto
significative. Questi movimenti sono stati difficili da reprimere quanto i
precedenti, ma è stato molto più difficile accogliere le loro richieste. Il
motivo non sta nelle rivendicazioni in sé, che sono molto più elementari
di quelle dei cicli precedenti, ma nelle capacità limitate degli Stati e del
capitale nella semiperiferia di accoglierle. Il risultato potrebbe essere
una situazione di conflitto sociale endemico del tipo prospettato da
94
Marx e Engels nel Manifesto.
4. LA CRISI DEL MARXISMO NELLA PROSPETTIVA DELLA STORIA MONDIALE
La tesi che le previsioni del Manifesto sul movimento operaio
mondiale possano essere più rilevanti nei prossimi 50-60 anni di quanto
lo siano state negli ultimi 90-100 anni può sembrare contraddetta
dall’attuale crisi delle organizzazioni della classe operaia e marxiste.
Non si può negare, infatti, che negli ultimi 15-20 anni i sindacati, i partiti dei lavoratori e gli Stati guidati da governi socialisti, in particolare
quelli comunisti, sono stati sottoposti a forti pressioni per riformarsi e
cambiare orientamento, in modo da evitare il declino. Queste pressioni,
tuttavia, non sono affatto incompatibili con l’argomentazione qui sviluppata; al contrario, la rendono più evidente.
Come tutte le altre organizzazioni sociali, quelle proletarie (marxiste e non) seguono strategie e presentano strutture che riflettono le circostanze storiche nelle quali hanno avuto origine, anche quando tali circostanze siano cambiate. Le ideologie e organizzazioni proletarie che
sono spinte al cambiamento o al declino riflettono tutte le circostanze
storiche tipiche della prima metà del XX secolo, un periodo in cui l’economia-mondo capitalistica differiva in aspetti essenziali dallo scenario
delineato nel Manifesto. Nella misura in cui l’economia-mondo capitalistica torna a corrispondere in misura maggiore a quello scenario, c’è da
aspettarsi che le organizzazioni le cui strategie e strutture riflettono le
circostanze storiche di un’epoca precedente siano messe duramente alla
prova e poste davanti alla prospettiva del declino. Alcune possono essere in grado di evitare il declino, di prosperare addirittura, attraverso un
semplice cambiamento di strategia. Altre possono ottenere lo stesso
risultato, ma solo attraverso una profonda ristrutturazione. Altre ancora
possono solo declinare, indipendentemente da ciò che faranno.
Più specificamente, Marx aveva ipotizzato che l’ordine di mercato
avrebbe costantemente riconfigurato, all’interno delle e tra le diverse
aree dell’economia-mondo capitalistica, il crescente potere sociale e la
crescente miseria di massa del lavoro. In realtà, per lungo tempo questo
non avvenne. Nella prima metà del XX secolo l’escalation nella lotta di
potere interstatale limitò e poi bloccò completamente il funzionamento
del mercato mondiale. Il potere sociale e la miseria di massa del lavoro
aumentarono a un ritmo senza precedenti, ma in maniera polarizzata,
con il proletariato di alcune regioni che conosceva soprattutto un
aumento del potere sociale, e il proletariato di altre regioni che conosceva soprattutto un aumento della miseria. Come Marx aveva previsto,
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questa accentuazione delle tendenze verso un maggior potere e miseria
diede un enorme impulso alla diffusione delle lotte, delle ideologie e
delle organizzazioni proletarie. Tuttavia, il modo polarizzato con cui si
manifestarono le due tendenze fece sviluppare le lotte, le ideologie e le
organizzazioni proletarie lungo traiettorie che Marx non aveva né previsto né proposto.
L’ipotesi che le due tendenze avrebbero interessato gli stessi soggetti nello spazio dell’economia-mondo capitalistica era un elemento
essenziale della teoria marxiana della trasformazione socialista del mondo. Solo in questa ipotesi le lotte quotidiane del proletariato mondiale
sarebbero state intrinsecamente rivoluzionarie, nel senso che avrebbero
fatto valere nei confronti degli Stati e del capitale un potere sociale che
questi ultimi non avrebbero potuto né reprimere né accontentare. La
rivoluzione socialista era concepita come un processo a lungo termine e
su larga scala per mezzo del quale l’insieme di queste lotte avrebbe
imposto alla borghesia mondiale un ordine basato su consenso e cooperazione invece che su coercizione e concorrenza.
In questo processo il ruolo delle avanguardie rivoluzionarie, se
c’era, avrebbe dovuto essere morale e pedagogico piuttosto che politico.
Secondo il Manifesto, le vere avanguardie rivoluzionarie (“i comunisti”)
non avrebbero dovuto formare partiti diversi, opposti ad altri partiti
operai; non avrebbero dovuto sviluppare interessi propri separati da
quelli del proletariato nel suo insieme; e non avrebbero dovuto stabilire
principi settari con cui dar forma al movimento proletario. Piuttosto,
avrebbero dovuto limitarsi a esprimere e rappresentare all’interno delle
lotte proletarie l’interesse comune di tutto il proletariato mondiale e del
movimento nel suo insieme (si veda il passaggio citato sopra). La cosa
che colpisce di più in questa lista di azioni che le avanguardie rivoluzionarie non avrebbero dovuto intraprendere è che è l’elenco di quello che
i marxisti hanno effettivamente fatto da quando sono diventati agenti
storici collettivi.
La formazione, alla fine del XIX secolo, di partiti distinti, e spesso
in competizione con altri partiti operai fu la prima cosa che fecero i
marxisti. Di fatto, la formazione di partiti politici separati segna il vero
atto di nascita del marxismo come soggetto storico effettivo e identità
ideologica condivisa. Poco tempo dopo, la controversia sul revisionismo
eliminò dal marxismo l’idea che il movimento delle lotte proletarie concrete avesse la priorità sui principi (socialisti o no) definiti dalle avanguardie rivoluzionarie. Questo sviluppo era un tacito invito a fissare principi particolari come criteri delle lotte proletarie e, quindi, come linee
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guida seguite dall’avanguardia per modellare e plasmare i movimenti
proletari reali, cosa che avvenne subito dopo. Quando una variante di
questo percorso diede al marxismo la sua prima base territoriale (l’impero russo), la teoria leninista della supremazia dell’avanguardia rivoluzionaria sul movimento divenne il cuore dell’ortodossia marxista.
Infine, avendo acquisito una base territoriale, il marxismo come
ortodossia sviluppò interessi propri, non necessariamente né evidentemente coincidenti con quelli del proletariato mondiale. Le lotte intestine che seguirono la presa del potere statale nell’impero russo ridefinirono il marxismo come potere autoritario (del partito sullo Stato e dello
Stato sulla società civile); il fine non era tanto l’emancipazione proletaria, quanto raggiungere la ricchezza e il potere dei paesi del centro
dell’economia-mondo capitalistica. Questa strategia trasformò l’Unione
Sovietica in una superpotenza e favorì un’espansione eccezionale dei
territori controllati da governi marxisti. Potere autoritario e industrializzazione diventarono il nuovo cuore dell’ortodossia.
Partito, Stato e classe
Nonostante questa progressiva negazione dell’eredità di Marx, il
marxismo continuava a reclamare la rappresentanza degli interessi
dell’intero proletariato e del movimento operaio mondiale. Questa pretesa, tuttavia, era sempre più svuotata di senso da una costante ridefinizione degli interessi del proletariato mondiale in modo da farli coincidere con gli interessi di potere delle organizzazioni marxiste (Stati, partiti,
sindacati). Fin dall’inizio, gli interessi comuni del proletariato mondiale
furono ridefiniti, in primo luogo, per escludere gli interessi materiali di
quei settori del proletariato mondiale (le cosiddette “aristocrazie operaie”) che rifiutavano l’idea che i partiti marxisti avessero un ruolo
necessario nella loro emancipazione e, in secondo luogo, per includere
gli interessi di potere delle organizzazioni marxiste indipendentemente
dalla loro partecipazione alle reali lotte proletarie. In seguito, quando le
organizzazioni marxiste giunsero a includere l’Unione Sovietica, gli interessi comuni del proletariato mondiale furono ridefiniti per dare priorità
al consolidamento del potere marxista in Unione Sovietica, e del suo
ruolo nel sistema interstatale. Infine, quando l’Unione Sovietica divenne
una superpotenza impegnata nella lotta con gli Stati uniti per l’egemonia
mondiale, gli interessi comuni del proletariato mondiale vennero ridefiniti ancora una volta per farli coincidere con quelli dell’Unione Sovietica in quel conflitto.
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Questa traiettoria di negazioni successive e cumulative dell’eredità
di Marx da parte di individui, gruppi e organizzazioni che, nondimeno,
continuavano a rivendicare fedeltà a tale eredità, non descrive un “tradimento” del marxismo, qualsiasi cosa ciò possa significare. Piuttosto,
descrive il marxismo per quello che è, una formazione storica che riflette l’effettivo sviluppo dell’eredità marxiana in circostanze da essa non
contemplate. Per dirlo in altri termini, il marxismo fu costruito da sostenitori in buona fede di Marx, ma in circostanze storiche non prefigurate, né definite da loro.
L’escalation nelle lotte di potere tra Stati e il concomitante crollo
dell’ordine del mercato mondiale imposero ai sostenitori di Marx la
necessità storica di scegliere tra strategie alternative che per Marx non
erano affatto tali. Come sostenuto nella seconda sezione, la scelta in
questione era lo sviluppo di legami organici o con i settori del proletariato mondiale che erano più direttamente e organicamente interessati
dalla tendenza all’aumento della miseria di massa, o con i settori del
proletariato mondiale che erano interessati più direttamente e organicamente dalla tendenza all’aumento del potere sociale. La scelta era imposta dalla crescente separazione delle due tendenze nello spazio dell’economia-mondo. Marx pensava, e sperava, che questa separazione, già
osservabile in forma embrionale al suo tempo, sarebbe diminuita con il
tempo. Invece l’escalation nelle lotte per il potere interstatale rafforzò
entrambe le tendenze e aumentò la loro separazione spaziale. Di qui la
necessità di scegliere, e di farlo tempestivamente.
Quando Bernstein sollevò la questione e propose di sviluppare un
legame organico con il settore più forte del proletariato mondiale, i
marxisti rifiutarono quasi unanimemente la sua proposta, indipendentemente dal loro orientamento rivoluzionario o riformista. Le vere ragioni
di questa reazione quasi unanime, che fissò la rotta del marxismo per i
decenni a venire, vanno al di là dei temi di questo saggio. Dobbiamo
solo sottolineare che possono essere imputate a motivazioni che non
contraddicono in alcun modo la lettera e lo spirito dell’eredità marxista.
Il legame organico con i settori più deboli, piuttosto che con quelli
più forti del proletariato mondiale presentava un doppio vantaggio per i
marxisti. In primo luogo, corrispondeva al loro senso di indignazione
morale per la miseria del proletariato mondiale, indignazione che era
stata senza dubbio un’importante motivazione che aveva spinto molti di
loro a seguire le orme di Marx. In secondo luogo, mobilitava il senso di
autostima, la sensazione, cioè, che c’era qualcosa che essi potevano fare
in prima persona per superare la miseria del proletariato mondiale, un
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aspetto che senza dubbio aveva avuto un ruolo nell’indurli a impegnarsi
nella politica di classe.
La scelta di Bernstein era svantaggiosa da entrambi i punti di vista.
Se l’accumulazione del capitale assicurava al proletariato il potere sociale necessario per eliminare la miseria, i marxisti, o la maggior parte di
loro, avrebbero perso motivazione o ruolo: l’indignazione morale era
ingiustificata perché la miseria era un fenomeno transitorio, e l’autostima sarebbe stata fuori luogo perché il proletariato aveva tutto il potere
di cui aveva bisogno per emanciparsi da solo. È plausibile ipotizzare che
questa fosse una ragione importante, anche se non esplicita, per cui la
“scelta” di Bernstein fu respinta e il marxismo storico fu costituito sia
teoricamente che praticamente sulle basi della crescente miseria del
lavoro, piuttosto che sul suo crescente potere sociale.
Una doppia sostituzione
Quali che fossero le motivazioni, questa decisione si rivelò fatale, non
solo per il marxismo, ma per il proletariato mondiale, il movimento operaio e il sistema capitalistico mondiale. Impose ai marxisti una doppia sostituzione che aumentò fortemente il loro potere di trasformare il mondo, ma
li fece allontanare sempre più radicalmente dalla lettera e dallo spirito
dell’eredità di Marx. All’inizio, impose ai marxisti la necessità storica di
sostituire organizzazioni create da loro alle organizzazioni di massa che
riflettevano le spontanee azioni di rivolta del proletariato e di altri gruppi e
classi subalterne. Poi, una volta al potere, impose alle organizzazioni marxiste la necessità storica di sostituirsi alle organizzazioni della borghesia e
degli altri gruppi e classi dominanti nell’eseguire gli sgradevoli compiti di
governo che queste ultime non avevano saputo o voluto svolgere.
Le due sostituzioni (la prima associata fondamentalmente con il
nome di Lenin, e la seconda con quello di Stalin) erano complementari
nel senso che la prima preparava la seconda e la seconda portava a compimento, come meglio si poteva, il lavoro iniziato dalla prima. Quali che
siano le loro relazioni, entrambe le sostituzioni erano radicate nella precedente decisione dei marxisti di scegliere come base sociale della teoria
e della prassi rivoluzionaria la crescente miseria di massa piuttosto che il
crescente potere sociale del lavoro. Una miseria crescente era condizione necessaria per il successo della strategia di Lenin di impadronirsi del
potere in modo rivoluzionario. Ma non appena il potere statale fu conquistato, la miseria di massa divenne una seria limitazione per quello che
Lenin e i suoi successori avrebbero potuto fare con quel potere.
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L’incapacità o la mancanza di volontà delle precedenti classi dominanti di fornire protezione (in primo luogo militare) al proletariato e agli
altri gruppi e classi subalterne in una situazione di crescente violenza
interstatale erano state il fattore principale della loro caduta. Le organizzazioni marxiste potevano così sperare di restare al potere solo fornendo
al proletariato e agli altri gruppi e classi subalterne una migliore protezione di quella garantita dai gruppi dominanti precedenti. In pratica ciò
significava, o così sembrò a tutti gli attori coinvolti nel consolidamento
del potere marxista, raggiungere o almeno stare al passo con il complesso militare-industriale delle grandi potenze del sistema interstatale.
L’attenuazione della miseria di massa venne di conseguenza subordinata al perseguimento di questo fine. Poiché l’arretratezza militareindustriale era stata una causa importante, se non determinante, della
crescita della miseria del proletariato nell’impero russo, sembrava ragionevole a coloro che erano coinvolti nel consolidamento del potere
marxista in Urss ritenere che la riduzione della miseria sarebbe venuta
con l’industrializzazione pesante. Questa assunzione, tuttavia, non sembrava così ragionevole a un gran numero di cittadini sovietici (inclusi
molti proletari) i cui modi di vita vennero sconvolti dall’avanzamento
dell’industrializzazione pesante in condizioni di miseria di massa. Data
tale contrapposizione, il potere autoritario divenne il necessario complemento all’industrializzazione pesante.
Il successo dell’Unione Sovietica nel diventare una delle due
superpotenze del sistema interstatale e, allo stesso tempo, nel ridurre la
miseria del suo proletariato fece del potere autoritario e dell’industrializzazione il nuovo cuore della teoria e della prassi marxista. Il marxismo
venne così identificato ancor più strettamente che in precedenza con la
miseria del proletariato mondiale, aumentando le sue capacità egemoniche nella periferia e nella semiperiferia dell’economia-mondo. Ma, proprio per questa ragione, perse quasi tutta la sua attrattiva per quei settori del proletariato mondiale la cui esperienza prevalente non era la miseria, ma il crescente potere sociale.
Il rifiuto del marxismo da parte del proletariato dei paesi del centro e la soppressione delle lotte proletarie reali nella teoria e nella prassi
del marxismo storico procedettero insieme. Più il marxismo storico venne identificato con la crescente miseria di massa e con le lotte sanguinose con cui le organizzazioni marxiste cercarono di superare la mancanza
di potere che si accompagnava alla miseria, più esso divenne estraneo,
anzi, inviso ai proletari dei paesi del centro. E, al contrario, più le organizzazioni proletarie basate sul crescente potere sociale del lavoro nei
100
paesi del centro riuscivano a ottenere una parte del potere e della ricchezza dei loro rispettivi Stati, più arrivarono ad essere percepite e presentate dai marxisti come soggetti subalterni e corrotti del blocco sociale dominante che governava il mondo.
Questo reciproco antagonismo è stato uno sviluppo storico che nessuno aveva voluto, né previsto. Una volta in atto, tuttavia, fornì alla borghesia mondiale una forte arma ideologica nella lotta per ricostruire il suo
vacillante dominio. Come abbiamo visto, l’egemonia degli Stati uniti dopo
la Seconda guerra mondiale si basò fortemente sull’affermazione che
l’esperienza del proletariato americano potesse essere riprodotta a scala
mondiale. Se si lascia procedere senza ostacoli l’espansione del capitalismo delle grandi imprese – si sosteneva – tutto il proletariato mondiale
otterrebbe un potere sociale sufficiente a eliminare la miseria dalle sue fila.
Il movimento operaio negli Stati uniti e nel mondo
Come sappiamo, quest’affermazione (come tutte le pretese egemoniche) era per metà vera e per metà falsa. Come promesso, l’espansione
globale del capitalismo delle grandi imprese, che seguì e rafforzò
l’instaurazione dell’egemonia degli Stati uniti, diffuse effettivamente il
potere sociale del lavoro nell’intero centro, in quasi tutta la semiperiferia, e in alcune parti della periferia dell’economia-mondo. E, come promesso, la parte del proletariato mondiale con un potere sociale sufficiente per allontanare la miseria aumentò, se non in termini relativi,
sicuramente in termini assoluti.
Ma la pretesa che il movimento operaio mondiale potesse essere
ricostruito a immagine degli Stati uniti si rivelò anche un inganno.
L’aumento del potere sociale della forza lavoro non ha portato a una diminuzione proporzionale della miseria del lavoro, come è accaduto negli Stati uniti. Più il capitalismo delle grandi imprese si è sviluppato, più è diventato incapace di accettare il potere sociale che la sua stessa espansione metteva nelle mani del lavoro. Di conseguenza, l’espansione è rallentata e si è
aperta la corsa alla riduzione dei costi degli anni Settanta e Ottanta.
Il disvelamento degli aspetti ingannevoli dell’egemonia statunitense è stato un fattore determinante nel precipitare della sua crisi tra la
fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. Tuttavia, né le organizzazioni dei lavoratori, né quelle marxiste sono state in grado in
approfittare della nuova situazione. Al contrario, sono state entrambe
colpite da una crisi strutturale, come quella dell’egemonia americana.
La forza precedente delle organizzazioni dei lavoratori nei paesi
101
del centro era radicata in una situazione in cui un settore del proletariato aveva un notevole potere sociale, e gli Stati e il capitale avevano la
capacità di riconoscerlo. Le organizzazioni del lavoro, per come sono
costituite, si sono sviluppate garantendo pace sociale agli Stati e al capitale e alti salari ai propri membri. L’attuale corsa alla riduzione dei costi,
tuttavia, ha reso gli Stati e il capitale più riluttanti o meno capaci di
garantire alte remunerazioni al lavoro, e ha trasferito potere sociale nelle
mani di settori del proletariato (donne, immigrati, lavoratori stranieri)
con i quali le organizzazioni del lavoro esistenti hanno scarsi legami
organici. Le organizzazioni del lavoro hanno così perso la loro precedente funzione sociale, la propria base sociale, o entrambe.
La forza delle organizzazioni marxiste, invece, era radicata in una
situazione in cui la loro base aveva poco potere sociale e gli Stati e il
capitale non erano in grado di fornire la minima protezione. Le organizzazioni marxiste, come ora costituite, sono cresciute sulla base della loro
capacità di garantire una maggiore protezione di quella che le classi
dominanti precedenti erano state in grado o avevano voluto fornire.
Tuttavia, la strategia di tenere il passo e raggiungere il complesso militare-industriale più potente del sistema interstatale, attraverso la quale le
organizzazioni marxiste hanno consolidato e sviluppato il loro potere,
era viziata da una contraddizione fondamentale.
Da un lato, tale strategia richiedeva che, consapevolmente o meno,
le organizzazioni marxiste mettessero nelle mani della loro base un potere sociale paragonabile a quello del proletariato del centro. Col tempo,
questo crescente potere sociale era destinato a interferire con la capacità
delle organizzazioni marxiste di perseguire i propri interessi a spese di
quelli della loro base. Più ritardavano ad adattare le loro strategie e
strutture al crescente potere sociale dei loro membri, più gravi sarebbero poi stati gli aggiustamenti necessari.
La ricostruzione dell’ordine del mercato mondiale sotto l’egemonia degli Stati uniti ha aggravato tale contraddizione in molti modi. Le
relazioni interstatali sono state pacificate e la guerra come strumento di
espansione territoriale è stata delegittimata. Questo cambiamento ha
indebolito la capacità delle organizzazioni marxiste di mobilitare il consenso per una strategia di industrializzazione forzata. Nella situazione di
preparativi di guerra generalizzati e di conflitti militari negli anni Trenta
e Quaranta, questa strategia rifletteva probabilmente un vero interesse
del proletariato. Ma con l’instaurarsi dell’egemonia degli Stati uniti, è
venuta a riflettere sempre più gli interessi delle organizzazioni marxiste
e delle loro clientele politiche. Allo stesso tempo, la crescente divisione
102
del lavoro nel resto dell’economia-mondo, associata alla ricostruzione
dell’ordine di mercato, ha aumentato lo svantaggio comparato
dell’industrializzazione forzata nella corsa per inseguire i livelli di potere
e ricchezza dei paesi capitalistici del centro. Di conseguenza, gli Stati
marxisti sono diventati sempre meno capaci di tenere il passo con quei
livelli, di adattarsi al crescente potere sociale dei lavoratori, o di fare
entrambe le cose.
Le forme della crisi
Le crisi delle organizzazioni del lavoro e delle organizzazioni
marxiste sono così due facce della stessa medaglia. La crisi delle organizzazioni dei lavoratori è dovuta principalmente alla loro incapacità
strutturale di fermare la diffusione della miseria tra il proletariato del
centro, mentre la crisi delle organizzazioni marxiste è dovuta soprattutto
alla loro incapacità strutturale di impedire la diffusione del potere sociale nella propria base, attuale o potenziale. Ma la crisi è la stessa, perché
entrambi i tipi di organizzazione proletaria sono mal attrezzati per
affrontare una situazione in cui il lavoro ha un potere sociale maggiore
di quello che le istituzioni economiche e politiche esistenti possono riconoscere.
In tali circostanze, la vecchia opposizione tra il “movimento” e il
“fine”, che stava alla base dello sviluppo duale del movimento operaio
mondiale nel corso del XX secolo, non ha più senso per i protagonisti
delle lotte. Come Marx aveva teorizzato, il semplice esercizio del potere
sociale che si sta accumulando nelle mani della forza lavoro è di per sé
un atto rivoluzionario. Un crescente numero di lotte proletarie dal 1968
in poi ha mostrato un incipiente ricongiungimento tra “movimento” e
“fine”.
Tale ricongiungimento fu previsto e proposto esplicitamente nello
slogan “praticare l’obiettivo”, coniato dai lavoratori italiani nel ciclo di
lotte della fine degli anni Sessanta. Sulla base di questo slogan sono state
realizzate diverse pratiche di azione diretta. Anche se non erano una
novità, i loro effetti, socialmente rivoluzionari, lo erano. Il potere sociale
dispiegato in queste lotte ha imposto un significativo rimodellamento
delle istituzioni economiche e politiche, incluse le organizzazioni dei
lavoratori – marxiste e non –, per accogliere la spinta democratica ed
egualitaria del movimento16.
Prove più evidenti dell’incipiente ricongiungimento tra “movimento” e “fine” sono giunte dalla Spagna degli anni Settanta e dal Sudafrica
103
e dalla Polonia degli anni Ottanta. In Spagna, un prolungato movimento di lotte proletarie, che la dittatura franchista non poteva né reprimere, né riconoscere, fu la causa più importante della fine della dittatura e
del conseguente emergere della socialdemocrazia. In modo meno netto,
lo stesso percorso può essere colto nelle successive crisi delle dittature in
Brasile, Argentina e Corea del Sud, e può anche essere individuato nelle
lotte del proletariato in corso in Sudafrica e in Polonia. In questi due
ultimi casi, tuttavia, il movimento operaio presenta specificità che lo
rendono particolarmente significativo.
Il significato speciale del movimento operaio in Polonia è che esso è
emblematico delle contraddizioni e dell’attuale crisi del marxismo storico
come ideologia e organizzazione del proletariato. Il movimento si basa
fondamentalmente, se non esclusivamente, sul potere sociale che è stato
messo nelle mani del lavoro dalla strategia d’industrializzazione forzata
perseguita dalle organizzazioni marxiste. Il dispiegamento di questo potere sociale per rivendicare migliori condizioni di vita e i diritti civili fondamentali è intrinsecamente eversivo dei rapporti politici ed economici esistenti in Polonia, come lo è stato in tutti gli altri paesi sopra citati. Non è
necessaria né possibile alcuna distinzione tra il fine della rivoluzione sociale e l’attuale sviluppo del movimento, come testimonia, tra l’altro, il tipo
di leadership e organizzazione che il movimento ha prodotto.
L’ironia della situazione è che, nel lottare contro un’organizzazione
marxista, Solidarnosc ha seguito (consapevolmente o no) le indicazioni
di Marx per le avanguardie rivoluzionarie molto più di quanto qualsiasi
altra organizzazione marxista abbia mai fatto. Si è astenuto da: 1) formare un partito politico opposto agli esistenti partiti operai; 2) sviluppare
interessi propri distinti da quelli del proletariato mondiale; 3) stabilire
principi settari con i quali modellare e plasmare il movimento proletario. Inoltre, come sostenuto da Marx, la sua funzione è stata più morale
che politica, anche se le sue implicazioni politiche sono state effettivamente rivoluzionarie.
Il fatto che un’istituzione marxista sia la controparte di un’organizzazione dei lavoratori così marxiana non dovrebbe sorprenderci. In
effetti, l’esperienza di Solidarnosc fornisce una vivida dimostrazione delle due principali tesi di questo saggio: la tesi secondo cui le previsioni e
le prescrizioni di Marx stanno diventando sempre più rilevanti per il
presente e per il futuro del movimento operaio mondiale; e la tesi che il
marxismo storico si è sviluppato in una direzione che è in alcuni aspetti
chiave antitetica a quella prevista e sostenuta da Marx.
Portando poi alla ribalta il ruolo della religione e della nazionalità
104
nella formazione di un’identità proletaria distinta ma collettiva, l’esperienza di Solidarnosc ha fatto molto più di questo. Insieme ad altre lotte proletarie contemporanee – innanzi tutto l’esperienza sudafricana – ci mette in
guardia dal fare eccessivo affidamento sullo schema marxiano per prefigurare il futuro del movimento operaio. Infatti, lo schema marxiano stesso
resta gravemente imperfetto in un aspetto determinante, e cioè il modo in
cui affronta il ruolo che hanno fattori come l’età, il sesso, la razza, la nazionalità, la religione e altre specificità naturali e storiche nel dare forma
all’identità sociale del proletariato mondiale. La considerazione di tali
questioni complesse va oltre i temi di questo saggio17. Ma data la loro
importanza per il futuro del movimento operaio mondiale, occorre segnalarle per qualificare meglio le conclusioni di ciò che è stato detto finora.
La corsa alla riduzione dei costi degli ultimi 15-20 anni ha senza
dubbio fornito prove ulteriori a favore dell’osservazione secondo cui per il
capitale tutti i membri del proletariato rappresentano forza lavoro, più o
meno costosa a seconda dell’età, del sesso, del colore, della nazionalità,
della religione, ecc. Tuttavia, ha anche mostrato che non è possibile inferire, come fa Marx, da tale tendenza del capitale una tendenza del lavoro a
mettere da parte le differenze naturali e storiche come mezzi per affermare, individualmente e collettivamente, un’identità sociale distinta.
Ogni volta che si sono trovati di fronte alla tendenza del capitale
a trattare la forza lavoro come massa indifferenziata, senza specificità
diverse da quella determinata dalla differente capacità di aumentare il
valore del capitale, i proletari si sono ribellati. Quasi sempre hanno
utilizzato, o costruito appositamente, quei caratteri distintivi (età, sesso, colore, specificità geografiche e storiche) che permettevano loro di
imporre al capitale un qualche tipo di trattamento speciale. Di conseguenza, il patriarcato, il razzismo e il nazionalismo sono stati parte
integrante della costruzione del movimento operaio mondiale in
entrambe le sue traiettorie del XX secolo, e permangono in una forma
o nell’altra nella maggior parte delle ideologie e delle organizzazioni
proletarie.
Come sempre, la disgregazione di queste pratiche, e delle ideologie
e organizzazioni nelle quali si sono istituzionalizzate, può essere solo il
risultato delle lotte di coloro che sono stati da esse oppressi. Il potere
sociale che la corsa alla riduzione dei costi mette nelle mani dei settori
tradizionalmente deboli del proletariato mondiale non è che il preludio
a queste lotte. Nella misura in cui queste lotte avranno successo, sarà
preparato il terreno per la trasformazione socialista del mondo.
105
NOTE
*
Marxist century, American century. The making and remaking of the world
labour movement, in “New Left Review”, I/179 (1990), pp. 29-63. Pubblicato anche
come capitolo 2 del volume di S. AMIN, G. ARRIGHI, A. G. FRANK, I. WALLERSTEIN,
Transforming the Revolution: Social Movements and the World System, Monthly Review
Press, New York 1990. Ringrazio Terence K. Hopkins e Beverly J. Silver per i loro
commenti e le loro critiche a una versione precedente di questo testo. Traduzione
dall’inglese di Silvia Pianta.
1
KARL MARX, FRIEDRICH ENGELS, Manifesto del partito comunista, Einaudi, Torino 1998, pp. 19-20.
2
Ivi, p. 23.
3
Ivi, p. 14. In questa definizione del proletariato, che useremo in tutto il testo,
non vi è nessuna indicazione del tipo di occupazione (“colletti blu”, ad esempio) che
qualifica i lavoratori come membri del proletariato. Anche espressioni come “proletariato industriale” indicano la forza lavoro che è abitualmente impiegata dalle imprese
capitalistiche attive nella produzione e distribuzione, a prescindere dal tipo di lavoro
compiuto o dal settore di attività in cui opera l’impresa.
La definizione di Marx è ambigua, tuttavia, sui confini superiori e inferiori del
proletariato. In alto, ci troviamo davanti al problema di classificare lavoratori che vendono la loro forza lavoro per un salario, ma da una posizione di forza individuale che
permette loro di chiedere e ottenere compensi che, a parità di condizioni, sono superiori a quelli ricevuti in media dai lavoratori. Questo è, con tutta evidenza, il caso degli
strati superiori del management, ma una grande varietà di individui (i professionisti)
lavora per un salario o uno stipendio senza essere proletarizzata in senso vero e proprio.
In ciò che segue, questi individui sono implicitamente esclusi dalle fila del proletariato,
a meno che non ci si riferisca loro come solo formalmente proletarizzati.
In basso, ci troviamo di fronte al problema opposto di classificare i lavoratori che
non trovano un acquirente per la loro forza lavoro (che loro venderebbero più che
volentieri al salario prevalente) e quindi vengono impiegati in attività non salariate che
hanno compensi che, a parità di condizioni, sono inferiori a quelli ricevuti in media dai
salariati. È questo il caso della maggior parte di quello che Marx chiama l’esercito industriale di riserva. Di fatto, l’intero esercito di riserva si trova in questa condizione, a
eccezione di una minoranza di individui che beneficiano dei sussidi di disoccupazione o
possono permettersi per altri motivi di rimanere disoccupati per un certo tempo. In ciò
che segue, i lavoratori non salariati nella condizione qui descritta saranno implicitamente inclusi nel proletariato (nel suo esercito di riserva, per essere precisi).
4
Ivi, p. 15.
5
Ivi, p.18, 29.
6
Ivi, p. 11.
7
Cfr. WOLFGANG ABENDROTH, Storia sociale del movimento operaio europeo,
Einaudi, Torino 1977.
8
Tutti i dati riguardanti le agitazioni operaie contenuti in questo articolo sono
tratti da una ricerca condotta dal World Labor Research Working Group del Fernand
Braudel Center della State University of New York di Binghamton. I principali risultati
di questa ricerca sono stati pubblicati nel 1991 in un numero speciale della “Review
(Fernand Braudel Center)”.
9
E D U A R D B E R N S T E I N , I presupposti del socialismo e i compiti della
socialdemocrazia, Laterza, Bari 1968, p. 203.
106
10
ANTONIO GRAMSCI, Quaderni dal carcere, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. 3, pp. 1822-1823.
11
Uso il termine “egemonia” nel senso gramsciano di un dominio esercitato
attraverso una combinazione di coercizione e consenso. Vedi Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, cit., vol. 3, p. 1638.
12
Cfr. ALFRED D. CHANDLER, JR., La mano visibile. La rivoluzione manageriale
nell’economia americana, Franco Angeli, Milano 1993 e Michel Aglietta, A Theory of
Capitalist Regulation, New Left Books, Londra 1979.
13
Cfr. HARRY BRAVERMAN, Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1978.
14
Un’analisi più dettagliata dei temi di questa sezione si trova in GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER, Movimento operaio e migrazioni di capitale: gli Stati uniti e
l’Europa in una prospettiva storica mondiale, in “Stato e Mercato”, 11 (1984).
15
Cf. TERUTOMO OZAWA, Multinationalism, Japanese Style: The Political Economy
of Outward Dependency, Princeton University Press, Princeton 1979.
16
Cfr. IDA REGALIA, MARINO REGINI, EMILIO REYNERI, Labor Conflicts and Industrial Relations in Italy, in C. CROUCH, A. PIZZORNO (ed. by), The Resurgence of Class
Conflict in Western Europe since 1968, vol. 1, New York 1978.
17
Ma si veda GIOVANNI ARRIGHI, TERENCE H. HOPKINS, IMMANUEL WALLERSTEIN,
Antisystemic Movements, Manifestolibri, Roma 1992.
107
Capitolo 3
Le disuguaglianze mondiali*
La tesi di questo articolo è che i grandi sconvolgimenti politici dei
nostri giorni – dall’Europa orientale e dall’Urss fino al Medio Oriente –
hanno avuto origine da una trasformazione radicale della struttura
sociale dell’economia-mondo, combinata con l’approfondirsi della disuguaglianza di reddito tra le regioni e gli Stati in cui l’economia-mondo si
articola. La trasformazione radicale a cui mi riferisco è iniziata poco
dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ha subito un’accelerazione
durante gli anni Sessanta e ha perso vigore alla fine degli anni Settanta e
negli anni Ottanta. Come ha scritto Eric Hobsbawm “il periodo dal
1950 al 1975…ha visto il cambiamento sociale più spettacolare, rapido,
notevole, profondo e a scala mondiale della storia… [Questo] è il primo
periodo in cui i contadini sono diventati una minoranza, non soltanto
nei paesi industriali avanzati, in molti dei quali erano ancora rimasti
numericamente forti, ma anche in paesi del Terzo mondo”1. Il cambiamento in questione ha oltrepassato le divisioni Est-Ovest e Nord-Sud ed
è stato, in prima istanza, il risultato di iniziative volte a ridurre il divario
che, intorno al 1950, separava il benessere delle popolazioni situate nella
zona privilegiata del sistema-mondo (l’Ovest/Nord) dalla povertà assoluta o relativa dei popoli delle zone svantaggiate (l’Est/Sud). La più
importante di queste iniziative è stato l’impegno per lo sviluppo economico da parte dei governi. Incorporando nei loro territori alcuni dei
tratti caratteristici delle nazioni ricche, come l’industrializzazione o
l’urbanizzazione, i governi speravano di cogliere il segreto del loro successo, e raggiungerle in ricchezza e potere. Ugualmente importanti,
come elementi complementari o sostitutivi delle politiche dei governi,
sono state le azioni intraprese da organizzazioni private e individui –
come le migrazioni dei lavoratori, di capitali e di risorse imprenditoriali
attraverso i confini nazionali.
Malgrado il successo di singoli casi, questa strategia ha fallito nel tentativo di promuovere una più equa distribuzione della ricchezza all’interno dell’economia-mondo capitalistica. Pochi Stati sono riusciti a spostare
parte della ricchezza mondiale nella propria direzione e molti individui
hanno ottenuto lo stesso risultato muovendosi oltre le frontiere. Ma i successi di pochi Stati o di molti individui non hanno modificato la comples-
109
siva gerarchia della ricchezza. Al contrario, dopo più di trent’anni di sforzi
di tutti i tipi per lo “sviluppo”, il divario che separa i redditi dell’Est e del
Sud da quelli dell’Ovest e del Nord è più ampio di prima.
Così negli anni Ottanta, gli Stati dell’Est e del Sud si son venuti a
trovare in questa situazione: sono riusciti a incorporare alcuni elementi
della struttura sociale dei paesi più avanzati, attraverso i processi di
modernizzazione, ma non a internalizzare la loro ricchezza. Di conseguenza, i governi e i gruppi dominanti di questi paesi non dispongono
dei mezzi per soddisfare le aspettative e accogliere le richieste delle forze
sociali che essi stessi hanno contribuito a creare attraverso il processo di
modernizzazione. La ribellione di queste forze apre una crisi generale
delle pratiche e delle ideologie dello sviluppo. La crisi del comunismo
nell’Europa orientale e in Urss non è che un lato della medaglia della
crisi generale dell’ideologia dello sviluppo. L’altro lato è la crisi della
variante capitalistica dello sviluppo – una crisi che è particolarmente
visibile con l’ascesa del fondamentalismo islamico nel Medio Oriente e
nel Nord Africa, e che tuttavia si manifesta, in una forma o nell’altra, in
tutto il Sud del mondo.
In ciò che segue mi concentrerò sulla crescente disuguaglianza nella distribuzione globale del reddito, perché, a mio parere, quest’ultima
sta rapidamente diventando la questione centrale dei nostri tempi. Darò
per acquisito che i processi di urbanizzazione e industrializzazione sono
ormai largamente diffusi nel Sud del mondo e che numerosi paesi del
Terzo mondo hanno avuto una rapida industrializzazione. Ma non assumerò, come fanno in molti, che ”industrializzazione” e “sviluppo” siano
la stessa cosa.
Quest’ultimo punto di vista è così radicato da essere rimasto indiscusso anche dopo la recente ondata di deindustrializzazione che ha
investito alcuni tra gli Stati occidentali più ricchi e potenti. Questi Stati
continuano a essere identificati come “industriali” o “industrializzati”,
mentre la corrispondente rapida industrializzazione di Stati più poveri
continua a essere ritenuta equivalente allo “sviluppo”. Questa concezione oscura il fatto che l’industrializzazione è stata perseguita non come
fine in sé, ma come strumento per conseguire maggiori livelli di ricchezza. Se l’industrializzazione rappresenti o meno lo “sviluppo” dipende
dal fatto se sia stata o meno un mezzo efficace per raggiungerlo. Come
abbiamo mostrato altrove, l’efficacia dell’industrializzazione in termini
di creazione di ricchezza all’interno nell’economia-mondo è diminuita
man mano che si estendeva, fino a quando i suoi benefici, in media,
sono diventati negativi2.
110
Nel concentrarmi sulle disuguaglianze persistenti e sempre più
profonde nella distribuzione del reddito nell’economia-mondo capitalistica, voglio sottolineare che – a parte poche eccezioni – l’industrializzazione non ha mantenuto le sue promesse. C’è stata moltissima industrializzazione (e ancora più urbanizzazione), con costi umani e ambientali
incalcolabili per la maggior parte delle persone coinvolte. Ma c’è stato
ben poco avvicinamento agli standard di ricchezza dei paesi dell’Occidente. Perciò l’industrializzazione o, più in generale, la modernizzazione
non ha mantenuto ciò che aveva promesso, e questo fallimento è alla
radice dei gravi problemi affrontati oggi dalla maggior parte degli Stati
dell’Est e del Sud. Questi problemi non sono né locali né congiunturali,
sono sistemici e strutturali. Sono problemi del sistema-mondo a cui
appartengono tanto l’Ovest/Nord, quanto l’Est e il Sud. Previsioni e
progetti sul futuro del socialismo in un Ovest/Nord ignaro delle origini
e delle conseguenze sistemiche di questi problemi, sono nel migliore dei
casi irrilevanti e nel peggiore pericolosamente fuorvianti.
1. GLI STANDARD DEL SUCCESSO E DEL FALLIMENTO ECONOMICO
Che cosa intendiamo quando diciamo che il comunismo ha “fallito” nell’Europa orientale e nell’Urss, o che il capitalismo ha avuto ”successo” in Giappone e altrove nell’Asia orientale? Naturalmente, ciascuno può intendere cose differenti. Tuttavia, si è venuto consolidando uno
standard più o meno universale in base al quale valutiamo la performance dei regimi politici ed economici del mondo. Questo standard è la ricchezza dell’Ovest/Nord – non di una regione o di uno Stato particolare
in cui si articola l’Ovest/Nord, ma dell’Ovest/Nord come insieme di
unità statali differenziate, impegnate in una cooperazione e competizione reciproca.
Le sorti di queste unità sono soggette ad alti e bassi, che contano
molto in queste aree, ma che appaiono irrilevanti – e giustamente – se si
tratta di valutare le prestazioni degli Stati e delle regioni che non appartengono, o non appartenevano fino a poco tempo fa, all’insieme Ovest/Nord. È a Svezia, Germania, Francia, Gran Bretagna, Stati uniti,
Canada o Australia che ci riferiamo quando diciamo che il comunismo
ha fallito nell’Europa orientale e che il capitalismo ha avuto successo in
Giappone? A tutti questi in generale, naturalmente, ma a nessuno in
particolare. Ciò a cui ci riferiamo, consapevolmente o meno, è una sorta
di media o standard composito di ricchezza che ciascuna regione e Stato
111
dell’Ovest/Nord ha goduto in qualche modo da lungo tempo, anche se
non sempre in egual misura, e per tutto il tempo.
Al fine di valutare in maniera meno incerta del solito successi e fallimenti nell’economia-mondo, prenderò come indicatore di questo standard composito il Prodotto nazionale lordo (Pnl) pro-capite di ciò che
chiamerò il “centro organico” dell’economia-mondo capitalistica. Per i
nostri scopi, definisco come “centro organico” tutti quegli Stati che
nell’ultimo mezzo secolo hanno occupato le posizioni più alte nella
gerarchia globale della ricchezza e, in virtù di questa posizione, hanno
fissato (individualmente o collettivamente) gli standard di ricchezza che
i loro governi hanno cercato di mantenere e che gli altri governi hanno
cercato di raggiungere.
Questi Stati appartengono a tre regioni geografiche distinte. La più
segmentata delle tre, culturalmente e politicamente, è l’Europa occidentale – definita qui come Regno Unito, Paesi scandinavi, Belgio, Olanda,
Lussemburgo, ex Germania Ovest, Austria, Svizzera e Francia. Gli Stati
al margine occidentale e meridionale della regione (Irlanda, Portogallo,
Spagna, Italia e Grecia) non sono stati inclusi nel centro organico perché per gran parte degli ultimi cinquant’anni sono stati “parenti poveri”
degli Stati più ricchi dell’Europa occidentale ? ?parenti poveri” che non
hanno contribuito a fissare uno standard globale di ricchezza, e che hanno lottato essi stessi con più o meno successo, per mezzo dei loro governi, per raggiungere i livelli goduti dai loro vicini. Le altre due regioni
incluse nel centro organico sono meno segmentate culturalmente e politicamente. Una è l’America settentrionale (Stati uniti e Canada) e l’altra
– piccola per popolazione ma vasta per territorio – è costituita da
Australia e Nuova Zelanda.
La tabella 1 mostra, scegliendo come termini di riferimento alcuni
anni dell’ultima metà del secolo, il Pnl pro-capite di ognuna di queste
tre regioni come percentuale del Pnl pro-capite del centro organico,
cioè dell’insieme di queste regioni prese insieme. Tra parentesi, la tabella
mostra anche la percentuale della popolazione di ogni regione rispetto
al totale della popolazione del centro organico. Il dato più importante
che emerge dalla tabella è il forte allargamento, seguito da una costante
riduzione e infine dalla chiusura, del divario di reddito tra l’America settentrionale e l’Europa occidentale – le due regioni in cui si è concentrata
la maggior parte della popolazione dell’Ovest/Nord.
112
TABELLA 1
PRESTAZIONI ECONOMICHE COMPARATE IN OCCIDENTE (CENTRO ORGANICO)
Note:
1. Le cifre rappresentano il rapporto tra il Pnl pro-capite di ciascuna regione e il Pnl pro-capite
dell’insieme delle tre regioni moltiplicato per cento. Tra parentesi la percentuale della popolazione della regione rispetto alla popolazione totale dell’insieme delle tre regioni.
2. L’Europa occidentale è composta da Benelux e Paesi scandinavi, Germania (Ovest), Austria,
Svizzera, Francia e Regno Unito. L’America settentrionale è composta da Stati uniti e Canada.
Fonti:
I Pnl pro-capite delle regioni sono stati calcolati in base ai dati forniti in W.S. Woytinsky e E.S.
Woytinsky, World Population and Production: Trends and Outlook, New York 1953, per il
1938 e il 1948; e da World Bank, World Development Report, Washington D.C. 1982 e 1990,
e World Tables, voll. 1 e 2, Washington D.C. 1984, per gli altri anni.
Questa traiettoria riflette ben note tendenze dell’economia-mondo
capitalistica durante il periodo preso in considerazione. L’iniziale espansione del divario rispecchia “il grande balzo in avanti” dell’economia
dell’America settentrionale nel corso della Seconda guerra mondiale e
nell’immediato dopoguerra. Grazie a questo balzo in avanti l’America
settentrionale si è collocata davanti a tutte le altre regioni dell’economiamondo – Europa occidentale compresa. È stato fissato in questo modo
un nuovo e più elevato standard di ricchezza ed è iniziata una corsa serrata per raggiungerlo. Nel perseguire questo obiettivo, gli Stati
dell’Europa occidentale, avvalendosi di una considerevole assistenza
finanziaria e istituzionale da parte della nuova potenza egemonica (gli
Stati uniti), hanno ristrutturato rapidamente le loro economie nazionali
a immagine e somiglianza dell’economia dell’America settentrionale.
Come mostrato dalla tabella 1, l’inseguimento ha avuto successo. Nel
1970 il divario di reddito che separava l’Europa occidentale dall’America
113
settentrionale era tornato ai livelli del 1938, per scomparire del tutto nel
1980. La tabella in realtà mostra che nel 1980 il reddito pro-capite
dell’Europa occidentale superava quello dell’America settentrionale, ma nel
corso degli anni Ottanta è di nuovo arretrato rispetto ad esso. Questi recenti alti e bassi nel rapporto fra le regioni dell’Europa occidentale e dell’America settentrionale sono largamente dovuti alle fluttuazioni del dollaro
rispetto alle valute dell’Europa occidentale. Se queste fluttuazioni siano
semplici aggiustamenti ciclici che segnano la fine del processo di inseguimento dei trent’anni precedenti, o se siano un segno di cambiamenti strutturali che preludono a una nuova e importante divaricazione delle sorti delle due regioni, come accaduto tra il 1938 e il 1948, è una questione che esula dallo scopo di questo articolo. Per i nostri fini, è sufficiente dire che
durante l’ultima metà del secolo le disuguaglianze di reddito tra le regioni
del centro organico non sono mai state ridotte come negli anni Ottanta.
Questa conclusione tiene anche se si prende in considerazione la
traiettoria più irregolare della regione australiana – demograficamente
di gran lunga la meno significativa delle tre. Nel 1938 questa regione era
la più ricca del centro organico. Come l’Europa occidentale, sperimentò
un forte peggioramento della sua posizione rispetto all’America settentrionale tra il 1938 e il 1948, ma, diversamente dall’Europa occidentale,
ha continuato a perdere terreno tra il 1948 e il 1960. Dopo il 1960 la sua
posizione relativa ha iniziato a migliorare ma, dopo il 1980, è nuovamente peggiorata. Essendo partita come la più ricca tra le regioni più
ricche, la regione costituita da Australia e Nuova Zelanda ha finito per
divenire la più povera delle tre nel 1988.
Questa traiettoria irregolare non modifica, comunque, la conclusione
per cui durante l’ultimo mezzo secolo i differenziali di reddito tra le regioni
del centro organico dell’economia-mondo non sono mai stati tanto ridotti
quanto negli anni Ottanta. Così, il rapporto tra il Pnl pro-capite più alto e
quello più basso delle tre regioni è stato di 1,6 nel 1938, di 2,6 nel 1948, di
2,1 nel 1960, di 1,7 nel 1970, di 1,3 nel 1980 e di 1,6 nel 1988. In sintesi, se
limitiamo la nostra attenzione alle regioni più ricche dell’economia-mondo,
sembrano venir confermate alcune delle più importanti affermazioni
dell’ideologia filo-capitalistica. Solo una volta, infatti, in cinquant’anni è
avvenuta una rilevante crescita delle disuguaglianze di reddito, e questa
crescita – spronando i paesi ritardatari a competere più efficacemente – ha
attivato forze che nel tempo hanno ridotto tali disuguaglianze. Inoltre,
all’interno di questa fascia ristretta e stabile di disuguaglianze, sembra ci sia
stata una considerevole mobilità ascendente e discendente. L’ultimo è di
fatto potuto diventare il primo e il primo l’ultimo.
114
2. MIRACOLI E MIRAGGI
Le dottrine filo-capitalistiche sostengono, in aggiunta, che il piccolo gruppo di nazioni che fissa gli standard di ricchezza nell’economiamondo è un “club” aperto a cui ogni nazione si può unire, se sa mostrare il proprio valore con appropriate strategie e politiche di sviluppo.
Questa credenza è stata rafforzata dall’esistenza di alcuni casi vistosi di
mobilità ascendente nella gerarchia globale della ricchezza – casi che
sono stati in verità così pochi da meritare il titolo di “miracoli economici”. Quanti sono stati questi miracoli? E quanto “reali”? Come si confrontano l’uno con l’altro?
La tabella 2 ci fornisce una visione d’insieme degli esempi più
importanti dei reali o presunti ”miracoli economici”. Mostra – per gli
stessi anni della tabella 1 – il Pnl pro-capite dei luoghi considerati come
percentuale del Pnl pro-capite del centro organico. Tra parentesi, la
tabella indica inoltre la percentuale della popolazione di questi luoghi
rispetto alla popolazione totale del centro organico.
TABELLA 2
“MIRACOLI ECONOMICI” COMPARATI
115
Note:
Le cifre presentano il rapporto tra il Pnl pro-capite dello Stato e il Pnl pro-capite del centro organico (si veda la tabella 1) moltiplicato per cento. Tra parentesi la percentuale della popolazione
dello stato rispetto alla popolazione totale del centro organico.
n.d. = non disponibile
Fonti: si veda la Tabella 1.
Per evitare fraintendimenti, precisiamo subito che non consideriamo il reddito pro-capite relativo – misurato dal rapporto tra i diversi Pnl
pro-capite – come un indicatore valido e affidabile del benessere degli
abitanti della regione o dello Stato a cui il rapporto si riferisce rispetto a
quello degli abitanti del centro organico. Perciò, quando diciamo che il
Pnl pro-capite del Brasile è stato per gran parte dell’ultima metà del
secolo approssimativamente un ottavo (il 12% circa) del Pnl pro-capite
del centro organico – come mostra la tabella 2 ? non stiamo affermando
che il benessere degli abitanti del Brasile è stato otto volte inferiore a
quello degli abitanti del centro organico. Potrebbe essere stato maggiore
o minore di quello a seconda di un certo insieme di circostanze – come
le differenze nella distribuzione dei redditi o nei costi umani e sociali
richiesti dalla produzione di un dato reddito; circostanze su cui il nostro
indicatore non dice nulla. Né consideriamo i rapporti tra i Pnl pro-capite come indicatori validi e affidabili della produttività media degli abitanti della regione o Stato a cui il rapporto si riferisce, rispetto alla produttività media degli abitanti del centro organico. Anche da questo punto di vista, se la produttività media degli abitanti del Brasile sia o no
rimasta pari a un ottavo della produttività media degli abitanti del centro dipende da circostanze – come i cambiamenti nelle ragioni di scambio, nei tassi di tassi di cambio, nel potere di ottenere redditi da abitanti
di altri Stati, nei flussi di denaro in entrata o in uscita dalla regione e dallo Stato, e così via – su cui il nostro indicatore non dice nulla.
Ciò di cui il rapporto fra i diversi Pnl pro-capite è un indicatore –
il miglior indicatore immediatamente disponibile – è il controllo che gli
abitanti di una determinata regione o Stato hanno sulle risorse umane e
naturali del centro organico rispetto al controllo che gli abitanti del centro organico hanno sulle risorse umane e naturali della stessa regione o
Stato. Pertanto, il nostro indicatore ci dice che il controllo che gli abitanti del Brasile hanno in media sulle risorse umane e naturali del centro
organico è – e lo è stato per gran parte degli ultimi cinquant’anni – circa
otto volte inferiore al controllo che in media gli abitanti del centro organico hanno sulle risorse umane e naturali del Brasile.
116
Questo “comando” diseguale sulle risorse tra due luoghi dell’economia-mondo non deve essere confuso con la nozione di “scambio ineguale” di Emmanuel3. Almeno in linea di principio, un rapporto di
“comando” economico diseguale può esistere e persistere tra due luoghi
in assenza di qualsiasi relazione di scambio ineguale nel senso di Emmanuel; e lo scambio ineguale può diventare un fattore che mette a repentaglio i rapporti economici diseguali4. Quale che sia il rapporto tra questi due tipi di disuguaglianza in un particolare momento e luogo, il
“comando” economico relativo misurato dal nostro indicatore non è
espressione dello scambio ineguale come tale, ma della totalità dei rapporti di potere (politici, economici e culturali) che hanno privilegiato gli
abitanti del centro organico nei loro affari diretti o indiretti con gli abitanti delle regioni e degli Stati al di fuori del centro.
Volgendoci ora ai dati della tabella 2, il primo paese che vi troviamo, il miracolo dei miracoli, è il Giappone. Il nostro indicatore ci fornisce un’immagine vivida del successo giapponese. Mostra sia la straordinaria distanza economica percorsa dal Giappone, sia la straordinaria
velocità con cui il divario è stato colmato. Con un Pnl pro-capite leggermente superiore a un quinto (il 20,7%) del Pnl pro-capite del centro
organico già nel 1938, il Giappone era parte del gruppo degli Stati a
medio reddito (semiperiferici). Nel 1988, invece, il Pnl pro-capite del
Giappone era superiore di quasi del 20% alla media del Pnl pro-capite
del centro organico. Questa ascesa è sorprendente soprattutto per il fatto che, tra il 1938 e il 1948, il Pnl pro-capite giapponese è precipitato
dal 20,7% al 14,5% del Pnl pro-capite del centro organico. Perciò, in
soli quarant’anni il Giappone ha raggiunto e superato lo standard di ricchezza delle regioni il cui Pnl pro-capite era quasi sette volte più alto
rispetto al proprio.
Il paese successivo nella lista è la Corea del Sud – demograficamente la più grande tra quelle che sono state soprannominate le “quattro Tigri”. Le altre tre “Tigri asiatiche” non sono elencate, o per una
mancanza di dati comparabili (come nel caso di Taiwan, per il quale
nessuna delle fonti fornisce dati), o per il fatto di essere città-Stato
(Hong Kong e Singapore), la cui performance economica non può essere valutata se non all’interno delle economie regionali di cui sono componente essenziale.
Si dice spesso che la Corea del Sud sia sulla strada di replicare
l’impresa del Giappone. Potrebbe essere così, ma i dati della tabella 2
invitano alla cautela. Diversamente dal Giappone, la Corea del Sud ha
iniziato a guadagnare terreno rispetto allo standard di ricchezza del cen-
117
tro organico solo negli anni Settanta e Ottanta. Inoltre, la sua ascesa ha
avuto inizio da un livello di reddito pro-capite molto più basso rispetto
a quello del Giappone. Il risultato è che nel 1988 la posizione della
Corea del Sud rispetto al centro organico era analoga a quella che il
Giappone aveva cinquant’anni prima, nel 1938. Di conseguenza – per
quanto notevole da altri punti di vista – l’ascesa economica della Corea
del Sud ha ancora davanti a sé una lungo cammino prima che si possa
affermare che essa abbia replicato il successo giapponese. Se disponessimo di dati comparabili, è possibile che Taiwan avrebbe mostrato risultati analoghi, o anche migliori, della Corea del Sud. In ogni caso, dovremmo ricordare che il miracolo economico sudcoreano (e ancor di più
quello taiwanese) ha migliorato le condizioni di una massa di popolazione molto più ridotta di quella giapponese.
Il secondo gruppo di miracoli economici citati nella tabella 2
riguarda i due paesi più grandi dell’Europa meridionale: l’Italia e la Spagna. Negli anni Ottanta l’Italia è stata talvolta definita il “Giappone
dell’Europa” e la Spagna è stata considerata dai paesi dell’Europa orientale (particolarmente in Polonia) come un esempio di ciò che il paese
avrebbe potuto diventare se non ci fosse stato il sistema comunista. Un
confronto tra gli indicatori italiani e giapponesi rivela in effetti
un’importante analogia tra le loro traiettorie: entrambe sono declinate
notevolmente tra il 1938 e il 1948, e salite in modo costante fino agli
anni Ottanta. La differenza principale – a parte il peso demografico
maggiore del Giappone – è che la traiettoria italiana è più piatta di quella giapponese: inizia a un livello più alto (32 contro 20,7%) e termina a
un livello più basso (74,8 contro 117,9%). L’Italia perciò non ha mai
raggiunto (né tantomeno superato, come ha fatto il Giappone) lo standard di ricchezza del centro organico. Tuttavia, nel 1988 l’Italia era
diventata più ricca delle regioni più povere del centro organico (Australia e Nuova Zelanda), e il suo Pnl pro-capite era solo il 25% inferiore a
quello del centro organico nel suo complesso.
La traiettoria spagnola è ancora più piatta di quella italiana. Crolla
sensibilmente tra il 1938 e il 1948, sale tra il 1960 e il 1980, e diminuisce
leggermente negli anni Ottanta. Da queste fluttuazioni risulta che nel
1988 il Pnl pro-capite della Spagna in percentuale del Pnl pro-capite del
centro organico era pressappoco lo stesso del 1938 (43,4% contro
41,6%). Da questo punto di vista il miracolo spagnolo – quale esso sia –
non assomiglia tanto a quello giapponese, quanto invece al “miracolo”
brasiliano, oggetto di attenzione nei tardi anni Settanta, per poi essere
considerato come un “miraggio” negli anni Ottanta.
118
La caratteristica più stupefacente della traiettoria brasiliana, come
mostra il nostro indicatore, è che è stata assolutamente e quasi ininterrottamente piatta. Dal 1938 al 1970 il Pnl pro-capite del Brasile è rimasto fermo al 12% circa di quello del centro organico. Tra il 1970 e il
1980 è salito al 17,5%, ma nel 1988 è tornato al suo solito 12%. È stato
questo balzo in avanti transitorio che nei tardi anni Settanta portò molti
ad affermare che un nuovo miracolo economico fosse allora in corso in
Brasile e che, grazie ad esso, il Brasile avrebbe raggiunto gli standard di
ricchezza del centro organico.
Il balzo in avanti non fu altro che un lieve salto in una traiettoria
altrimenti piatta. Tuttavia, non dovremmo essere troppo frettolosi nel
dichiarare che il miracolo brasiliano sia stato solo un “miraggio”. Certo,
in confronto ai miracoli stile giapponese – o anche italiano e coreano –
le traiettorie del Brasile e della Spagna sembrerebbero ritrarre un piccolo fallimento, piuttosto che un grande successo. Questa valutazione si
basa tuttavia su una visione distorta di quello che è stato un risultato
normale nell’economia-mondo capitalistica degli ultimi cinquant’anni.
Prima di dare un giudizio sulla performance apparentemente poco brillante del Brasile e della Spagna, dobbiamo perciò ampliare l’orizzonte
delle nostre osservazioni per includervi le regioni in cui vive la maggioranza della popolazione mondiale.
3. L’ALLARGAMENTO DEL DIVARIO DI REDDITO TRA RICCHI E POVERI
Dalla tabella 3 (costruita allo stesso modo della tabella 2) emerge
l’immagine di un allargamento delle già rilevanti differenze di reddito
che cinquant’anni fa separavano i popoli del Sud da quelli del centro
organico dell’economia-mondo capitalistica. Tali differenze si sono
ampliate in modo molto diseguale nello spazio e nel tempo, come vedremo, ma la tendenza generale di lungo termine è inequivocabile: la grande maggioranza della popolazione mondiale è rimasta sempre più indietro rispetto agli standard di ricchezza dell’Occidente.
Questo peggioramento generale della situazione economica non ha
colpito indistintamente tutte le regioni considerate nella tabella 3. Se ci
limitiamo a considerare le aree per cui abbiamo dati sia per il 1938 sia
per il 1988, il peggioramento minore è avvenuto in America latina (sia se
includiamo o escludiamo il Brasile), e quello più grave si è verificato
nell’Asia meridionale, seguita dall’Africa meridionale e centrale. Più
specificatamente, tra il 1938 e il 1988 i differenziali di reddito tra le aree
119
citate nella tabella 3 e il centro organico – come risulta dal rapporto tra
il Pnl pro-capite del centro organico e il Pnl pro-capite di ciascuna di
queste aree – sono aumentati di un fattore di 1,8 nel caso dell’America
Latina (di 2,4 se escludiamo il Brasile), di 2,6 nel caso del Sudest asiatico
(come risulta dall’aggregato di Indonesia e Filippine), di 2,7 nel caso del
Medio Oriente e del Nord Africa (come risulta dall’aggregato di Turchia e Egitto), di 4,1 nel caso dell’Africa meridionale e centrale e di 4,6
nel caso dell’Asia meridionale.
Le irregolarità nel peggioramento delle posizioni economiche relative delle regioni povere del mondo hanno portato, negli ultimi cinquant’anni, ad allargare i differenziali di reddito tra le stesse regioni
povere. Così, il rapporto tra il Pnl pro-capite più alto e quello più basso
delle cinque aree prese in considerazione era di 4,2 nel 1938, di 4,6 nel
1960, di 5,5 nel 1970, di 9,9 nel 1980 e di 5,9 nel 1988 (non sappiamo
quale fosse il rapporto nel 1948 perché non vi sono dati disponibili per
l’aggregato del Sudest asiatico, che a quel tempo aveva presumibilmente
il reddito pro-capite più basso di tutte e cinque le unità. Tuttavia, si può
supporre che tra il 1938 e il 1948 l’indice del Sudest asiatico non abbia
subito una caduta sufficiente [27% o più] a far salire il rapporto in questione sopra il suo valore del 1938).
TABELLA 3
PRESTAZIONI ECONOMICHE COMPARATE NEL “SUD”
Note:
1. I dati presentano il rapporto tra il Pnl pro-capite della regione o dell’area e il Pnl pro-capite
del centro organico moltiplicato per cento. Tra parentesi la percentuale della popolazione della
regione (o aggregato) rispetto alla popolazione del centro organico.
2. L’aggregato I comprende: Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Repubblica Domenicana, Ecuador, El Salvador, Giamaica, Messico, Paraguay, Perù, Venezuela. L’aggregato II comprende: Algeria, Egitto, Libia, Sudan, Siria e Turchia. L’aggregato III.1 comprende: Benin,
Burundi, Camerun, Ciad, Etiopia, Costa d’Avorio, Kenia, Madagascar, Malawi, Mali, Mauriziana, Mozambico, Niger, Nigeria, Ruanda, Senegal, Somalia, Tanzania, Burkina Faso. L’aggregato
120
121
III.2 comprende: Sudafrica, Zaire, Zambia e Zimbabwe. L’aggregato IV comprende: Bangladesh,
India, Pakistan e Sri Lanka. L’aggregato V comprende: Indonesia, Malesia, Filippine, Thailandia e Singapore.
n.d. = non disponibile
Fonti: Si vedano le tabelle 1 e 2.
In breve, durante gli ultimi cinquant’anni le disuguaglianze di reddito tra le regioni più povere dell’economia-mondo hanno seguito un
andamento che in alcuni aspetti chiave è l’opposto di quello seguito dalle disuguaglianze di reddito tra le regioni ricche (si veda la sezione 1).
Tra il 1938 e il 1948, quando le disuguaglianze di reddito tra le regioni
più ricche sono aumentate notevolmente, quelle fra le regioni più povere sono rimaste probabilmente uguali o sono diminuite. Tra il 1948 e il
1980, invece, quando le disuguaglianze tra le regioni più ricche si sono
progressivamente ridotte, quelle tra le regioni più povere sono cresciute
sistematicamente. E tra il 1980 e il 1988, quando le disuguaglianze tra le
regioni più ricche sono aumentate, quelle tra le regioni più povere sono
diminuite notevolmente. Come risultato di questi movimenti opposti, la
tendenza delle disuguaglianze di reddito negli ultimi cinquant’anni è
stata alla riduzione tra le regioni ricche, e all’aumento tra le regioni più
povere.
Il crescente divario di reddito tra ricchi e poveri si è realizzato in
modo estremamente irregolare non solo nello spazio, ma anche nel tempo. La gran parte delle perdite del Sud rispetto all’Ovest sono concentrate nei primi e negli ultimi decenni dei cinquant’anni presi in considerazione. Solo una regione (l’Asia meridionale) ha sperimentato nell’ultimo cinquantennio un deterioramento costante e ininterrotto della sua
posizione economica rispetto al centro organico. Prima o poi, tutte le
altre regioni hanno avuto un’inversione di tendenza: l’America Latina
nel 1948-60 e di nuovo nel 1970-80, l’Africa meridionale e centrale nel
1960-70, e tutte le altre regioni (a eccezione dell’Asia meridionale) nel
1970-80. Ma nessuna regione ha migliorato la sua posizione rispetto al
centro organico tra il 1938 e il 1948 o tra il 1980 e il 1988. Durante questi due periodi, tutte le regioni considerate nella tabella 3 hanno perso
terreno rispetto allo standard di ricchezza del centro organico e, in
media, le perdite sono state molto più pesanti in questi due periodi che
in ogni altro.
Le perdite del periodo 1938-48 sono in gran parte un riflesso del
grande balzo in avanti dell’economia dell’America settentrionale in questo decennio (si veda la sezione 1). Nel 1948, questo balzo in avanti fece
122
sembrare e sentire più povere di quanto fossero nel 1938 tutte le altre
regioni dell’economia-mondo – incluse le regioni tradizionalmente ricche come l’Europa occidentale. È vero che le distruzioni e gli sconvolgimenti della Seconda guerra mondiale avevano impoverito molte regioni
e molti paesi non solo in termini relativi, ma anche in termini assoluti.
Ma le regioni del Sud non andavano peggio, né in termini assoluti né in
termini relativi, delle regioni del centro diverse dall’America settentrionale o dei paesi che hanno poi registrato “miracoli economici”. Al contrario, in termini comparati, ebbero buoni risultati. Tutti gli indicatori
della tabella 3 sono diminuiti tra il 1938 e il 1948 – l’America Latina del
27% (32% se escludiamo il Brasile), l’Africa meridionale e centrale del
26%, il Medio Oriente e il Nord Africa del 13% e l’Asia meridionale
dell’8%. Ma queste riduzioni sono dello stesso ordine o più piccole delle contrazioni degli indicatori dell’Europa occidentale (32%), Australia
e Nuova Zelanda (37%), Giappone (30%), Italia (29%) e Spagna
(56%) (calcolati dalle tabelle 1 e 2).
Fissando un nuovo e più elevato standard di ricchezza nell’economia-mondo, il grande balzo in avanti dell’economia dell’America settentrionale ha preparato il terreno per le politiche per lo sviluppo dei
trent’anni successivi. La stessa nuova potenza egemonica (gli Stati uniti)
proclamava che sotto la sua guida sia le nazioni vecchie che quelle nuove avrebbero potuto raggiungere i suoi standard, naturalmente a patto
che seguissero al meglio la via americana alla prosperità economica.
Come poi definita nel “Manifesto non-comunista” di W. W. Rostow,
questa dottrina sosteneva che le nazioni attraversano una serie di stadi
di sviluppo politico ed economico sostanzialmente simili – stadi che
portano dalla povertà delle economie tradizionali alla prosperità del
consumo di massa. La maggior parte delle nazioni attraversava ancora i
primi stadi dello sviluppo, ma l’adesione ai principi della libera impresa
avrebbe alla fine assicurato che tutte le nazioni avrebbero raggiunto lo
stadio del consumo di massa5.
Le varianti di questa dottrina hanno fornito il cemento ideologico
all’ordine mondiale statunitense, fino a quando la dottrina stessa non
venne tacitamente abbandonata negli anni Ottanta. Per circa trent’anni,
le nazioni del Terzo mondo vennero continuamente spinte a realizzare
politiche per lo sviluppo, con l’obiettivo di raggiungere gli standard di
consumo di massa goduti dalla popolazione dell’America settentrionale
e, in maniera crescente, dell’intero Occidente, che era arrivato a includere il Giappone come membro onorario. Ci furono diversi successi
parziali e temporanei, come testimoniato dai miglioramenti negli indica-
123
tori della tabella 3. Ma proprio nel momento in cui tutti gli indicatori
sembravano diretti verso l’alto – più o meno nel 1980, con la sola eccezione dell’Asia meridionale – sono crollati tutti insieme, senza eccezioni,
nel decennio successivo.
Il crollo degli anni Ottanta differisce dalla contrazione degli anni
Quaranta sia quantitativamente che qualitativamente. Quantitativamente è stato molto più acuto. Tra il 1980 e il 1988, l’indicatore per l’America Latina (incluso il Brasile) è caduto del 46% (54% se escludiamo il
Brasile), quello per il Medio Oriente e il Nord Africa del 27% (31% per
il più piccolo aggregato di Turchia e Egitto), quello per l’Africa occidentale e orientale del 66%, quello per l’Asia meridionale del 10% e quello
per il Sud-Est asiatico del 35% (50% per il più piccolo aggregato di
Indonesia e Filippine). Anche se queste contrazioni si riferiscono a un
periodo di otto anni invece che di dieci, sono tutte superiori – la maggior parte molto superiori – delle corrispondenti contrazioni del periodo 1938-48 citate in precedenza.
Ma la differenza più importante tra le due contrazioni è di tipo
qualitativo, piuttosto che quantitativo. Come abbiamo visto, la contrazione precedente fu soprattutto un riflesso del grande balzo in avanti
dell’economia dell’America settentrionale e ha segnato l’inizio dei tentativi di inseguire gli standard americani di consumo. La contrazione degli
anni Ottanta, invece, è stata un riflesso del collasso generale di queste
politiche, e ha segnato il loro abbandono di fronte al crescere di sfide
dall’alto e dal basso.
La principale sfida dall’alto è venuta dal rovesciamento delle politiche e dell’ideologia della potenza egemonica mondiale. Intorno al
1980 gli Stati uniti hanno abbandonato la dottrina dello “sviluppo per
tutti” a favore della dottrina secondo cui i paesi poveri avrebbero dovuto risparmiare il più possibile per onorare il servizio del debito estero, e
conservare le loro credibilità come debitori. La solvibilità, invece dello
sviluppo, è diventata la parola chiave. Allo stesso tempo, il governo e le
imprese degli Stati uniti hanno aumentato rapidamente il proprio indebitamento – interno ed estero –, iniziando a competere aggressivamente
con gli Stati più poveri sui mercati finanziari mondiali.
Quest’inversione di marcia è stata probabilmente il fattore più
importante che ha scatenato il crollo improvviso dei redditi del Terzo
Mondo nei primi anni Ottanta. Ma non è stato l’unico. Le politiche per
lo sviluppo sono state messe in discussione non solo dall’alto, ma anche
dal basso. Le sfide dal basso sono state estremamente diversificate, a
seconda delle circostanze locali. Forti e persistenti agitazioni dei lavora-
124
tori, la diffusione di organizzazioni di base di mutuo aiuto, i movimenti
religiosi radicati tra i poveri (come lo sciismo nel mondo islamico o la
teologia della liberazione in America Latina), i movimenti per i diritti
umani e per la democrazia, sembrano avere poco in comune fra di loro.
Tuttavia, nel corso dell’ultimo decennio sono stati tutte varianti della
resistenza dei popoli del Terzo Mondo contro le ideologie e le pratiche
dello sviluppo che hanno imposto costi umani e sociali esorbitanti ai
gruppi e alle classi subalterne, senza mantenere quanto avevano originariamente promesso.
Stretto fra le sfide provenienti dall’alto e dal basso, un numero crescente di governi del Terzo Mondo è stato spinto a rinunciare alle strategie di sviluppo e ad accontentarsi – più o meno a malincuore – di una
posizione subordinata nella gerarchia globale della ricchezza. Oggi sono
veramente in pochi, fra coloro che sono al governo nel Sud – come al
Nord –, a credere ancora alla favola del “Manifesto non-comunista” di
Rostow. La maggioranza di loro sa – anche quando non lo ammettono –
che i paesi del mondo non stanno procedendo tutti sulla stessa strada
del consumo di massa. Al contrario, hanno posizioni diverse in una rigida gerarchia della ricchezza, in cui l’occasionale ascesa di una nazione o
due lascia tutte le altre ancora più fermamente bloccate ai loro punti di
partenza.
La legittimazione di questa dura realtà nella mente e nei cuori dei
popoli condannati a restare ai gradini più bassi della gerarchia globale
della ricchezza – popoli che costituiscono la stragrande maggioranza del
genere umano – è e resta problematica. Per il momento, la legittimazione delle enormi disuguaglianze di reddito che sono emerse negli anni
Ottanta è stata facilitata dalla percezione generale della crisi dell’ideologia dello sviluppo, crisi che è stata assunta come segno del fallimento
non del capitalismo storico come sistema-mondo, ma dei suoi oppositori – innanzitutto del comunismo e, di riflesso, del socialismo. Guardiamo ora alla natura e alle origini di questa percezione.
4. IL FALLIMENTO DEL COMUNISMO IN UNA PROSPETTIVA STORICO-MONDIALE
Come modello di governo, il comunismo ha fallito sotto molti
aspetti. Generalmente si pensa però che il suo più grande fallimento sia
stato economico – l’incapacità di creare nei propri territori un’abbondanza di risorse comparabile a quella esistente in Occidente. La scarsità
di dati confrontabili rende difficile valutare accuratamente le dimensioni
125
storiche di questo fallimento. Nondimeno, le fonti a disposizioni forniscono dati sufficienti per consentire alcune stime plausibili.
Questi dati sono stati usati per calcolare gli indicatori della tabella
4, nello stesso modo di quelli delle tabelle 2 e 3. Pur essendo lacunosi,
questi indicatori ci danno un’idea delle proporzioni storiche di ciò che
usualmente s’intende per fallimento del comunismo. Lungi dal raggiungere i livelli di ricchezza dell’Ovest, l’Est è rimasto sempre più indietro.
Tra il 1938 e il 1988 il divario di reddito tra il centro organico e le tre
aree per cui abbiamo dati confrontabili è aumentato di un fattore di 2,3
nel caso della Cina, di un fattore di 2,4 per l’aggregato di Ungheria e
Polonia, e di un fattore di 2,9 per la Jugoslavia. Poiché in tutti e tre i casi
i regimi comunisti sono stati istituiti intorno al 1948, le loro performance dovrebbero essere valutate a partire da quell’anno, piuttosto che dal
1938. Sfortunatamente, i soli dati confrontabili disponibili per il 1948
riguardano Ungheria e Polonia. Giudicando da questo singolo caso, la
performance è stata in qualche modo migliore nei quarant’anni del
dominio comunista rispetto al più lungo periodo – la posizione economica relativa è peggiorata di un fattore 1,7 in quattro decenni, contro
2,4 in mezzo secolo – ma non si tratta di un risultato tale da impedirci di
concludere che i regimi comunisti abbiano fallito, non solo nel raggiungere gli standard di ricchezza occidentali, ma anche nel mantenere invariato il distacco.
TABELLA 4
PRESTAZIONI ECONOMICHE COMPARATE NELL’‘EST
Fonti: Gli indicatori sono calcolati nello stesso modo e dalle stesse fonti di quelli delle tavole 2 e 3.
126
È inutile dire che il fallimento assume proporzioni catastrofiche
confrontando le performance economiche dei territori con governi
comunisti con i casi più notevoli di mobilità verso l’alto nel mondo capitalistico. Così, nel 1938 il Prodotto nazionale lordo (Pnl) pro-capite del
Giappone era circa la metà di quello della Jugoslavia, circa quattro
quinti di quello di Ungheria e Polonia e circa cinque volte quello della
Cina. Nel 1988 era più di otto volte quello della Jugoslavia, più di dieci
volte quello di Ungheria e Polonia, e più di sessantacinque volte quello
della Cina. Inoltre, per quel che possiamo giudicare dall’indicatore
Ungheria e Polonia, in questo confronto – o in quello analogo con l’Italia o la Spagna – le perdite degli ultimi cinquant’anni sono concentrate
proprio nei quarant’anni di governo comunista (1948-88). Così, tra il
1938 e il 1948 il Pnl pro-capite di Ungheria e Polonia non ha perso quasi nulla rispetto a quello di Giappone o Italia, e ha guadagnato relativamente a quello della Spagna. Nei successivi quaranta anni, di contro, è
declinato di un fattore di 13,4 rispetto al Pnl pro-capite giapponese, di
5,6 rispetto a quello italiano e di 3,9 rispetto a quello spagnolo.
I confronti fatti finora conducono inevitabilmente alla conclusione
che i regimi comunisti hanno completamente fallito nel realizzare le
aspettative e le promesse di superare la prosperità dell’Occidente capitalistico. Poiché non abbiamo ragioni di credere che l’Urss e gli altri paesi
satellite est-europei, per i quali non sono disponibili dati confrontabili,
si siano comportati molto meglio di Ungheria e Polonia o della Jugoslavia, possiamo estendere questa conclusione all’insieme dell’ ‘impero’
sovietico. Ciò ammesso, non ne consegue però che, come molti pensano, l’insieme dell’Est – in opposizione ad alcuni dei suoi componenti –
avrebbe ottenuto risultati economici migliori se solo non si fosse trovato
sotto il dominio comunista.
Molti in Europa orientale e nell’Urss ritengono che il dominio
comunista abbia impedito loro di raggiungere almeno i risultati della
Spagna, ma questa sensazione non ha fondamento fattuale, né logico.
Fattualmente, essa non considera ciò che è stata la norma – contrapposta all’eccezione – sotto il dominio capitalistico. Logicamente, si basa
sulla falsa premessa che lo standard di ricchezza dell’Occidente avrebbe
potuto essere generalizzato a una porzione molto più ampia della popolazione mondiale di quanto non sia avvenuto. Cominciamo con l’affrontare la mancanza di fondamenti fattuali.
Come argomentato nella sezione precedente, i pochi casi di ‘mobilità verso l’alto’ nella gerarchia di ricchezza dell’economia-mondo capitalistica dell’ultimo mezzo secolo sono alquanto eccezionali, e meritano
127
il titolo di “miracoli economici”. La regola, per gli Stati e le regioni a
basso e medio reddito, non è stata né quella di raggiungere gli standard
di ricchezza dell’Occidente (come hanno fatto Giappone e Italia) e neppure di mantenere la propria posizione relativa al di sotto di tali standard (come Brasile e Spagna). Piuttosto, la regola è stata che (1) la
distanza tra le regioni e gli Stati poveri e quelli ricchi è aumentata e che
(2) le regioni e gli Stati ricchi sono rimasti ricchi, e le regioni e gli Stati
poveri sono rimasti poveri, praticamente senza alcun ricambio tra i due
gruppi.
Questa regola si applica ai territori con governi comunisti tanto
quanto agli altri. Un confronto tra gli indicatori delle tabelle 3 e 4 rivela
che le performance economiche dei territori comunisti non sono state
né migliori né peggiori di quelle delle regioni che, nel 1938 o 1948,
occupavano una posizione simile nella gerarchia globale della ricchezza.
Per quanto riguarda l’Europa orientale e l’Urss, tali regioni erano
l’America latina (includendo o escludendo il Brasile), l’Africa centrale e
meridionale – che, per un curioso caso statistico, aveva esattamente lo
stesso Pnl pro-capite dell’Urss sia nel 1938 sia nel 1948 – e, in misura
minore, il Medio Oriente e l’Africa del Nord, misurate dall’aggregato di
Turchia ed Egitto. Per la Cina, i confronti rilevanti sono con l’Asia meridionale e con il Sud-Est asiatico, quest’ultimo misurato dall’aggregato di
Indonesia e Filippine.
Nel primo insieme di confronti, tra il 1938 e il 1988 la Jugoslavia
ha fatto peggio dell’America latina (escludendo o includendo il Brasile),
più o meno lo stesso di Turchia ed Egitto e molto meglio dell’Africa
centro-meridionale; e tra il 1948 e il 1988 Ungheria e Polonia hanno fatto molto meglio sia dell’Africa centro-meridionale sia di Turchia ed
Egitto, solo marginalmente peggio dell’America latina, includendo il
Brasile, ed esattamente lo stesso se lo si esclude. La stabilità di lungo termine del rapporto tra il Pnl pro-capite di Ungheria e Polonia e quello
dell’America latina ad esclusione del Brasile colpisce in modo particolare: il rapporto era 1,12 nel 1938, 1,14 nel 1948 e ancora 1,14 nel 1988.
Nella misura in cui questi indicatori riflettono la performance
complessiva dell’Europa orientale e dell’Urss nel loro insieme, possiamo
concludere che il fallimento economico dei regimi comunisti in questa
regione è stato tale soltanto rispetto alla promessa e all’aspettativa che
uno sviluppo centralmente pianificato e lo sforzo per “sconnettersi” dai
circuiti globali del capitale avrebbe potuto creare, entro i territori del
dominio comunista, un’abbondanza di risorse comparabile a quella
dell’Occidente capitalistico, o perfino maggiore. Ma non c’è alcun falli-
128
mento relativamente a ciò che hanno ottenuto nel medesimo periodo di
tempo altre regioni a medio reddito che non hanno fatto ricorso alla
pianificazione centralizzata e non si sono distaccate dai circuiti globali
del capitale. Pianificazione centralizzata o meno, sconnessione o non
sconnessione, le regioni a medio reddito sono rimaste tali, perdendo terreno rispetto alle regioni ad alto reddito e guadagnandone rispetto a
quelle a basso reddito.
Ciò naturalmente non significa che uno o più degli Stati in cui
l’Europa orientale è stata divisa – e in cui l’Urss stessa avrebbe potuto
essere divisa se fosse crollata nella Seconda guerra mondiale – non
avrebbero potuto registrare un “miracolo economico” del tipo spagnolo
o brasiliano (forse, perfino della varietà giapponese o italiana) se non
fossero stati “sconnessi” negli ultimi quarant’anni. Tuttavia, se si considera il grosso della popolazione della regione, non c’è alcuna ragione
per cui i territori presenti e passati del dominio comunista nell’Europa
orientale e nell’Urss avrebbero potuto ottenere risultati migliori rispetto,
diciamo, all’America latina, se non fossero stati con un’economia pianificata e sconnessa dai circuiti globali del capitale. In realtà, ci sono buone ragioni per cui probabilmente non avrebbero fatto meglio di così.
Prima di discuterle, confrontiamo brevemente la performance della
Cina con quella dell’Asia meridionale e sud-orientale.
Per quel che valgono i dati, questa comparazione offre prove circostanziali perfino più forti a supporto delle conclusioni appena raggiunte sull’Europa orientale e altre regioni a medio reddito. Secondo la
nostra fonte per il 1938, la Cina era allora di gran lunga la regione più
povera dell’Asia. Il suo reddito pro-capite era la metà di quello dell’Asia
meridionale e poco più di due terzi di quello del Sud-est asiatico, stimato dall’aggregato di Indonesia e Filippine. Non abbiamo dati per il
1948, ma poiché le distruzioni subite dalla Cina tra il 1938 e il 1948, in
conseguenza dell’invasione giapponese e della guerra civile, sono state
molto più grandi di quelle subite dalle altre due aree – in particolare
l’Asia meridionale – la posizione relativa della Cina alla vigilia della
costituzione del governo comunista nel 1948 non poteva essere migliore
di quanto fosse nel 1938.
Se ciò è vero, i quarant’anni di governo comunista hanno visto un
grande miglioramento relativo rispetto all’Asia meridionale e uno minore (o un minimo peggioramento) rispetto al Sud-est asiatico. Nel 1988 il
Pnl pro-capite cinese era lo stesso dell’Asia meridionale (contro la metà,
soltanto, nel 1938 e presumibilmente nel 1948) e il 78% di quello di
Indonesia e Filippine (contro il 68% nel 1938). (Poiché dal 1960 in poi
129
l’aggregato ‘Indonesia e Filippine ha fatto peggio di quello più ampio
del Sud-est asiatico, come mostra la Tabella 3, è possibile che il piccolo
guadagno della Cina nei confronti del Sud-est asiatico sia in effetti un
piccolo peggioramento).
A ogni modo, che la Cina abbia perso o guadagnato terreno rispetto al Sud-est asiatico, lo spostamento è stato minimo – certamente non
grande quanto il miglioramento nei confronti dell’Asia meridionale –
cosicché la conclusione precedente rimane valida. Il fallimento economico del comunismo è tale soltanto rispetto alle aspettative e alle promesse, completamente irrealistiche, dei comunisti stessi, che pensavano
di poter portare grandi masse di popolazione fino ai livelli di ricchezza
dell’Occidente attraverso una sconnessione sistematica dai circuiti globali del capitale. Tuttavia, in nessun modo questo fallimento può essere
considerato tale rispetto a ciò che è stato ottenuto dai regimi che hanno
governato regioni con livelli di reddito comparabili a quelle comuniste,
e che non si sono sconnessi dai circuiti globali del capitale. Chiusura o
apertura ai circuiti globali del capitale sembrano aver fatto poca differenza nel fermare – e tantomeno rovesciare – la tendenza complessiva
verso una distribuzione sempre più diseguale del reddito.
La chiusura o l’apertura ai circuiti globali del capitale ha naturalmente avuto effetti importanti per altri aspetti. Più di ogni altra cosa, ha
fatto la differenza in termini di status e potere nel sistema-mondo. Per
più di trent’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, assieme o
separatamente, l’Urss e la Cina sono riuscite a controbilanciare l’estensione globale dell’egemonia statunitense e a estendere le loro reti di
potere nel Sud – dai Caraibi all’Indocina, dall’Africa meridionale e
orientale al Medio Oriente. Persino in questo momento di crisi, il peso
dell’Urss nella politica mondiale è molto più grande di quello di tutti gli
Stati dell’America latina messi assieme, e quello della Cina è molto più
grande di quello di tutti gli Stati dell’Asia meridionale – per considerare
regioni di dimensioni comparabili in termini di popolazione e reddito
pro-capite.
Inoltre, la chiusura o l’apertura hanno avuto un grosso impatto
nello status e nel benessere degli strati sociali più bassi delle regioni in
questione – gruppi che nelle regioni a medio e basso reddito comprendono tra la metà e due terzi della popolazione. Come argomentato
sopra, probabilmente l’Urss non ha fatto meglio (e poteva fare peggio)
dell’America latina nella ‘gara’ per raggiungere gli standard di ricchezza
occidentali. Ma gli strati sociali più bassi della sua popolazione hanno
avuto risultati incomparabilmente migliori di quelli degli strati sociali
130
più bassi dell’America latina (Brasile incluso) nel migliorare gli standard
di alimentazione, salute e istruzione. E il miglioramento è stato persino
più grande per gli strati sociali più bassi della Cina a confronto con
quelli dell’Asia meridionale o del Sud-est asiatico.
Anche se dimenticati in questo momento di crisi, tali risultati politici e sociali sono stati e restano impressionanti. Tuttavia, essi sono stati
completamente oscurati e svuotati dalla pretesa e dalla convinzione dei
gruppi dirigenti degli Stati comunisti (in particolare dell’Urss) che i loro
territori fossero in procinto di raggiungere gli standard di ricchezza
dell’Occidente, mentre in realtà stavano allontanandosi sempre più
rispetto ad essi. Con questo allontanamento, le capacità di competere in
termini militari, diplomatici, culturali e scientifici con l’Occidente diminuivano drammaticamente, mentre le forze sociali poste in essere
dall’incessante modernizzazione cominciavano a mettere in discussione
la capacità delle élite dominanti di realizzare ciò che promettevano. Alla
fine, la strutturale incapacità delle regioni a basso e medio reddito di
‘scalar È la gerarchia globale della ricchezza è diventata un fattore di crisi politica e ideologica sia all’Est che nel Sud. I maggiori successi dei
regimi dell’Est hanno semplicemente reso la loro crisi più visibile e spettacolare di quella del Sud.
5. LA RICCHEZZA OLIGARCHICA E LA RIPRODUZIONE DELLE DISUGUAGLIANZE
DI REDDITO
È tempo di fornire qualche spiegazione plausibile dell’apparente
‘legge ferrea’ di una gerarchia globale della ricchezza che rimane stabile
a prescindere da ciò che fanno o non fanno i governi sui gradini più bassi della gerarchia – indipendentemente, vale a dire, dal fatto che essi si
sconnettano o meno dai circuiti globali del capitale, tentino o meno di
ottenere potere e status nel sistema interstatale, eliminino o no le disuguaglianze tra i propri cittadini. Mi sembra che un passo necessario verso tale spiegazione sia riconoscere che i livelli di ricchezza goduti
dall’Occidente corrispondono a ciò che Roy Harrod ha definito ‘ricchezza oligarchica’, in contrapposizione alla ‘ricchezza democratica’.
Questi concetti contrapposti sono stati definiti da Harrod con riferimento alla ricchezza personale – definita in senso ampio come reddito
a lungo termine – senza considerare la nazionalità o residenza delle persone coinvolte. Nondimeno, con poche modifiche sostanziali gli stessi
concetti possono essere applicati ai redditi a lungo termine degli indivi-
131
dui come membri di ‘famiglie nazionali’ (Stati) coinvolte nelle reti globali del commercio e in competizione l’una con l’altra per il controllo
sulle risorse umane e naturali del pianeta.
Nella concezione di Harrod, la ricchezza democratica e quella oligarchica sono separate da un ‘abisso insuperabile’. La ricchezza democratica è il tipo di controllo sulle risorse che, in linea di principio, è
disponibile per tutti, in relazione diretta con l’intensità e l’efficienza del
proprio impegno. La ricchezza oligarchica, di contro, non ha alcuna
relazione con l’intensità e l’efficienza degli sforzi di chi ne gode i frutti,
e non è mai disponibile per tutti, non importa quanto intensamente e
con quanta efficienza s’impegnino. Così è, secondo Harrod, per due
ragioni principali. La prima corrisponde a ciò che normalmente intendiamo per sfruttamento. Non è possibile che tutti siano in grado di
ottenere servizi e prodotti che incorporino tempo e lavoro maggiori di
quelli producibili da una persona di media efficienza. Se qualcuno può
farlo, ciò significa che qualcun altro sta lavorando per meno di quel che
potrebbe ottenere se tutti gli sforzi di pari intensità ed efficienza fossero ricompensati egualmente. In più, e questa è la seconda ragione, alcune risorse sono scarse in senso assoluto o relativo, o sono soggette a
problemi di congestione o sovraffollamento quando vengono usate diffusamente. Perciò, il loro uso presuppone l’esclusione di altri, attraverso un sistema di prezzi o di razionamento, che porta alla formazione di
rendite e quasi-rendite6.
La lotta per raggiungere la ricchezza oligarchica, perciò, è intrinsecamente condannata al fallimento. Come sottolineato da Fred Hirsch –
che ha ripreso il concetto di ricchezza oligarchica di Harrod – l’idea
che tutti possano ottenerla è una illusione.
Nella sua azione individuale ogni persona cerca di ottenere il meglio dalla
propria posizione. Ma la soddisfazione di questa preferenze individuali
altera di per sé la situazione in cui vengono a trovarsi gli altri che cercano di
soddisfare bisogni simili. Alla conclusione del giro di transazioni atte a soddisfare questo tipo di bisogni personali, ogni individuo si ritrova ad aver
concluso un affare peggiore di quello che aveva preventivato al momento
di intraprendere la transazione, poiché la somma di tali operazioni non
migliora in misura corrispondente la posizione di tutte le persone nel loro
insieme. Vi è un problema di ‘addizione’. Le occasioni di avanzamento economico, mentre si presentano di volta in volta a una persona dopo l’altra,
non costituiscono occasioni equivalenti di avanzamento economico per tutti. Quel che ciascuno di noi può ottenere, non possiamo ottenerlo tutti7.
132
In una economia-mondo capitalistica, gli Stati che sono alla ricerca
di una maggiore ricchezza nazionale si trovano a fronteggiare un problema di ‘addizion È analogo, e più serio sotto molti aspetti, a quello degli
individui che ricercano la ricchezza personale in una economia nazionale. Le opportunità di avanzamento economico, presentandosi di volta in
volta a uno Stato dopo l’altro, non costituiscono opportunità equivalenti
per l’avanzamento economico da parte di tutti gli Stati. In questo senso,
lo sviluppo economico è un’illusione. La ricchezza dell’Occidente è analoga alla ricchezza oligarchica di Harrod. Non può essere generalizzata
perché si basa su processi relazionali di sfruttamento ed esclusione che
presuppongono la riproduzione continua della povertà relativa della
maggioranza della popolazione mondiale.
I processi di esclusione sono tanto importanti quanto quelli di
sfruttamento. Il secondo termine qui si riferisce al fatto che la povertà
assoluta o relativa degli Stati ai gradini più bassi della gerarchia di ricchezza dell’economia-mondo induce di continuo i governanti e i cittadini di questi Stati a partecipare alla divisione mondiale del lavoro in cambio di guadagni marginali che lasciano il grosso dei benefici nelle mani
dei governanti e dei cittadini degli Stati posti ai gradini superiori. I processi di esclusione, di contro, si riferiscono al fatto che la ricchezza oligarchica degli Stati ai gradini superiori fornisce ai loro governanti e cittadini i mezzi necessari per escludere governanti e cittadini degli Stati
dei gradini inferiori dall’uso e dal godimento di risorse che sono scarse o
soggette a congestione.
I due processi sono distinti ma complementari. Processi di sfruttamento forniscono agli Stati ricchi e ai loro agenti i mezzi per iniziare e
mantenere processi di esclusione. E i processi di esclusione generano la
povertà necessaria per indurre i governanti e i cittadini degli Stati relativamente poveri a cercare continuamente di rientrare in una divisione
del lavoro mondiale strutturata secondo condizioni favorevoli agli Stati
ricchi.
Questi processi complementari operano in modo molto irregolare
nel tempo e nello spazio. Di fatto, ci sono periodi nei quali essi operano
in modo tanto poco efficace da creare l’impressione che molti Stati si
stiano effettivamente ‘sviluppando’ – vale a dire, che stiano superando
l’insuperabile abisso che separa la loro povertà, o moderata ricchezza,
dalla ricchezza oligarchica dell’Occidente. Questi sono i periodi di crisi
sistemica, durante i quali i tentativi della maggioranza di ottenere la ricchezza oligarchica – che per definizione non può essere generalizzata –
minacciano di farla svanire anche per la minoranza.
133
Crisi di questo tipo tendono a manifestarsi quando l’espansione
produttiva del capitale nel centro del sistema comincia a registrare rendimenti decrescenti. Questo è quanto accaduto nei tardi anni Sessanta
e nei primi Settanta. In quegli anni un’ ‘esplosione dei salari’ – come
l’ha appropriatamente definita Phelps Brown8 – ha attraversato la maggior parte dell’Europa occidentale e, in misura minore, l’America del
nord e il Giappone. Era il primo segnale che l’espansione produttiva
del capitale nel centro stava velocemente avvicinandosi al punto dei
rendimenti decrescenti. L’esplosione dei salari era ancora in pieno svolgimento quando avvenne il primo ‘shock petrolifero’ del 1973, il segno
più visibile di un generale aumento dei prezzi delle materie prime dopo
vent’anni di diminuzioni relative. Ridotta dall’aumento dei salari e dei
prezzi delle materie prime importate, la redditività dell’espansione produttiva nel centro è diminuita e il capitale ha cercato di valorizzarsi in
nuove direzioni.
Due direzioni principali erano aperte all’espansione capitalistica.
Da un lato, l’espansione produttiva poteva continuare in luoghi più
periferici, che non erano stati colpiti dall’aumento dei costi del lavoro, o
avevano beneficiato dei prezzi più alti delle materie prime. Dall’altro,
l’espansione produttiva poteva interrompersi, e i profitti e gli altri surplus monetari essere investiti nella speculazione finanziaria, puntando
ad acquisire, a prezzi stracciati, titoli che assicuravano rendite finanziarie e diritti sulle entrate dei governi. Per gran parte degli anni Settanta
questi due tipi di espansione si sono sostenuti reciprocamente, generando un massiccio flusso di capitale e altre risorse verso Stati a basso e
medio reddito. Negli anni Ottanta, di contro, il secondo tipo di espansione ha eclissato il primo, e ha portato allo spostamento di risorse
finanziarie e d’altro genere verso il centro del sistema.
L’oscillazione in entrambe le direzioni (verso i luoghi più periferici e
via da essi) è stata resa più violenta dal fatto che negli anni Settanta la
maggior parte dei governi in Occidente –innanzi tutto il governo degli
Stati uniti – hanno continuato a perseguire l’espansione produttiva entro
i propri confini, senza rendersi conto che tale espansione stava indebolendo la profittabilità, uccidendo così la gallina dalle uova d’oro. Via via
che la profittabilità nel centro veniva ridotta dalle politiche governative, il
capitale fuggiva verso luoghi più periferici e forme di investimento –
come i depositi denominati in dollari in banche dell’Europa occidentale
– che erano fuori dal raggio d’azione dei governi.
La disgiunzione tra le necessità del capitale e le politiche dei
governi del centro ha creato le condizioni per il generale avanzamento
134
economico degli anni Settanta – il solo periodo in cinquant’anni in cui
tutte le regioni e tutti gli Stati a basso e medio reddito per i quali abbiamo dati disponibili (con l’eccezione dell’Asia meridionale) sembrano
aver ridotto il distacco che li separava dal centro organico (si vedano le
Tabelle 2, 3 e 4). Questo è stato il periodo in cui gli Stati a basso e,
soprattutto, medio reddito sono stati inondati da offerte, da parte delle
istituzioni del centro capitalistico, di linee di credito praticamente illimitate per investimenti produttivi e improduttivi, e da offerte di joint
venture e altre forme di assistenza per costruire strutture produttive in
competizione l’una con l’altra e con quelle del centro. Perfino nei confronti degli Stati comunisti non c’è stata discriminazione. Al contrario,
alcuni di essi sono stati tra i maggiori beneficiari di questa improvvisa
cornucopia e si sono mossi velocemente per agganciarsi ai circuiti globali del capitale assumendo alcune tra le più pesanti obbligazioni finanziarie nel mondo9.
La cornucopia era destinata ad aver vita breve. Per prima cosa,
l’improvvisa abbondanza di mezzi goduta da Stati a basso e medio reddito ha condotto a una generalizzazione e intensificazione di politiche di
sviluppo in competizione tra loro, orientate verso qualche forma di
industrializzazione. Questi sforzi erano intrinsecamente destinati al fallimento. Da un lato, accrescevano la scarsità a livello mondiale di input
necessari per il loro successo. D’altro lato, creavano una sovrabbondanza dei loro output più tipici, deprezzandone il valore sui mercati mondiali. Presto o tardi il momento della verità sarebbe arrivato – il
momento in cui soltanto i paesi più competitivi avrebbero ottenuto i
benefici dell’industrializzazione, mentre tutti gli altri sarebbero rimasti
con guadagni inferiori ai costi sopportati – inclusi gli interessi sui debiti
contratti nel corso del processo. A questo punto, la cornucopia si è trasformata nel suo opposto. Il credito e altre forme di assistenza sono stati
ristretti e i perdenti, per evitare di perdere ogni possibilità di credito,
sono stati obbligati a cedere i loro beni di maggior valore, le loro entrate
future, o entrambe le cose.
Inoltre, l’abbondanza di mezzi goduta dagli Stati a basso e medio
reddito negli anni Settanta ha teso ad eliminare la disgiunzione tra i
maggiori orientamenti speculativi del capitale del centro e le politiche
dei governi del centro. Più il capitale del centro si spostava verso gli Stati a basso e medio reddito, più i governi del centro comprendevano che
i loro tentativi di spingere il capitale all’espansione produttiva entro i
propri territori non solo erano inefficaci, ma conducevano a una generalizzazione degli sforzi di sviluppo che minacciava la stabilità della gerar-
135
chia di ricchezza su cui poggiava il loro potere. Allo stesso tempo, più la
valorizzazione del capitale del centro dipendeva dalla cessione di redditi
e patrimoni degli Stati a basso e medio reddito, più il capitale del centro
richiedeva l’assistenza dei governi del centro per legittimare e applicare
tale alienazione.
Tra il 1979 (secondo ‘shock petrolifero’) e il 1982 (l’insolvenza sul
debito del Messico) la marea è cambiata. Si è avviata la contro-rivoluzione di Reagan e Thatcher, e la crisi generale delle politiche dello sviluppo
(al Sud e all’Est) è precipitata. I governi del centro iniziarono a offrire la
massima libertà d’azione alle istituzioni capitalistiche impegnate nella
speculazione finanziaria, incoraggiando questa tendenza attraverso la
cessione delle loro stesse proprietà pubbliche, e di entrate future, a
prezzi stracciati. Per di più, i governi del centro, agendo separatamente
o di concerto, hanno offerto al capitale del centro tutta l’assistenza che
potevano dare per indurre gli Stati a basso e medio reddito a rispettare i
loro obblighi sul debito estero.
Non c’è bisogno di dire che il capitale rispose entusiasticamente a
questo ‘new deal’, con il quale né il Sud né l’Est potevano in alcun
modo competere. Così, mentre la festa finiva per il Sud e l’Est, i popoli
dell’Occidente – o perlomeno gli strati superiori – si potevano godere
una belle époque che ricordava per molti aspetti i ‘bei tempi’ della borghesia europea di ottant’anni prima. La somiglianza che colpisce di più
tra queste due belles époques è la pressoché completa mancanza di comprensione, da parte dei beneficiari, che l’improvvisa prosperità senza
precedenti non si fondava su una soluzione della crisi di accumulazione
che aveva preceduto i bei tempi. Al contrario, la prosperità appena trovata riposava su uno spostamento della crisi da un insieme di relazioni a
un altro. Era solo una questione di tempo prima che la crisi ‘rimbalzasse’, in forme molto più problematiche, verso chi pensava di non essersela mai passata così bene.
6. LA FILOSOFIA DEL GIRINO E IL FUTURO DEL SOCIALISMO
La belle époque dell’inizio del ventesimo secolo è sfociata in un
periodo di caos sistemico (1914-1948) caratterizzato da guerre, rivoluzioni e una crisi sempre più profonda dei processi globali di accumulazione del capitale. È possibile che la belle époque del tardo ventesimo
secolo stia per concludersi con un periodo di caos sistemico per certi
versi analogo al periodo 1914-48 (ma per altri aspetti piuttosto diverso).
136
Se questo è il caso, il collasso del comunismo nell’Europa orientale sarà
considerato retrospettivamente come la fine, non l’inizio, di un’era di
prosperità e sicurezza per l’Occidente. Il fatto che il collasso del comunismo sia stato immediatamente seguito dalla crisi tra Iraq e Kuwait e
dalla prima seria recessione nell’economia statunitense dal 1982 suggerisce che questo potrebbe essere il caso.
Non ha senso fare ipotesi sulla forma e la sequenza degli eventi che
caratterizzeranno il periodo di caos sistemico che abbiamo di fronte. In
larga misura sono imprevedibili e, in ogni caso, irrilevanti per l’analisi di
questo articolo. Ma le tendenze del sistema-mondo che daranno forma gli
eventi del prossimo futuro non sono né imprevedibili né irrilevanti per la
nostra analisi. In questa sezione finale vorrei perciò delineare brevemente
queste tendenze e le loro implicazioni per il futuro del socialismo.
In termini geopolitici, il principale fattore del caos sistemico del 191448 è stato un conflitto sempre più vasto e profondo interno all’Occidente –
con il Giappone già unitosi come membro onorario – riguardo la divisione
territoriale del mondo tra potenze in ascesa e declinanti (il cosiddetto
‘imperialismo’). Il suo esito principale fu il sorgere di forze antisistemiche
che alla fine condussero all’istituzione di Ovest, Est e Sud come entità geopolitiche distinte e relativamente autonome. Il fattore principale del caos
sistemico a cui ci troviamo di fronte, per contro, è un conflitto sempre più
vasto e profondo interno al Sud e all’Est e in via di disintegrazione, per le
risorse sempre più scarse dell’economia-mondo. È probabile che l’esito
principale sarà la creazione di strutture di governo mondiale – inizialmente
promosse dall’Occidente – che alla fine condurranno a un superamento
più o meno completo della scricchiolante tripartizione del mondo in Ovest,
Est e Sud. In breve, ciò che è stato ‘costruito’ nel precedente periodo di
caos sistemico è probabile che venga ‘demolito’ nel corso del prossimo.
Questa dinamica è già stata evidente negli ultimi dieci anni circa.
Così, lo scontro Iraq-Kuwait, esso stesso radicato nel precedente e molto più serio conflitto tra Iraq e Iran, ha indotto gli Stati uniti e i loro più
stretti alleati a riportare in vita strutture dormienti di governo mondiale
– in particolare il Consiglio di sicurezza dell’Onu – come l’unico modo
in cui avrebbero potuto intervenire legittimamente e con successo per
risolvere conflitti interni al Sud in modo per loro soddisfacente. Inoltre,
senza la precedente parziale disintegrazione dell’Est, sotto le pressioni
dei propri conflitti, non sarebbero stati possibili né l’escalation dei conflitti all’interno del Sud per l’appropriazione della rendita petrolifera, né
l’uso da parte degli Stati uniti e dei loro alleati del Consiglio di sicurezza
dell’Onu come strumento di risoluzione violenta di conflitti.
137
Ci si può aspettare che le forze sociali che stanno dietro questa dinamica divengano più forti, non più deboli, nel corso dei prossimi dieci o
venti anni. E questo perché queste forze sono l’espressione, da un lato, dei
cambiamenti irreversibili avvenuti nella struttura sociale dell’economiamondo tra il 1950 e il 1980 e, d’altro lato, della situazione di impoverimento assoluto e relativo causata da questi cambiamenti nel Sud e nell’Est
negli anni Ottanta. Finché restano i processi di sfruttamento ed esclusione
che riproducono continuamente la ricchezza oligarchica dell’Occidente e
la povertà assoluta e relativa del Sud e dell’Est, i conflitti nelle regioni a
basso e medio reddito saranno endemici e porranno per l’Occidente problemi sempre più intrattabili di regolazione del sistema-mondo. Poiché
per ora l’orientamento prevalente dell’Occidente è di usare il proprio
potere e ricchezza per preservare a ogni costo l’attuale gerarchia di ricchezza, anziché riformarla (per non parlare di rivoluzionarla), possiamo
prevedere che per qualche tempo ogni soluzione di conflitti imposta o
appoggiata dall’Occidente non sarà che il preambolo di un’ulteriore escalation dei conflitti in un momento successivo.
Ci si può aspettare inoltre che la continua, benché non ininterrotta, escalation dei conflitti nel Sud e nell’Est generi tendenze contraddittorie all’interno dello stesso Occidente. Da un lato, i governi e i popoli
dell’Occidente saranno indotti a sviluppare forme ancora più intense di
cooperazione per amministrare e proteggere le reti globali di commercio
e accumulazione su cui poggia la loro ricchezza oligarchica. D’altro canto, sempre più persone in Occidente si accorgeranno che, per quanto li
concerne, i costi della protezione della ricchezza oligarchica eccedono i
benefici che essi ne traggono. Se ci si può aspettare che la prima tendenza conduca a rafforzare le strutture esistenti di governo mondiale e
crearne di nuove, la seconda tendenza probabilmente porterà a importanti conflitti sulla distribuzione dei costi della protezione della ricchezza oligarchica, o perfino sull’opportunità di continuare a perseguirla,
quando i suoi costi eguagliano o eccedono i benefici per una parte crescente di strati sociali dell’Occidente.
La combinazione di queste due tendenze metterà le forze socialiste in
Occidente di fronte a un dilemma cruciale. Attraverso il ventesimo secolo,
queste forze, volenti o nolenti, si sono identificate sempre più con l’una o
l’altra variante dell’ideologia dello sviluppo. Come evidenziato da Immanuel Wallerstein, questa identificazione costituisce un serio allontanamento
dagli ideali di solidarietà umana e uguaglianza che costituiscono l’essenza
del credo socialista. Questo perché l’ideologia dello sviluppo non è altro
che la versione globale della “filosofia del girino” di R. H. Tawney10.
138
È possibile che dei girini intelligenti si rassegnino agli inconvenienti della loro posizione, pensando che, sebbene la maggior parte di essi vivranno e morranno girini e niente altro, i più fortunati della specie perderanno un giorno la loro coda, allargheranno la loro bocca e il loro stomaco,
e saltati agilmente sulla terra asciutta, gracchieranno sentenze verso i
loro amici d’un tempo sulle virtù per mezzo delle quali i girini capaci di
carattere possono assurgere allo stato di ranocchi. Questa concezione
della società può essere indicata, forse, come la «filosofia del girino»,
poiché la consolazione che offre per i mali sociali consiste nell’affermazione che individui eccezionali possono riuscire a sottrarsene... E quale
visione della vita umana implica un tale atteggiamento! Come se le possibilità di ascendere concesse al talento potessero essere eguali in una
società in cui le condizioni che lo circondano fin dalla nascita sono invece disuguali! Come se, quando fosse loro possibile, fosse naturale ed
appropriato che la posizione della massa del genere umano dovesse essere in permanenza tale, che gli uomini potessero accedere alla civiltà solo
sfuggendovi! E come se l’uso più nobile delle facoltà eccezionali, fosse
di arrampicarsi frettolosamente sulla sponda, indifferenti al pensiero dei
compagni che affogano...!11
Dopo aver citato questo passaggio, Wallerstein prosegue col dire
che, ‘per quelli che non vogliono “lanciarsi verso la spiaggia”, l’alternativa è cercare di trasformare l’insieme del sistema, anziché approfittare di
esso. Considero questa come la caratteristica che definisce un movimento socialista. La pietra di paragone della legittimità di un tale movimento
è la misura in cui l’insieme delle sue azioni contribuisce, nel massimo
grado possibile, alla rapida trasformazione dell’attuale sistema-mondo,
fino alla sostituzione dell’economia-mondo capitalistica con un governo
mondiale socialista12.
Quindici anni fa – quando fu scritto – il consiglio di Wallerstein
di lavorare alla realizzazione di un governo mondiale socialista sembrava
fantasioso, o peggio. Se il concetto di governo mondiale appariva del
tutto irrealistico, quello di un governo mondiale socialista era stato completamente screditato dalle pratiche delle varie Internazionali socialiste,
che hanno fallito nei loro intenti o si sono trasformate in strumenti di
dominio dei deboli da parte dei forti. Inoltre, negli anni Settanta la maggior parte delle varianti dell’ideologia dello sviluppo (incluse quelle
socialiste) sembravano realizzare almeno qualcosa di ciò che avevano
promesso. Lavorare per la creazione di un governo mondiale socialista,
perciò, non appariva né fattibile né consigliabile.
139
Oggi, il concetto di governo mondiale sembra meno fantasioso
rispetto a quindici anni fa. Il Gruppo dei sette si incontra regolarmente
ed è giunto ad apparire sempre più come un comitato per gestire gli affari comuni della borghesia mondiale. Negli anni Ottanta, l’Fmi e la Banca
mondiale hanno agito sempre più come un ministero mondiale delle
finanze. Infine, gli anni Novanta si sono aperti con il rinnovamento del
Consiglio di sicurezza dell’Onu come un ministero di polizia internazionale. Sotto la pressione degli eventi e secondo modalità del tutto non
programmate, una struttura di governo mondiale viene posta in esser
pezzo per pezzo dalle stesse grandi potenze economiche e politiche.
Certamente, l’intero processo di formazione di un governo mondiale è stato sostenuto e controllato da forze conservatrici, preoccupate
quasi esclusivamente di legittimare e controllare la distribuzione globale
della ricchezza estremamente diseguale emersa con il collasso delle politiche di sviluppo del Sud e dell’Est negli anni Ottanta. In realtà, non è
stato un caso che il processo di formazione di un governo mondiale
abbia accelerato proprio quando le politiche di sviluppo sono crollate.
Molto probabilmente, l’accelerazione non è stata che una risposta pragmatica al vuoto politico e ideologico lasciato nel sistema interstatale dal
collasso dell’ideologia dello sviluppo. Come può – ci si potrebbe chiedere – un processo nato per legittimare e imporre disuguaglianze globali essere trasformato in un mezzo per il fine di promuovere più eguaglianza e solidarietà nel mondo?
In un’epoca di avidità rampante e collasso dei progetti socialisti del
passato, l’impresa sembra disperata. Ma facciamo un altro salto di quindici anni, stavolta nel futuro. Come già detto, ci si può aspettare che i
problemi strutturali che sono alla base della formazione di un governo
mondiale saranno divenuti più gravi, non meno. Ma, se il processo di
formazione di un governo mondiale sarà molto più avanzato di quanto
non sia oggi, anche i costi del caos sistemico per i popoli dell’Occidente
saranno molto più alti. I costi di protezione in particolare – intesi in
senso ampio per includere non solo gli investimenti in strumenti di violenza e forze armate, ma anche la corruzione e gli altri pagamenti ai
clienti e alle forze amiche nel Sud e nell’Est in via di disintegrazione,
oltre i danni gravi o irreparabili alla psiche umana – saranno cresciuti al
punto che il perseguimento della ricchezza oligarchica inizierà ad apparire a molti per ciò che sempre è stato: un’impresa altamente distruttiva
che sposta il costo della prosperità e della sicurezza di una minoranza
(non più di un sesto dell’umanità, e probabilmente di meno) sulla maggioranza, e sulle generazioni future della minoranza stessa.
140
A quel punto, i discorsi gracidati dalle ‘ran È occidentali ai ‘girini’
dell’Est e del Sud suoneranno anacronistici anche per le stesse ‘rane’, o
perlomeno per un numero crescente di esse. I socialisti occidentali
avranno allora il loro momento della verità. O uniranno le forze con i
compagni dell’Est e del Sud e produrranno un progetto intellettuale e
un programma politico capace di trasformare il caos sistemico in un
ordine mondiale più solidale ed egualitario, oppure i loro appelli al progresso umano e alla giustizia sociale perderanno ogni residua credibilità.
NOTE
* World income inequalities and the future of socialism, in “New Left Review”,
I/189 (Sept-Oct 1991), pp. 39-65. Versione riveduta e ampliata di un saggio presentato
alla Sesta conferenza sul futuro del socialismo: “Socialism and the economy”, organizzata dalla Fundacion Sistema, Siviglia 14-16 dicembre 1990. Vorrei ringraziare Terence
K. Hopkins, Mark Selden e Beverly Silver per i loro commenti a una versione precedente del testo. Traduzione dall’inglese di Sara Labanti e Guido Parietti.
1
ERIC HOBSBAWM, Comment in Reflecting on Labor in the West since Haymarket:
A Roundtable Discussion, in J.B. JENZ e J.C. MACMANUS (ed. by), The Newberry Papers
in Family and Community History, vol. 86, n. 2, 1986, p. 13.
2
GIOVANNI ARRIGHI, L’illusione dello sviluppo. Una riconcettualizzazione della
semiperiferia, “Marx centouno”, 6 (1991), pp. 67-69; GIOVANNI ARRIGHI e JESSICA
DRANGEL, The Stratification of the World-Economy: An Exploration of the Semiperipheral Zone, in “Review (Fernand Braudel Center)”, 10: 4 (1986), pp. 53–57.
3
ARGHIRI EMMANUEL, Lo scambio ineguale, Einaudi, Torino 1972.
4
Si veda ARRIGHI, L’illusione dello sviluppo, cit., pp. 67-69.
5
Cfr. WALT W. ROSTOW, Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, Torino 1962.
6
Si veda ROY HARROD, The Possibility of Economic Satiety – Use of Economic
Growth for Improving the Quality of Education and Leisure, in Committee for Economic Development, Problems of United States Economic Development, Volume I, New
York 1958.
7
FRED HIRSCH, I limiti sociali allo sviluppo, Bompiani, Milano 1981, p. 13.
8
E.H. PHELPS BROWN, A Non-Monetarist View of the Pay Explosion, in “Three
Banks Review”, 1975, p. 105.
9
Si veda ILIANA ZLOCH-CHRISTY, Debt Problems of Eastern Europe, Cambridge
University Press, Cambridge 1987.
10
IMMANUEL WALLERSTEIN, The Capitalist World-Economy, Cambridge University
Press, Cambridge 1979, p. 76.
11
RICHARD H. TAWNEY, Eguaglianza, pp. 630-31, in Opere, UTET, Torino 1975.
12
IMMANUEL WALLERSTEIN, The Capitalist World-Economy, cit., p. 101.
141
Capitolo 4
Capitalismo e (dis)ordine mondiale*
di Giovanni Arrighi e Beverly J. Silver
Nel sistema storico-sociale del mondo moderno sta prendendo
piede una trasformazione di grandi proporzioni, che crea un diffuso
senso di incertezza sul presente e l’immediato futuro. Nelle parole di
Eric Hobsbawm, mentre “i cittadini di questa fine di secolo cercano,
nella nebbia globale che li avvolge, la strada per avanzare nel terzo millennio, l’unica cosa che sanno con certezza è che un’epoca storica è finita. La loro conoscenza non va oltre”1.
Tuttavia quale sia l’epoca storica che si è compiuta è ancora oggetto di discussione. Per Hobsbawm gli anni Settanta e Ottanta del Novecento hanno costituito la fase conclusiva del “secolo breve” (19141991). Dal suo punto di vista, il collasso dei regimi comunisti “ha
distrutto […] il sistema che per quarant’anni aveva stabilizzato le relazioni internazionali […] e ha mostrato la precarietà degli assetti politici
statali che si erano sostanzialmente retti su quella stabilità internazionale”. Il risultato è stato l’emergere di “incertezza politica, instabilità, caos
e guerra civile su un’area enorme del pianeta. […] Il futuro della politica è oscuro, ma la sua crisi alla fine del secolo breve è evidente” 2.
A giudizio di Hobsbawm, il tardo ventesimo secolo ha segnato
anche la crisi degli assunti razionalistici e umanistici, condivisi tanto dal
capitalismo liberale quanto dal comunismo, “sui quali la società moderna
si era fondata fin da quando i Moderni vinsero la loro celebre battaglia
contro gli Antichi all’inizio del Settecento”3. In un’ottica simile, Immanuel
Wallerstein ha sostenuto che il 1989 ha sancito la fine dell’era politico-culturale aperta dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese: per Wallerstein, però, quell’anno ha coinciso anche con l’inizio della crisi terminale
del sistema-mondo moderno venuto alla luce nel “lungo sedicesimo secolo”4. Anche James Rosenau, pur partendo da premesse differenti, condivide questa prospettiva: dal suo punto di vista, oggi i parametri che hanno
definito le coordinate d’azione nell’ambito del sistema internazionale si
stanno trasformando tanto profondamente “da dar vita alla prima vera
turbolenza nel sistema politico mondiale da quando una trasformazione
di simile portata non culminò nel trattato di Vestfalia del 1648”5.
143
Quale che sia l’epoca in via di conclusione – quella della Guerra
fredda, la più lunga epoca del “liberalismo” e dell’Illuminismo, o l’ancora più lunga epoca del sistema degli Stati nazionali –, questi autori
sostengono che le strutture che per molto tempo hanno garantito stabilità al sistema-mondo moderno si stanno sgretolando e che una tendenza all’incertezza e all’imprevedibilità caratterizzerà probabilmente il presente e l’immediato futuro.
CICLI SISTEMICI DI ACCUMULAZIONE E TRANSIZIONI EGEMONICHE
I nostri propositi di dissipare almeno un po’ della “nebbia globale” che ci avvolge, ora che stiamo entrando nel terzo millennio, e di
restringere l’incertezza e l’imprevedibilità sul presente e l’immediato
futuro6 si fondano su tre osservazioni strettamente connesse. La prima
osservazione è che l’inizio e la fine del ventesimo secolo sono periodi
largamente comparabili, accomunati anzitutto dalla centralità che in essi
assume il “capitale finanziario”7. La seconda osservazione deriva
dall’argomento di Fernand Braudel secondo cui la finanziarizzazione
del capitale è una caratteristica ricorrente del capitalismo storico fin dal
sedicesimo secolo. La nostra terza osservazione è che i periodi di espansione finanziaria non sono solo espressione dei processi ciclici del capitalismo storico – come enfatizzato da Braudel; sono altresì momenti di
grande riorganizzazione del sistema-mondo capitalistico, momenti che
noi chiamiamo “transizioni egemoniche”. Nel prosieguo di questo articolo discuteremo in ordine ciascuna di queste tre osservazioni8.
La centralità del capitale finanziario, alla fine del diciannovesimo e
all’inizio del ventesimo secolo, promosse il delinearsi di teorie liberali e
marxiste sul “capitale finanziario” e sull’“imperialismo” che leggevano
questo fenomeno come segnale di un nuovo, eccezionale o supremo stadio del capitalismo9. Analogamente, alla fine del ventesimo secolo, la rinnovata centralità del capitale finanziario ha occasionato il profilarsi di
teorie della “globalizzazione” e della “finanziarizzazione del capitale” che
guardano al presente come a una fase nuova e senza precedenti dello sviluppo capitalistico10. Il linguaggio e i concetti sono cambiati, ma l’idea
che il capitale finanziario costituisca una fase nuova, ultima e suprema
nello sviluppo del capitalismo è ampiamente condivisa oggi come un
secolo fa. La ricorrenza di un discorso nel quale il capitale finanziario viene presentato come uno stadio nuovo, ultimo, e supremo dello sviluppo
capitalistico, noi vorremmo sostenere, è in parte il risultato di metodi
144
analitici il cui orizzonte temporale è troppo breve per poter scorgere,
entro il capitalismo storico, una dinamica ciclica di lungo termine.
Questo ci conduce alla seconda osservazione. Come sottolineava
Fernand Braudel, le caratterizzazioni di primo Novecento che ritraevano il capitale finanziario come una nuova fase dello sviluppo capitalistico erano miopi. “Il capitalismo finanziario”, egli faceva notare, “non è il
nuovo nato del Novecento; vorrei semmai sostenere che già nel passato
– in particolare a Genova o ad Amsterdam – esso ha saputo, sull’onda di
una fase di crescita del capitalismo mercantile e di un’accumulazione di
capitale eccedente la capacità degli ordinari canali di investimento, conquistare terreno e dominare, almeno per un certo periodo, l’insieme del
mondo degli affari”11.
L’idea che molto prima degli inizi del ventesimo secolo l’accumulazione di capitale attraverso la compravendita delle merci “su una scala
eccedente la capacità degli ordinari canali di investimento” abbia permesso al capitalismo finanziario di “conquistare terreno e dominare, almeno
per un certo periodo, l’insieme del mondo degli affari” è un tema ricorrente del secondo e del terzo volume della trilogia braudeliana Civiltà
materiale, economia e capitalismo. Questo a conferma dell’opinione di
Braudel, secondo cui le caratteristiche essenziali del capitalismo storico
lungo il suo intero arco vitale, ossia nell’ottica della longue durée, sono state la “flessibilità” e l’“eclettismo” del capitale, piuttosto che le forme concrete assunte da quest’ultimo in differenti luoghi e in epoche diverse. In
alcuni periodi, anche lunghi, il capitalismo sembrò “specializzarsi”, come
nel diciannovesimo secolo, quando esso “si lanciò in modo tanto spettacolare nell’immensa novità dell’industria”. Questa specializzazione indusse
molti a “presentare l’industria come la realizzazione ultima che avrebbe
conferito al capitalismo il suo ‘vero’ volto”. Ma si trattava di una prospettiva di breve termine: “[dopo] il primo boom del macchinismo, il capitalismo più elevato tornò all’eclettismo, ad una specie di indivisibilità, come
se lo specifico vantaggio di trovarsi in quei punti dominanti […] consistesse proprio nel non irrigidirsi in una sola scelta: nell’essere eminentemente adattabile e quindi non specializzato”12.
Questi passaggi possono essere interpretati come una ridefinizione
della formula generale del capitale di Karl Marx: D-M-D’ (denaro-merce-denaro allargato). Il capitale monetario (D) indica liquidità, flessibilità, libertà di scelta. Il capitale-merce (M) indica capitale investito in
una particolare combinazione di input-output in vista di un profitto.
Significa quindi concretizzazione, rigidità e riduzione delle opzioni
aperte. D’ indica liquidità, flessibilità e libertà di scelta allargate. Intesa
145
in questo modo, la formula di Marx ci dice che le agenzie capitalistiche
non investono denaro in particolari combinazioni di input-output, con la
conseguente perdita di flessibilità e libertà di scelta, come fine in sé. Al
contrario, lo fanno come un mezzo per assicurarsi una flessibilità e una
libertà di scelta ancora maggiori in futuro. La formula di Marx ci dice
anche che qualora non vi sia alcuna aspettativa da parte delle agenzie
capitalistiche di un aumento della propria libertà di scelta, o qualora
questa aspettativa risulti sistematicamente disattesa, il capitale tende a
fare ritorno a forme più flessibili di investimento, e soprattutto alla sua
forma di denaro. In altre parole, le agenzie capitalistiche “preferiscono”
la liquidità, e una parte insolitamente elevata delle loro disponibilità
finanziarie tende a rimanere in forma liquida.
Questa seconda lettura è implicita nella caratterizzazione che
Braudel fa dell’“espansione finanziaria” come sintomo di maturità di
una particolare fase dello sviluppo capitalistico. Nel discutere il ritiro
degli olandesi dal commercio per trasformarsi nei “banchieri d’Europa”
intorno al 1740, Braudel suggerisce che quel ritiro corrisponda a una
tendenza ricorrente del sistema-mondo. La stessa tendenza si era già
manifestata nell’Italia del Quattrocento, e poi ancora verso il 1560,
quando l’oligarchia capitalista della diaspora genovese si ritirò gradualmente dal commercio per esercitare, per circa settant’anni, un governo
sulle finanze europee paragonabile a quello esercitato nel ventesimo
secolo dalla Banca dei regolamenti internazionali di Basilea – “un ruolo
talmente discreto e sofisticato che per molto tempo è sfuggito alle indagini degli storici”. Dopo gli olandesi, la tendenza fu confermata dagli
inglesi durante e dopo la grande depressione del 1873-96, quando la
conclusione della “fantastica avventura della rivoluzione industriale”
creò una sovrabbondanza di capitale monetario13.
Dopo l’avventura egualmente “fantastica” del cosiddetto fordismo-keynesismo, il capitale statunitense ha seguito un percorso simile a
partire dagli anni Settanta. Così possiamo facilmente riconoscere in quest’ultima “rinascita” del capitale finanziario un ulteriore esempio di
quella ricorrente inversione verso l’“eclettismo” che nel passato è stata
associata alla maturazione di un importante sviluppo capitalistico.
“[Ogni] sviluppo capitalistico di tale portata sembra annunciare,
entrando nello stadio dell’espansione finanziaria, una sorta di maturità:
[è] il segnale dell’autunno”14.
Alla luce di queste osservazioni, possiamo considerare la formula
generale del capitale di Marx (D-M-D’) come descrittiva, non solo della
logica dei singoli investimenti capitalistici, ma anche di un modello ricor-
146
rente del capitalismo storico come sistema-mondo. L’aspetto centrale di
questo modello è costituito dall’alternanza di epoche di espansione materiale (le fasi D-M dell’accumulazione del capitale) ed epoche di rinascita ed
espansione finanziaria (le fasi M-D’). Nelle fasi di espansione materiale il
capitale monetario “mette in movimento” una crescente massa di merci
(forza lavoro mercificata e risorse naturali incluse); nelle fasi di espansione
finanziaria una crescente massa di capitale monetario “si libera” dalla sua
forma-merce, e l’accumulazione procede attraverso transazioni finanziarie
(come nella formula marxiana abbreviata D-D’). Insieme, le due epoche o
fasi formano un intero ciclo sistemico di accumulazione (D-M-D’).
Partendo da queste premesse, possiamo identificare quattro cicli
sistemici di accumulazione: un ciclo genovese-iberico, dal XV secolo agli
inizi del XVII; un ciclo olandese, dalla fine del XVI secolo fino a buona
parte del XVIII; un ciclo britannico, dalla seconda metà del XVIII secolo
agli inizi del XX; un ciclo statunitense, che ha avuto inizio alla fine del
XIX secolo ed è proseguito fino all’attuale fase di espansione finanziaria.
Ogni ciclo prende il nome (e viene definito) dal particolare blocco di
agenzie governative e imprenditoriali che guidano il sistema-mondo capitalistico dall’espansione materiale a quella finanziaria, e che insieme costituiscono un intero ciclo. Le strategie e le strutture attraverso cui queste
agenzie leader hanno promosso, organizzato e regolato l’espansione o la
ristrutturazione del sistema-mondo capitalistico costituiscono ciò che qualificheremo come “regime di accumulazione” su scala mondiale.
La nostra terza osservazione è che la ricorrenza sistemica delle
espansioni finanziarie non è solo l’espressione di “una certa unità nel
capitalismo, dall’Italia del tredicesimo secolo fino all’Occidente di
oggi”15, come sostiene Braudel; essa è altresì l’espressione di ricorrenti e
fondamentali riorganizzazioni del sistema-mondo capitalistico. Questo
perché, come esemplificato dalla periodizzazione presentata, i nuovi
cicli sistemici di accumulazione sovrappongono i propri inizi alle conclusioni dei precedenti. Tutte le fasi di espansione finanziaria infatti
sono state insieme l’“autunno” di grandi sviluppi del capitalismo mondiale; ma sono state anche periodi di transizioni egemoniche, nel corso
delle quali una nuova leadership emergeva negli interstizi del sistema e
lo riorganizzava, rendendo così possibile un’ulteriore espansione.
Perciò, lungi dal procedere seguendo un unico percorso aperto
quattro o cinque secoli fa – come suggerisce Wallerstein16 –, la formazione e l’espansione del sistema capitalistico mondiale è invece avanzata
attraverso cambiamenti di direzione, verso nuovi sentieri, aperti da specifici blocchi di agenzie governative e imprenditoriali. Questi poteri-gui-
147
da, detentori di volta in volta del ruolo di guida – il complesso olandese
nel XVII secolo, il complesso britannico nel XIX secolo, il complesso
statunitense nel XX secolo –, hanno tutti agito da “apripista” (per prendere a prestito un’espressione di Michael Mann17). Hanno guidato il
sistema in una nuova direzione, e allo stesso tempo lo hanno trasformato. Sotto la leadership olandese, con la pace di Vestfalia venne formalmente istituito il sistema, allora emergente, degli Stati europei. Sotto la
leadership britannica, il sistema di Stati sovrani imperniato sull’Europa
si trasformò in un sistema di dominio globale. Infine, sotto la leadership
statunitense, il sistema ha perso la propria natura eurocentrica, per svilupparsi ulteriormente in estensione e profondità.
Abbiamo illustrato nei dettagli le basi storiche di queste concettualizzazioni in due libri, uno dedicato alla ricostruzione dei quattro cicli sistemici di accumulazione18 e l’altro al confronto fra le attuali trasformazioni
del capitalismo mondiale e i due precedenti periodi di transizione egemonica – la transizione dall’egemonia olandese a quella inglese nel XVIII
secolo e la transizione dall’egemonia inglese a quella statunitense nel tardo
XIX secolo e agli inizi del XX19. Nelle pagine seguenti ci limiteremo a illustrare la logica e i meccanismi sottostanti alle dinamiche dei cicli e delle
transizioni. In primo luogo ci occuperemo dei cicli sistemici di accumulazione e del modello di evoluzione che emerge dalla loro successione; poi
volgeremo l’attenzione alle transizioni egemoniche e a ciò che ci possono
suggerire sulla direzione e i possibili esiti delle trasformazioni attuali.
ESPANSIONI FINANZIARIE ED EVOLUZIONE DEL CAPITALISMO MONDIALE
Espansioni materiali e finanziarie sono entrambe processi del sistema-mondo capitalistico – un sistema che, pur crescendo nei secoli in
dimensioni e raggio d’azione, si è servito fin dalle origini di una grande
varietà di soggetti politici ed economici. Le espansioni materiali sono
legate all’emergere di un particolare blocco di agenzie governative e
imprenditoriali capace di guidare il sistema verso una più ampia e
profonda divisione del lavoro che crea le condizioni per rendimenti crescenti dei capitali investiti nel commercio e nella produzione. In queste
condizioni, i profitti tendono ad essere abitualmente reinvestiti nell’ulteriore espansione del commercio e della produzione e, consapevolmente
o no, i principali centri del sistema cooperano fra loro sostenendo ciascuno l’espansione degli altri. Col tempo, tuttavia, l’investimento di una
massa sempre maggiore di profitti nell’ulteriore espansione del commer-
148
cio e della produzione conduce inevitabilmente, come ha suggerito
Braudel, a un’accumulazione di capitale “su una scala eccedente la
capacità degli ordinari canali di investimento” o, come noi preferiamo
dire, in misura eccedente la quantità che si può investire nella compravendita di merci senza intaccare drasticamente i margini di profitto. I
rendimenti diventano decrescenti, le pressioni competitive si intensificano, e si pongono le basi del cambiamento di fase dall’espansione materiale a quella finanziaria.
In questo passaggio da rendimenti crescenti a decrescenti, dalla
cooperazione alla competizione, a contare davvero non sono tanto le
strutture organizzative delle singole unità del sistema, bensì le strutture
del sistema stesso. Così, con specifico riferimento all’ultima fase, il ciclo
statunitense, le strutture organizzative rilevanti non sono state tanto le
grandi imprese a gestione burocratica e verticalmente integrate – che
sono state solo una componente del blocco di agenzie governative e
imprenditoriali che hanno guidato il capitalismo mondiale durante
l’espansione materiale degli anni Cinquanta e Sessanta. Ad essere rilevanti sono state piuttosto le strutture organizzative dell’ordine mondiale
della Guerra fredda in cui l’espansione stessa era radicata. Una volta sviluppatasi, tale espansione ha generato tre tendenze strettamente correlate che hanno minato progressivamente la capacità di tali strutture sistemiche: la tendenza all’intensificazione delle pressioni competitive sulle
grandi imprese statunitensi; la tendenza dei gruppi subordinati a reclamare una fetta più grande della torta; e la tendenza delle grandi imprese
statunitensi a reinvestire i profitti dell’espansione materiale in mercati
finanziari extraterritoriali. Già manifeste tra la fine degli anni Sessanta e
l’inizio dei Settanta, sono state queste le tendenze che hanno prodotto il
cambiamento di fase dall’espansione materiale a quella finanziaria20.
Come ha puntualizzato Robert Pollin, l’idea di ricorrenti e protratte
fasi di espansione finanziaria pone una domanda fondamentale: “da dove
vengono i profitti se non dalla produzione e dallo scambio di merci”?
Come egli stesso suggerisce, la domanda ha tre risposte possibili, ciascuna
delle quali individua una diversa fonte di profitto. Primo: alcuni capitalisti
guadagnano a spese di altri capitalisti, con una redistribuzione dei profitti
entro la stessa classe capitalistica. Secondo: si espandono i profitti della
classe capitalistica nel suo complesso, poiché le transazioni finanziarie permettono una redistribuzione della ricchezza e del reddito a proprio vantaggio. Infine, “le transazioni finanziarie possono essere fortemente profittevoli […] se [consentono] ai capitalisti di spostare i propri fondi verso
attività di produzione e di scambio molto più redditizie”21.
149
Nella nostra concettualizzazione delle espansioni finanziarie, ciascuna di queste tre fonti di redditività gioca un ruolo distinto. La prima
fonte fornisce il legame tra le crisi di sovraccumulazione, che segnalano la
fine delle espansioni materiali, e le conseguenti espansioni finanziarie.
Dunque, all’insorgere di ogni espansione finanziaria “una sovraccumulazione di capitale induce le organizzazioni capitalistiche a invadere reciprocamente i rispettivi campi di attività; la divisione del lavoro che in
precedenza definiva i termini della loro reciproca cooperazione viene
meno; e, sempre più, […] la concorrenza si trasforma da un gioco a somma positiva in un gioco a somma zero (o persino a somma negativa)”22.
Ma questa fonte di profitto non fornisce una spiegazione sufficiente dei
lunghi periodi di espansione finanziaria – regolarmente superiori ai cinquant’anni – interposti tra la fine di ogni fase di espansione materiale e
l’inizio della successiva. La concorrenza spietata tra le agenzie capitalistiche crea quelle che potremmo definire le condizioni di “offerta” per le
prolungate espansioni finanziarie; accentuando la tendenza generale alla
riduzione dei margini di profitto nel commercio e nella produzione, la
concorrenza rafforza la propensione delle agenzie capitalistiche a mantenere in forma liquida una parte crescente dei flussi monetari.
Ma prolungate espansioni finanziarie si materializzano solo allorché
la maggiore preferenza per la liquidità delle agenzie capitalistiche incontra
adeguate condizioni di “domanda”. Storicamente, il fattore cruciale nella
creazione delle condizioni di domanda di tutte le espansioni finanziarie è
stata l’intensificazione della lotta interstatale per il capitale mobile – lotta
che Max Weber considerava “una peculiarità storica del mondo [moderno]”23. L’avvento delle espansioni finanziarie in periodi di concorrenza
particolarmente intensa per il capitale mobile non è un accidente storico,
ma può essere spiegato con la tendenza delle organizzazioni territorialiste
a reagire ai più stretti vincoli di bilancio derivanti dal rallentamento
nell’espansione del commercio e della produzione, attraverso una maggiore competizione per il capitale accumulato sui mercati finanziari. Questa
dinamica ha portato a una massiccia redistribuzione di redditi e ricchezza
da comunità di ogni tipo alle agenzie che controllano il capitale mobile,
alimentando le dimensioni e la redditività di transazioni finanziarie separate dal commercio e dalla produzione di merci (la seconda fonte dei profitti finanziari di Pollin). Tutte le belle époques di capitalismo finanziario –
dal Rinascimento di Firenze alle epoche di Reagan e Clinton – sono state
caratterizzate da redistribuzioni di questo tipo24.
Infine, la terza fonte dei profitti finanziari di Pollin – la riallocazione
dei fondi da attività di produzione materiale e scambio meno redditizie ver-
150
so attività più redditizie – viene a configurarsi non tanto come un problema
rispetto alla redditività delle transazioni finanziarie, quanto piuttosto come
un fattore propulsivo del loro superamento mediante nuove fasi di espansione materiale. Particolarmente illuminante è l’osservazione di Marx secondo
cui il sistema creditizio è stato uno strumento chiave, sia a livello nazionale
che internazionale, per il trasferimento del surplus di capitale dai centri
declinanti ai centri in ascesa del commercio e della produzione capitalistici.
Poiché le tesi di fondo di Marx nel Capitale fanno astrazione dal ruolo degli
Stati nei processi di accumulazione del capitale, il debito pubblico e la cessione dei patrimoni e dei redditi futuri degli Stati sono considerati come forme di “accumulazione originaria”, vale a dire “un’accumulazione che non è
il risultato, ma il punto di partenza del modo di produzione capitalistico”25.
Questa concettualizzazione ha impedito a Marx di considerare, come invece ha fatto Weber, il persistente significato storico dei debiti pubblici in un
sistema-mondo capitalistico caratterizzato da Stati in concorrenza l’uno con
l’altro per il capitale mobile. Marx non ha riconosciuto la persistente importanza del debito pubblico, non soltanto come espressione della concorrenza
tra gli Stati, ma come strumento di una cooperazione “invisibile” tra i capitalisti, che ha ripetutamente “riavviato” l’accumulazione di capitale, nello
spazio-tempo del sistema-mondo capitalistico:
Con i debiti pubblici è sorto un sistema di credito internazionale che
spesso nasconde una delle fonti dell’accumulazione originaria di questo
o di quel popolo. Così le bassezze del sistema di rapina veneziano sono
ancora uno di tali arcani fondamenti della ricchezza di capitali
dell’Olanda, alla quale Venezia in decadenza prestò forti somme di
denaro. Altrettanto avviene fra l’Olanda e l’Inghilterra. Già all’inizio del
diciottesimo secolo […] l’Olanda ha cessato di essere la nazione industriale e commerciale dominante. Quindi uno dei suoi affari più importanti diventa, dal 1701 al 1776, quello del prestito di enormi capitali, che
vanno in particolare alla sua forte concorrente, l’Inghilterra. Qualcosa di
simile si ha oggi fra Inghilterra e Stati uniti26.
Marx non ha mai sviluppato le implicazioni teoriche di questa sua
osservazione storica. Nonostante il grande spazio riservato al “capitale
monetario” nel Terzo libro del Capitale, egli resta fermo nel considerare
il debito nazionale come meccanismo di un’accumulazione del capitale
che non è “il risultato, ma il punto di partenza del modo di produzione
capitalistico”. Eppure è la sua stessa osservazione storica a evidenziare
come il punto di partenza dei centri emergenti (Olanda, Inghilterra, Sta-
151
ti uniti) sia insieme il risultato di lunghi periodi di accumulazione di
capitale nei centri già affermati (Venezia, Olanda, Inghilterra). Per usare
l’immagine di Braudel, ogni espansione finanziaria è simultaneamente
l’“autunno” di uno sviluppo capitalistico di portata storico-mondiale
che ha raggiunto i propri limiti in un luogo e la “primavera” di uno sviluppo di portata maggiore che comincia in un altro posto.
La dinamica simile dei vari cicli sistemici di accumulazione – consistendo ciascuno nell’emergere di un nuovo regime accumulativo nel corso
dell’espansione finanziaria del precedente – fa sì che essi siano confrontabili
l’uno con l’altro. Ma non appena confrontiamo gli attori, le strategie e le
strutture dei cicli, scopriamo non solo che i cicli sono differenti, ma anche
che la loro sequenza descrive un modello di evoluzione costituito da regimi
di dimensione, raggio d’azione e complessità crescenti. La prima colonna
della Figura 1 riassume questo modello di evoluzione considerando i “contenitori di potere” – come Anthony Giddens27 ha appropriatamente definito gli Stati – che, nei successivi cicli di accumulazione, hanno ospitato il
“quartier generale” dell’organizzazione capitalistica egemone: la repubblica
di Genova, le Province Unite, il Regno Unito e gli Stati uniti.
FIGURA 1. LE DINAMICHE EVOLUTIVE DEL CAPITALISMO MONDIALE
Istituzioni
governative
dominanti
Costi internalizzati
Tipo di regime/ciclo
Estensivo
Produzione Transazione Riproduzione
Intensivo
Protezione
USA
Sì
Sì
Sì
No
Sì
Sì
No
No
Sì
No
No
No
No
No
No
No
Stato mondiale
Britannico
Stato nazione
Olandese
Genovese
Città Stato
152
All’epoca dell’ascesa e della piena espansione del regime di accumulazione genovese, la Repubblica di Genova era una città-Stato piccola nelle dimensioni e semplice nell’organizzazione, dotata di uno scarso
potere effettivo. Profondamente divisa dal punto di vista sociale e abbastanza fragile militarmente, era uno Stato debole a confronto delle grandi potenze del tempo, inclusa l’antica rivale Venezia, che apparteneva
ancora al novero delle grandi potenze. Eppure, grazie alle sue vaste reti
commerciali e finanziarie, la classe capitalistica genovese, organizzata in
una “diaspora” cosmopolita, era in grado di trattare alla pari con i più
potenti sovrani territorialisti d’Europa, e di trasformare la loro spietata
concorrenza per il capitale mobile in un potente motore di valorizzazione del proprio capitale28.
All’epoca dell’ascesa e della piena espansione del regime di accumulazione olandese, le Provincie Unite costituivano un genere di organizzazione ibrida, che combinava alcune caratteristiche delle città-Stato
in via di scomparsa con alcune caratteristiche degli Stati-nazione emergenti. Di dimensioni e complessità assai maggiori rispetto alla Repubblica di Genova, le Provincie Unite “contenevano” un potere sufficiente a
conquistare l’indipendenza dalla Spagna imperiale, a ricavare dall’impero navale e territorialista di quest’ultima un impero estremamente redditizio di avamposti commerciali e a tenere a bada la sfida militare navale
inglese e quella terrestre da parte della Francia. Il maggior potere dello
Stato olandese rispetto a quello genovese permise alla sua classe capitalista di ripetere quello che i genovesi avevano già fatto – trasformare la
concorrenza interstatale per il capitale mobile in un potente motore di
valorizzazione del proprio capitale – senza tuttavia dover “acquistare”
protezione dagli Stati territorialisti, com’era invece accaduto ai genovesi
mediante una relazione di scambio politico con i sovrani iberici. Il regime olandese, in altre parole, “internalizzò” i costi di protezione che i
genovesi avevano esternalizzato (si veda la Figura 1, colonna 4)29.
All’epoca dell’ascesa e della piena espansione del regime di accumulazione britannico, la Gran Bretagna non era solo uno Stato-nazione
pienamente sviluppato; essa si accingeva anche a conquistare un impero
commerciale e territorialista di dimensioni mondiali, che avrebbe conferito ai suoi gruppi dominanti e alla propria classe capitalistica un controllo senza paralleli né precedenti sulle risorse umane e naturali del mondo.
Tale controllo permise alla classe capitalista britannica di fare quello di
cui gli olandesi si erano già dimostrati in grado – volgere a proprio vantaggio la concorrenza interstatale per il capitale mobile e “produrre” da
sé tutta la protezione richiesta dalla valorizzazione del proprio capitale –
153
senza tuttavia dover dipendere da organizzazioni territorialiste straniere e
spesso ostili per procurarsi la maggior parte della produzione agro-industriale su cui si reggeva la redditività delle proprie attività commerciali. Se
il regime olandese rispetto a quello genovese aveva internalizzato i costi
di protezione, il regime britannico rispetto a quello olandese internalizzò
i costi di produzione (si veda la Figura 1, colonna 5)30.
Infine, all’epoca dell’ascesa e della piena espansione del regime di
accumulazione Usa, gli Stati uniti erano già qualcosa di più di uno Stato-nazione pienamente sviluppato. Erano un complesso militare-industriale di dimensioni continentali, dotato di un potere sufficiente a
garantire a un gran numero di governi subordinati e alleati un’efficace
protezione, e a effettuare minacce credibili di strangolamento economico o annientamento militare rivolte a governi ostili in qualunque parte
del mondo. Assieme alle dimensioni, all’insularità e alla ricchezza naturale del suo territorio, questo potere permise alla classe capitalista statunitense di internalizzare non solo i costi di protezione e produzione –
come aveva già fatto la classe capitalista britannica – ma anche i costi di
transazione, vale a dire i costi relativi alla gestione dei mercati su cui si
reggeva la valorizzazione del proprio capitale (si veda la Figura 1, colonna 6)31.
Questo aumento costante delle dimensioni, del raggio d’azione e
della complessità dei successivi regimi di accumulazione del capitale su
scala mondiale è in parte oscurato da un’altra caratteristica della sequenza temporale di tali regimi. Questa caratteristica è rappresentata da un
doppio movimento, in avanti e all’indietro allo stesso tempo: ciascun
passo in avanti nel processo di internalizzazione dei costi, a opera di un
nuovo regime di accumulazione, ha comportato la rinascita di strategie e
strutture governative e imprenditoriali già superate dal regime precedente.
Così, l’internalizzazione dei costi di protezione a opera del regime
olandese, rispetto al regime genovese, avvenne attraverso la rinascita delle strategie e delle strutture del capitalismo monopolistico di Stato veneziano già rimpiazzate dal regime genovese. In modo analogo, l’internalizzazione dei costi di produzione operata dal regime britannico, rispetto al
regime olandese, avvenne mediante la rinascita in forme nuove e più
complesse delle strategie e delle strutture del capitalismo cosmopolita
genovese e del territorialismo globale iberico. E lo stesso modello si è
riproposto in occasione dell’ascesa e della piena espansione del regime
statunitense, che ha internalizzato i costi di transazione riportando in
auge, in forme nuove e più complesse, le strategie e le strutture del capi-
154
talismo manageriale olandese (si veda la Figura 1, colonna 1 e 2)32.
Questa periodica rinascita di strategie e strutture di accumulazione
precedentemente superate genera un movimento di tipo oscillatorio tra
strutture organizzative “cosmopolitico-imperiali” e strutture “managerial-nazionali”, le prime caratteristiche dei regimi “estensivi” – come
quello genovese e quello britannico – e le seconde dei regimi “intensivi”
– come quello olandese e quello statunitense. Il regime “cosmopoliticoimperiale” genovese e quello britannico sono regimi estensivi, nel senso
che ad essi va attribuita la responsabilità della maggior parte dell’espansione geografica del sistema-mondo capitalistico. Durante il regime
genovese il mondo fu “scoperto”, sotto quello britannico fu “conquistato”. I regimi “managerial-nazionali” olandese e statunitense, al contrario, sono intensivi, nel senso che sono stati responsabili del consolidamento geografico piuttosto che dell’espansione del sistema-mondo capitalistico. Durante il regime olandese, la “scoperta” del mondo, che ebbe
come principali protagonisti gli iberici, alleati dei genovesi, fu consolidata in un sistema di depositi commerciali e società per azioni privilegiate
con il loro centro ad Amsterdam. E durante il regime statunitense la
“conquista” del mondo, operata principalmente dagli stessi inglesi, fu
consolidata in un sistema di mercati nazionali e grandi imprese transnazionali che ha avuto il proprio centro negli Stati uniti.
Questa alternanza di regimi intensivi ed estensivi rende confusa la
percezione della tendenza fondamentale di lungo termine verso
l’aumento delle dimensioni, del raggio d’azione e della complessità dei
regimi di accumulazione. Quando il pendolo oscilla in direzione dei
regimi estensivi, la tendenza sottostante viene esaltata, mentre quando
oscilla in direzione dei regimi intensivi, essa appare meno significativa di
quanto sia in realtà. Nondimeno, se controlliamo queste oscillazioni
mettendo a confronto i due regimi intensivi e i due estensivi – quello
genovese con quello britannico, e quello olandese con quello statunitense – la tendenza sottostante risulta inequivocabile.
Lo sviluppo del capitalismo storico come sistema-mondo si è basato sulla formazione di blocchi di organizzazioni governative e imprenditoriali cosmopolitico-imperiali o managerial-nazionali sempre più
potenti, dotati della capacità di estendere (o approfondire) la portata
funzionale e spaziale del sistema-mondo capitalistico. Eppure, quanto
più questi blocchi sono divenuti potenti, tanto più breve è stato il ciclo
di vita dei regimi di accumulazione cui essi hanno dato origine – tanto
più breve, cioè, è stato il tempo necessario perché questi regimi emergessero dalla crisi del precedente regime dominante, divenissero essi
155
stessi dominanti e raggiungessero i loro limiti, com’è segnalato dall’inizio di una nuova espansione finanziaria. Sulla base della periodizzazione
di Braudel per stabilire l’inizio delle espansioni finanziarie, la durata dei
cicli è giunta quasi a dimezzarsi, sia confrontando il regime di accumulazione britannico con quello genovese che confrontando il regime di
accumulazione statunitense con quello olandese33.
Questo modello di sviluppo capitalistico, in cui l’aumento del
potere dei regimi di accumulazione è associato a una riduzione della
loro durata, richiama alla mente la tesi di Marx secondo cui “il vero
limite della produzione capitalistica è il capitale stesso” e secondo cui la
produzione capitalistica supera continuamente questi limiti immanenti
“unicamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su
scala nuova e più alta”34. Ma la contraddizione tra la valorizzazione del
capitale da un lato, e lo sviluppo delle forze materiali di produzione e di
un corrispondente mercato mondiale dall’altro, può essere riformulata
in termini ancor più generali rispetto a quelli di Marx. Il capitalismo storico in quanto sistema-mondo di accumulazione è divenuto un “modo
di produzione” – vale a dire, ha internalizzato i costi di produzione –
solo nel suo terzo stadio di sviluppo (quello britannico). Eppure, il principio secondo cui il vero limite dello sviluppo capitalistico è il capitale
stesso, e la valorizzazione del capitale esistente è in tensione costante ed
entra periodicamente in contraddizione con l’espansione materiale
dell’economia-mondo e con la creazione di un corrispondente mercato
mondiale – tutto questo era già all’opera negli stadi di sviluppo genovese e olandese, nonostante l’esternalizzazione della produzione agroindustriale da parte delle agenzie dominanti.
In entrambi gli stadi, genovese e olandese, il perseguimento del
profitto come fine in sé da parte di un particolare agente capitalistico ha
costituito il punto di partenza e quello conclusivo dell’espansione materiale dell’economia-mondo. Nel primo stadio, quello delle “grandi scoperte”, l’organizzazione del commercio di lunga distanza all’interno e
attraverso i confini del vasto impero iberico e la creazione di un “mercato mondiale” embrionale ad Anversa, Lione e Siviglia furono per il capitale genovese meri strumenti della propria espansione. E quando, nel
1560 circa, questi mezzi non servirono più allo scopo, il capitale genovese si disimpegnò dal commercio per specializzarsi nell’alta finanza. Allo
stesso modo, i trasporti tra giurisdizioni politiche lontane, la centralizzazione del commercio di transito ad Amsterdam e delle industrie ad alto
valore aggiunto in Olanda, la creazione di una rete mondiale di scambi e
di avamposti commerciali e la “produzione” delle protezioni richieste
156
da tutte queste attività, furono per il capitale olandese puri e semplici
strumenti della propria valorizzazione. Quando, intorno al 1740, questi
mezzi non servirono più allo scopo, il capitale olandese, come già il
capitale genovese 180 prima, li abbandonò in favore di una maggiore
specializzazione nell’alta finanza.
Da questa prospettiva, nel diciannovesimo secolo il capitale britannico si limitò a ripetere un modello che era stato istituito molto tempo
prima che il capitalismo storico come modo di accumulazione divenisse
anche un modo di produzione. L’unica differenza consisteva nel fatto
che, nel ciclo britannico, in aggiunta ai trasporti, all’immagazzinamento
e ad altri aspetti del commercio di lunga e breve distanza e alle relative
attività di protezione e produzione, le attività estrattive e quelle manifatturiere – cioè quelle che potremmo definire di produzione in senso
stretto – erano divenute mezzi essenziali della valorizzazione del capitale. Ma quando, intorno al 1870, la produzione e le attività commerciali
ad essa connesse non servirono più a questo scopo, il capitale britannico
si specializzò velocemente nella speculazione e nell’intermediazione
finanziaria, proprio come il capitale olandese aveva fatto 130 anni prima, il capitale genovese 310 anni prima, e il capitale statunitense avrebbe fatto 100 anni dopo.
In ciascun caso, la contraddizione consiste nel fatto che sebbene
l’espansione materiale dell’economia-mondo sia stata un mero strumento di sforzi tesi principalmente a incrementare il valore del capitale, essa
ha, nel corso del tempo, condotto sempre alla diminuzione del saggio
del profitto e dunque alla limitazione del valore del capitale. Grazie alla
loro persistente centralità nelle attività dell’alta finanza, sono i centri già
affermati quelli meglio posizionati per volgere l’intensificazione della
concorrenza per il capitale mobile a proprio vantaggio, alimentando i
propri profitti e potere a spese del resto del sistema. Da questo punto di
vista, il gonfiarsi dei profitti e del potere statunitensi negli anni Novanta
ha seguito un modello tipico del capitalismo mondiale fin dai suoi
albori35. La questione che rimane aperta è se dobbiamo aspettarci che
questo modello consolidato possa condurre, come nel passato, alla sostituzione del regime statunitense ancora dominante con un altro regime.
TRANSIZIONI EGEMONICHE: PASSATO E PRESENTE
La Figura 1 riassume i modelli di ricorrenza ed evoluzione che
abbiamo ricavato da un confronto tra i successivi cicli sistemici di accu-
157
mulazione. Se il futuro del capitalismo mondiale fosse pienamente
inscritto in questi modelli – prospettiva che oggi, come vedremo, è assai
meno probabile di quanto non lo fosse nelle transizioni passate – il compito di prevedere che cosa ci attende nei prossimi cinquant’anni sarebbe
facile e le nostre aspettative sarebbero le seguenti.
Primo: entro dieci o al massimo vent’anni il regime di accumulazione statunitense vivrebbe la sua crisi terminale. Secondo: col tempo
(diciamo un’altra ventina d’anni), la crisi verrebbe sostituita dalla formazione di un nuovo regime di accumulazione capace di sostenere una
nuova espansione materiale del capitalismo mondiale. Terzo: le caratteristiche delle organizzazioni governative che guiderebbero questo nuovo
regime di accumulazione si avvicinerebbero a quelle di uno “Stato mondiale” più di quanto abbiano fatto gli Stati uniti. Quarto: a differenza di
quello statunitense, il nuovo regime di accumulazione sarebbe di tipo
estensivo (“cosmopolitico-imperiale”) anziché intensivo (“managerialnazionale”). Infine la cosa più importante: il nuovo regime di accumulazione internalizzerebbe i costi di riproduzione, cioè il tipo di costi che il
regime statunitense ha esternalizzato in modo sempre più massiccio.
Non possiamo scartare l’ipotesi che queste aspettative si realizzino,
ma la loro realizzazione non è né l’unico né, di fatto, il più probabile dei
futuri possibili, giacché le transizioni da un regime di accumulazione a
un altro non sono del tutto inscrivibili entro modelli prestabiliti. I
modelli di ricorrenza ed evoluzione mostrano come la successione di
traiettorie di sviluppo, che nei secoli hanno alimentato l’espansione del
sistema-mondo capitalistico fino alle attuali dimensioni globali, non sia
stata un processo casuale. L’emergere di traiettorie di sviluppo nuove e
di successo nel corso di ciascuna transizione è dipeso ed è stato modellato da una serie di fattori storici e geografici, i quali sono stati a loro volta
trasformati e ricombinati dalla concorrenza e dalle lotte che stanno dietro alle espansioni finanziarie.
I modelli che osserviamo ex post, in altre parole, sono il risultato
tanto di contingenze geografiche e storiche, quanto di necessità storica.
Nelle congetture ex ante sui futuri esiti dell’attuale transizione dobbiamo prestare eguale attenzione tanto ai fenomeni corrispondenti ai passati modelli di ricorrenza ed evoluzione quanto ai fenomeni che se ne
discostano, alle anomalie che potrebbero produrre esiti diversi rispetto
ai modelli passati. Nel tentativo di individuare tali anomalie, ci siamo
impegnati in un’analisi approfondita della dinamica dell’attuale transizione confrontandola con le transizioni egemoniche passate36. Se ci sono
somiglianze tra la transizione attuale e quelle passate da rendere signifi-
158
cativo un loro confronto, una serie di anomalie ci mette in guardia sui
rischi di una proiezione meccanicistica di modelli passati sul futuro.
La Figura 2 riassume il modello complessivo delle transizioni egemoniche emerso dall’analisi37. Il modello descrive le espansioni sistemiche come inserite all’interno di particolari strutture egemoniche, che nel
tempo esse stesse tendono a minare. Le espansioni sono il risultato di
due differenti tipi di leadership che, insieme, definiscono le situazioni
egemoniche. Da un lato, la leadership di uno Stato sul sistema verso una
direzione ritenuta garante dell’interesse generale (riorganizzazione sistemica), promuove l’espansione dotando il sistema stesso di una divisione
del lavoro e di una specializzazione delle funzioni più ampie e profonde.
Dall’altro lato, la leadership di uno Stato su altri Stati, attraendoli sulla
sua traiettoria di sviluppo (emulazione), fornisce loro la spinta motivazionale necessaria a mobilitare energie e risorse per l’espansione (si veda
la Figura 2, colonna 1)38.
FIGURA 2. LA DINAMICA DELLE TRANSIZIONI EGEMONICHE
Egemonia
Transizione egemonica
Crisi
egemonica
Riorganizzazione
sistemica
da parte dello Stato
egemonico
Espansione
sistemica
Emulazione
dello Stato
egemonico
{{
Rivalità interstatali
e concorrenza
tra imprese
Nuova egemonia
Crollo
egemonico
Caos sistemico
Riorganizzazione
sistemica da parte
del nuovo
Stato egemonico
Conflitti sociali
Emergere di nuove
configurazioni
di potere
Centralizzazione
delle capacità
del sistema
Emulazione
del nuovo
Stato egemonico
159
C’è sempre una tensione tra queste due tendenze, perché mentre
una maggiore divisione del lavoro e specializzazione delle funzioni
implica cooperazione tra le unità del sistema, l’emulazione invece si basa
sulla reciproca concorrenza. Inizialmente, l’emulazione opera in un contesto prevalentemente cooperativo e agisce quindi come motore
dell’espansione. Ma l’espansione accresce ciò che Emile Durkheim chiamava “volume” e “densità dinamica” del sistema39, cioè, da un lato, il
numero delle unità socialmente rilevanti che interagiscono nel sistema,
e, dall’altro, il numero, la varietà e la velocità delle transazioni che legano un’unità all’altra. Col tempo, questo incremento di volume e densità
dinamica del sistema tende a intensificare la concorrenza tra le unità del
sistema al di là delle capacità di regolazione delle istituzioni esistenti.
Quando ciò accade, riprende il sopravvento quella che Kenneth Waltz
ha chiamato “la tirannia delle piccole decisioni”40, la tendenza dei singoli Stati a perseguire il proprio interesse nazionale senza riguardo per i
problemi sistemici che richiedono soluzioni a livello di sistema; lo Stato
egemonico subisce una deflazione di potere e si ha una crisi egemonica.
Le crisi egemoniche sono state caratterizzate da tre processi distinti ma strettamente correlati: l’intensificazione della concorrenza tra Stati
e tra imprese; l’escalation dei conflitti sociali; e l’emergenza interstiziale
di nuove configurazioni di potere (si veda la Figura 2, colonna 2). La
forma che questi processi hanno assunto e le loro relazioni nello spazio e
nel tempo variano da crisi a crisi. Ma una qualche combinazione dei tre
processi può essere rintracciata in ciascuna delle due transizioni egemoniche finora compiute – dall’egemonia olandese alla britannica e dalla
britannica alla statunitense – e nella transizione attuale dall’egemonia
statunitense verso una destinazione ancora sconosciuta.
Inoltre, nelle transizioni passate (sebbene non ancora in quella presente), le crisi egemoniche hanno portato a un crollo egemonico e al
caos sistemico. Con “caos sistemico” intendiamo una situazione di grave
e apparentemente irrimediabile disorganizzazione sistemica. Quando la
concorrenza e i conflitti si intensificano fino a eccedere le capacità di
regolazione delle strutture esistenti, emergono interstizialmente nuove
strutture a destabilizzare ulteriormente la configurazione di potere
dominante. Il disordine tende ad autoalimentarsi, minacciando di provocare, o provocando de facto, il crollo definitivo dell’organizzazione
sistemica (si veda la Figura 2, colonna 3).
Le espansioni finanziarie sono state un aspetto integrante delle crisi egemoniche passate e presenti, nonché della loro trasformazione in
crolli egemonici. Ma il loro impatto sulla tendenza delle crisi a risolversi
160
in crolli egemonici è ambivalente. Per un verso, infatti, esse tengono la
crisi sotto controllo inflazionando temporaneamente il potere dello Stato egemonico in declino. Come l’“autunno” dei grandi sviluppi capitalistici, le espansioni finanziarie sono l’autunno delle strutture egemoniche
entro cui questi sviluppi sono inseriti; rappresentano il momento in cui
la potenza-guida di una grande espansione materiale dell’economiamondo giunge al punto di raccogliere finalmente i frutti della propria
leadership, nella forma di un accesso privilegiato alla sovrabbondante
liquidità accumulatasi sui mercati finanziari mondiali. Grazie alla sua
persistente centralità nelle reti dell’alta finanza, il paese a egemonia
declinante può volgere la concorrenza per il capitale mobile a proprio
vantaggio, rilanciando il suo potere in declino. Questa reflazione permette allo Stato a egemonia declinante di contenere, almeno per un po’,
le forze che sfidano la prosecuzione del suo dominio.
Per altro verso, però, le espansioni finanziarie consolidano queste
ultime, ampliando e approfondendo la concorrenza tra Stati e tra imprese e i conflitti sociali, e riallocando il capitale verso strutture emergenti
che promettono maggiore sicurezza o rendimenti più alti di quelli
garantiti dalla struttura dominante. Gli Stati egemonici declinanti si trovano di fronte a una fatica di Sisifo: contenere forze che rotolano giù
con sempre rinnovata energia. Prima o poi, anche una scossa minima
potrà far pendere l’ago della bilancia a favore delle forze che, consapevolmente o no, stanno minando la già precaria stabilità delle strutture
esistenti, provocando il crollo dell’organizzazione sistemica.
I crolli egemonici costituiscono i punti di svolta decisivi delle transizioni egemoniche. Sono i momenti in cui l’organizzazione sistemica
costruita dalle potenze egemoniche declinanti si disintegra e si instaura
il caos sistemico. Ma rappresentano anche il momento in cui si formano
le nuove egemonie.
La disorganizzazione sistemica diminuisce il potere collettivo dei
gruppi dominanti del sistema; più questo si riduce, più diventa ampia la
richiesta di governance del sistema. Tuttavia, questa richiesta può essere
soddisfatta, e una nuova egemonia può emergere, solo se la crescente
disorganizzazione sistemica è accompagnata dalla comparsa di un nuovo blocco di agenzie governative e imprenditoriali dotato di maggiori
capacità organizzative a livello di sistema rispetto a quelle del precedente complesso egemonico. Il crollo di un qualsiasi ordine egemonico è in
ultimo dovuto al fatto che l’incremento di volume e densità dinamica
del sistema supera, a un certo punto, le capacità organizzative del particolare complesso egemonico che aveva creato le condizioni dell’espan-
161
sione. In ultima analisi, quindi, il disordine che ne risulta può essere
superato, e le condizioni di una nuova espansione sistemica possono
essere create, solo se emerge un nuovo complesso egemonico dotato di
maggiori capacità sistemiche rispetto a quello passato.
Storicamente, gli stessi processi che hanno generato caos sistemico
hanno anche dato vita a una maggiore concentrazione di capacità sistemiche, conducendo alla creazione di una nuova egemonia. Quando
l’egemonia emergente guida il sistema nella direzione di una maggiore
cooperazione tra le sue unità, trascinandole sulla propria traiettoria di
sviluppo, il caos sistemico si riduce e un nuovo ciclo egemonico inizia (si
veda la Figura 2, colonna 4). Ma ogni ciclo si differenzia dal precedente
sotto due aspetti fondamentali: la maggiore concentrazione di capacità
organizzative esercitata dal nuovo Stato egemonico rispetto al predecessore, e il maggiore volume e densità dinamica del sistema riorganizzato
dal nuovo Stato egemonico.
Il nostro modello descrive uno schema di ricorrenza – l’egemonia
conduce all’espansione, l’espansione al caos e il caos a una nuova egemonia – che è anche uno schema di evoluzione – ogni nuova egemonia
riflette una maggiore concentrazione di capacità organizzative, un maggiore volume e densità del sistema rispetto all’egemonia precedente.
Questo schema binario si applica bene alle transizioni egemoniche passate, mentre, per quanto riguarda la transizione presente, sono pochi i
segnali di un imminente crollo dell’egemonia statunitense. Possiamo,
tuttavia, rilevare alcune importanti analogie tra le attuali trasformazioni
dell’economia politica globale e quelle caratterizzanti le transizioni passate. La più importante è l’analogia tra l’attuale espansione finanziaria
imperniata sugli Stati uniti non solo, come molti osservatori hanno notato, con l’espansione finanziaria imperniata sulla Gran Bretagna di fine
Ottocento-primo Novecento, ma anche con quella imperniata
sull’Olanda a metà del Settecento. Come vedremo, ci sono buone ragioni per ritenere che l’attuale espansione finanziaria si concluderà diversamente rispetto alle precedenti; tuttavia ci sono altrettante buone ragioni
per interpretare l’attuale espansione e la concomitante ripresa del potere
statunitense come segnali di una crisi egemonica analoga a quelle di 100
e 250 anni fa.
Nel passato, come nel presente, la ripresa del potere dei centri egemoni declinanti è servita a dissimulare la natura sempre più fragile del
loro dominio. La ripresa fu più tardiva ed ebbe minor peso nel caso
degli olandesi; arrivò prima e fu maggiore nel caso degli inglesi. Ma in
entrambi i casi i revival di potere, e le espansioni finanziarie che ne era-
162
no alla base, si conclusero 30 o 40 anni dopo il loro inizio, con il crollo
totale dell’ordine egemonico in declino. In entrambe le passate transizioni, dunque, le espansioni finanziarie che diedero nuovo spazio al
potere degli Stati egemonici declinanti si sono poi concluse sotto il peso
delle proprie contraddizioni. Ma la cecità che induceva i gruppi dirigenti di questi Stati a scambiare l’“autunno” del loro potere egemonico per
una nuova “primavera” provocò l’accelerazione e l’accentuarsi del carattere catastrofico della fine – soprattutto per se stessa nel caso della
Repubblica Olandese, per l’Europa e il mondo nel caso della Gran Bretagna41.
Una cecità simile è oggi evidente. La facilità con cui gli Stati uniti
sono riusciti a mobilitare risorse sui mercati finanziari globali per sconfiggere l’Unione Sovietica in quella che Fred Halliday ha chiamato “la
seconda Guerra fredda”42 e, in seguito, per sostenere una lunga espansione economica interna e un boom spettacolare nella Borsa di New
York, ha portato alla convinzione che “America’s back!” Ma anche supponendo che il potere globale statunitense si sia effettivamente ripreso,
sarebbe comunque un tipo di potere molto diverso da quello dispiegatosi al culmine dell’egemonia statunitense. Quel potere riposava sulla
capacità degli Stati uniti di elevarsi ed elevare gli altri Stati al di sopra
della “tirannia delle piccole decisioni”, così da risolvere i problemi a
livello di sistema che avevano tormentato il mondo nel caos sistemico
degli anni Trenta e Quaranta. Il nuovo potere di cui gli Stati uniti sono
venuti a godere negli anni Ottanta e Novanta riposa, invece, sulla capacità statunitense di avere successo nella competizione con gli altri Stati
sui mercati finanziari globali, risuscitando una tirannia delle piccole
decisioni in un contesto di sempre più pressanti problemi sistemici che
né gli Stati uniti né un altro Stato sembrano oggi in grado di risolvere.
Inoltre, l’estensione della ripresa del potere Usa non è ampia quanto generalmente assunto dalle élite statunitensi. In primo luogo, l’espansione finanziaria stessa sembra reggersi su basi sempre più precarie.
Anche i più entusiasti sostenitori della concorrenza interstatale su mercati finanziari globalmente integrati hanno cominciato a temere che la
globalizzazione finanziaria stia tramutandosi in una “corsa sfrenata e
distruttiva” e si preoccupano della possibile “crescita di una violenta
reazione” contro gli effetti di una forza tanto distruttiva, innanzitutto
l’“ascesa di nuova classe di politici populisti” favorita dal “senso […]
d’insicurezza e ansia” che si sta impadronendo anche dei paesi ricchi43.
Una reazione di questo tipo, del resto, è stata caratteristica anche delle
espansioni finanziarie passate44: essa preannuncia che la massiccia redi-
163
stribuzione di redditi e ricchezze su cui l’espansione si regge ha raggiunto, o quasi, i propri limiti. Quando la redistribuzione non è più sostenibile – economicamente, socialmente e politicamente – la fine dell’espansione finanziaria è inevitabile. L’unica questione che rimane aperta, da
questo punto di vista, non è se, ma quanto rapidamente e quanto catastroficamente l’attuale dominio globale del capitale finanziario volgerà
al termine. In questo senso, la bolla della new economy scoppiata tra il
2000 e il 2001 potrebbe essere il primo segnale che l’espansione finanziaria e la concomitante ripresa del potere statunitense hanno raggiunto
i propri limiti.
Ultima ma egualmente importante considerazione è che l’espansione finanziaria imperniata sugli Stati uniti è stata accompagnata da uno
spostamento del centro di gravità dell’economia globale dal Nord America all’Asia orientale. Nel 1960, all’apice dell’egemonia statunitense, il
prodotto nazionale lordo dell’Asia orientale corrispondeva solo al 35%
di quello nordamericano. Nel 1990, invece, i due erano quasi identici
(91%). Negli anni Novanta, la combinazione della rinascita statunitense
e del collasso giapponese hanno rallentato, ma non invertito, tale spostamento – il prodotto nazionale lordo dell’Asia orientale, soprattutto grazie alla crescita rapida e costante del “circolo della Cina” (Cina, Singapore, Hong Kong e Taiwan)45, è cresciuto più rapidamente di quello
nordamericano, fino a raggiungerne il 92% nel 1998. Lo spostamento,
comunque, è anche più significativo di quanto questi dati testimonino.
Come Eamonn Fingleton ha recentemente notato, concentrandosi solamente sulle relazioni tra Stati uniti e Giappone, negli anni Novanta la
crescita dell’attività manifatturiera giapponese rispetto agli Usa ha generato ampi e persistenti surplus nella bilancia commerciale del Giappone
e deficit nella bilancia statunitense, approfondendo così il rovesciamento
di posizione tra i due paesi nel sistema finanziario internazionale.
Il Giappone è ora, dai giorni del dominio economico globale americano
negli anni Cinquanta, il maggior esportatore di capitale in termini reali al
mondo… [Come risultato], nei primi nove anni degli anni Novanta il
patrimonio netto all’estero del Giappone è balzato da 294 a 1153 miliardi di dollari. Contemporaneamente, le passività nette estere degli Stati
uniti sono esplose da 49 a 1537 miliardi di dollari. Sul lungo periodo,
questo cambiamento nell’equilibrio del potere finanziario sarà probabilmente la sola cosa che gli storici ricorderanno della rivalità economica
dell’ultimo decennio tra Stati uniti e Giappone, ma è anche l’unica su
cui gli osservatori occidentali generalmente sorvolano46.
164
È difficile dire in che modo gli storici futuri ricorderanno gli anni
Novanta. Tuttavia, l’attuale rovesciamento di fortune nel sistema finanziario internazionale tra Nord America47 e Asia orientale ha una forte
somiglianza con il rovesciamento di fortune tra Gran Bretagna e Stati
uniti durante la transizione egemonica della prima metà del Novecento.
Per essere precisi, inversioni di queste dimensioni portano sempre con sé
problemi specifici, come testimoniato dalla turbolenza che ha caratterizzato le economie dell’Asia orientale, dal crack della Borsa di Tokyo del
1990-1992 fino alla crisi asiatica del 1997-1998. Problemi di questo genere hanno caratterizzato tutti i nuovi centri emergenti del capitalismo
mondiale; nelle passate transizioni egemoniche, come Braudel stesso fece
notare, le crisi che segnarono la caduta dei vecchi centri finanziari furono
avvertite prima e più gravemente nei centri finanziari in ascesa, Londra
nel 1772 e New York nel 192948. Ne consegue che le crisi finanziarie asiatiche degli anni Novanta non costituiscono di per sé il segnale di una
debolezza regionale di lungo termine, né quello di un’inversione della
tendenza al ritorno del centro di gravità dell’economia globale, com’era
già in epoca pre-moderna e primo-moderna, verso l’Asia orientale.
In sintesi, l’espansione finanziaria globale degli ultimi 25 anni non
è né un nuovo stadio del capitalismo mondiale né il sintomo dell’“egemonia emergente dei mercati globali”. È, piuttosto, il più chiaro segnale
del fatto che ci troviamo nel mezzo di una transizione egemonica analoga alle transizioni olandese-britannica e britannico-statunitense. Un’analogia che ci rende scettici rispetto alla stabilità di lungo periodo
dell’attuale dominio globale del capitale finanziario e alla ripresa del
potere degli Stati uniti. Ma questa prospettiva ci permette anche di
identificare le novità dell’attuale transizione a confronto con le precedenti. In conclusione, proviamo a esaminare le più importanti tra queste
novità, e le loro implicazioni per le trasformazioni in corso.
FUTURI POSSIBILI
Dal punto di vista geopolitico, la novità più importante delle trasformazioni attuali è una biforcazione tra capacità militari e finanziarie
che non ha precedenti nelle passate transizioni egemoniche. In esse le
espansioni finanziarie sono sempre state caratterizzate dall’emergenza
interstiziale di complessi governativo-imprenditoriali più potenti (o
plausibilmente in attesa di diventarlo) sia militarmente che finanziariamente rispetto ai complessi governativo-imprenditoriali ancora domi-
165
nanti – come il complesso statunitense rispetto all’inglese nel primo
Novecento, il complesso inglese rispetto all’olandese agli inizi del XVIII
secolo, quello olandese rispetto al genovese nel tardo XVI secolo. Nella
transizione attuale, invece, tale dato non può essere ravvisato.
Come nelle transizioni passate, il complesso declinante ma ancora
dominante (quello statunitense) si è trasformato da massimo creditore
mondiale a Stato più indebitato del mondo. A differenza delle transizioni passate, però, le risorse militari globali si sono concentrate più che
mai nelle mani del complesso ancora dominante. L’egemonia declinante
si ritrova così nell’anomala situazione in cui non ha avversari credibili
dal punto di vista militare – circostanza che rende una guerra fra le
grandi potenze del sistema assai meno probabile di quanto non fosse
nelle transizioni passate –, ma non ha i mezzi finanziari necessari a risolvere i problemi che richiedono soluzioni a livello di sistema – circostanza che potrebbe portare a un crollo egemonico anche in assenza di guerre mondiali tra le grandi potenze del sistema.
Il rovescio di quest’anomala situazione è il riemergere di città-Stato
(Hong Kong e Singapore) e Stati semi-sovrani (Giappone e Taiwan)
come “salvadanai” del sistema capitalistico mondiale49. Mai, dopo l’eliminazione della Repubblica Olandese dalla scena dell’alta politica europea, simili “salvadanai” avevano esercitato tanta influenza sulla politica
del mondo moderno. Anche sotto questo aspetto – come nella spostamento del centro di gravità dell’economia globale di nuovo verso l’Asia
orientale – la transizione attuale sembra riesumare caratteristiche della
prima modernità e dell’epoca pre-moderna. Dato che tutti questi “salvadanai” devono la loro fortuna a una rigorosa specializzazione nel perseguimento della ricchezza piuttosto che del potere, da nessuno di loro –
incluso il più grande, il Giappone – ci si può aspettare un cambio di rotta, il tentativo di diventare una potenza militare di portata più che regionale o di fornire soluzioni sistemiche a problemi sistemici. Questa è
un’ulteriore ragione per ritenere che la crisi attuale non abbia alcuna
tendenza intrinseca né a degenerare in una guerra fra le unità più potenti del sistema, né a evitare un altro crollo egemonico50.
Importante quanto la novità geopolitica è la novità sociale delle
attuali trasformazioni. Nelle transizioni egemoniche passate, le espansioni finanziarie di livello sistemico hanno contribuito all’aumento dei conflitti sociali. La massiccia redistribuzione del reddito e gli spostamenti
nella scala sociale comportati dalle espansioni finanziarie hanno generato movimenti di resistenza e ribellione da parte di gruppi e strati sociali
subordinati i cui stili di vita erano sotto attacco. Interagendo con le lotte
166
di potere interstatali, questi movimenti hanno costretto i gruppi dominanti a formare un nuovo blocco sociale egemonico che includesse, in
modo selettivo, gruppi e strati sociali precedentemente esclusi.
Nella transizione dall’egemonia olandese a quella britannica, le
aspirazioni delle classi proprietarie europee a una maggiore rappresentanza politica e delle borghesie coloniali delle Americhe all’autodeterminazione furono conciliate in un nuovo blocco sociale dominante. Non lo
furono invece le aspirazioni delle classi nullatenenti europee e quelle
degli schiavi africani nelle Americhe, nonostante i loro contributi alle
agitazioni che avevano trasformato il blocco sociale dominante. Sotto
l’egemonia britannica, la schiavitù fu lentamente eppure definitivamente
abolita, ma i progressi verso l’uguaglianza razziale furono limitati
dall’espansione europea in Asia e in Africa, e da nuove forme di subordinazione degli schiavi liberati nelle Americhe51.
Con la transizione dall’egemonia britannica a quella statunitense –
sotto l’effetto congiunto della rivolta contro l’Occidente e delle ribellioni
della classe operaia – il blocco sociale egemonico fu ulteriormente allargato con la promessa di un New Deal globale. Alle classi operaie dei paesi più ricchi d’Occidente furono promessi sicurezza d’impiego ed elevati
consumi di massa. Alle élite del mondo non occidentale furono promessi
diritto all’autodeterminazione nazionale e sviluppo (cioè, assistenza nel
raggiungimento degli standard di ricchezza e benessere stabiliti dagli Stati occidentali). Divenne presto chiaro, però, che questo pacchetto di promesse non poteva essere mantenuto. Inoltre, esso generò negli strati
subordinati del mondo aspettative che minacciarono seriamente la stabilità e infine precipitarono la crisi dell’egemonia statunitense52.
Sta qui il peculiare carattere sociale di questa crisi, in confronto
alle precedenti crisi egemoniche. La crisi dell’egemonia olandese fu un
processo lungo e protratto nel tempo, in cui l’espansione finanziaria si
produsse tardi e il conflitto sociale a livello di sistema ancora più tardi.
La crisi dell’egemonia britannica si sviluppò più rapidamente, ma
l’espansione finanziaria precedette ancora il conflitto sociale. Nella crisi
dell’egemonia Usa, al contrario, l’esplosione del conflitto sociale di fine
anni Sessanta-primi anni Settanta ha preceduto e influito profondamente sulla successiva espansione finanziaria.
In effetti, l’attuale espansione finanziaria è stata davvero in primo
luogo – per parafrasare Wallerstein53 – uno strumento di contenimento
delle richieste dei popoli del mondo non occidentale (per benefici
modesti a ciascuno, ma per molti) e delle classi operaie occidentali (per
benefici per un numero relativamente ristretto di persone, ma di una
167
certa entità). L’espansione finanziaria e l’associata ristrutturazione
dell’economia politica globale hanno avuto senza dubbio successo nel
disorganizzare le forze sociali portatrici di queste domande nelle lotte
degli anni Sessanta-primi Settanta. Allo stesso tempo, però, la contraddizione di fondo di un sistema capitalistico mondiale che promuove la
formazione di un proletariato mondiale senza garantire un salario di sussistenza generalizzato (cioè, i più elementari costi di riproduzione), lungi
dall’essere risolta, è oggi più acuta che mai54.
La combinazione di anomalie geopolitiche e sociali nelle trasformazioni attuali mette in evidenza i rischi di estrapolare per il futuro le tendenze di lungo periodo descritte nella Figura 1. Le pressioni sociali per
l’internalizzazione dei costi di riproduzione all’interno delle strutture del
capitalismo mondiale non sono state eliminate. E, tuttavia, la biforcazione di potere militare e finanziario e il decentramento del secondo verso
Stati politicamente deboli non depone a favore di un facile o imminente
soddisfacimento di queste pressioni. Questo non significa che non ci siano soluzioni alla crisi di sovraccumulazione sottostante all’espansione
finanziaria in corso. Significa, piuttosto, che la crisi ha più di una possibile soluzione – alcune in sintonia coi modelli passati, altre implicanti il
loro rovesciamento, altre ancora l’emergere di nuovi modelli. Quale particolare soluzione si materializzerà dipende dai processi e dai conflitti in
corso che, per la maggior parte, stanno ancora davanti a noi.
A complicare ulteriormente le cose, possiamo attenderci che questi
processi di lotta verranno influenzati anche da una terza importante
novità delle trasformazioni attuali. Questa consiste nel già richiamato
spostamento dell’epicentro dell’economia globale in Asia orientale –
una regione che, a differenza di tutti i precedenti centri di organizzazione del capitalismo mondiale, si trova al di fuori dei confini storici della
civiltà occidentale. È stato prima di tutto questo cambiamento ad aver
portato Samuel Huntington ad avanzare la sua tesi assai influente e controversa di un imminente “scontro di civiltà”55.
In realtà, uno scontro tra civiltà occidentali e non occidentali è stata una costante del processo storico attraverso cui il sistema-mondo
capitalistico si è trasformato da sistema europeo a sistema globale. La
transizione dall’egemonia olandese a quella britannica fu contrassegnata
dalla conquista violenta e dalla destabilizzazione dei sistemi-mondo
indigeni dell’Asia. La transizione dall’egemonia britannica a quella statunitense fu caratterizzata prima da un’ulteriore estensione degli imperi
territorialisti occidentali in Asia e in Africa e poi da una rivolta collettiva
contro la dominazione occidentale56.
168
Sotto l’egemonia statunitense, la mappa del mondo è stata ridisegnata per accogliere le richieste di autodeterminazione nazionale. Nel
complesso, questa nuova mappa rifletteva l’eredità del colonialismo e
dell’imperialismo occidentali, inclusa l’egemonia culturale che portò le
élite non occidentali a rivendicare per se stesse “Stati-nazione” più o
meno autosufficienti, a immagine e somiglianza delle organizzazioni politiche metropolitane dei loro ex padroni imperiali. Ci fu, tuttavia,
un’importante eccezione alla regola: l’Asia orientale. Tranne alcuni Stati
ai suoi margini meridionali (in particolare, l’Indonesia, la Malesia, le
Filippine e le città-Stato di Hong Kong e Singapore), la mappa della
regione rifletteva prima di tutto l’eredità del sistema-mondo imperniato
sulla Cina, che l’ingerenza occidentale aveva destabilizzato e trasformato
in misura marginale, senza riuscire mai a distruggerlo e a ricrearlo sul
modello occidentale. Tutte le più importanti nazioni della regione, che
furono formalmente incorporate nel sistema allargato di Vestfalia – da
Giappone, Corea e Cina a Vietnam, Laos, Cambogia e Thailandia –, erano già diventate nazioni molto prima dell’arrivo europeo. E quel che è
più importante, erano tutte nazioni legate l’una all’altra, direttamente o
tramite il centro cinese, da relazioni diplomatiche e commerciali, e tenute
insieme da una condivisione di principi, norme e regole che disciplinavano la loro interazione reciproca come un mondo tra altri mondi57.
Questo residuo geopolitico fu difficile da integrare nell’ordine
mondiale statunitense della Guerra fredda, così come era stato per
l’ordine mondiale britannico. Le linee di frattura tra le sfere d’influenza
statunitense e sovietica nella regione dell’Asia orientale cominciarono a
crollare poco tempo dopo che erano state stabilite – prima, per la ribellione cinese contro la dominazione sovietica, poi per il fallimento del
tentativo statunitense di separare la nazione vietnamita secondo lo spartiacque della Guerra fredda. In seguito, mentre le due superpotenze
intensificavano la loro rivalità nella stretta finale della Seconda Guerra
fredda, i vari pezzi del puzzle dell’Asia orientale si riassemblarono
nell’economia regionale più dinamica al mondo58.
L’impressionante rapidità con cui quest’economia regionale è
diventata la nuova officina e salvadanaio del mondo ha contribuito alla
diffusione della “paura di cadere” nel mondo occidentale. Una caduta
più o meno imminente dell’Occidente dai vertici di comando del capitalismo mondiale è certamente possibile, ma che cosa ci sia da temere in
proposito non è del tutto chiaro.
La caduta è probabile perché gli Stati-guida dell’Occidente sono
prigionieri dei percorsi di sviluppo che hanno fatto le loro fortune, sia
169
politiche sia economiche. Oggi questi percorsi stanno procurando rendimenti decrescenti in termini di tassi di accumulazione, ma non possono essere abbandonati a favore del percorso più dinamico, quello regionale dell’Asia orientale, senza causare tensioni sociali tanto insopportabili da sfociare nel caos anziché nella “competitività”. Una situazione
simile si è presentata anche nelle transizioni passate. Al momento della
loro rispettiva crisi egemonica, sia gli olandesi sia gli inglesi si addentrarono ancora più profondamente nella specifica traiettoria di sviluppo
che aveva fatto le loro fortune, malgrado il fatto che ai margini del loro
raggio d’azione si stavano aprendo percorsi più dinamici. E non abbandonarono il percorso prestabilito fino a che il sistema mondiale imperniato su di loro si ruppe.
Come ha suggerito David Calleo, il “sistema internazionale si
rompe, non solo perché nuove potenze non controbilanciate e aggressive cercano di dominare i loro vicini, ma anche perché le potenze in
declino, invece di adattarsi e cercare una mediazione, tentano di
cementare la loro vacillante preminenza trasformandola in un’egemonia sfruttatrice”59. Il nostro confronto con le transizioni passate mostra
che il ruolo delle nuove potenze aggressive nell’affrettare i crolli sistemici è diminuito di transizione in transizione, mentre il ruolo giocato
dalla dominazione sfruttatrice esercitata dalla potenza egemone in
declino è aumentato. Il potere mondiale olandese era così diminuito
nei decenni di declino della sua egemonia che la resistenza olandese, a
confronto del ruolo svolto dagli Stati-nazione emergenti, aggressivi e
imperialistici (in primo luogo Gran Bretagna e Francia), giocò un ruolo
marginale nel crollo sistemico. Nel momento del suo declino egemonico, all’opposto, la Gran Bretagna era abbastanza potente da trasformare la sua egemonia in una dominazione sfruttatrice. Nonostante l’emergere di nuove potenze aggressive – prima fra tutte la Germania – abbia
giocato un ruolo molto importante nel crollo del sistema-mondo
imperniato sulla Gran Bretagna, il rifiuto di quest’ultima all’adattamento e alla conciliazione fu comunque cruciale.
Oggi abbiamo raggiunto l’altra estremità dello spettro. Non ci
sono nuove credibili potenze aggressive in grado di provocare il crollo
del sistema-mondo imperniato sugli Stati uniti, ma, rispetto della Gran
Bretagna di un secolo fa, gli Stati uniti hanno capacità ancora maggiori
per convertire la propria egemonia in declino in una dominazione
sfruttatrice. Se il sistema alla fine crollerà, sarà prima di tutto perché
gli Stati uniti avranno rifiutato accordi e compromessi. E, per converso, la conciliazione e l’adattamento degli Usa nei confronti delle
170
potenze economiche in ascesa dell’Asia orientale sono una condizione
essenziale per una transizione non catastrofica verso un nuovo ordine
mondiale.
Condizione altrettanto essenziale è l’emergere di una nuova leadership globale a partire dai centri principali dell’espansione economica
dell’Asia orientale. Questa leadership dovrà essere capace di assumersi il
compito di fornire soluzioni sistemiche ai problemi sistemici lasciati irrisolti dall’egemonia statunitense. Il più grave di questi è l’abisso apparentemente incolmabile tra le opportunità di vita di una piccola minoranza
della popolazione mondiale (tra il 10 e il 20%) e la grande maggioranza.
Per fornire una soluzione praticabile e sostenibile a questo problema, gli
“apripista” dell’Asia orientale dovranno inaugurare, per loro stessi e per
il mondo, una nuova traiettoria di sviluppo che si discosti radicalmente
da quella ora giunta in un vicolo cieco.
Si tratta di un compito imponente che i gruppi dominanti degli
Stati dell’Asia orientale hanno appena cominciato ad affrontare. Nelle
passate transizioni egemoniche, i gruppi dominanti intrapresero con
successo l’impegno di modellare un nuovo ordine mondiale solo dopo
intense pressioni da parte di movimenti di protesta e autodifesa. Questa pressione dal basso si è ampliata e approfondita di transizione in
transizione, portando a un allargamento dei blocchi sociali a ogni nuova egemonia. Possiamo quindi attenderci che le contraddizioni sociali
giocheranno un ruolo più decisivo che mai nel plasmare la transizione
in corso verso il nuovo ordine mondiale che emergerà dall’incombente
caos sistemico. Se i movimenti in gran parte seguiranno e saranno condizionati dall’escalation di violenza (come nelle passate transizioni) o se
invece la precederanno e contribuiranno a contenere il caos sistemico è
una questione aperta. La risposta, in ultima analisi, è nelle mani dei
movimenti.
POSCRITTO60
Guardando indietro, con un minimo di prospettiva storica, agli
inizi del ventunesimo secolo, il 2003 può essere visto come l’anno di
passaggio dalla crisi dell’egemonia mondiale statunitense a un periodo
di crollo egemonico e caos sistemico. Le sezioni precedenti di questo
saggio sono state scritte agli inizi del 2001. Abbiamo sostenuto che la
rinascita del potere globale statunitense negli anni Ottanta e Novanta
non fosse il segnale di un secondo “secolo americano”, ma fosse inve-
171
ce intimamente legata a una crisi profonda dell’egemonia statunitense.
Come nelle passate transizioni egemoniche, lo Stato egemonico declinante (gli Stati uniti) ha avuto una ripresa del proprio potere durante
la fase di espansione finanziaria – scambiata per una nuova primavera.
Lo scoppio della bolla della new economy nel 2000-2001, la diffusione
di proteste contro la globalizzazione neoliberista e lo spostamento del
centro di accumulazione del capitale in Asia orientale erano tutti indicatori di quanto fossero precarie le basi della rinascita del potere mondiale degli Stati uniti alla fine del ventesimo secolo. Tuttavia, all’inizio
del 2001 la crisi non si era ancora tradotta in un crollo dell’egemonia
Usa. Abbiamo sostenuto inoltre che, anche se le transizioni egemoniche passate erano state caratterizzate da un lungo periodo di caos
sistemico, tale caos – e l’immensa sofferenza umana che ne risulta –
non fosse una caratteristica inevitabile delle transizioni egemoniche.
Il fattore chiave – abbiamo sostenuto – sarebbe stato il comportamento della potenza egemonica declinante. Una transizione non catastrofica verso un nuovo ordine mondiale sarebbe stata possibile solo se
gli Stati uniti avessero scelto di riconoscere e accettare il declino del proprio ruolo nel mondo. Certo, considerando le transizioni egemoniche
passate, sono pochi i precedenti storici di declini accolti con serenità. E,
per di più, la lunga espansione interna e lo spettacolare boom della Borsa di New York negli anni Novanta – combinati con la posizione militare degli Stati uniti quale unica superpotenza mondiale – hanno contribuito, in qualche modo, ad aggravare la cecità sulle fondamenta precarie del potere mondiale degli Stati uniti.
A seguito degli attacchi dell’11 settembre 2001, la leadership Usa,
invece di ritrovare la vista, è arrivata fino allo smarrimento completo di
tutti i sensi. L’amministrazione Bush ha lanciato un nuovo aggressivo
programma imperiale – il progetto neoconservatore per un “Nuovo
secolo americano” – che tentava di restaurare la supremazia globale
degli Stati uniti attraverso l’uso senza limiti della forza militare in tutto
il mondo. L’invasione dell’Iraq nel 2003 doveva essere il primo passo
per ristabilire il dominio globale degli Usa. Il piano era installare un
governo amico in Iraq, fare lo stesso in Iran, consolidare la presenza
strategica Usa in Asia centrale e controllare i flussi petroliferi globali,
dai quali dipendono i due principali concorrenti degli Stati uniti: Europa e Asia orientale. La campagna “colpisci e terrorizza” (shock and
awe) che ha aperto la guerra in Iraq nel marzo 2003 ha brutalmente
annunciato che un’“accettazione accomodante del proprio declino”
non era nell’agenda statunitense.
172
Con il 2005, il progetto imperiale neoconservatore si è rivelato un
completo fallimento, sulla base del quale si possono trarre le seguenti
conclusioni61. Primo, la guerra in Iraq, anziché rappresentare per gli Stati uniti un modo per liberarsi dalla “sindrome del Vietnam”, ha confermato le lezioni della sconfitta in Vietnam. Il fatto che gli Stati uniti controllino un apparato militare con una capacità di distruzione senza precedenti nella storia significa poco o nulla in termini di capacità d’imporre sul terreno la propria volontà agli altri popoli. Il fallimento in Iraq –
in condizioni più favorevoli rispetto al Vietnam – ha minato il potere
che gli Stati uniti potevano trarre da una credibile minaccia di uso della
forza, in quanto unica superpotenza militare al mondo.
Secondo, la guerra ha ulteriormente indebolito la posizione degli
Stati uniti e del dollaro all’interno dell’economia politica globale, aggravandone la posizione di maggior debitore mondiale e consolidando lo
spostamento del centro di accumulazione del capitale (e delle riserve
finanziarie) in Asia orientale – in particolare in Cina. All’inizio del 2001
era ancora controverso sostenere che la forza militare Usa fosse in realtà
una risorsa insufficiente per il potere globale e che la fragilità finanziaria
mostrasse che gli Stati uniti non avevano più le risorse necessarie per
risolvere i problemi a livello di sistema (cioè, per agire come Stato egemone nel senso gramsciano del termine), né per imporre la propria
volontà attraverso l’uso della forza. Dal 2006 queste affermazioni non
sono più controverse.
Se il 2003 segna il crollo dell’egemonia mondiale statunitense, rappresenta anche l’inizio di un lungo periodo di caos sistemico? La prima
precondizione che avevamo indicato affinché fosse evitato un lungo
periodo di caos sistemico era che gli Stati uniti, invece di promuovere
aggressivamente un secondo “secolo americano”, accettassero di accompagnare il proprio declino. La sconfitta in Iraq ha screditato la strategia
del “Progetto per un nuovo secolo americano” che passava per l’avventura unilaterale in Asia occidentale. Il progetto Usa portava al caos sistemico, e la sua sconfitta è una buona notizia. Resta però da vedere, in primo luogo, quanti danni saranno fatti ancora prima che questa sconfitta
sia pienamente accettata dagli Stati uniti e, in secondo luogo, se la sconfitta del progetto neoconservatore è il preludio a un riorientamento
degli Stati uniti verso l’accettazione del proprio declino o, al contrario,
porterà a nuovi sforzi per un dominio meno unilaterale che nel progetto
neoconservatore (mobilitando, ad esempio, la Nato e le Nazioni Unite)
e/o a iniziative che prendono più direttamente di mira il paese che il
Pentagono considera come principale avversario strategico – la Cina.
173
La seconda condizione che noi sostenevamo fosse necessaria per
evitare un lungo e profondo caos sistemico era l’emergere di una nuova
leadership globale nei principali centri dell’espansione economica
dell’Asia orientale – una leadership capace e disposta ad assumere il
compito di fornire soluzioni sistemiche ai problemi sistemici lasciati irrisolti dall’egemonia statunitense. Scrivendo all’inizio del 2001 notavamo,
nelle élite dell’Asia orientale, una scarsa capacità, visione e volontà di
assumere questo ruolo. Da allora, però, la Cina è emersa come un’alternativa storica sempre più credibile all’egemonia Usa in Asia orientale e
altrove. Con gli Stati uniti impantanati in Iraq, la Cina ha continuato a
crescere a ritmi elevati, accumulando riserve finanziarie e amicizie tanto
rapidamente quanto gli Stati uniti le stavano perdendo.
L’attuale crescita della Cina conferisce un significato completamente diverso all’espansione dell’Asia orientale. La Cina non è uno Stato vassallo degli Stati uniti, come il Giappone, la Corea del Sud o
Taiwan, né una semplice città-Stato come Singapore o Hong Kong.
Anche se gli sbocchi della sua industria manifatturiera dipendono ancora fortemente dalle esportazioni sul mercato statunitense, la ricchezza e
il potere degli Stati uniti dipendono a loro volta, in eguale se non maggior misura, dall’importazione di merci cinesi a basso prezzo e
dall’acquisto cinese di titoli del Tesoro Usa. Ma ancora più importante è
il fatto che la Cina abbia rimpiazzato gli Stati uniti nel ruolo di guida
dell’espansione economica e commerciale in Asia orientale e oltre.
Il crescente peso economico della Cina nell’economia politica globale non costituisce, di per sé, una fonte di ottimismo rispetto alla possibilità che emerga un nuovo progetto egemonico in grado di limitare il
caos sistemico globale e condurre a un ordine mondiale più giusto ed
equo. Se da un lato segnala l’emergere di una capacità di leadership a
livello mondiale, dall’altro non dice nulla sulla presenza di un nuovo
progetto egemonico – la possibile apertura di traiettorie di sviluppo
capaci di risolvere i problemi del sistema. Nelle politiche del governo
cinese di Jiang Zemin, dal 1989 al 2002, si è visto assai poco che facesse
pensare a una visione egemonica – si è trattato di un periodo segnato
dalla corruzione generalizzata dei funzionari, dalla distruzione
dell’ambiente, da disuguaglianze crescenti tra regioni e classi sociali, e
da un’esaltazione dell’avidità come punto fermo delle politiche del Partito comunista cinese.
In Cina, queste politiche hanno provocato forti agitazioni sociali a
partire dalla metà degli anni Novanta, quando il governo, in nome
dell’efficienza, incoraggiava i licenziamenti nelle imprese di Stato. Nei
174
primi anni del ventunesimo secolo, il governo cinese ha dovuto affrontare proteste di massa che comprendevano occupazioni delle fabbriche da
parte degli operai licenziati da imprese statali, scioperi e petizioni da
parte dei contadini-operai che lavorano nei settori in crescita legati alle
esportazioni, e diffuse proteste dei contadini sul controllo delle terre, le
tasse e le conseguenze sulla salute dell’inquinamento ambientale.
Abbiamo sostenuto che, nelle passate transizioni egemoniche, i
gruppi dominanti hanno iniziato a fare i conti con l’opportunità di definire una nuova visione egemonica solo quando sono stati messi sotto
pressione da movimenti popolari di protesta e autodifesa (all’interno del
paese e a livello globale). Possiamo osservare che, nel caso della Cina a
livello nazionale, un’intensa pressione popolare dal basso ha prodotto un
forte cambiamento nella retorica del governo (e in alcune sue politiche),
sotto la leadership di Hu Jintao e Wen Jiabao. Lo spostamento verso una
maggiore attenzione alla giustizia sociale, al benessere, all’uguaglianza e
alla protezione dell’ambiente, anziché alla crescita a tutti i costi, è un
segno di speranza. La chiave per determinare quanto lungo e profondo
sarà il periodo di caos sistemico che dobbiamo aspettarci dipenderà dalla
misura in cui la leadership cinese sarà in grado di recepire i segnali dei
movimenti sociali in Cina e della miriade di manifestazioni in tutto il
mondo dei movimenti per una giustizia sociale globale, in modo da definire una nuova visione egemonica che apra una traiettoria di sviluppo
radicalmente nuova per la Cina e per il mondo. Non è un compito da
poco, e gli ostacoli – tecnologici, politici e di “immaginazione” – sono
alti; ciò è ulteriormente complicato dal problema di come gestire le tendenze militariste del potere egemonico in declino.
Nella transizione dall’egemonia britannica a quella statunitense, il
movimento operaio e gli altri movimenti di protesta non sono riusciti a
fermare la deriva verso un lungo periodo di guerra e caos sistemico. Se i
movimenti attuali saranno forti abbastanza per contenere efficacemente
la deriva verso il caos sistemico resta una questione aperta. Le manifestazioni di massa contro la guerra in Iraq, svoltesi in tutto il mondo prima del suo inizio nel 2003 possono essere interpretate come un intuitivo
riconoscimento popolare in tutto il mondo (Stati uniti inclusi) che il
progetto imperiale Usa avrebbe portato al caos globale. Queste proteste
di massa – le più grandi manifestazioni di massa nella storia mondiale –
hanno mostrato la capacità dei movimenti popolari di prevedere il caos
e, in questo modo, potenzialmente contenerlo. Tuttavia, come sappiamo, le manifestazioni non sono riuscite a evitare la guerra, anche se han-
175
no costretto gli Stati uniti a farla con molti meno alleati e risorse – facendo sì che la sconfitta fosse più rapida e aprendo la possibilità che gli Stati uniti “accettino il declino” più rapidamente come la via più ragionevole da seguire. Ma considerando le ambiguità dei rapporti tra le spinte
alla guerra e i diritti dei cittadini e dei lavoratori, non possiamo essere
certi che le forze contrarie alla guerra avranno, nei primi anni del ventunesimo secolo, più successo che all’inizio del ventesimo secolo62. Se assisteremo a un periodo di lungo e profondo caos sistemico, o a una transizione relativamente agevole verso un mondo più pacifico, giusto ed
equo, resta una questione decisamente aperta, la cui soluzione è affidata
alla nostra azione collettiva.
NOTE
*
Capitalism and world (dis)order, in “Review of International Studies”, 27 (2001), pp.
257-279. Traduzione dall’inglese di Giulio Azzolini.
1
ERIC J. HOBSBAWM, Il secolo breve. 1914-1991, BUR, Milano 2006, p. 645.
Ivi, p. 23.
3
Ibid.
4
IMMANUEL WALLERSTEIN, Dopo il liberalismo, Jaca Book, Milano 1999, pp. 11, 249;
Immanuel Wallerstein, La crisi come transizione, in G. ARRIGHI ET AL., Dinamiche della crisi
mondiale, a cura di R. Parboni, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 118.
5
James N. Rosenau, Turbulence in World Politics: A Theory of Change and Continuity,
Princeton University Press, Princeton 1990, p. 10.
6
GIOVANNI ARRIGHI, Il lungo XX secolo, Net, Milano 2003; G IOVANNI ARRIGHI,
BEVERLY J. SILVER ET AL., Caos e governo del mondo, Bruno Mondadori, Milano 2006; GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER, Hegemonic Transitions: A Rejoinder, in “Political Power
and Social Theory”, 13 (1999), pp. 307–315.
7
Si tratta di un fatto ampiamente constatato: cfr., fra gli altri, DAVID GORDON, The
Global Economy: New Edifice or Crumbling Foundations?, in “New Left Review”, 168
(1988), pp. 24–65; ROBERT ZEVIN, Our World Financial Market is More Open? If So, Why and
With What Effect?, in T. BANURI and J.B. SCHOR (ed. by), Financial Openness and National
Autonomy: Opportunity and Constraints, Oxford University Press, New York 1992; DAVID
HARVEY, Globalization in Question, in “Rethinking Marxism”, 8: 4 (1995), pp. 1-17; PAUL
HIRST, GRAHAME THOMPSON, La globalizzazione dell’economia, Editori Riuniti, Roma 1997.
8
Qui occorre chiarificare la portata della nostra analisi. Gran parte delle spiegazioni
dello sviluppo capitalistico si è fondata su dati e quadri concettuali riferiti implicitamente o
esplicitamente alle dinamiche di tipo nazionale. È un modo utile e perfettamente legittimo
per analizzare lo sviluppo capitalistico, a patto che non si confonda la dinamica dello svilup2
176
po capitalistico per come questo si dispiega nelle realtà nazionali (o sub-nazionali) con la
dinamica dello sviluppo capitalistico per come questo si dispiega in un mondo che si articola
attraverso queste varie e numerose realtà. Sebbene queste due dinamiche si influenzino reciprocamente, ciascuna ha la sua logica e deve essere trattata in modo autonomo. La premessa
su cui ci siamo basati in questo articolo è che la dinamica mondiale dello sviluppo capitalistico è qualcosa di più e di differente dalla “somma” delle dinamiche nazionali. Ma ciò può
essere colto solo se assumiamo come unità d’analisi non gli Stati individuali, ma il sistema
degli Stati in cui si inscrive il capitalismo mondiale.
9
JOHN HOBSON, L’imperialismo, ISEDI, Milano 1974 (1902); RUDOLF HILFERDING, Il
capitale finanziario, Feltrinelli, Milano 1961 (1910); NIKOLAI BUKHARIN, L’imperialismo e
l’accumulazione del capitale, Laterza, Bari 1972 (1915); VLADIMIR I. LENIN, L’imperialismo
fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, Roma 1964 (1916).
10
Cfr., fra gli altri, ANDREW WALTEr, World Power and World Money: The Role of
Hegemony and International Monetary Order, St. Martin’s Press, New York 1991; ERIK R.
PETERSON, Surrendering to Markets, in “The Washington Quarterly”, 17: 4 (1995), pp. 10315; MANUEL CASTELLS, La nascita della società in rete, UBE, Milano 2008.
11
FERNAND BRAUDEL, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII). I
tempi del mondo, Einaudi, Torino 1982, pp. 637-640; corsivo nostro.
12
Ivi, p. 384. La traduzione è modificata su indicazione di IMMANUEL WALLERSTEIN, La
scienza sociale: come sbarazzarsene. I limiti dei paradigmi ottocenteschi, Il Saggiatore, Milano
1995, pp. 228-229.
13
FERNAND BRAUDEL, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII). I
tempi del mondo, cit., pp. 146, 155, 249-252.
14
Ivi, p. 235; corsivo nostro.
15
Ivi, pp. 434-435.
16
IMMANUEL WALLERSTEIN, The Politics of the World-Economy: The States, the Movements and the Civilizations, Cambridge University Press, Cambridge 1984, in particolare cap. 4.
17
MICHAEL MANN, The Sources of Social Power, vol. I: A History of Power from the
Beginning to AD 1760, Cambridge University Press, Cambridge 1986, p. 28; cfr. anche PETER
TAYLOR, Ten Years that Shook the World? The United Provinces as First Hegemonic State, in
“Sociological Perspectives”, 37: 1 (1994), p. 27.
18
GIOVANNI ARRIGHI, Il lungo XX secolo, cit.
19
GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER, Caos e governo del mondo, cit.
20
GIOVANNI ARRIGHI, Il lungo XX secolo, cit., cap. 4; GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J.
SILVER ET AL., Caos e governo del mondo, cit., pp. 243-250.
21
ROBERT POLLIN, Contemporary Economic Stagnation in World Historical Perspective,
in “New Left Review”, 219 (1996), pp. 115-116.
22
GIOVANNI ARRIGHI, Il lungo XX secolo, cit., p. 298.
23
MAX WEBER, Economia e società, Comunità, Milano 1968, p. 357; ID., Storia economica, Donzelli, Roma 1993, p. 294.
24
GIOVANNI ARRIGHI, Il lungo XX secolo, cit.; GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET
AL, Caos e governo del mondo, cit., in particolare cap. 3.
25
KARL MARX, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1970, Libro primo, p. 171.
26
Ivi, p. 215.
27
ANTHONY GIDDENS, The Nation-State and Violence, University of California Press,
Berkeley 1987.
28
GIOVANNI ARRIGHI, Il lungo XX secolo, cit., pp. 151-179, 194-202.
29
Ivi, pp. 60-73, 172-202.
30
Ivi, pp. 68-87, 232-314.
31
Ivi, pp. 87-107 e cap. 4.
177
32
Ivi, pp. 86-87, 101-104, 319 e sgg.
Ivi, pp. 284-285.
34
KARL MARX, Il capitale, cit., Libro terzo, p. 306; corsivo nostro.
35
GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET. AL., Caos e governo del mondo, cit., pp.
316-319.
36
Ibid.
37
Per modelli più specifici di transizione egemonica, considerati da differenti angolature, cfr. GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET. AL., Caos e governo del mondo, cit., pp.
75, 141, 208.
38
Sulla distinzione fra questi due tipi di leadership e sulla loro relazione con il concetto di “egemonia” cfr. Caos e governo del mondo (pp. 31-33).
39
EMILE DURKHEIM, Le regole del metodo sociologico, Comunità, Milano 1963, pp.
108-109; ID., La divisione del lavoro sociale, Comunità, Milano 1962, p. 258
40
KENNETH WALTZ, Teoria della politica internazionale, il Mulino, Bologna 1987, p.
209.
41
GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET. AL., Caos e governo del mondo, cit., capp.
1, 3, e conclusioni.
42
FRED HALLIDAY, The Making of the Second Cold War, Verso, London 1986.
43
Citato in DAVID HARVEY, Globalization in Question, cit., pp. 8, 12.
44
GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER eET. AL., Caos e governo del mondo, cit., cap.
3.
45
Calcolato dalla Banca Mondiale in World Development Indicators, CD ROM, World
Bank, Washington 2000, e da Republica Popolare Cinese in National Income in Taiwan Area
of the Republic of China, Bureau of Statistics, DGBAS, Executive Yuan, Taipei, vari anni.
‘Nord America’ si compone di Stati uniti e Canada, ‘Asia oriental di Cina, Hong Kong,
Indonesia, Giappone, Malesia, Filippine, Singapore, Corea del Sud, Taiwan e Thailandia.
46
EAMONN FINGLETON, Quibble All You Like, Japan Still Looks Like a Strong Winner,
in “International Herald Tribune”, 2 Gennaio 2001, p. 6; cfr. anche EAMONN FINGLETON,
Blindside: Why Japan Is Still on Track to Overtake the US by the Year 2000, Houghton Mifflin, Boston 1995.
47
Il rovesciamento è ancora più grande di quello indicato da Fingleton se prendiamo
in considerazione il rapido incremento dei patrimoni esteri dei paesi del “circolo della Cina”,
poiché negli anni Novanta tutti i suoi membri hanno avuto avanzi dei conti correnti elevati e
crescenti.
48
GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET. AL., Caos e governo del mondo, cit., pp. 8586, 110-111, 319.
49
Sul Giappone come Stato semi-sovrano si veda BRUCE CUMINGS, Japan and Northeast Asia into the Twenty-first century, in P. J. KATZENSTEIN, T. SHIRAISHI (ed. by), Network
Power: Japan and Asia, Cornell University Press, Ithaca 1997, p. 155.
50
GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET. AL., Caos e governo del mondo, cit., pp.
102-112, 306-314, 319-323, 333-337; GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER, ‘Hegemonic
Transitions’, cit., pp. 310–311.
51
GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET. AL., Caos e governo del mondo, cit., pp.
177-204.
52
Ivi, pp. 204-250.
53
IMMANUEL WALLERSTEIN, ‘Response: Declining States, Declining Rights?’, in “International Labor and Working-Class History”, 47 (1995), p. 25.
54
GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET. AL., Caos e governo del mondo, cit., pp.
328-333.
55
SAMUEL HUNTINGTON, The Clash of Civilizations?, in “Foreign Affairs”, 73: 3
33
178
(1993), pp. 22–49. Per le prime risposte cfr. SAMUEL HUNTINGTON ET. AL., The Clash of Civilizations? The Debate, Council on Foreign Relations, New York 1993. Per una valutazione critica del dibattito, si veda HAYWARD ALKER, If Not Huntington’s “Civilizations”, Then Whose?,
in “Review (Fernand Braudel Center)”, 18: 4 (1995), pp. 33–62.
56
GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET. AL., Caos e governo del mondo, cit., pp.
253-306.
57
Sul sistema interstatale a base cinese cfr. in particolare TAKESHI HAMASHITA, The
Intra-Regional System in East Asia in Modern Times, in P. J. KATZENSTEIN, T. SHIRAISHI (ed.
by), Network Power: Japan and Asia, cit., pp. 113-135 e SATO IKEDA, The History of the Capitalist World-System vs. The History of East-Southeast Asia, in “Review (Fernand Braudel Center)”, 19: 1 (1996), pp. 49–76.
58
GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER et al., Caos e governo del mondo, cit., pp. 306314.
59
DAVID CALLEO, Beyond American Hegemony: The Future of the Western Alliance,
Basic Books, New York 1987, p. 142.
60
Poscritto, scritto nel 2006, pubblicato nelle traduzioni brasiliana e francese di Capitalism and world (dis)order.
61
Sulle origini e lo sviluppo del progetto imperiale neoconservatore cfr. GIOVANNI
ARRIGHI, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano 2008,
parte terza.
62
Sul ruolo del lavoro e degli altri movimenti sociali nel fermare (o no) la tendenza
verso la guerra e il militarismo cfr. BEVERLY J. SILVER, Forze del lavoro. Movimenti operai e
globalizzazione dal 1870, Bruno Mondadori, Milano 2008, in particolare i capitoli 1, 4 e 5, e
BEVERLY J. SILVER, Labor, War and World Politics: Contemporary Dynamics in World-Historical Perspective, in BERTHOLD UNFRIED ET AL., Labour and Social Movements in a Globalising
World System, Akademische Verlagsanstalt, Vienna, 2004, pp. 19-38.
179
Capitolo 5
Dopo il neoliberismo. Il nuovo ruolo del Sud del mondo*
di Giovanni Arrighi e Lu Zhang
Questo capitolo analizza quel che si può chiamare la “strana morte” del Washington consensus, con particolare riferimento al rafforzamento economico della Cina e a un cambiamento fondamentale nelle
relazioni tra il Nord e il Sud del mondo1. Ciò che è “strano” riguardo
questa morte è che essa sia avvenuta in un momento in cui le dottrine
neoliberiste promosse dal consensus godono di un’autorità apparentemente incontrastata. Proprio per questa ragione, questa morte è stata
poco notata, e le sue cause e conseguenze rimangono avvolte in una
gran confusione.
Parte della confusione sorge dalla persistente influenza sulla politica
mondiale di vari aspetti del defunto consensus. Come notato da Walden
Bello, “il neoliberismo [rimane], semplicemente per forza d’inerzia, il
modello standard per molti economisti e tecnocrati che... non hanno più
fiducia in esso”. Inoltre, nuove dottrine stanno emergendo, principalmente nel Nord del mondo, che tentano di rianimare aspetti del vecchio consensus in forme più realistiche ed accettabili2. La nostra analisi non esclude né la residuale influenza del neoliberismo, come modello “standard”,
né la possibilità di una sua rinascita in forme nuove. Semplicemente essa
evidenzia che la contro-rivoluzione neoliberista dei primi anni Ottanta,
della quale il Washington consensus è stato parte essenziale, ha fallito,
creando le condizioni per un’inversione delle relazioni di potere tra il
Nord e il Sud del mondo che sta già cambiando sia la politica mondiale
che la teoria e la pratica dello sviluppo nazionale.
Inizieremo con lo schematizzare le origini e gli obiettivi della svolta, o contro-rivoluzione, neoliberista del 1979-82 nelle politiche e
nell’ideologia statunitense. Dopo aver sottolineato l’impatto della svolta
neoliberista nelle relazioni Nord-Sud, focalizzeremo l’attenzione
sull’ascesa economica della Cina, quale sua conseguenza imprevista più
importante, profondamente radicata nelle tradizioni cinesi, compresa
quella rivoluzionaria dell’era di Mao. Concluderemo indicando l’impatto dell’ascesa cinese sulle relazioni Nord-Sud, con particolare riferimento al possibile emergere di una nuova alleanza fra i paesi del Sud su fondamenta più solide di quella stabilita a Bandung negli anni Cinquanta, e
181
considerando le sfide e opportunità che l’attuale crisi economica crea
per la Cina e altri paesi in via di sviluppo.
1. IL WASHINGTON CONSENSUS E LA CONTRO-RIVOLUZIONE NEOLIBERISTA
La svolta neoliberista iniziò nell’ultimo anno dell’amministrazione Carter, quando una seria crisi di fiducia nel dollaro statunitense
indusse Paul Volcker, allora presidente della Federal Reserve, a passare
a politiche monetarie fortemente restrittive, dopo quelle molto permissive degli anni Settanta. La svolta si è materializzata pienamente
soltanto quando l’amministrazione Reagan, traendo ispirazione ideologica dallo slogan di Margaret Thatcher “Non c’è alternativa” (There is
no alternative), dichiarò obsolete tutte le varianti del modello sociale
keynesiano, e procedette a liquidarle ravvivando la fede d’inizio ventesimo secolo nella “magia” di presunti mercati capaci di regolarsi da
sé3. Tale liquidazione avvenne attraverso una drastica contrazione
dell’offerta di moneta, un altrettanto drastico incremento dei tassi di
interesse, ampie riduzioni della tassazione sulle imprese, l’eliminazione
dei controlli sui movimenti di capitale, e un improvviso cambiamento
delle politiche statunitensi nei confronti del Terzo mondo, dalla promozione del “progetto sviluppo”, lanciato nei tardi anni Quaranta e
primi Cinquanta, a quella dell’agenda neoliberista, che più tardi
divenne nota come Washington consensus. Direttamente o attraverso il
Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale, il governo
statunitense ritirò il suo appoggio alle strategie “stataliste” e “autocentrate” (come l’industrializzazione per sostituzione delle importazioni) sostenute dalla maggior parte delle teorie dello sviluppo dagli
anni Cinquanta e Sessanta, iniziando a promuovere “terapie shock”
favorevoli al capitale, miranti a trasferire la proprietà di attività economiche dal pubblico al privato a prezzi stracciati e a liberalizzare il
commercio estero e i movimenti del capitale4.
Il cambiamento è stato comunemente caratterizzato come una
“contro-rivoluzione” nel pensiero economico e nell’ideologia politica5.
La svolta neoliberista è stata contro-rivoluzionaria sia rispetto al lavoro che al Terzo mondo. Come retrospettivamente ammesso pubblicamente da Alan Budd, allora consigliere della Thatcher, “ciò che fu
costruita era, in termini marxisti, una crisi del capitalismo che ha
ricreato un esercito industriale di riserva, consentendo ai capitalisti di
ottenere, da allora in poi, alti profitti”6. Nel caso del governo degli
182
Stati Uniti, tuttavia, questo indebolimento del lavoro, più che un fine
in sé, era un mezzo per invertire il declino relativo della ricchezza e del
potere degli Stati uniti che aveva preso slancio con la sconfitta in Vietnam ed era culminato alla fine degli anni Settanta con la rivoluzione
iraniana, l’invasione sovietica dell’Afghanistan e la svalutazione del
dollaro.
Benché il Washington consensus fosse prima di tutto una strategia
volta a ristabilire il potere degli Stai Uniti, è stato presentato come una
nuova strategia di sviluppo. Prendendo per buona questa pretesa, le
discussioni sull’impatto della svolta neoliberista si sono generalmente
focalizzate sulle tendenze, dopo il 1980, nella disuguaglianza del reddito
a livello mondiale, misurata da indicatori sintetici come l’indice di Gini
o di Theil. Malgrado sia emerso un accordo abbastanza generale sul fatto che la disuguaglianza interna ai singoli paesi sia aumentata, le tendenze a proposito della disuguaglianza tra paesi rimangono oggetto di controversie. Il consenso, comunque, è che:
i miglioramenti nella disuguaglianza di reddito e nella povertà mondiale [dal 1980] non sono stati distribuiti ampiamente, ma sono dipesi
fortemente, come la crescita complessiva del reddito mondiale,
dall’impressionante performance della Cina e dalla considerevole crescita dell’India. Escludendo la Cina dal calcolo, la disuguaglianza
aumenta secondo la maggior parte delle misure. Escludendo anche
l’India, non soltanto c’è un deterioramento più marcato nella distribuzione del reddito mondiale, ma l’incidenza della povertà rimane
all’incirca costante7.
In breve, riassume Albert Berry, “si può considerare che [la Cina
e l’India] abbiano salvato il mondo da una pessima performance complessiva nel corso dei [due] ultimi decenni”8. I dati forniti da Berry
mostrano anche che la modesta diminuzione nell’indice di Gini tra il
1980 e il 2000 non ha influenzato negativamente il 10% più ricco della
popolazione mondiale (che, in realtà, ha ulteriormente migliorato la
propria posizione relativa), ma dipende esclusivamente da una redistribuzione dai paesi a medio reddito verso quelli a reddito più alto e
più basso9.
183
TABELLA 1: PRODOTTO NAZIONALE LORDO PRO-CAPITE COME PERCENTUALE DI QUELLO
DEL PRIMO MONDO
Fonte: Calcoli basati sui dati della Banca mondiale (WDI – 2001-2006)
Pnl in dollari Usa a valori costanti del 1995 per il periodo 1960-1995, Pnl in dollari
Usa correnti secondo il metodo Atlas per il 2000 e il 2005.
*Paesi inclusi nel Terzo mondo:
Africa sub-sahariana: Benin, Botswana, Burkina Faso, Burundi, Camerun, Repubblica
Centrafricana, Ciad, Zaire, Congo, Costa d’Avorio, Gabon, Ghana, Kenya, Lesotho, Madagascar, Malawi, Mauritania, Mauritius, Niger, Nigeria, Ruanda, Senegal, Sudafrica, Tanzania,
Togo, Uganda, Zambia, Zimbabwe
America latina: Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Costarica, Repubblica
Dominicana Ecuador, El Salvador, Guatemala, Haiti, Honduras, Giamaica, Mexico, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, Trinidad e Tobago, Uruguay, Venezuela
Asia occidentale e Africa del nord: Algeria, Egitto, Marocco, Arabia Saudita (1971
per il 1970), Sudan, Siria, Tunisia (1961 per il 1960), Turchia
Asia del sud: Bangladesh, India, Nepal, Pakistan, Sri Lanka
Asia orientale: Cina, Hong Kong, Indonesia, Corea del Sud, Malaysia, Filippine, Singapore, Taiwan (Taiwan National Statistics), Thailandia
**Paesi inclusi nel Primo mondo:
America del nord: Canada, Stati uniti
Europa occidentale: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia, Svizzera, Regno Unito
Europa meridionale: Grecia, Irlanda, Israele, Italia, Portogallo, Spagna
Australia e Nuova Zelanda
Giappone
184
***Paesi inclusi nell’Europa orientale ed ex-Urss:
Europa orientale: Albania, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia,
Romania, Repubblica Slovacca, Slovenia
Ex-Urss: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Estonia, Georgia, Kazakistan, Kirghizistan, Lettonia, Lituania, Moldova, Federazione Russa, Tagikistan, Turkmenistan, Ucraina,
Uzbekistan
La tabella 1 fornisce maggiori dettagli su questa redistribuzione.
Come mostra la tabella, nella misura in cui si guardi al divario di reddito
complessivo tra Nord e Sud, la contro-rivoluzione neoliberista ha fatto
poca differenza, portando inizialmente a una piccola diminuzione, e poi a
un lieve incremento nel reddito pro-capite del Terzo mondo rispetto a
quello del Primo. La contro-rivoluzione ha avuto invece grossi effetti per
regioni specifiche del Nord come del Sud. Per i nostri scopi, è sufficiente
focalizzare l’attenzione su tre tendenze principali. Primo, negli anni
Novanta gli Stati uniti sono riusciti a invertire il loro declino relativo degli
anni Sessanta e Settanta, ma l’inversione è stata interamente compensata da
un deterioramento della posizione relativa dell’Europa occidentale e meridionale e del Giappone. Secondo, negli anni Ottanta l’Africa sub-sahariana
e l’America latina hanno subito entrambe un ampio declino relativo, dal
quale non si sono più riprese, seguito da un egualmente significativo declino relativo della dissolta Unione Sovietica negli anni Novanta. Terzo, i guadagni più grandi sono stati quelli dell’Asia orientale e del Giappone fino al
1990 e di India e Cina negli anni Ottanta e Novanta, con l’avanzata della
Cina che è stata assai più grande di quella dell’India10.
Queste tendenze sono state largamente interpretate come il risultato della più stretta integrazione di Cina, India ed ex-Unione Sovietica
nell’economia globale. Richard Freeman, per esempio, ha sostenuto che
tale maggiore integrazione abbia raddoppiato la forza lavoro che produce per il mercato mondiale senza incrementare l’offerta di capitale. Poiché il doppio dei lavoratori compete per lavorare con lo stesso capitale,
non soltanto i rapporti di forza si sono spostati verso quest’ultimo, ma
sono anche peggiorate le prospettive per la crescita economica dei paesi
a medio reddito che erano già integrati nell’economia globale.
I paesi che avevano sperato di crescere esportando beni a bassi salari devono ora guardare a nuovi settori in cui avanzare, se vogliono farcela nell’economia globale... Messico, Colombia o Sudafrica non possono competere
con la Cina nella manifattura finché i salari cinesi sono un quarto dei loro –
specialmente perché il lavoro cinese è grosso modo produttivo quanto il
loro11.
185
186
FIGURA 1. SALDO DEI CONTI CORRENTI, 1980-2005
miliardi di dollari Usa a prezzi correnti
400
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
2005
x
2000
x
1995
0 x x
1990
200
1985
Se vera, questa tesi fornirebbe una spiegazione molto elegante
della doppia redistribuzione di reddito sopra osservata: dai gruppi a
basso reddito a quelli ad alto reddito all’interno dei paesi e, tra paesi,
da quelli a medio reddito a quelli a basso e alto reddito. L’affermazione, tuttavia, non regge all’esame empirico perché, prima e dopo l’adozione della dottrina neoliberista da parte degli Stati uniti, la caratteristica predominante dell’economia globale è stata un’ampia e crescente
offerta di capitale eccedente, tanto quanto (se non di più) l’illimitata
offerta di lavoro eccedente. Mentre negli anni Settanta questa crescente
offerta di capitale eccedente fluiva anzitutto dai paesi ad alto reddito a
quelli a basso e soprattutto medio reddito, comprimendo i profitti anziché i salari, la svolta neoliberista ha spostato la pressione al ribasso dai
profitti ai salari, e, soprattutto, ha prodotto un massiccio ri-orientamento dei flussi di capitale verso gli Stati uniti. Questo ri-orientamento ha
reso il neoliberismo una profezia che si auto-avvera: che esistesse o
meno un’alternativa prima del 1980 alla competizione selvaggia per
assicurarsi capitali sempre più mobili, è diventata una questione irrilevante una volta che l’economia più grande e ricca ha spinto tutto il
mondo a fare concessioni sempre più sfrenate al capitale. Questo è stato il caso specialmente dei paesi del Terzo e Secondo mondo (prevalentemente a medio reddito) che, come risultato dei cambiamenti nelle
politiche Usa, hanno subito una netta contrazione sia nella domanda
per le loro risorse naturali, sia nella disponibilità di credito e investimenti a condizioni favorevoli.
La misura del ri-orientamento dei flussi di capitale può essere colta
a partire dal cambiamento nei conti correnti della bilancia dei pagamenti Usa. Come mostra la figura 1, per gli Stati uniti la presunta espansione
dell’offerta mondiale di lavoro a basso costo è stata accompagnata da
un’offerta di capitale virtualmente illimitata da parte del resto del mondo. Inoltre, come mostra la figura 2, negli anni Ottanta e specialmente
dopo la crisi dell’Asia orientale del 1997-98, quest’offerta illimitata di
capitale è venuta dai paesi del Terzo e Secondo mondo. Qualche che sia
la ragione dello spostamento nell’equilibrio del potere tra lavoro e capitale negli Stati uniti – dove lo spostamento è giunto prima ed è stato più
marcato che in altri paesi ricchi – esso non può essere attribuito a
un’espansione dell’offerta mondiale di lavoro a basso costo senza una
parallela espansione proporzionale dell’offerta globale di capitale, come
Freeman, tra gli altri, ritiene.
x
- 200
x
x
x
x
- 400
x
x
x
- 600
x
x
- 800
x
- 1000
Cina
Giappone
x
Stati Uniti
Germania
Fonte: International Monetary Fund, World Economic Outlook Database, Settembre 2006.
I paesi a basso e medio reddito hanno fronteggiato una situazione
completamente differente. In questi paesi, il ri-orientamento dei flussi
globali del capitale verso gli Stati uniti ha trasformato “l’inondazione” di
capitale sperimentata negli anni Settanta nell’improvvisa “siccità” degli
Ottanta. Segnalata in primo luogo dall’insolvenza del Messico nel 1982,
tale siccità è stata probabilmente il fattore più rilevante nel favorire sia
l’escalation nella competizione tra gli Stati per il capitale, sia l’ampia
divergenza tra le regioni del Sud mostrata nella tabella 1. Alcune regioni
(l’Asia orientale in particolare) sono riuscite a trarre vantaggio dall’incremento della domanda statunitense di prodotti industriali a basso costo
che è derivata dalla liberalizzazione del commercio e dal crescente deficit
nella bilancia commerciale degli Usa. Queste regioni hanno beneficiato
del ri-orientamento dei flussi di capitale verso gli Stati uniti, perché il
miglioramento nella loro bilancia dei pagamenti ha ridotto il loro bisogno di competere con gli Stati uniti sui mercati finanziari mondiali e, di
fatto, ha trasformato alcuni di loro nei maggiori creditori degli Usa. Altre
regioni (soprattutto l’America latina e l’Africa sub-sahariana), al contrario, non hanno avuto successo nella competizione per una porzione della
187
FIGURA 2: SALDO
DEI CONTI CORRENTI COME PERCENTUALE DEL
PRODOTTO
INTERNO
LORDO MONDIALE
1.5
1
% del Pil mondiale
0.5
0
- 0.5
-1
- 1.5
-2
2006
2005
2004
2003
2002
2001
2000
1999
Resto del Mondo
1998
1997
1996
1995
1994
1993
1992
1991
1990
1989
1988
1987
1986
1985
1984
1983
1982
1981
1980
Nord
Fonte: International Monetari Fund, World Economic Outlook database, Settembre 2006.
domanda nordamericana e sono incorse in difficoltà nella bilancia dei
pagamenti che le hanno messe nella posizione, senza speranza, di dover
competere direttamente con gli Stati uniti sui mercati finanziari mondiali.
Le imprese e le agenzie governative statunitensi hanno potuto trarre vantaggio da entrambi questi esiti riguardanti il Sud: sono stati in grado di
sfruttare il credito e i beni a basso costo che i “vincitori” del Sud erano
ben felici di fornire, così come le proprietà e i beni patrimoniali che i
“perdenti” del Sud sono stati costretti, volenti o nolenti, a mettere in
vendita a prezzi stracciati. Come mostra la tabella 1, il risultato complessivo è stato che, mentre gli Stati uniti sono riusciti a invertire il loro declino economico relativo, i guadagni e le perdite delle regioni del Sud
rispetto al Nord si sono in gran parte reciprocamente bilanciati.
In breve, il primo motore dell’intensificarsi delle pressioni competitive sul lavoro e sui paesi del Sud non è stato l’integrazione nei mercati
mondiali dell’illimitata offerta di lavoro di Cina e India, bensì la controrivoluzione neoliberista sostenuta dagli Usa. L’enfasi di Freeman sull’illimitata offerta di lavoro a basso costo evidenzia il fatto che le regioni del
Sud che hanno ottenuto risultati migliori nella competizione aperta dal-
188
la contro-rivoluzione possedevano ampie riserve di lavoro agricolo a
bassa produttività che potevano essere spostate verso lavori a maggiore
produttività nell’industria e nei servizi. Jeffrey Sachs e Wing Thye Woo
hanno sostenuto che l’esistenza di un grande settore agricolo sia la differenza cruciale che spiega il maggior successo delle riforme economiche
in Cina rispetto alla Russia12.
Argomenti di questo tipo possono essere criticati su due piani. Primo, come si è chiesto Thomas Rawski con specifico riferimento all’interpretazione di Sachs e Woo dei successi cinesi, “se milioni di agricoltori
scarsamente educati, sotto-occupati e sottoposti ad eccessiva regolazione rappresentano ‘i vantaggi dell’arretratezza’, perché non osserviamo
un’esplosione nella crescita di Egitto, India, Bangladesh, Pakistan, Nigeria e altre nazioni che da lungo tempo godono di tali ‘vantaggi’?”13.
Secondo, un’ampia riserva di lavoro agricolo a bassa produttività non è
la sola fonte di lavoro sfruttabile. I marxisti, per esempio, da molto tempo hanno sottolineato che lo sviluppo capitalistico tende a creare un
crescente esercito industriale di riserva che può impedire che i salari
reali crescano tanto velocemente quanto la produttività del lavoro, e
hanno considerato l’esistenza di una grande riserva di lavoro agricolo
con accesso ai mezzi per produrre mezzi di sussistenza non come un
vantaggio, ma come un ostacolo allo sviluppo economico14. Sorge allora
la questione se una gran massa di contadini, soltanto parzialmente separata dai mezzi per produrre la propria sussistenza, come quella cinese,
costituisca, nell’attrarre capitale e promuovere lo sviluppo economico,
un vantaggio competitivo più grande rispetto alle masse urbane e semiurbane di lavoratori disoccupati o sotto-occupati di cui l’Africa subsahariana e l’America latina sono più fornite rispetto alla Cina. Se è così,
dovremmo allora rivedere o respingere le teorie marxiste dell’esercito
industriale di riserva e dell’accumulazione attraverso l’espropriazione?
E se non è così, quali altre circostanze possono spiegare il successo della
Cina, a confronto dell’Africa sub-sahariana e dell’America latina, nel
volgere a proprio vantaggio la congiuntura economica creata dalla contro-rivoluzione neoliberista?
2. LE RIFORME DELLA CINA E IL WASHINGTON CONSENSUS
I sostenitori istituzionali del Washington consensus – la Banca
mondiale, l’Fmi, i ministeri dell’economia statunitense e britannico,
appoggiati dal Financial Times e dall’Economist – si sono vantati del fat-
189
to che la riduzione della disuguaglianza nel reddito mondiale e della
povertà, che ha accompagnato la crescita economica cinese a partire dal
1980, possono essere ricondotti all’adesione della Cina alle politiche da
loro prescritte15. Come sottolineato da James Galbraith, questa tesi è
contraddetta dalla lunga lista di disastri economici provocati dall’adesione a tali raccomandazioni nell’Africa sub-sahariana, in America latina e
nella dissolta Urss, e dal fatto che Cina e India, innanzi tutto, “si sono
liberate dalle banche occidentali negli anni Settanta, risparmiandosi la
crisi del debito”; in secondo luogo, dal fatto che Cina e India “hanno
continuato a mantenere fino a oggi i controlli sui movimenti di capitali,
cosicché il capitale speculativo non può fluire liberamente dentro e fuori dai paesi”; infine, dal fatto che entrambi “continuano ad avere un
esteso settore statale nell’industria pesante”. Nell’insieme Cina e India
hanno ottenuto buoni risultati, “ma sono dovuti alle riforme oppure alle
regolamentazioni che hanno continuato a imporre? Senza dubbio, la
risposta giusta è: in parte a entrambe le cose”16.
Per la Cina, la posizione di Galbraith concorda con quella di
Joseph Stiglitz secondo cui il successo delle riforme cinesi – rispetto al
fallimento di quelle nell’ex-Unione Sovietica – è legato al non aver
abbandonato il gradualismo a favore delle terapie d’urto sostenute dal
Washington consensus; all’aver riconosciuto che la stabilità sociale può
essere mantenuta soltanto se la creazione di posti di lavoro procede
insieme alle ristrutturazioni; all’aver cercato di assicurare nuovi impieghi
produttivi alle risorse divenute inutilizzate per la più intensa competizione17. Certamente, le riforme della Cina hanno esposto le imprese di
proprietà dello stato (State-owned enterprises) alla competizione, tra
loro, con le imprese straniere e soprattutto con una varietà di nuove
imprese private, semi-private e di comunità locali. Tuttavia, se la crescente concorrenza ha fatto diminuire la quota di occupazione e produzione delle imprese statali rispetto al periodo 1949-1979, il ruolo del
governo cinese nel promuovere lo sviluppo non è diminuito. Al contrario, esso ha investito grandi somme per lo sviluppo di nuovi settori
industriali, per la creazione dei nuovi distretti industriali di esportazione
(Export Processing Zones), per l’espansione e modernizzazione dell’educazione superiore, e per grandiosi progetti infrastrutturali, in una misura
senza precedenti nei paesi con reddito pro-capite comparabile.
Grazie alla dimensione continentale e all’immensa popolazione del
paese, queste politiche hanno consentito al governo cinese di combinare
i vantaggi dell’industrializzazione orientata all’esportazione, ampiamente controllata dall’investimento estero, con i vantaggi di un’economia
190
nazionale auto-centrata informalmente protetta da lingua, usanze, istituzioni e reti di rapporti accessibili agli stranieri soltanto attraverso intermediari locali. Un buon esempio di questa combinazione sono i grandi
distretti industriali di esportazione che il governo cinese ha costruito dal
nulla e che ora ospitano due terzi del totale dei lavoratori di tali aree a
livello mondiale. Le dimensioni della Cina le hanno consentito di
costruire tre complessi manufatturieri, ciascuno con la propria specializzazione: il delta del Fiume delle Perle, specializzato in manifatture ad
alta intensità di lavoro, produzione di componenti e loro assemblaggio;
il delta del fiume Yangze, specializzato in produzioni ad alta intensità di
capitale e nella produzione di automobili, semi-conduttori, telefoni cellulari e computer; e lo Zhongguan Cun, vicino a Pechino, la Silicon Valley della Cina, dove il governo interviene direttamente per favorire la
collaborazione tra università, imprese e banche di Stato nello sviluppo
delle tecnologie dell’informazione18.
La divisione del lavoro tra i distretti industriali di esportazione
mostra anche la strategia del governo cinese di promuovere lo sviluppo
delle industrie basate sulla conoscenza senza abbandonare quelle ad alta
intensità di lavoro. Nel perseguire questa strategia, il governo cinese ha
modernizzato ed espanso il sistema educativo a un ritmo e a una scala
senza precedenti perfino nell’Asia orientale. Sulla base degli eccezionali
successi nell’educazione primaria dell’era di Mao, il numero di laureati è
triplicato tra il 2001 e il 2005, fino a superare i tre milioni l’anno. Il risultato è che le università statali cinesi producono laureati in un numero
comparabile a quello di paesi molto più ricchi. Anche se l’aumento
quantitativo ha indubbiamente comportato un peggioramento nella
qualità dell’offerta formativa, l’estensione alla fine del 2002 dell’istruzione obbligatoria a nove anni a un’area nella quale vive il 90% della popolazione rappresenta comunque un successo impressionante. Inoltre, la
Cina ha il più gran numero di studenti stranieri negli Stati uniti, con
gruppi in rapida crescita in Europa, Australia, Giappone e altrove. Il
governo cinese ha offerto molti incentivi per spingere gli studenti cinesi
all’estero a ritornare dopo aver completato i loro studi, e molti di loro,
inclusi scienziati e manager, sono stati attratti dalle opportunità offerte
da un’economia in rapida crescita19.
In breve, il gradualismo con cui le riforme economiche sono state
realizzate, e le azioni di bilanciamento con cui il governo ha cercato di
promuovere la sinergia tra un mercato nazionale in espansione e una
nuova divisione sociale del lavoro, sono in netto contrasto con la fede
utopica del credo neoliberista nei benefici di terapie d’urto, governi
191
ridotti al minimo, e mercati auto-regolati. Nel promuovere le esportazioni e l’importazione di conoscenze tecnologiche, il governo cinese ha
chiesto la collaborazione degli interessi del capitale estero e della diaspora cinese. In queste relazioni, tuttavia, il governo cinese ha conservato una posizione di forza, divenendo esso stesso uno dei principali creditori dello Stato capitalista dominante (gli Usa) e accettando assistenza
a termini e condizioni conformi all’interesse nazionale della Cina. Nessuno sforzo d’immaginazione sarebbe sufficiente a caratterizzare il
governo cinese come servo degli interessi del capitale straniero20. Anche
la diffusa idea che tutte le industrie cinesi ad alta tecnologia siano controllate da capitali stranieri ignora l’ampia e crescente partecipazione di
imprese e joint ventures cinesi nella produzione di beni tecnologici,
come telefoni cellulari, computer e ogni tipo di elettrodomestico21.
La crescente competizione tra imprese pubbliche e private ha
indubbiamente causato notevoli peggioramenti nella sicurezza
dell’impiego che gli operai urbani godevano nell’era di Mao, così come
innumerevoli episodi di super-sfruttamento, specialmente dei lavoratori
migranti22. Tali difficoltà devono tuttavia essere considerate nel contesto
di politiche governative che nemmeno sotto questo aspetto hanno accolto le prescrizione chiave del neoliberismo di sacrificare il benessere dei
lavoratori ai profitti. Come David Schweickart ha evidenziato,
La Cina è entrata nel suo periodo di riforme senza che vi fosse alcuna
classe capitalista. Questo fatto è stato enormemente importante. Non
solo [non c’era alcuna] classe proprietaria che potesse bloccare il cambiamento strutturale, ma la classe capitalista cui è stato consentito di
emergere, incoraggiandola, è stata molto più imprenditoriale di quanto
tendano ad essere le classi capitaliste che sono dominanti da lungo tempo, e quindi è stata più utile alla società in generale.
Inoltre, la storia della Cina del ventesimo secolo ha insegnato ai
suoi gruppi dominanti che un malcontento su larga scala di operai o
contadini può mettere seriamente a rischio i successi della rivoluzione e
le conseguenti riforme, e che la sola repressione non basta come rimedio. “Questa condizione – la minaccia reale di rivolte di massa e caos –
è assente in Occidente. Essa è presente in molte parti del Sud del mondo, ma qui la struttura delle classi e i rapporti di forza sono alquanto
differenti rispetto alla Cina”23.
Come risultato di quest’equilibrio fra le classi, l’assistenza medica,
le pensioni e altri benefici sociali per i lavoratori nelle joint ventures
192
sono più generosi, e i licenziamenti sono più difficili nel settore del lavoro regolare in Cina rispetto ad altri paesi con livello comparabile o addirittura maggiore di reddito pro-capite. Ancora più importante, l’espansione dell’educazione superiore, il rapido incremento di opportunità
alternative d’impiego nelle nuove industrie, i benefici fiscali per le campagne, e altre riforme che incoraggiano gli abitanti dei villaggi a impiegare più lavoro nell’economia rurale, si sono combinati nel creare carenze di manodopera che stanno minando le fondamenta del super-sfruttamento del lavoro migrante. “Stiamo assistendo alla fine del periodo
d’oro del lavoro estremamente a basso costo in Cina”, ha recentemente
dichiarato un economista della Goldman Sachs. “C’è abbondanza di
lavoratori, ma la riserva di operai non qualificati sta diminuendo... i
lavoratori cinesi... stanno risalendo la catena del valore più velocemente
di quanto ci si aspettasse”24.
Tra i fattori che hanno contribuito all’emergere di questa scarsità
di lavoro c’è il gradualismo delle riforme e l’azione dello Stato per allargare e migliorare la divisione sociale del lavoro, la grande espansione
dell’educazione, la subordinazione degli interessi capitalistici alla promozione dello sviluppo nazionale e l’attivo incoraggiamento della competizione inter-capitalistica. Ma il fattore decisivo è stato probabilmente
l’espansione del mercato interno e il miglioramento delle condizioni di
vita nelle aree rurali associati alle riforme. La riforma chiave è stata
l’introduzione, nel 1978-1983, del Sistema di responsabilità familiare
(Household Responsibility System), che ha riportato il potere decisionale
e il controllo sui surplus agricoli dalle comuni alle famiglie rurali. In
combinazione con forti incrementi dei prezzi per gli approvvigionamenti agricoli nel 1979 e nel 1983, il risultato è stato un rilevante aumento
dei guadagni nell’agricoltura, che ha rafforzato la precedente tendenza
delle comuni e delle imprese agricole collettive a produrre beni non
agricoli. Anche se il governo ha incoraggiato il lavoro rurale a “lasciare
la terra senza lasciare il villaggio” attraverso vari impedimenti alla mobilità, nel 1983 ai residenti rurali venne concesso il permesso di cercare
mercati per i loro prodotti effettuando trasporti e vendita a lunga
distanza, e nel 1984 sono state ulteriormente semplificate le regole per
consentire ai contadini di lavorare nelle città vicine e nelle nuove imprese di municipalità e di villaggio a proprietà collettiva (Township and Village Enterprises)25.
L’emergere delle imprese di municipalità e di villaggio è stato stimolato da due altre riforme: il decentramento fiscale, che ha garantito
autonomia ai governi locali nella promozione della crescita economica e
193
nell’uso degli avanzi fiscali come incentivi; e il passaggio alla valutazione
dei quadri del partito sulla base delle performance economiche delle
loro regioni, che ha fornito ai governi locali forti incentivi a favorire la
crescita. Le imprese di municipalità e di villaggio sono così divenute i
luoghi primari del ri-orientamento delle energie imprenditoriali dei quadri di partito e delle autorità governative verso obiettivi di sviluppo.
Perlopiù autosufficienti finanziariamente, esse sono anche divenute la
principale agenzia per riallocare i surplus delle attività agricole verso
attività industriali ad alta intensità di lavoro, capaci di assorbire produttivamente l’eccesso di lavoro agricolo26. Il risultato è stato una crescita
esplosiva della forza lavoro rurale impiegata in attività non agricole, da
28 milioni nel 1978 a 176 milioni nel 2003. La maggior parte dell’incremento è avvenuto nelle imprese di municipalità e di villaggio, che tra il
1980 e il 2004 hanno creato almeno il quadruplo dei posti di lavoro persi nel settore statale e nelle cooperative urbane, e alla fine di tale periodo
impiegavano più del doppio dei lavoratori di tutte le imprese urbane
straniere, private e in comproprietà27.
Come ammesso da Deng Xiaoping nel 1993, la crescita esplosiva
delle imprese di municipalità e di villaggio prese di sorpresa la dirigenza
cinese. Soltanto nel 1990 il governo intervenne per legalizzarle e regolarle, assegnandone la proprietà collettivamente a tutti gli abitanti della città
o del villaggio, ma conferendo ai governi locali il potere di nominare e
licenziare i manager o di delegare quest’autorità a un’agenzia governativa. L’allocazione dei profitti delle imprese di municipalità e di villaggio è
stata anch’essa regolata, imponendo di reinvestirne più della metà
nell’impresa stessa per modernizzare ed espandere la produzione e incrementare i fondi per l’assistenza e gli incentivi, e di usare il resto per la
costruzione di infrastrutture agricole, servizi tecnologici, assistenza pubblica e investimento in nuove imprese. Verso la fine degli anni Novanta ci
sono stati dei tentativi di trasformare i diritti di proprietà vagamente definiti, in qualche forma di società per azioni o proprietà privata. Ma tutte
le regole sono state difficili da applicare, e le imprese di municipalità e di
villaggio sono ora caratterizzate da una varietà di assetti proprietari locali
tale da rendere difficile la loro categorizzazione28.
Eppure, a dispetto della loro variabilità organizzativa, o forse grazie ad essa, le imprese di municipalità e di villaggio hanno contribuito in
modo cruciale al successo delle riforme. Primo, il loro orientamento verso attività ad alta intensità di lavoro ha permesso loro di assorbire il surplus di lavoratori e di aumentare i redditi rurali senza un massiccio
incremento delle migrazioni verso le aree urbane. Di fatto, la quota
194
maggiore della mobilità del lavoro negli anni Ottanta è stata determinata dal trasferimento dei contadini dall’agricoltura al lavoro in imprese
collettive nelle campagne. Secondo, poiché le imprese di municipalità e
di villaggio erano relativamente poco regolate, il loro ingresso in numerosi mercati ha aumentato la pressione competitiva complessiva, spingendo tutte le imprese urbane, non solo quelle a proprietà statale, a
migliorare le proprie performance29. Terzo, divenendo una tra le maggiori fonti di entrate fiscali nelle campagne, le imprese di municipalità e
di villaggio hanno ridotto il peso delle tasse sui contadini, contribuendo
così alla stabilità sociale30. Quarto, e per molti aspetti il più importante,
reinvestendo i profitti e le rendite localmente, le imprese di municipalità
e di villaggio a proprietà pubblica hanno ampliato il mercato interno,
creando le condizioni per un nuovo ciclo di investimenti, creazione
d’occupazione e divisione del lavoro. Come osservato da Lily Tsai, sulla
base di ampie ricerche nella Cina rurale, la famiglia di origine o l’affiliazione con un particolare tempio religioso sono efficaci sostituti delle istituzioni formali, democratiche e burocratiche, nel vincolare le autorità
governative locali a regole e norme informali che le obbligano a fornire
il livello di beni pubblici necessario a mantenere la stabilità sociale31. La
peculiare posizione delle imprese di municipalità e di villaggio come
imprese a proprietà pubblica è dunque stata una caratteristica centrale
dell’“età dell’oro” cinese (1978-1996) nell’era delle riforme del dopoMao. “In nessun’altra economia di transizione” – nota Barry Naughton
– “le imprese pubbliche hanno svolto il ruolo fondamentale che le
imprese di municipalità e di villaggio hanno avuto in Cina”32.
Certamente, l’intero settore delle imprese di municipalità e di villaggio ha subito straordinarie trasformazioni dopo la metà degli anni
Novanta. Di fronte a un contesto più difficile (che includeva un cambiamento delle politiche governative verso la costituzione di istituzioni di
regolamentazione e la crescita dell’integrazione dei mercati e della competizione) il tasso di crescita complessivo delle imprese di municipalità e
di villaggio è significativamente rallentato. Molte sono state ristrutturate
e trasformate in imprese a prevalente proprietà privata. Tuttavia, alcune
imprese di municipalità e di villaggio a proprietà pubblica sono state
convertite in società per azioni cooperative di proprietà dei lavoratori.
Nel 2003 3,7 milioni di lavoratori erano impiegati in questo tipo di cooperative33. In molte aree il governo ha mantenuto una partecipazione
nell’impresa, realizzando joint venture con manager privati. In effetti,
può essere difficile determinare quali siano le imprese private, oggi, tra
le imprese di municipalità e di villaggio cinesi, poiché i governi locali
195
possono mantenere partecipazioni oscillanti tra il 20% e il 50%34.
Dopo il 1996 le imprese di municipalità e di villaggio hanno continuato a crescere, benché con tassi d’incremento più vicini alla crescita
media del Pil. Il valore aggiunto delle imprese di municipalità e di villaggio come quota del Pil è aumentato dal 26% del 1996 al 30% del 1999,
rimanendo poi stabile fino al 2004. Anche dopo la ristrutturazione, le
imprese di municipalità e di villaggio sono rimaste radicate nei rapporti
personali tra i membri delle comunità rurali, continuando a reinvestire
nelle comunità locali35. Le nostre osservazioni nella provincia di Shandong nel 2005 confermano queste affermazioni. Quando uno degli
autori di questo capitolo ha domandato al dirigente e proprietario di
una impresa di comunità privatizzata - una fabbrica di cavi che è stata
tra i maggiori produttori nazionali dalla metà degli anni Novanta - che
cosa spingesse l’impresa a reinvestire i profitti localmente, anche dopo
essere stata privatizzata, questi rispose che “anche se il governo incoraggia innanzi tutto a diventare ricchi, non puoi ignorare la tua gente se
vuoi continuare a vivere nel villaggio. Qui le persone sono così vicine
l’una all’altra che, semplicemente, non è possibile andare avanti se si è
accusati di arricchirsi senza pensare alla propria gente”. In aggiunta a
tali incentivi sociali, abbiamo scoperto che le ricompense politiche –
divenire membri del Partito comunista, rappresentanti al Congresso del
popolo, o essere nominati quadri rurali – costituiscono incentivi rilevanti che spingono i dirigenti delle imprese di comunità e gli imprenditori a
reinvestire i profitti nelle comunità locali36.
Nel riassumere i punti di forza per lo sviluppo della Cina rispetto
al Sudafrica – dove i contadini sono stati da lungo tempo espropriati
dei mezzi di produzione, senza che una corrispondente domanda di
lavoro li potesse assorbire nel lavoro salariato – Gillian Hart ha sottolineato il contributo delle imprese di municipalità e di villaggio nel reinvestire e ridistribuire i profitti nei circuiti locali, nelle scuole, cliniche e
altre forme di consumo collettivo. Inoltre, una distribuzione relativamente egualitaria della terra tra le unità familiari ha permesso ai residenti di molte imprese di municipalità e di villaggio di procurarsi da
vivere attraverso una combinazione di coltivazione intensiva di minuscoli lotti e di lavoro nell’industria e in altre attività non agricole. In
realtà, “una forza chiave nello spingere la crescita [delle imprese di
municipalità e di villaggio] è che, a differenza delle loro controparti
urbane, esse non hanno bisogno di fornire alloggio, assistenza sanitaria, pensioni ed altri benefici sociali agli operai. In effetti, gran parte
del costo di riproduzione del lavoro non è a carico delle imprese”.
196
Questo schema, Hart suggerisce, potrebbe essere osservato non soltanto in Cina ma anche a Taiwan:
Ciò che è specifico di Cina e Taiwan – e drammaticamente differente
dal Sudafrica – sono le riforme per la redistribuzione della terra iniziate
alla fine degli anni Quaranta che hanno effettivamente rotto il potere dei
proprietari terrieri. Le forze politiche che hanno guidato le riforme agrarie in Cina e Taiwan erano strettamente legate, anche se opposte. Sia
nella Cina socialista e post-socialista sia nella ‘capitalista’ Taiwan, le
riforme che hanno definito le trasformazioni agrarie sono state affiancate
da un’accumulazione industriale rapida e decentrata senza espropriazione della terra... Il fatto che alcuni degli sviluppi più spettacolari della
produzione industriale nella seconda metà del ventesimo secolo abbiano
avuto luogo senza l’espropriazione dei contadini-operai mette in evidenza le forme distintivamente ‘non-occidentali’ di accumulazione su cui si
fonda la competizione globale... Inoltre, [ciò dovrebbe anche spingerci
a] rivedere le assunzioni teleologiche sull’’accumulazione originaria’, in
cui l’espropriazione della terra viene vista come naturalmente associata
allo sviluppo capitalistico37.
Il suggerimento di Hart che il successo economico della Cina si
fondi su uno schema di accumulazione senza espropriazione ci riporta
alla questione se un’ampia classe contadina soltanto parzialmente separata dai mezzi di produzione della sua sussistenza, come quella cinese,
costituisca un vantaggio competitivo maggiore nel favorire la crescita
economica rispetto alle masse urbane e semi-urbane di disoccupati e
sotto-occupati di cui l’Africa sub-sahariana e l’America latina sono più
fornite rispetto alla Cina. La risposta che emerge dalla precedente analisi è che in effetti le cose stanno così, purché le politiche governative
riescano a mobilitare i contadini come una fonte, non soltanto di
abbondante offerta di lavoro a basso costo, ma anche e specialmente di
energie imprenditoriali e capacità manageriali necessarie ad assorbire
tale offerta in modi capaci di espandere il mercato nazionale e le
opportunità della nuova divisione del lavoro. Benché le riforme di
Deng siano state un grande successo sotto questo aspetto, la loro riuscita è dipesa in modo critico da due tradizioni che hanno preceduto e
ispirato le medesime riforme: la tradizione della rivoluzione industriosa della Cina del diciottesimo secolo e la sua più recente tradizione della rivoluzione socialista. È a queste tradizioni che ora volgiamo l’attenzione.
197
3. L’EREDITÀ
DELLA
SOCIALISTA IN
CINA
“RIVOLUZIONE
INDUSTRIOSA” E DELLA RIVOLUZIONE
Kaoru Sugihara ha sostenuto che nel diciottesimo secolo e nella
prima parte del diciannovesimo la Cina abbia sperimentato una “rivoluzione industriosa”, che ha prodotto una traiettoria tecnologica e industriale specifica dell’Asia orientale e definito le sue risposte alle sfide e
alle opportunità della rivoluzione industriale occidentale. Particolarmente significativo, sotto questo riguardo, è stato lo sviluppo di un quadro istituzionale che assicurava l’assorbimento del lavoro, centrato
sull’unità familiare e, in misura minore, sulla comunità di villaggio. Contrariamente all’opinione diffusa secondo cui la produzione su piccola
scala non può sostenere lo sviluppo economico, questo quadro istituzionale ha avuto importanti vantaggi rispetto alla produzione su larga scala,
a base di classe, che stava diventando dominante in Inghilterra nello
stesso periodo. Mentre in Inghilterra gli operai venivano privati
dell’opportunità di condividere le responsabilità dei manager e di sviluppare le capacità interpersonali necessarie per una specializzazione
flessibile, nell’Asia orientale
la capacità di svolgere bene compiti molteplici, anziché la specializzazione in uno solo, era preferita, ed era incoraggiata la volontà di cooperare
con altri membri della famiglia più che la promozione del talento individuale. Soprattutto, era importante per ogni membro della famiglia inserirsi nel sistema di lavoro agricolo, rispondendo con flessibilità a necessità
ulteriori o d’emergenza, mostrando comprensione per i problemi relativi
alla gestione della produzione, e anticipando o prevenendo potenziali
problemi. Le capacità manageriali, con un generale background di abilità
tecnica, erano attivamente sviluppate a livello familiare38.
Inoltre, i costi delle transazioni commerciali erano esigui, e relativamente basso il rischio legato alle innovazioni tecnologiche. Benché il
quadro istituzionale dell’Asia orientale lasciasse poco spazio per grandi
innovazioni, o per investimenti in capitale fisso o nel commercio di lunga distanza, forniva eccellenti opportunità per lo sviluppo di tecnologie
ad alta intensità di lavoro che incrementavano il reddito pro-capite
annuale, anche se non incrementavano il prodotto giornaliero o orario.
La differenza tra questo tipo di sviluppo e quello percorso dall’Occidente stava in una forte preferenza verso l’utilizzazione di risorse umane
anziché non-umane39.
198
L’osservazione di Hart che nelle imprese di municipalità e di villaggio
la coltivazione intensiva di piccoli lotti di terra si combina con altre forme
di lavoro nell’industria o comunque non-agricolo, e con investimenti e
miglioramenti nella qualità del lavoro, supporta la posizione di Sugihara
riguardo la persistenza dell’eredità della rivoluzione industriosa cinese. Di
eguale importanza a tale riguardo è la tendenza a utilizzare il più pienamente possibile le risorse umane e di fornirle di competenze manageriali e tecnologiche generali in ambito familiare. Assieme ai successi in campo educativo della tradizione rivoluzionaria cinese, che sarà qui discussa, questa tendenza può essere osservata persino nelle industrie urbane, il cui principale
vantaggio competitivo è stato individuato nell’uso di lavoro specializzato a
basso costo come sostituto di macchinari costosi e manager. Nella fabbrica
automobilistica di Wanfeng, vicino a Shanghai, per esempio, non si vede
neppure un robot. Come in molte altre fabbriche cinesi, la catena di montaggio è occupata da schiere di giovani, appena arrivati dalle scuole tecniche, che lavorano con poco più che grandi trapani elettrici, chiavi inglesi e
martelli gommati. I motori e i pannelli della carrozzeria, che nelle fabbriche
occidentali si muoverebbero da una postazione all’altra su nastri trasportatori automatici, sono portati a mano o spinti su carrelli. Evitando l’uso di
macchinari dal costo di molti milioni di dollari, Wanfeng può vendere la
sua Jeep di lusso “Tribute” in Medio Oriente tra gli 8.000 e i 10.000 dollari40. Inoltre, come ci si aspetterebbe a partire dalle affermazioni di Sugihara,
le imprese cinesi impiegano lavoro specializzato a basso costo per sostituire
non solo macchinari costosi, ma anche costosi dirigenti. “Nonostante
l’enorme numero di operai nelle fabbriche cinesi, i ranghi dei dirigenti che
li controllano sono esigui per gli standard occidentali... un’indicazione di
quanto [gli operai] siano incredibilmente capaci di auto-gestirsi”41.
L’eredità della rivoluzione industriosa cinese avrebbe potuto non
sopravvivere, e tanto meno produrre questo tipo di effetti sullo sviluppo, se
non fosse stata rivitalizzata e trasformata dalla tradizione rivoluzionaria.
Nonostante tutti gli errori, il caos e la sofferenza umana degli anni di
Mao, una trasformazione sbalorditiva ha avuto luogo in Cina nel corso
dei precedenti tre decenni. Nel 1949 la Cina era un paese molto più
povero e assai meno industrializzato di quanto fosse la Russia quando i
bolscevichi fecero la loro rivoluzione trentadue anni prima. Già nel 1970
la Cina aveva una base industriale che impiegava qualcosa come 50
milioni di operai e pesava per più di metà del suo Pil. Il valore del suo
prodotto industriale lordo era cresciuto di trentotto volte e quello
dell’industria pesante di novanta volte. La Cina stava producendo aerei
199
In realtà, come mostrano le figure 3 e 4, se il maggiore incremento
nel reddito pro-capite della Cina (mostrato dal movimento verso l’alto
delle curve) è avvenuto a partire dal 1980, il grosso del miglioramento
dell’aspettativa di vita degli adulti e, in misura minore, dell’alfabetizzazione degli adulti (mostrato dallo spostamento verso destra delle curve),
vale a dire delle condizioni essenziali di benessere, è avvenuto prima del
1980. Questa dinamica conferma la tesi che “senza le realizzazioni del
regime di Mao le riforme di mercato del 1979 e oltre non avrebbero mai
prodotto i risultati impressionanti che hanno avuto”43.
FIGURA 3: REDDITO PRO CAPITE E SPERANZA DI VITA DEGLI ADULTI, 1960-2000
2000
Pnl pro capite (dollari Usa)
America Latina
1960
Africa sub-sahariana
1980
2000
2000
2000
1960
Cina
1980
India
1980
1960
100
1960
10
0
5
10
15
20
25
30
35
40
45
50
55
60
65
70
75
80
Speranza di vita degli adulti (anni)
Fonte: calcoli basati sui dati relativi a Prodotto nazionale lordo, popolazione e speranza di
vita degli adulti tratti da World Bank, World Development Indicators 2004 e 2001.
200
10000
America Latina
2000
1970
Africa sub-sahariana
1000
2000
2000
1970
Cina
2000
1990
India
1970
1980
100
1970
10
0
5
10
15
20
25
30
35
40
45
50
55
60
65
70
75
80
85
90
95 100
Fonte: calcoli basati sui dati relativi a Prodotto nazionale lordo, popolazione e speranza di
vita degli adulti tratti da World Bank, World Development Indicators 2004 e 2001.
10000
1000
Prodotto nazionale lordo pro capite a prezzi costanti in dollari Usa 1995, scala logaritmica
Percentuale di alfabetizzazione degli adulti
Prodotto nazionale lordo pro capite a prezzi costanti in dollari Usa 1995, scala logaritmica
1980
FIGURA 4: REDDITO PRO CAPITE E ALFABETIZZAZIONE DEGLI ADULTI, 1970-2000
Pnl pro capite (dollari Usa)
a reazione, moderne navi oceaniche, armi nucleari e missili balistici. Nelle campagne erano state realizzate gigantesche opere di irrigazione e
controllo delle acque. Alla maggior parte della popolazione, prima analfabeta, era stato insegnato a leggere e scrivere. Un sistema sanitario pubblico era stato creato dove non ne era mai esistito alcuno. La speranza di
vita media era aumentata da 35 a 65 anni. Tutto ciò è stato realizzato
praticamente senza alcuna assistenza esterna – il che ha significato che
la Cina è entrata nel suo periodo di riforme senza nessun debito estero42.
A questo proposito vale la pena di sottolineare che il successo delle
riforme economiche in Cina rispetto all’ex-Unione Sovietica dovrebbe
essere riportato non tanto all’esistenza di un grande settore agricolo,
come ritengono Sachs e Woo, o al gradualismo e all’attenzione per il
benessere comune delle riforme, come pensano Stiglitz e altri. Tale successo dovrebbe essere ricondotto anche e specialmente alle fondamentali differenze tra la tradizione rivoluzionaria cinese e quella russa. Queste
differenze hanno avuto origine nella specifica versione di marxismoleninismo emersa per la prima volta con la formazione dell’Armata rossa
nei tardi anni Venti e si sono pienamente sviluppate dopo che il Giappone conquistò le regioni costiere cinesi verso la fine degli anni Trenta.
Come Meghnad Desai ha evidenziato, a differenza del partito bolscevico russo, i comunisti cinesi dovettero lottare per ottenere l’appoggio dei
contadini per un decennio e mezzo prima di giungere al potere nel
1949. Nel corso di questa lotta essi “svilupparono il principio di dare
risposte ai bisogni popolari entro i confini di un partito unico”44.
Quest’innovazione ideologica ha avuto due componenti principali.
Una è stata la sostituzione degli aspetti insurrezionali della teoria di
201
Lenin del partito d’avanguardia con la teoria di Mao della “linea di massa”, secondo cui il partito avrebbe dovuto essere non soltanto l’insegnante, ma anche l’allievo delle masse. “Questa concezione di andare
dalle-masse-alle-masse” – nota John Fairbank – “era in realtà una sorta
di democrazia a misura della tradizione cinese, secondo la quale un funzionario della classe superiore governa bene quando ha a cuore le esigenze della popolazione locale, governando così nel suo interesse”45.
L’altra innovazione è stata la sostituzione della classe rivoluzionaria di
Marx e Lenin – il proletariato urbano – con i contadini come principale base sociale della rivoluzione socialista. Negli anni Trenta il Partito
comunista e l’Armata rossa cinese sono stati allontanati dai centri
dell’espansione capitalistica dagli eserciti del Guo Min Dang, armati ed
equipaggiati dall’Occidente, e si sono radicati tra i contadini delle aree
povere e remote. Il risultato è stato, secondo la caratterizzazione di
Mark Selden, “un processo di socializzazione a due vie”, attraverso il
quale il partito-esercito ha fatto degli strati subalterni della società rurale
cinese una potente forza rivoluzionaria, ed è stato a sua volta formato
sulla base delle aspirazioni e dei valori di tali strati sociali46.
La combinazione di queste due caratteristiche con la spinta
modernista del marxismo-leninismo ha costituito le fondamenta della
tradizione rivoluzionaria cinese e aiuta a capire aspetti chiave del percorso di sviluppo della Cina prima e dopo le riforme. Prima di tutto,
contribuisce a spiegare perché, nella Cina di Mao, in netto contrasto
con l’Urss di Stalin, la modernizzazione sia stata perseguita non attraverso l’eliminazione dei contadini, ma attraverso il miglioramento delle loro
condizioni economiche e di istruzione. Secondo, aiuta a spiegare perché, prima e dopo le riforme, la modernizzazione cinese si sia basata
non soltanto sulla riproduzione al proprio interno della rivoluzione
industriale occidentale, ma anche sul rinnovamento delle caratteristiche
della rivoluzione industriosa, indigena e fondata sulle campagne. Terzo,
contribuisce a spiegare perché, sotto Mao, l’emergere di una borghesia
urbana di intellettuali e quadri dello Stato-partito sia stato combattuto
attraverso la loro “rieducazione” nelle aree rurali. Infine, aiuta a spiegare perché le riforme di Deng furono lanciate prima nell’agricoltura,
negli anni Ottanta – il decennio che si è dimostrato uno dei periodi più
vivaci delle riforme cinesi – mentre la svolta politica di Jiang Zemin,
negli anni Novanta, con uno sviluppo squilibrato a favore delle aree
urbane, abbia creato forti tensioni in termini di welfare47, e perché il
recente cambiamento di politiche sotto Hu Jintao si sia concentrato
sull’espansione di servizi sanitari, istruzione e dei benefici sociali nelle
202
aree rurali, sotto la bandiera di un “nuovo socialismo nelle campagne”.
Alle radici di questa complessa tradizione c’è il problema cruciale
di come governare e sviluppare un paese con una popolazione rurale
più grande della intera popolazione dell’Africa, dell’America latina o
dell’Europa. Nessun altro paese, con l’eccezione dell’India, ha mai fronteggiato un problema anche solo lontanamente comparabile. Da questo
punto di vista, per quanto dolorosa sia stata l’esperienza per gli intellettuali e i quadri urbani, la Rivoluzione culturale ha consolidato le fondamenta rurali della Rivoluzione cinese e preparato il terreno per il successo delle riforme economiche. È sufficiente ricordare che durante il corso
della Rivoluzione culturale il funzionamento irregolare delle industrie
urbane ha incrementato considerevolmente la domanda per i prodotti
delle imprese agricole, portando a una notevole espansione delle comuni e delle imprese agricole collettive dalle quali più tardi sono emerse
molte delle imprese di municipalità e di villaggio48. Allo stesso tempo, la
Rivoluzione culturale ha messo in pericolo non soltanto il potere dei
quadri dello Stato-partito e i successi politici della Rivoluzione cinese,
ma buona parte della componente modernista della tradizione rivoluzionaria. La sua condanna, a favore delle riforme economiche, è quindi
stata considerata essenziale per rilanciare tale componente. Dopo la
metà degli anni Novanta, tuttavia, è stato il successo stesso di tale rilancio a minacciare la tradizione rivoluzionaria. Due sviluppi in particolare
hanno segnalato questa tendenza: l’enorme aumento nella disuguaglianza di reddito e il crescente malcontento popolare sulle procedure e gli
esiti delle riforme.
L’enorme crescita della disuguaglianza di reddito tra le aree rurali e
urbane, e all’interno di queste, che ha accompagnato il passaggio della
Cina a un’economia di mercato è un fatto ben documentato. Il coefficiente di Gini della Cina, per esempio, è passato da un valore molto basso di 0,28 nel 1983, a uno piuttosto alto di 0.45 nel 2001 e di 0.47 nel
200749. Fino ai primi anni Novanta questa tendenza ha potuto essere
presentata come il risultato d’una strategia di sviluppo non bilanciato
che creava opportunità di avanzamento per la maggior parte della popolazione. Per esempio, i dati della Banca mondiale suggeriscono che la
riduzione della povertà è continuata ininterrotta – la percentuale della
popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno è caduta da oltre
il 60% nel 1980 a meno del 20% nel 1997. L’incremento nella povertà
relativa che risulta dalla crescente disuguaglianza era quindi accompagnato da una diminuzione della povertà assoluta50. Inoltre, l’incremento
della disuguaglianza – come misurato da indicatori sintetici come il
203
Gini – riflette in gran parte un miglioramento (anziché un deteriorarsi)
della posizione dei gruppi a medio reddito. Ugualmente importante, la
crescita della disuguaglianza è stata accompagnata da una crescita della
mobilità inter-generazionale (lavoro dei genitori/lavoro dei figli) e intragenerazionale (prima occupazione/occupazione attuale). Gli individui
con lavori a basso reddito hanno perciò avuto maggiori possibilità che
nel periodo pre-riforme di volgere a loro favore il divario di reddito spostandosi verso un’occupazione meglio retribuita51.
In queste circostanze, la resistenza all’aumento della disuguaglianza è stata limitata e ha potuto essere facilmente repressa. Col tempo, tuttavia, la crescente disuguaglianza si è scontrata con la tradizione rivoluzionaria, minando seriamente la stabilità sociale. Benché le tradizioni
della “linea di massa” e del “processo di socializzazione a due vie”
abbiano apparentemente svolto un ruolo nelle riforme stesse52, più i
quadri e i funzionari di partito provinciali hanno riorientato le loro
energie imprenditoriali verso la sfera economica e si sono dedicati
all’accumulazione e all’espropriazione, più la tradizione della “linea di
massa” è divenuta una finzione, e il “processo di socializzazione a due
vie” tra il partito-Stato e gli strati subalterni della società cinese è stato
sostituito da un processo analogo tra il partito-Stato e l’emergente borghesia. Eppure, la tradizione rivoluzionaria ha dato agli strati subalterni
della Cina una fiducia in se stessi e una combattività, con una certa legittimità conferita dal persistente ossequio pubblico del partito-Stato verso
tale tradizione, con pochi paralleli altrove nel Sud del mondo53.
La più recente manifestazione di questa combattività e fiducia in
se stessi è venuta dall’impennata delle lotte sociali sia nelle aree urbane
sia in quelle rurali. I casi ufficialmente riportati di “disturbi dell’ordine
pubblico” – un riferimento a proteste, rivolte ed altre forme di agitazione sociale – sono aumentati da circa 10.000 nel 1993, a 50.000 nel 2002,
58.000 nel 2003, 74.000 nel 2004 fino a 87.000 nel 2005. Nelle aree
rurali, fino al 2000, le principali lamentele che spingevano all’azione di
massa erano le tasse, le tariffe e vari altri “oneri”. Più recentemente, il
cambiamento di destinazione della terra dall’agricoltura allo sviluppo
industriale, edilizio e infrastrutturale, il degrado ambientale e la corruzione dei funzionari locali del partito e del governo sono divenute le
questioni più incendiarie. Episodi come la rivolta di Dongyang del
2005, contro l’inquinamento da parte di una fabbrica di pesticidi, le cui
operazioni sono state sospese, sono entrati a far parte del folklore cinese
quale prova che una determinata azione di massa può obbligare le autorità a far marcia indietro e tenere conto dei bisogni popolari54.
204
Nelle aree urbane, dalla fine degli anni Novanta, la “vecchia” classe operaia delle imprese statali ha reagito ai licenziamenti di massa con
un’ondata di proteste che hanno fatto appello ai criteri di giustizia della
tradizione socialista e al contratto sociale della “ciotola di riso d’acciaio”
tra la classe operaia e lo Stato che è prevalso nei primi quattro decenni
della Repubblica popolare cinese. Inizialmente, una miscela di repressione e concessioni ha avuto qualche successo nel contenere quest’ondata di proteste. Più recentemente, tuttavia, una serie senza precedenti di
scioperi ha segnalato la diffusione delle agitazioni nella “nuova” classe
operaia composta prevalentemente da giovani migranti, che costituisce
la spina dorsale delle industrie cinesi rivolte all’esportazione. Combinate
con la crescente agitazione tra i lavoratori urbani nel settore dei servizi,
queste due ondate stanno cancellando lo stereotipo occidentale secondo
cui “non c’è alcun movimento dei lavoratori in Cina:” “ora si può andare in quasi qualsiasi città del paese” – nota Robin Munro – “e si troveranno diverse proteste collettive dei lavoratori in corso nello stesso
momento”. È un movimento spontaneo e relativamente rudimentale;
ma così era il movimento dei lavoratori negli Stati uniti durante la sua
età dell’oro, negli anni Trenta55.
Quest’esplosione dell’agitazione sociale nelle aree urbane e rurali
ha spinto la direzione del Partito comunista cinese a cercare uno sviluppo più equilibrato e sostenibile tra le aree urbane e rurali, tra le diverse
regioni e tra l’economia e la società, e a introdurre una nuova legislazione del lavoro mirante ad allargare i diritti dei lavoratori56. L’attuale
governo di Hu Jintao e Wen Jiabao sta facendo grandi sforzi per affrontare le questioni rurali, facendo ancora una volta dello sviluppo delle
campagne la priorità dell’agenda politica. Tra le altre cose, il governo ha
abolito le tasse agricole, ha iniziato a ridurre, o non richiedere più, il
pagamento per l’istruzione nelle aree rurali e ha sperimentato un programma di assicurazione sanitaria di base che potrebbe coprire l’intera
popolazione rurale entro il 201057.
In risposta alla crescita delle agitazioni e del malcontento tra i
gruppi svantaggiati nel decennio passato, il Partito comunista cinese ha
chiesto ai propri quadri di tornare alla tradizione rivoluzionaria della
“linea di massa”, di ascoltare le richieste e le lamentele delle persone e
di aiutare a risolvere i loro problemi. Come risultato, funzionari delle
amministrazioni di comuni, provincie e distretti si sono regolarmente
incontrati con i cittadini e hanno visitato più spesso le comunità locali
per affrontare i problemi che minacciavano la stabilità sociale58. La Cina
ha già tenuto elezioni di base in più di 660.000 villaggi, benché siano
205
spesso manipolate. Ci sono piccoli segni di cambiamento, con grandi
città, come Nanjing e Guangzhou, che stanno aprendo posizioni politiche più importanti alla competizione pubblica. Recentemente, Zhou
Tianyong, vice-capo della ricerca alla Scuola centrale di partito, ha
sostenuto che entro il 2020 la Cina completerà le sue riforme politiche e
istituzionali con la realizzazione di un piano per costruire, nell’arco di
dodici anni, “la partecipazione pubblica democratica a tutti i livelli di
governo”59.
Resta da vedere se questi cambiamenti potranno salvare la tradizione socialista, dare potere al popolo e orientare lo sviluppo in una
direzione più egualitaria e sostenibile. Ma sono cambiamenti che segnalano perlomeno uno spostamento dall’enfasi passata sulla crescita fine a
se stessa a un più forte accento sulla qualità della vita, il consumo e la
sicurezza personale. Inoltre, l’ascesa cinese sta già ponendo una seria sfida al sempre più screditato Washington consensus. Rivolgiamo ora
l’attenzione alla natura e alle prospettive future di questa sfida60.
4. VERSO UNA NUOVA BANDUNG?
Joshua Cooper Ramo, membro del Council on Foreign Relations
degli Stati uniti e del Foreign Policy Centre in Gran Bretagna, ha caratterizzato l’apparire della sfida cinese come la sostituzione del Washington
consensus con un Beijing consensus – l’emergenza, guidata dalla Cina, di
“un percorso per altre nazioni nel mondo” non semplicemente verso lo
sviluppo ma anche “per inserirsi nell’ordine internazionale in modo da
consentir loro di essere davvero indipendenti, di proteggere il proprio
modo di vita e le proprie scelte politiche”.
Il Washington consensus... ha lasciato una scia di economie distrutte e
risentimenti in tutto il globo. Il nuovo approccio allo sviluppo della Cina
è... abbastanza flessibile da essere a mala pena classificabile come una dottrina. Non crede in soluzioni uniformi per ogni situazione. È definito... da
una vivace difesa dei confini e degli interessi nazionali, e da una ponderata
accumulazione di strumenti per la proiezione di potenza asimmetrica...
Mentre gli Stati uniti stanno perseguendo politiche unilaterali per proteggere i propri interessi, la Cina sta mettendo assieme le risorse per eclissare
gli Usa in molte aree chiave degli affari internazionali, costruendo un contesto che renderà l’azione egemonica statunitense più difficile... La via
cinese allo sviluppo e al potere è, naturalmente, irripetibile da altri paesi.
206
Essa rimane piena di contraddizioni, tensioni e pericoli imprevisti. Tuttavia, molti elementi della crescita del paese hanno suscitato l’interesse del
mondo in via di sviluppo61.
Tra questi elementi, Ramo menziona un modello di sviluppo nel
quale “le massicce contraddizioni dello sviluppo cinese” rendono “la
sostenibilità e l’uguaglianza... considerazioni primarie”, e “una teoria
dell’autodeterminazione... che mette l’accento sull’uso dei propri strumenti per influenzare le grandi potenze egemoniche, che potrebbero
essere tentate di pestarti i piedi”62. La nozione di Ramo di un Beijing
consensus è stata criticata per aver supposto l’esistenza di un consenso
dove non ne esiste alcuno, o per aver stabilito un contrasto con il
Washington consensus che alcuni osservatori considerano eccessivo63.
Entrambe queste critiche ci sembrano inappropriate, perché Ramo stesso sottolinea la varietà dei percorsi di sviluppo implicita nel Beijing consensus, in netto contrasto con la dottrina uguale per tutti del Washington
consensus. Tuttavia, Ramo non ci dice se l’ascesa cinese potrà effettivamente contribuire a un rafforzamento collettivo del Sud del mondo, e
non soltanto di una o più delle nazioni che ne fanno parte. La questione
rilevante entro questo contesto è in quali circostanze il Beijing consensus
potrebbe condurre alla formazione di una nuova e più efficace Bandung
– vale a dire una nuova versione dell’alleanza del Terzo mondo degli
anni Cinquanta e Sessanta, più adeguata della vecchia a contrastare la
subordinazione economica e politica degli Stati del Sud a quelli del
Nord in un’era di integrazione economica senza precedenti64.
La tentazione, per la Cina, di accontentarsi d’essere cooptata in un
mondo dominato dagli Stati uniti o dal Nord, e per gli altri paesi del Sud
di cercare o accettare il sostegno del Nord nelle reciproche rivalità, non
dovrebbe essere sottostimata. Tuttavia, non dovremmo nemmeno sopravvalutare la capacità degli Stati uniti, anche in collusione con l’Europa, di
riuscire ancora una volta a impedire l’avanzata del Sud, come hanno fatto
per quasi vent’anni con la contro-rivoluzione neoliberista. Per prima
cosa, la sconfitta in Iraq ha confermato i limiti dei mezzi coercitivi per
imporre la volontà del Nord contro la resistenza del Sud. Cosa più
importante, in un mondo capitalistico, le basi finanziarie del predominio
degli Stati uniti e del Nord si fondano su un terreno sempre meno sicuro.
Un punto di svolta cruciale a questo riguardo è stata la crisi finanziaria
asiatica del 1997-8. Robert Wade e Frank Veneroso hanno sostenuto che
questa crisi abbia confermato la validità del detto che “nel corso di una
depressione le proprietà tornano ai loro legittimi proprietari”.
207
La combinazione di massicce svalutazioni, liberalizzazioni finanziarie
forzate dall’Fmi, e riprese economiche favorite dai suoi interventi
potrebbero aver prodotto il trasferimento più grande degli ultimi cinquant’anni, a livello mondiale in tempo di pace, di beni economici da
proprietari nazionali a stranieri, facendo impallidire i trasferimenti avvenuti nell’America latina negli anni Ottanta, o in Messico dopo il 199465.
Focalizzandosi sugli effetti immediati della crisi, questa diagnosi
manca, nondimeno, di notarne gli effetti a lungo termine sulle relazioni
Nord-Sud. Come mostra la figura 2, la crisi del 1997-8 è stata seguita
dalla grande divaricazione tra il deficit del Nord e il surplus del resto del
mondo nei conti correnti delle rispettive bilance dei pagamenti. Gran
parte di questo surplus si dirige ancora verso il porto franco finanziario
degli Usa, sia per finanziarne il crescente deficit, sia per essere reinvestito in giro per il mondo, compreso il Sud del mondo, a beneficio degli
Stati uniti. Ma il fatto fondamentale che sta dietro la divaricazione è che
il Nord, specialmente gli Stati uniti, è in grado di produrre sempre
meno beni e servizi a prezzi più bassi del resto del mondo. Ancora più
importante, una quota significativa e crescente di tale surplus non passa
più attraverso gli Stati uniti; è utilizzato per accumulare riserve valutarie
o si dirige direttamente verso altre destinazioni nel Sud, indebolendo
così il controllo sui paesi del Sud dell’Fmi e delle altre istituzioni finanziarie controllate dal Nord66. Pieni di liquidità e desiderosi di riprendere
il controllo delle loro politiche economiche, i paesi del Sud “hanno
“praticato le loro scelte, rimborsato i debiti con l’Fmi ed evitato di
seguirne i consigli”67. Gli incontri annuali dell’Fmi sono così divenuti
“eventi solitari. Gli editoriali nella stampa finanziaria hanno cominciato
a chiedersi se il Fondo abbia ancora uno scopo”. E mentre i banchieri
centrali pro-mercato iniziavano, in effetti, a nazionalizzare le banche, “la
difesa del libero mercato da parte dell’Occidente è stata irrisa da parte
degli Stati che si erano opposti all’entusiasmo sulla ‘fine del governo’ dei
globalizzatori. La globalizzazione, ben lungi dall’aver seppellito lo Stato,
ora dipende dagli Stati per il suo salvataggio”68.
Nonostante i suoi massicci acquisti di buoni del tesoro Usa, la
Cina ha giocato un ruolo guida sia nel riorientare il surplus del Sud verso destinazioni del Sud, sia nel fornire a paesi del Sud vicini e distanti
alternative appetibili al commercio, l’investimento e l’assistenza dei paesi e delle istituzioni finanziarie del Nord. “Sta entrando in campo un
giocatore molto grosso, che ha il potenziale per cambiare il panorama
degli aiuti allo sviluppo”, notava nel 2006 il direttore per le Filippine
208
dell’Asian Development Bank poco dopo che la Cina aveva annunciato
un pacchetto straordinario di prestiti alle Filippine per due miliardi di
dollari l’anno per tre anni, che facevano apparire ben miseri i 200 milioni offerti dalla Banca Mondiale e dall’Asian Development Bank, e superavano il prestito di un miliardo di dollari in corso di negoziazione con il
Giappone, proteggendo le Filippine dalle critiche da parte di Washington dopo che la presidente Arroyo aveva ritirato le truppe dall’Iraq.
Questo è stato solo uno dei molti accordi simili nei quali la Cina ha battuto le agenzie del Nord, offrendo ai paesi del Sud termini più generosi
per l’accesso alle loro risorse naturali; prestiti più ingenti con meno vincoli politici, e senza costosi compensi per i consulenti finanziari; e grandi e complessi progetti infrastrutturali in aree remote, a un costo inferiore fino alla metà rispetto ai concorrenti del Nord69.
A complemento e rinforzo di queste iniziative cinesi, i paesi produttori di petrolio hanno reindirizzato i loro surplus verso il Sud. È stato di grande significato politico e simbolico l’uso da parte del Venezuela
dei profitti straordinari dovuti all’alto prezzo del petrolio per assumere
il ruolo di nuovo “prestatore di ultima istanza” per i paesi dell’America
latina, con ciò riducendo l’influenza di Washington, storicamente enorme, sulle politiche economiche nella regione70. Di eguale importanza e
potenzialmente più distruttivo per il predominio finanziario del Nord è
stato l’interesse che i paesi dell’Asia occidentale hanno recentemente
mostrato nel reindirizzare almeno parte dei loro surplus dagli Stati uniti
e dall’Europa all’Asia meridionale e orientale. Le ragioni sono in parte
nell’impopolarità della guerra in Iraq e nelle reazioni interne agli Usa,
come quella che ha obbligato la società portuale di Dubai a vendere tutte le proprietà americane dopo che ha comprato la società britannica
P&O. Ma la ragione più importante è economica: la Cina e tutte le economie asiatiche in rapida crescita desiderano il petrolio dell’Asia occidentale, e i capitali e la liquidità generati da tale petrolio sono in cerca di
investimenti più profittevoli dei buoni del tesoro statunitensi71.
Quando nel maggio del 2006 il primo ministro indiano, Manmohan Singh, all’incontro annuale dell’Asian Development Bank, ha
raccomandato alle nazioni asiatiche di reindirizzare i propri surplus verso progetti di sviluppo asiatici, un osservatore statunitense trovò il
discorso “sbalorditivo” – “il presagio della fine del dollaro e dell’egemonia americana”72. In realtà, che i paesi dell’Asia e del Sud continuino
a usare il dollaro non è la questione più importante. Proprio come la
sterlina continuò a essere usata come valuta internazionale tre o quattro
decenni dopo la fine dell’egemonia britannica, così potrebbe capitare
209
anche al dollaro. Ciò che realmente conta per il futuro delle relazioni
Nord-Sud è se i paesi del Sud continueranno a mettere i surplus delle
proprie bilance dei pagamenti a disposizione della agenzie controllate
dagli Stati uniti, perché siano trasformati in strumenti del dominio del
Nord, o se invece li useranno per l’emancipazione del Sud. Da questo
punto di vista, non c’è nulla di sbalorditivo nella dichiarazione di Singh,
che conferma semplicemente una pratica già in atto. Ciò che è veramente sbalorditivo è la mancanza di consapevolezza – nel Sud non meno
che nel Nord – di quanto profondamente abbia fallito la contro-rivoluzione neoliberista, creando condizioni altamente favorevoli per l’emergere di una nuova e più potente Bandung.
Le fondamenta della vecchia Bandung erano strettamente ideologico-politiche e, come tali, furono facilmente distrutte dalla contro-rivoluzione neoliberista. Le fondamenta della Bandung che potrebbe ora
emergere, accanto a una componente ideologico-politica, sono innanzitutto economiche e, come tali, molto più solide. Come disse in un
discorso del 2003 Yashwant Sinha, ex-ministro degli esteri indiano: “In
passato, il coinvolgimento dell’India con gran parte dell’Asia... si basava
su una concezione idealistica di fratellanza asiatica, basata su legami culturali e sulle condivise esperienze del colonialismo”. La dinamica asiatica di oggi, di contro, “è determinata... tanto dal commercio, gli investimenti e la produzione quanto dalla storia e dalla cultura”73. L’affermazione di Sinha si applica non solo all’Asia, ma al Sud del mondo in generale. Sotto la vecchia Bandung, la solidarietà politicamente e ideologicamente motivata del Terzo mondo non aveva fondamento economico.
Essa doveva andare controcorrente rispetto a processi del mercato globale sui quali i paesi del Terzo mondo avevano poco o nessun controllo.
Oggi, di contro, la rapida espansione di commercio, investimenti e cooperazione Sud-Sud in una crescente varietà di campi – inclusa l’integrazione economica regionale, la sicurezza nazionale, la salute e l’ambiente
– si fonda anzitutto sulla crescente competitività dei paesi del Sud nella
produzione mondiale. Benché concezioni idealistiche della solidarietà
del Terzo mondo giochino ancora un ruolo, raramente esse sono il solo
fattore, o il principale, della cooperazione Sud-Sud74.
Quattro paesi in particolare – Cina, India, Brasile e Sudafrica
(Cibs) – stanno facendo da battistrada in questa direzione. Oltre a rappresentare il 40% della popolazione mondiale, questi paesi stanno congiuntamente emergendo come importanti fonti di capitale, tecnologia e
domanda per i prodotti delle regioni circostanti e del Sud del mondo
nel suo insieme75. Nonostante il loro ruolo guida nello spostare i rappor-
210
ti di forza economici e politici a favore del Sud del mondo, i Cibs sono
stati criticati per aver stabilito relazioni con altri paesi del Sud che sono
simili, per motivazioni ed esiti, alle tradizionali relazioni Nord-Sud. La
Cina in particolare è stata accusata di aver stabilito con i propri partner
commerciali rapporti che riproducono la loro specializzazione nella produzione primaria, a spese della manifattura e di altre attività ad alto
valore aggiunto76.
Nella misura in cui evidenziano come fondamento della cooperazione del Sud, l’interesse nazionale anziché l’idealistica solidarietà del
Terzo mondo, queste critiche sono largamente corrette, anche se mancano di cogliere i punti di forza della nuova Bandung rispetto alla vecchia.
Esse non notano, prima di tutto, la sovversione delle fondamenta strutturali della gerarchia globale di ricchezza e potere implicata dall’emergere dei Cibs, e specialmente della Cina, come concorrenti del Nord nella
produzione, commercio e finanza mondiali. Non soltanto questi paesi,
rispetto a quelli del Nord, forniscono migliori condizioni commerciali,
di aiuto e investimento agli altri paesi del Sud – incluse sostanziali cancellazioni del debito77; ma nel far ciò essi intensificano le pressioni competitive perché anche i paesi del Nord offrano termini migliori di quanto non avrebbero altrimenti fatto. In stretta connessione, critiche che
enfatizzano la specializzazione nella produzione primaria dei partner
commerciali dell’India e della Cina non considerano il rovesciamento
delle ragioni di scambio tra manifattura e produzione primaria causato
dalla convergenza industriale tra Nord e Sud. Proprio come l’“industrializzazione” ha smesso di essere sinonimo di “sviluppo”, così la specializzazione nella produzione primaria in quanto tale potrebbe non
essere più sinonimo di “sottosviluppo”78.
Cosa più importante, nella misura in cui le critiche in questione
evidenziano le pratiche di sfruttamento sociale che i Cibs possono mettere in atto a casa propria, o incoraggiare altrove attraverso i loro commerci e investimenti esteri, esse non tengono conto del fatto che l’esclusione da commercio e produzione, piuttosto che lo sfruttamento di per
sé, è spesso la principale causa del “sottosviluppo” del Sud. Tali critiche
non tengono conto neanche del fatto che le relazioni di potere giocano
un ruolo cruciale nel definire i criteri di moralità nell’economia politica
globale. Oggi questi criteri sono per la maggior parte definiti da governi
e istituzioni dei paesi che occupano i gradini più alti nella gerarchia globale della ricchezza. L’emergere dei Cibs potrebbe creare una situazione
in cui i governi e le istituzioni di quei paesi che si trovano nelle posizioni
intermedie e inferiori potrebbero almeno avere una voce. A questo pro-
211
posito è cruciale ciò che la Cina e l’India – che ospitano da sole più di
un terzo della popolazione mondiale – sceglieranno di fare. Se dovessero scegliere di cooperare tra loro – come sull’“International Herald Tribune” ha commentato Howard French riflettendo sui grandi investimenti della Cina e dell’India nelle reciproche economie – “i giorni in
cui il confortevole club dei ricchi – gli Stati uniti, le più forti economie
dell’Europa occidentale e il Giappone – decide la strada del resto del
mondo, dando istruzioni e assegnando voti, [arriverebbero] presto al
tramonto”79.
Il crollo di Wall Street del 2008 ha accelerato il collasso del
Washington consensus. Mentre il capitalismo neoliberista di stile americano – con un intervento pubblico limitato, regolamentazioni minime e
l’allocazione del credito secondo regole di mercato – perdeva credibilità, molti commentatori si chiedevano se il capitalismo guidato dallo
Stato cinese potesse essere un’alternativa. Come notato da Huang,
Nel contemplare le alternative al decaduto modello americano, alcuni
hanno guardato alla Cina, dove i mercati sono strettamente regolati e le
istituzioni finanziarie controllate dallo Stato. Di fronte alle conseguenze
del crollo di Wall Street, si preoccupava Francis Fukuyama su Newsweek, il capitalismo guidato dallo stato della Cina “sembra sempre più
attraente”. Il giornalista del Washington Post David Ignatius ha salutato
l’avvento di un “nuovo interventismo” ispirato al Confucianesimo; citando l’ambiguo tributo di Richard Nixon a John Maynard Keynes, Ignatius ha dichiarato, “adesso siamo tutti cinesi”80.
Allo stesso tempo, il fatto che l’economia cinese non sia stata
immune dalla crisi economica globale che ha avuto il suo epicentro negli
Stati uniti – specialmente per il declino delle esportazioni e il rallentamento della crescita economica – ha spinto a riconsiderare il modello di
crescita basato sull’esportazione adottato dalla Cina negli anni Novanta82. I governanti cinesi sono divenuti consapevoli dei vincoli imposti
alla crescita dai bassi livelli dei consumi interni. L’attuale crisi economica potrebbe rappresentare ciò che era necessario per indurli a muovere
verso una via di sviluppo più equilibrata, sostenuta dal consumo domestico. Un tale spostamento implicherebbe inevitabilmente una recessione, che tuttavia sembra un passaggio necessario nella direzione di uno
sviluppo sostenibile a lungo termine. Come Naughton prevedeva nel
2006, “centinaia di imprese falliranno, le tensioni commerciali aumenteranno ulteriormente con i tentativi di vendere sottocosto sui mercati
212
mondiali e l’attitudine generale verso la Cina s’invertirà, da positiva a
negativa”83. Ma, come dovrebbe esser chiaro da questo capitolo, ci sono
anche buone ragioni per prevedere che la crisi economica del 2008 possa alla fine condurre alla ripresa della crescita cinese su fondamenta più
sostenibili nel lungo termine, e a migliori prospettive per una nuova
Bandung.
NOTE
* In pubblicazione in J. SHEFNER E P. FERNÀNDEZ-KELLY (a cura di), Globalization and
Beyond: New Examinations of Global Power and its Alternatives, Penn State University Press,
2010. Vorremmo ringraziare Astra Bonini, Kevan Harris e Daniel Pasciuti per l’aiuto nel presentare le statistiche e Kevan Harris, Jon Shefner, Beverly Silver e gli studenti nel seminario
Research in International Develpment alla John Hopkins University per i loro commenti sulle
prime bozze del capitolo (versione del 16 marzo 2009). Traduzione dall’inglese di Guido
Parietti.
1
Prendiamo a prestito l’espressione “strana morte” dalla classica trattazione di George Dangerfield, pubblicata per la prima volta nel 1935, del drammatico cambiamento politico che investì l’Inghilterra liberale in un momento di apparentemente incontrastata supremazia economica e politica.
2
BELLO (2007).
3
Sull’ascesa e la caduta di tali credenze nel tardo diciannovesimo e nel primo ventesimo secolo, si veda la classica opera di POLANYI (2000). Per una comparazione della svolta
neoliberista della fine del ventesimo secolo con la sua antecedente del tardo diciannovesimo,
si veda SILVER e ARRIGHI (2003).
4
MCMICHAEL (2000) e ARRIGHI (2002). Come HANS SINGER (1997) ha indicato, la
descrizione delle teorie dello sviluppo nell’era post-bellica come stataliste e auto-centrate è
corretta, ma nessuna delle due caratterizzazioni aveva le implicazioni negative acquisite poi
negli anni Ottanta.
5
Si vedano, tra gli altri, TOYE (1993); GILPIN (2001: 78-79, 218-220); GLYN (2007: 53-54).
6
Citato in HARVEY (2000: 7).
7
Albert Berry e John Serieux come citati in BERRY (2005: 17). Su come questioni di
misurazione influenzino la trattazione delle tendenze nella disuguaglianza del reddito a livello mondiale, si veda WADE (2004), KORZENIEWICZ e MORAN (2006).
8
BERRY (2005: 18).
9
Così, mentre la porzione del reddito mondiale dei gruppi a medio e medio-alto reddito (decili 7-9) è scesa dal 42,1% al 36,7%, quella dei gruppi a basso reddito (decili 1-6) è
aumentata dall’11,3% al 14%, mentre la parte dei gruppi ad alto reddito (decile 10) è
aumentata dal 46,6% al 49,9%. Ciò calcolato dai dati forniti in BERRY (2005: 18).
10
I dati della Banca mondiale sono soggetti a frequenti e inesplicabili revisioni che li
rendono particolarmente inaffidabili nel misurare le variazioni a breve termine tra paesi specifici. Questa inaffidabilità, comunque, ha scarso effetto sulle tendenze a lungo termine tra le
213
regioni mostrate nella tabella 1.
11
FREEMAN (2005).
12
SACHS e WOO (1996: 3).
13
RAWSKI (1999: 141).
14
Si veda, per esempio, BRENNER (1981: 1, 4-6; 1977: 35-6).
15
Per un esame critico di tali posizioni, si veda WADE (2004). L’idea che la Cina abbia
aderito alle prescrizioni neoliberiste del Washington consensus è stata tanto comune tra gli
intellettuali di sinistra quanto tra gli stessi promotori del consensus. Deng Xiaoping, per
esempio, compare preminentemente, accanto a Reagan, Pinochet e Thatcher, sulla copertina
di Breve storia del neoliberismo di Harvey, e un intero capitolo del libro è dedicato al “Neoliberismo ‘con caratteristiche cinesi’”. Più esplicitamente, PETER KWONG (2006: 1-2) ha accostato lo slogan di Deng “lasciamo che alcuni divengano ricchi prima, cosicché altri possano
divenirlo dopo” all’ idea di Reagan che i benefici economici scendano dai ricchi ai poveri
(trickle-down economics). Se i due slogan suonano allo stesso modo, ci viene detto, è perché
sia Reagan sia Deng “erano grandi sostenitori del guru neoliberista Milton Friedman”. La
nostra critica delle tesi dei promotori del Washington consensus si applica anche alle posizioni di Harvey e Kwong.
16
GALBRAITH (2004).
17
STIGLITZ (2006: 186-187). Per conclusioni simili, raggiunte sulla base di evidenze
statistiche, si veda POPOV (2007).
18
AU (2005: 10-13).
19
GUO (2005: 154-5); AU (2005); SHENKAR (2005: 5); P. AIYAR, Excellence in Education: The Chinese Way, in “The Hindu”, 17 febbraio 2006; H. W. FRENCH, China Luring
Scholars to Make Universities Great, in “The New York Times”, 24 ottobre 2005; C.
BUCKLEY, Let a Thousand Ideas Flower: China Is a New Hotbed of Research, in “The New
York Times”, 13 settembre 2004.
20
Sui vari aspetti di questa relazione del governo cinese con il capitale estero, si veda
ARRIGHI (2008: cap. 12).
21
POPOV (2007: 35), citando dati forniti da Dani Rodrik. A ciò dovremmo aggiungere
che i recenti cambiamenti nelle leggi fiscali cinesi per le imprese mostrano che Pechino è
assai meno preoccupata che in passato d’importare conoscenze tecnologiche da società straniere. Per quasi trent’anni, gli investimenti diretti stranieri sono stati incoraggiati da una tassazione del 15%, a fronte di un massimo del 33% sulle imprese locali. Con alcune eccezioni
per le imprese ad alta tecnologia e quelle “a basso profitto”, entro cinque anni tutte le imprese pagheranno lo stesso tasso del 25%. “Se gli effetti pratici della legge saranno trascurabili,
il valore simbolico è immenso. Segnala la fine del periodo in cui il management e le tecnologie straniere erano preferite alle competenze interne cinesi” (A. WOLFE, China’s Priorities on
Display at the National People’s Congress, in “The Power and Interest News Report (PINR)”,
21 Marzo 2007).
22
Cfr., tra gli altri, CHAN (2000); TANG (2003-4); LEE e SELDEN (2007).
23
SCHWEICKART (2005).
24
D. BARBOZA, Labor Shortage in China May Lead to Trade Shift, in “The New York
Times”, 3 Aprile 2006; T. FULLER, Worker Shortage in China: Are Higher Prices Ahead?, in
“Herald Tribune”, 20 Aprile 2005; S. MONTLAKE, China’s Factories Hit an Unlikely Shortage:
Labor, in “Christian Science Monitor”, 1 Maggio 2006; China’s People Problem, in “The Economist”, 14 Aprile 2005.
25
CAI, PARK e ZHAO (2004); UNGER (2002).
26
OI (1999); LIN (1995); WHITING (2001); WANG (2005: 179); TSAI (2004); LIN e YAO
(non disponibile)
27
China Statistical Yearbook 2005 (Zhongguo tongji nianjian 2005) Beijing: China Sta-
214
tistics Press and China Agricultural Yearbook 2005 (Zhongguo nongye tongji nianjian 2005)
Beijing: China Agricultural Press.
28
WOO (1999: 129-137); BOUCKAERT (2005); HART-LANDSBERG e BURKETT (2004: 35);
LIN e YAO (n. d.).
29
CAI, PARK e ZHAO (2004).
30
WANG (2005: 177-8); BERNSTEIN e LU (2003).
31
LIN e YAO (n. d.); TSAI (2007).
32
NAUGHTON (2007: 287).
33
TVE Yearbook, 2004, come citato in NAUGHTON (2007: 291).
34
Per i dettagli sui cambiamenti dell’ambiente esterno e del processo di ristrutturazione delle imprese di municipalità e di villaggio dopo la metà degli anni Novanta, cfr. NAUGHTON (2007: 285-293).
35
NAUGHTON (2007: 286).
36
Molti studi hanno mostrato che il Partito comunista e lo Stato cinese sono stati in
grado di controllare il numero crescente di imprenditori privati incorporandoli nelle istituzioni formali. Ciò ha portato molti a ritenere che i capitalisti cinesi non siano davvero autonomi dallo Stato. Cfr., tra gli altri, TSAI (2007), DICKSON (2003), PEARSON (2002), SOLINGER
(1992), WANK (1999).
37
HART (2002: 199-201).
38
SUGIHARA (2003: 79-82, 87-90, 94, 117 n. 2).
39
SUGIHARA (2003: 87).
40
FISHMAN (2005: 226). Per altri esempi di sostituzione di macchinari costosi con lavoro a basso costo cfr- G. STALK e D. YOUNG, Globalization Cost Advantage, in “Washington
Times”, 24 Agosto 2004 e A. TAYLOR, A Tale of Two Factories, in “Fortune Magazine”, 14
Settembre 2005. Come evidenziato da un’inchiesta del “Wall Street Journal”, le statistiche
che mostrano come gli operai statunitensi nelle fabbriche ad alta intensità di capitale siano
molto più produttivi delle loro controparti cinesi ignorano il fatto che la più alta produttività
è dovuta alla sostituzione di molti operai con sistemi di automazione flessibile e trasporto
materiali che riducono il costo del lavoro ma innalzano il costo del capitale e dei sistemi di
supporto. Economizzando sul capitale e reintroducendo un ruolo maggiore del lavoro, le
fabbriche cinesi invertono questo processo. La progettazione delle parti da costruire, trasportare e assemblare manualmente, per esempio, riduce il capitale richiesto fino a un terzo. Cfr.
T. HOUT e J. LEBRETTON, The Real Contest Between America and China, in “The Wall Street
Journal”, 16 Settembre 2003.
41
FISHMAN (2005).
42
SCHWEICKART (2005) citando dati forniti in MEISNER (1999: 415-19). Sui progetti di
irrigazione, l’espansione di strade e ferrovie, e la coltivazione di varietà ibride di riso nell’era
di Mao come basi per la crescita nell’era delle riforme, si veda anche BRAMALL (2000: 95-6,
137-8, 153, 248).
43
POPOV (2007: 26-30).
44
MEGHNAD DESAI nel dibattito con WILL HUTTON in Does the future really belogn to
China?, in “Prospect Magazine”, numero 130, Gennaio 2007.
45
FAIRBANK (1992: 319).
46
SELDEN (1995: 37-8).
47
HUANG (2008a).
48
LIN e YAO (n. d.); PUTTERMAN (1997).
49
Cfr., tra gli altri, WEI (2000); RISKIN, ZHAO e LI (2001); WALDER (2002); WANG
(2003); WU e PERLOFF (2004); Li (2005), CIA, The World Fact Book, https://www.cia.gov/library/publications/the-world- factbook/fields/2172.html
50
B. DAVIS, S. LYONS e A. BATSON, Globalization’s Gains Come with a Price, in “The
215
Wall Street Journal”, 24 Maggio 2007.
51
Cfr., specialmente, WU e PERLOFF (2004: grafici 2 e 3) e Research Group for Social
Structure in Contemporary China (2005: capitolo 4).
52
Nel trattare, per esempio, con i policy makers cinesi, come rappresentante della Banca mondiale, Ramgopal Agarwala “notò che leader importanti dimostravano un maggiore
interesse nell’interazione con i diversi livelli della società rispetto a società organizzate più
democraticamente, come quella dell’India.” (2002: 90). Cfr. anche RAWSKI (1999: 142).
53
SCHWEICKART (2005); AMIN (2005: 268, 274-5); WANG (2006: 44-5).
54
H. W. FRENCH, Protesters in China Get Angrier and Bolder, in “International Herald
Tribune”, 20 Luglio 2005; T. FRIEDMAN, How to Look at China, in “International Herald Tribune”, 10 Novembre 2005; H, W. FRENCH, 20 Reported Killed as Chinese Unrest Escalates, in
“The New York Times”, 9 Dicembre 2005; K. MULDAVIN, In Rural China, a Time Bomb Is
Ticking, in “International Herald Tribune”, 1 Gennaio 2006; C. NI, Wave of Social Unrest
Continues Across China, in “Los Angeles Times”, 10 Agosto 2006; M. MAGNIER, As China’s
Spews Pollution, Villagers Rise Up, in “Los Angeles Times”, 3 Settembre 2006; M. MAGNIER,
China Says It’s Calmed Down, in “Los Angeles Times”, 8 Novembre 2006; Lee e Selden
(2007).
55
B. SMITH, J. BRECHER e T. COSTELLO, “China’s Emerging Labor Movement.”, in ZNet
http://www.zmag.org, 9 Ottobre 2006. Sulle precedenti ondate di agitazione, vedi Lee e Selden (2007). Sul contrasto tra le due ondate, cfr. SILVER (2005: 445-7; 2003: 64-66).
56
E. CODY, China Confronts Contradictions Between Marxism and Markets, in “The
Washington Post”, 5 Dicembre 2005; J. YARDLEY, China Unveils Plan to Aid Farmers, but
Avoids Land Issue, in “The New York Times”, 23 Febbraio 2005; J. KAHN, A Sharp Debate
Erupts in China Over Ideologies, in “The New York Times”, 12 Marzo 2006; MU MUYING,
Dissenting Voices Within Communist Party Before 17th National Congress, in “Cheng Ming
Magazine”, 16 Agosto 2007.
57
HUANG (2008a: 293-4).
58
Xinhua News, “China seeks smooth communication with citizens” Accesso online:
http://news.xinhuanet.com/english/2008- 10/14/content_10195062.htm
59
M. MOORE, China will be a democracy by 2020, says senior party figure, in “The Daily
Telegraph”, 15 Ottobre 2008. Accesso online: http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/asia/china/3195370/China-will-be-a-democracy-by-2020-says-senior-partyfigure.html
60
La sempre più profonda crisi dell’egemonia statunitense a fronte della disastrosa
avventura irachena ha giocato un ruolo cruciale sia nel facilitare l’ascesa cinese, sia nel minare
la credibilità del Washington consensus. Questo doppio ruolo della crisi dell’egemonia statunitense va oltre l’ambito del presente articolo; si veda ARRIGHI (2008: parte II e III).
61
RAMO (2004: 3-5).
62
RAMO (2004: 11-12).
63
KENNEDY (2008).
64
Cfr. DIRLIK (n.d.: 5-6).
65
WADE e VENEROSO (1998).
66
Per la maggior parte di questi paesi, “le riserve sono semplicemente assicurazioni
contro il disastro finanziario... Appena la polvere si posò sulle rovine di molte economie ex‘emergenti’, un nuovo credo prese piede tra i policy makers nel mondo in via di sviluppo:
accumula più valuta estera possibile” (E. PORTER, Are Poor Nations Wasting Their Money on
Dollars?, in “The New York Times”, 30 Aprile 2006; F. KEMPE, Why Economists Worry
About Who Holds Foreign Currency Reserves, in “The Wall Street Journal”, 9 Maggio 2006).
67
Come risultato, il portafoglio prestiti del Fondo è sceso da 150 miliardi di dollari nel
2003 a 17 miliardi nel 2007, il suo livello più basso dagli anni Ottanta (cfr. M. WEISBROT,
216
IMF Misses Epoch-Making Changes in the Global Economy, in “International Herald Tribune”, 19 Ottobre 2007). Un portafoglio prestiti sempre più piccolo riduce, oltre all’influenza
dell’Fmi sui governi del Sud, anche le sue entrate per interessi e le sue riserve valutarie. “Con
un’ironia che ha fatto sghignazzare molti ministri delle finanze [del Sud], l’agenzia che ha per
lungo tempo predicato lo stringere la cinghia, deve adesso praticarlo essa stessa” (M. MOFFETT e B. DAVIS, Booming Economy Leaves the IMF Groping for Mission, in “The Wall Street
Journal”, 21 Aprile 2006).
68
S. MALCOMSON, The Higher Globalization, in “The New York Times”, 12 Dicembre
2008.
69
J. PERLEZ, China Competes With West in Aid to Its Neighbors, in “The New York
Times”, 18 Settembre 2006; V. MALLET, Hunt for Resources in the Developing World, in
“Financial Times”, 12 Dicembre 2006; R. CAREW, J. LEOW e J. T. AREDDY, China Makes Splash, Again, in “The Wall Street Journal”, 26 Ottobre 2007.
70
M. WEISBROT, The Failure of Hugo-bashing, in “The Los Angeles Times”, 9 Marzo
2006. Cfr. anche N. CHOMSKY, Latin America and Asia are Breaking Free of Washington’s
Grip, in “Japan Focus”, 15 Marzo 2006.
71
H. TIMMONS, Asia Finding Rich Partner in Mideast, in “The New York Times”, 1
Dicembre 2006.
72
A. GIRIDHARADAS, Singh Urges Asian Self-reliance, in “International Herald Tribune”, 5 Maggio 2006.
73
Citato in A. GIRIDHARADAS, India Starts Flexing Economic Muscle, in “International
Herald Tribune”, 12 Maggio 2005.
74
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potenza “sub-imperiale” nei confronti del resto dell’Africa, cfr. BOND (2007).
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Sulle cancellazioni del debito (perlopiù africano) da parte di Cina, Brasile e India,
cfr. T. DEEN, South-South Trade Boom Reshapes Global Order, in “Inter Press Service News
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78
Cfr. ARRIGHI, SILVER e BREWER (2003).
79
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Tribune”, 10 Novembre 2005.
80
HUANG (2008b).
81
Secondo “Xinhua News” (18 Dicembre 2008), le esportazioni della Cina sono diminuite nel novembre 2008 per la prima volta in sette anni. Nella provincia di Guangdong,
dove ebbe inizio la crescita manifatturiera orientata all’esportazione, più di 7.000 compagnie
hanno chiuso o si sono spostate altrove nei primi nove mesi del 2008.
82
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INTERVISTE A GIOVANNI ARRIGHI, RECENSIONI E ARTICOLI
Mario Pianta, Né crack, né boom. Né crollo, né guerra. La crisi è mondiale.
Intervista a Giovanni Arrighi. Il Manifesto, la talpa giovedì, 09/12/1982,
p. 1.
Roberta Carlini, Il mondo riletto con Karl Marx. Intervista a Giovanni Arrighi. Il Manifesto, 12/12/1998, p. 22.
Valentino Parlato, Europa. L’autunno del basso impero. Intervista a Giovanni
Arrighi. Il Manifesto, 08/04/1999, p. 12.
Roberto Ciccarelli, Un’egemonia finita sulla punta del fucile. Recensione a
“Caos e governo del mondo”. Il Manifesto, 31/03/2004, p. 13.
Benedetto Vecchi, Il mondo sotto il segno del consenso di Pechino, Intervista
a Giovanni Arrighi. Il Manifesto, 24/01/2008, p. 14.
Benedetto Vecchi, Quei flessibili laboratori della produzione. Recensione a
“Adam Smith a Pechino”. Il Manifesto, 02/03/2008, p. 12.
Sandro Mezzadra, La lunga marcia alla società di mercato. La via non capitalista dell’Oriente. Una discussione a partire da “Adam Smith a Pechino”. Il
Manifesto , 02/03/2008, p. 12.
Immanuel Wallerstein, Giovanni Arrighi ci ha lasciato, Il Manifesto,
20/06/2009, p.1.
Benedetto Vecchi, Il sapiente interprete del lungo xx secolo. La morte di Giovanni Arrighi. Il Manifesto, 20/06/2009, p. 12.
Bianca Beccalli e Michele Salvati, Giovanni Arrighi, una vita capolavoro, Il
Manifesto, 21/06/2009, p. 2.
Enrico Pugliese, Giovanni Arrighi, la provinciale ignoranza dei media italiani,
Il Manifesto, 23/06/2009, p. 10.
231
finito di stampare
per conto della manifestolibri - roma
nel mese di ottobre 2010
dalla CDC Arti Grafiche Srl - Città di Castello - Perugia