Giunte e Virgole - Biblioteca Statale Isontina

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Giunte e Virgole - Biblioteca Statale Isontina
GIUNTE E VIRGOLE
alla Newsletter della Biblioteca Statale Isontina di Gorizia
n. 7, agosto 2015
Indice
Nel verso di Menon, di Chiara Catapano
pag. 3
Svegliava e sollecitava in noi lo spirito critico, di Antonio Carlini
pag. 7
De Ioanne Iacobo Menone, magistro, di Cesare Sartori
pag. 11
Arte non – arte, arte. Pretesto per una riflessione sulla mia poetica,
di Ernesto Paulin
pag. 25
Dialogo intorno al pianeta libro, (e ai suoi satelliti), colloquio tra Alberto Brambilla ed
Angelo Colombo
pag. 29
Dal n. 6 di marzo si passa ad agosto, n. 7, quindi con parecchio ritardo, in compenso il numero è ricco, di
saggi, temi e interessi su vari fronti.
E' dedicato a Gian Giacomo Menon (1910-2000), originario della provincia goriziana, udinese d'adozione, per
decenni impareggiabile docente di storia e filosofia al liceo classico “Stellini”. In un momento in cui si parla
tanto di riforma della scuola, è forse il caso di riportare i termini al loro giusto posto: docenti e studenti,
tutto il resto guasta e non serve all'educazione, alla cattiva politica sì.
Invece di proporre l'ennesimo scritto di un critico d'arte su un artista, questa volta è l'artista che si
propone con uno scritto: Ernesto Paulin spiega la sua installazione “Spazzature d'artista”, creata per la
Biblioteca Statale Isontina a conclusione della attività espositiva del primo semestre 2015.
Il numero si chiude con una lunga intervista di Angelo Colombo a Alberto Brambilla, studioso di letteratura
italiana e, in questa sede, soprattutto considerato come autore di “libri d'artista”.
Nel 2014 Brambilla ha infatti consegnato in comodato alla Bsi 100 libri d'artista da lui allestiti e un secondo
versamento è imminente.
Il prossimo anno – quasi per caso - sono in programma ben tre mostre che hanno come oggetto il “libro
d'artista”, si tratta di Silvia Braida e Loretta Cappanera (ambedue friulane) e appunto di Alberto Brambilla,
lombardo di Busto Arsizio, che come si legge nell'intervista e sul sito della Bsi ha un interessante e molto
originale curriculum di ricercatore e di artista.
Che il “libro d'artista”, tra l'altro oggetto di una delle prime mostre che organizzai in Biblioteca, sia una
nuova via della Bsi? Potrebbe essere.
E con questa mia speranza, Vi lascio alla lettura e a un po' di vacanza.
Marco Menato
direttore bsi
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Nel verso di Menon
Oggi ho assistito a un miracolo, di quei miracoli che il Sacro se lo tirano dietro a fondo, nell'anima dico;
nell'intimo buio dell'anima che è la grotta di Antigone, e lo illuminano. Ho assistito, signori miei, a una
resurrezione. Forse la carne non si è ridestata dal nulla dov'è stata cacciata, forse non ci hanno
spaventato fenomeni paranormali. Ma la resurrezione di un poeta non è cosa da tutti i giorni. Mi tolgo un
sassolino dalla scarpa (che di poeti ce n'è pochi, via!): finalmente si parla di poesia! E pensare che oggi
[mercoledì 25 marzo 2015] a palazzo Garzolini in Udine, la poesia – che strano - v'è entrata di striscio. Dico
che proprio si son letti pochi versi, eppure abbiamo conversato per due ore di Poesia. Imparino gli asini
stampatori: esistono poeti che vissero in carne e ossa su questa terra, che scrissero versi, eppure tutta la
loro poesia la consegnarono concretamente in «essere e volere» a studenti dei loro corsi liceali di filosofia.
Gian Giacomo Menon sarebbe sconosciuto a tutti noi (vivrebbe riverbero nella fiammella dei ricordi liceali di
qualche manipolo di suoi ex allievi) se non fosse per la dedizione di Cesare Sartori: ex allievo di Menon, ex
studente del liceo classico Stellini di Udine, già giornalista della «Nazione» di Firenze. In lui la fiammella ha
acceso un fuoco di divampo, ha fatto brillare quel di più che si cristallizza sotto il nostro sguardo in
concreta riconoscenza. Cesare è un'anima antica, e di questa definizione mi scuserà, ma sono certa che già
comprende, già sorride: vibra di quella sostanza antica immutabile (diluita assai in questi tempi di liquidità
mediatica, eppure sempre vigile, attiva), quella sostanza alchemica che ridesta in oro lo spirito che l'umano
declassa, eclissa, su cui incespica insicura e malferma. Ha saputo riconoscere la canina ricerca d'umanità per dirla alla Boine – che era viva in Menon, e farsene carico. Come in un romanzo egli arriva in ritardo
all'appuntamento: torna alla casa del maestro quando ormai il maestro è morto. Pure, il maestro lascia a lui
l'incarico ideale e l'eredità delle proprie carte. Decenni di soliloqui eccellenti, decenni di canina ricerca
d'umanità.
Ma quanto è stato donato (dono, da educere latinamente inteso), non importa il tempo, torna in forma
precisa, torna a chi diede e (ancora) a chi ricevette. Le mani colme d'intera umanità. Io credo fermamente
che questa sia la Poesia.
Oggi, dalle 10.30 circa a Palazzo Garzolini-di Toppo Wassermann a Udine, si è tenuta un conferenza sul
poeta Gian Giacomo Menon. Presenti in sala ex allievi, studenti universitari e liceali, oltre ad un pubblico di
curiosi e appassionati. A raccontare Menon accanto a Cesare Sartori, professori quali Antonio Carlini (nella
sua triplice veste di ex studente dello Stellini, di filologo classico della Normale di Pisa e di Accademico dei
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Lincei), Franco Bombi, nipote del poeta e già docente di ingegneria dell’informazione nell'ateneo padovano,
Pino Santoro dirigente del liceo classico Stellini, Gabriella Burba insegnante e poetessa e anche lei ex
allieva di Menon, Gianni Cimador ricercatore all'università di Trieste.
Menon fu professore di storia e filosofia prima al liceo Stellini per 30 anni di fila e successivamente fino
alla pensione al liceo magistrale Caterina Percoto, sempre di Udine; scrisse versi – e non solo per questo
fu poeta – che non pubblicò se non in minima parte. Si pensi che esistono centinaia di migliaia di versi
inediti, una piccola porzione raccolti e pubblicati nel 2013 grazie alla cura di Sartori per i tipi della Aragno e
KappaVu.
Il fulcro della conferenza sono stati i ricordi, la mnemosine di omerica ascendenza, la partecipazione corale
di un popolo di ex studenti, a cui Menon dedicò l'intera esistenza. Insegnamento e poesia, quest'ultima in
totale solitudine, in silenziosa adesione: controcanto all'intensa vita sociale degli anni della maturità.
Qual è dunque la sostanza di un poeta? Per Menon si può dire che coincida con la sua doppia appartenenza
al mondo del corpo e dello spirito, al suo vivere sospeso sullo iato, al suo tentativo eterno di colmare con
l'arte l'incolmabile distanza tra terreno e divino. Ma un insegnante, quand'è educatore, quante anime
accenderà durante la sua esistenza? Una, due? Quant'è giusto che sia, perché la conoscenza è aristocratica,
è di chi vuole, di chi crede e s'impegna: è segno distintivo che non guarda ai natali ma alla filologica ricerca
di verità. Sono persuasa che Menon vivesse la tragica consapevolezza del proprio compito: non condivise il
carico con nessuno - carico non trasmissibile se non oltre le limitatezze del vivere -, se non forse con
pochi, immutabili affetti. Dal racconto del nipote professor Franco Bombi furono, con esiti diversi, depositari
di questo fardello la madre (forse grembo e luce, forse remissiva appartenenza) e il padre (fratellanza
virile, dunque chiusa, invalicabile); e la moglie, con cui condivise l'etica antiborghese, le stravaganze, e a cui
rimarrà legato da un tacito patto di riconoscimento. Nonostante i reciproci tradimenti, la coppia procede
serrata, forte, complice e ‘pura’ - mi si permetta l'ossimoro -. Quasi a sottolineare ciò che tutti in fondo
conosciamo: che soli si nasce e si muore, soli si vive; ma che l'anima amica, in perfetta fratellanza, può con
noi conversare dell'umano sconcerto dell'essere vivi.
È al momento dell'intervento del professor Antonio Carlini che qualcosa in me di più netto e forte fa
capolino: il lungo e splendente intervendo di Sartori è quasi preludio a questa numinosa rivelazione. Si parla
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dell'uomo, si parla del metodo, si interviene a sottolinearne pregi e pecche, poi il professor Carlini legge
questo sonetto di Menon:
Ritorno
Mia stanchezza, distenditi sul prato,
morbida e calda coltrice di sole:
piano ritorno dentro l'increato
sazio alla fine di aride parole.
E non mi duole più l'acuto iato
tra conoscenza ed essere, parole,
segni per me senza significato
nella smarrita estasi del sole.
Bevo alla fonte mistica dell'uno,
del quale sono un povero frammento,
eppure un tutto, pallido nessuno.
Nell'aria il fumo indugia, poi si sperde
con un fluttuare di velami lento:
l'anima si confonde con il verde.
(da Qui per me ora blu, KappaVu, Udine, 2013, p. 83)
E come posso non farmi tirar per i capelli a quel testo suo gemello in prosa, che è Ragionamento al sole di
Giovanni Boine? Dove appare lampante oltre ogni retorica, che il poeta come il mistico, l'artista come il
mistico, nella propria laica preghiera di libertà che è la scrittura, che è l'arte, vivono coscientemente,
tragicamente nello iato divaricato sotto l'umano; vivono sulla franosa frattura, e la stessa forza che li
piega usano per tentare l'impossibile: creare ponti, vivere la comunione di quel sentire il tutto e tutto non
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poter abbracciare. Tranne poi tragicamente riscoprire che è nel gesto il compimento, che terminato quello
tutto svanisce. Lo scrivere e poi il silenzio, la sempre uguale solitudine.
Così scrive Giovanni Boine, in quel suo Ragionamento al sole:
«È peccato? È vergogna? Io son qui come una bestia contenta. Qui al sole; tutto nel sole, sdraiato, qui ogni
mattina da un po' (è peccato?). Lungo teso gambe allargate massiccio, sull'erba, con bene aperta la mia
maglia sul petto, (tutto inondato di sole; e come si cuoce la pelle; come si screpola, scura, il cuoio!) e il
cappello giù sugli occhi calato. (…)
Al diavolo il cervello e le note e le pagine scritte (è peccato? è vergogna?) che ora il mio mondo è
quest'arsa montagna, rotta-ossuta di gran gobbe nude, gialliccia di ginestre e di grano qua e là; e questo
cielo fondo (pauroso) al di là delle creste; e la radura qui intorno, breve, bruciata, ornata di appena verde
erba, con ciuffi di cardi spinosi, coi grilli qua e là che scattano e stridono un attimo. Dico se è vergogna. Mi
godo, zitto, il mio corpo che cresce, che vive (caldo, lento, appena animato) e sono una bestia contenta. Dico
se è peccato. Non so più niente, non mi importa di niente più e l'anima mia se l'ha bevuta questa radura
secca per le sue fessure di sete (…)».
Dico che la biografia produce l'arte non dall'estetica sua forma, ma partendo da codesta forma ragiona,
eviscera, contorce, ferisce e si ferisce, infine forgia, forse quando è tardi. Non è cosa che il fisico regga,
se non per un'unzione. Non lo si apprende.
Queste righe vogliono essere un ringraziamento per avermi invitata a partecipare, Pasqua è alle porte, a
questa resurrezione poetica, in un'epoca in cui ad ogni angolo si declama e si svilisce la poesia.
Chiara Catapano
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«Svegliava e sollecitava in noi lo spirito critico»
(L’intervento del professor Antonio Carlini all’incontro in ricordo di Gian Giacomo Menon - Udine, 25
marzo 2015).
Ringrazio gli amici Cesare Sartori e Claudio Griggio per avere organizzato questo incontro, qui nella storica
sede del Collegio di Toppo Wassermann, questo incontro per rievocare Gian Giacomo Menon, una figura che è
cara a tutti noi suoi allievi e che fu centrale nella nostra formazione liceale; e li ringrazio anche per avermi
chiamato come testimone, un testimone che può andare con i suoi ricordi ben indietro nel tempo, perché io
fui allievo di Menon nella prima metà degli anni ’50: dal 1951 al 1954.
Menon amava poco le lezioni frontali, ex cathedra, perché aveva la vocazione dell’insegnante socratico che
rifugge dalle declamazioni e vuol guidare gli allievi attraverso un percorso critico fatto di discussioni su
singoli problemi che si annodano con altri problemi, ponendo molti interrogativi. Ho il ricordo di alcune
spiegazioni sistematiche, brillanti per dottrina e chiarezza, sulla dottrina delle idee di Platone o sulla
metafisica di Aristotele o sui sistemi filosofici di pensatori medievali e moderni; ma chi si aspettava che
seguisse passo passo il manuale restava deluso; anzi Menon ci invitava a non ripetere come verità quello
che trovavamo scritto nel manuale, ma a vagliare ogni affermazione, a confrontare quel testo con altri
testi che trattavano gli stessi autori, approfittando della biblioteca dello Stellini, a scovare gli errori di
giudizio e anche di stampa che vi erano contenuti, a fare insomma una lettura sorvegliata di ogni pagina. Il
suo scopo era chiaramente di svegliare in ognuno la coscienza critica e io credo che questo indirizzo sia
stato per me, come penso per altri, molto efficace e importante anche nel percorso successivo. Che poco
dipendesse dai manuali si vedeva quando parlava volentieri di Giuseppe Rensi o dell’opera La Persuasione e
la Rettorica, la tesi di laurea importante discussa a Firenze da Carlo Michelstaedter. Erano autori ignorati
nei programmi ufficiali. Come la scelta di leggere il terzo anno Martin Heidegger, Was ist Methaphysik,
nella traduzione di Armando Carlini era assolutamente innovativa. E sento che l’adozione di quel testo fu
ripetuta più volte negli anni successivi.
E c’era un tempo durante le ore di filosofia in cui si intratteneva con alcuni dei suoi allievi che facevano
circolo intorno alla cattedra: parlava degli argomenti più diversi sollecitando anche il nostro intervento.
Tutti noi avevamo una certa trepidazione per il suo giudizio trimestrale e finale, che si esprimeva certo
seccamente con un voto, ma si aveva netta la coscienza che quel voto di ‘Filosofia’ andasse ben al di là
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della valutazione relativa alle rituali specifiche interrogazioni su temi filosofici e che investisse invece tutta
la nostra personalità. Perché Menon scrutava nel profondo di ognuno. Quando in vista dell’esame di maturità
e del salto poi verso l’università osai chiedergli un parere sulla scelta che avevo maturato, articolò con
estrema schiettezza su di me un giudizio del quale gli sono ancora grato: disse che poteva indicare altri che
erano di intelligenza più brillante e ardente della mia, ma che io potevo far leva su una forte
determinazione e tenacia nel perseguimento degli obiettivi nella ricerca umanistica. Ho sempre fatto conto
nella mia vita di questo giudizio che mi assicurava naturalezza nel riconoscere il maggior valore di altri e
nel far leva sulla continuità dell’impegno intellettuale.
E a proposito della mia determinazione e tenacia devo sfatare una leggenda che l’amico Sartori dice girava
su di me negli anni successivi ai miei: io sarei stato l’unico esempio di uno studente che, nel corso delle
vacanze estive di un solo anno, era riuscito a leggere una cinquantina di libri compresi in una sorta di
canone che Menon consigliava di leggere. La verità è un’altra: io avevo avuto in dono da mio padre il
Dizionario delle opere e dei personaggi di Bompiani che è un repertorio bibliografico analitico della
letteratura mondiale messo insieme miracolosamente in tre anni dal 1947 al 1950, a cui hanno collaborato
500 tra letterati, critici, linguisti, storici della filosofia di prima grandezza coordinati da trenta direttori di
sezione (basta fare i nomi di Attilio Momigliano, Eugenio Garin, Francesco Gabrieli, Giuseppe Billanovich,
Giorgio Pasquali, Giorgio Petrocchi, Gennaro Perrotta, Norberto Bobbio, Sebastiano Timpanaro senior; è un
bell’esempio - sono gli anni della rinascita dopo la guerra - di stretta ed efficace collaborazione
intellettuale a un’impresa che poi avrà molte riedizioni). Io semplicemente avevo detto al professor Menon
che avevo potuto farmi una prima idea dei testi di quel canone che lui aveva consigliato, grazie alle ampie
sintesi presentate in questo Dizionario che ancora conservo come prezioso. Ma la lettura di quelle pur
autorevoli sintesi non poteva certo sostituirsi alla lettura diretta.
Cesare Sartori nel profilo biografico premesso alla raccolta di poesie Qui per me ora blu ha molto bene
indicato i pensatori e le correnti culturali alle quali si è ispirato. Mi permetterei di insistere, come ho già
detto a Sartori, su Michel de Montaigne l’autore degli Essais il cui antidogmatismo e il cui scetticismo si
manifesta nella domanda: «que sais-je?», che cosa so io? La lettura degli Essais ci era insistentemente
raccomandata (una antologia fu adottata il secondo anno). Ma seguendo proprio Montaigne, che commenta e
discute molti luoghi di autori classici, egli andava volentieri alla ricerca dei filosofi antichi che avevano
professato il loro scetticismo: mi colpì un giorno la definizione che diede dei dieci tropi, cioè delle dieci
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proposizioni che secondo Enesidemo (filosofo seguace di Pirrone, tardo esponente dell’indirizzo scettico,
risalente al I secolo a.C., contemporaneo di Cicerone), non possono che portare alla conclusione che si deve
sospendere il giudizio, che non si può affermare la verità di qualcosa: questi tropi sono proposizioni che
insistono sulla relatività del giudizio, sui vari condizionamenti che l’uomo subisce e che portano
inevitabilmente all’ἐποχή, alla sospensione del giudizio. Dava di questi tropi una definizione icastica che mi è
rimasta impressa: diceva che sono lo «schiaccianoci» di qualsiasi dogma, nel senso appunto che demoliscono
ogni dogma.
Di Enesidemo si trovava solo fugace menzione nel grigio Manuale di filosofia, che allora veniva generalmente
adottato, di Eustachio Paolo Lamanna. Menon attingeva direttamente alle fonti antiche (Diogene Laerzio e
Sesto Empirico) e anche a trattati di storia della filosofia di ben altro rilievo. E io mi figuravo che, dopo
aver lasciato lo Stellini con la sua bicicletta nera (credo fosse una Bianchi), si ritirasse a casa sua nella
sua biblioteca e come Machiavelli dice di sé nella confidenza che fa a Francesco Vettori nella lettera del
1513 «vestisse panni curiali» e conversasse con i suoi autori, antichi e moderni «e tucto si trasferisse in
loro, sdimentichando ogni affanno». Non voglio certo dire che Menon considerasse la scuola alla stregua
dell’osteria di San Casciano dove Machiavelli sostava volentieri e si «ingaglioffava giocando a cricca e a
tricttrac», prima appunto di ritirarsi nel suo studio. Menon amava la scuola e l’esercizio concreto
dell’insegnamento, ma (così appariva a me) sentiva ancor di più l’esigenza di stare per una buona parte della
giornata solo con se stesso, in un eremitaggio impenetrabile. Che le molte letture e le meditazioni solitarie
di Menon dovessero produrre frutti non c’era dubbio. Ma io pensavo che nelle sue carte si trovassero
pensieri, riflessioni nati da meditazione personale e dal dialogo con gli autori del passato come appunto
sono gli Essais di Montaigne o lo Zibaldone di pensieri di Leopardi. Ora sappiamo grazie all’appassionato
lavoro di ricerca tra le carte lasciate da Menon fatto da Cesare Sartori che ha dedicato le sue ore in
isolamento soprattutto alla produzione di versi.
Leggendo la raccolta curata da Sartori, ho trovato un componimento poetico composto tra gli anni ’40 e la
fine degli anni ’50 che forse, se ho bene inteso, lascia trasparire la sua visione filosofica ed esistenziale:
Ritorno
Mia stanchezza, distenditi sul prato,
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Morbida e calda coltrice di sole:
Piano ritorno dentro l’increato
Sazio alla fine di aride parole
E non mi duole più l’acuto iato
Tra conoscenza ed essere, parole,
Segni per me senza significato
Nella smarrita estasi del sole.
Bevo alla fonte mistica dell’uno,
Del quale sono un povero frammento,
eppure un tutto, pallido nessuno.
Nell’aria il fumo indugia, poi si sperde
Con un fluttuare di velami lento:
L’anima si confonde con il verde.
Significativa l’espressione «iato fra conoscenza e essere»: la vita intesa come incessante ricerca del vero
che produce anche sofferenza senza mai riuscire ad afferrare il suo oggetto. Ma ci sono momenti in cui
sembra di essere in unione mistica con l’Uno rispetto al quale ci si sente una pallida ombra.
Posso anche confermare il particolare legame di amicizia che Menon aveva con Alessandro Ivanov che allora
a noi insegnava italiano. L’indirizzo critico allora imperante era il crocianesimo, ma Ivanov si teneva ben
lontano dagli eccessi che portavano alla totale svalutazione del lavoro di scavo filologico al quale ero
particolarmente sensibile fin dagli anni del liceo. Erano allora, Menon e Ivanov, le due punte di diamante
della sezione A del liceo Stellini e qui mi piace associarli nel ricordo.
Antonio Carlini
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De Ioanne Iacobo Menone, magistro
(Epistula ad alumnos lycei Stellinii et utinensis studiorum universitatis)
Quanto pesa il manuale?
«Quanto pesa il manuale di filosofia, anzi di storia della filosofia?»: questa era la domanda con la
quale, invariabilmente, Gian Giacomo Menon cominciava la lezione introduttiva del corso in prima liceo.
Avverto in voi un moto di stupore, identico a quello nostro di allora. Quando fece quella domanda d’esordio
apparentemente insensata e bizzarra, ci guardammo tra di noi sconcertati e perplessi, qualcuno perfino
ridacchiò. Ma non c’era affatto ragione di stupirsi. Che fanno infatti il bravo artigiano, e l’artista prima di
cominciare a costruire/creare le loro opere, o il chirurgo prima di puntare il bisturi? Esaminano e controllano
gli strumenti di lavoro, gli attrezzi del mestiere nonché i materiali su cui dovranno lavorare: li «prendono in
carico». Ebbene, la prima lezione di filosofia con Menon consisteva proprio in questo: nella presa in carico
del 1° volume del manuale come oggetto, come involucro e contenitore le cui caratteristiche esteriori e
formali venivamo sollecitati a considerare e valutare accuratamente e in dettaglio prima di addentrarci nel
contenuto: titolo, autore (-i), casa editrice, numero delle pagine, anno di edizione, eventuali errori o refusi di
stampa (eravamo caldamente e insistentemente invitati a trovarli!)…
Poi, quando si passava al contenuto, di nuovo esso veniva definito e per così dire «misurato» in
termini quantitativi. «La filosofia antica comincia a pagina tot e finisce a pagina tot; in totale occupa tot
pagine, che divise per il numero complessivo di ore del corso annuale, fanno tot pagine all’ora; la filosofia
antica comincia nel 585 a.C. e finisce nel 529 d.C. La filosofia medievale comincia nel 529 d.C. e finisce nel
1453».
Tutto ridotto a termini elementari ed essenziali, ostentatamente semplici e perciò assimilabili come dati
certi, non suscettibili di letture vaghe o interpretazioni confuse ed equivoche. A noi il compito di leggere le
4-5 pagine di ciascun segmento della materia per conto nostro, a casa, e alla successiva ora in classe
prendere l’iniziativa della presentazione di specifiche «richieste di spiegazione», per le quali si era invitati a
fare apposita «domanda». «Domande! Fate domande!»: questa era, invariabilmente, dalla prima alla terza
liceo, l’esortazione con la quale Menon chiudeva ogni sua lezione. E la «domanda» doveva seguire un
preciso rituale, da rispettare come quando si riempie un modulo prestampato, identificando innanzitutto 11
con l’indicazione del numero della pagina e del paragrafo o della riga - il punto esatto del testo che ci era
risultato incomprensibile o non chiaro.
La lezione come sacra rappresentazione
Il nostro approccio allo studio della filosofia veniva così fin dall’inizio guidato lungo un itinerario
strettamente regolato: in primo piano c’è l’allievo che affronta da solo il testo del manuale e deve
accettare e abituarsi all’idea di essere lui il soggetto attivo, lui che con le proprie risorse deve misurarsi
con l’oggetto da conoscere e che, inevitabilmente, si trova e si troverà sempre di fronte a punti oscuri o ad
ostacoli alla comprensione, lui che deve comunque saper consapevolmente «identificare». Quindi, l’allievo fa
domande. E di fronte a lui c’è l’insegnante, che «risponde». «Spiegare» per Menon equivale a «rispondere» .
«Trattare la materia» equivale a «partecipare alla ricerca della soluzione di un problema» il cui contenuto è
stato in qualche modo posto, colto, percepito, intuito dall’alunno. A quest’ultimo, anche se non sempre se ne
rende conto,
spetta, nella sacra rappresentazione, il ruolo di
attore protagonista.
Descritto così, lo schema della lezione di filosofia risulta un gioco con poche semplici regole, che
costringono i giocatori entro ruoli fissi rigidamente determinati: è così perché, con Menon, per poter
cominciare a parlare di filosofia è necessario che il terreno su cui ci si muove sia accuratamente
circoscritto; e che la posta in gioco, la materia da trattare, sia prima di tutto misurata quantitativamente.
Menon «recita» il suo ruolo servendosi di testi «facili» e si diverte a disegnare alla lavagna schemi
elementari di inquadramento temporale e tematico dell'oggetto di studio. Lo fa consapevolmente, per una
scelta di metodo «tattica»: si parte da premesse semplici e si rimane aderenti a nozioni elementari, ma
questa apparente semplicità rende poi possibile lo svolgimento e il dipanarsi di una trama libera, che
ripropone ogni giorno in modo imprevedibile l’esperienza originale di un incontro e di un dialogo alla pari tra
un
insegnante/mago
da
una
parte
e
allievi
più
o
meno
ingenui
dall’altra.
La scenografia è essenziale e molto simbolica: l’insegnante ogni giorno si cerca un posto tra gli allievi, non
li guarda dalla cattedra né passeggia avanti e indietro tra i banchi spiegando e pontificando. No. Menon si
siede fisicamente vicino a uno o una di noi, scegliendolo/la di solito per la posizione centrale; e «si pianta»
tra i banchi come il perno della giostra che sta per iniziare a girare. Sta sul nostro stesso piano e
sembra che voglia sfidarci, offrendosi come un bersaglio, a nostra totale disposizione,
Pretende «soltanto» - e non è certo pretesa da poco - che le domande e le osservazioni siano poste
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in modo rigoroso, nel rispetto di una severa disciplina formale, che scopriamo essere scientificamente
studiata. In questo modo, ottiene che si creino le condizioni elementari di «sicurezza» per potersi lanciare in
quel numero impegnativo che sta per iniziare.
Come una cordata alpinistica
«Sicurezza»: come fa una guida alpinistica, nell'intraprendere una scalata alla testa di una cordata di
principianti, sapendo che ogni salita ha le sue insidie per tutti, lui per primo. Una volta fissata «la
sicurezza», la guida comincia ad avanzare, ad arrampicarsi, prima piano saggiando il terreno, poi con sempre
maggiore scioltezza, sempre più in alto. Sembra assorto, nella sua arrampicata, ma ogni tanto si rivolge
verso i suoi giovani compagni, invitandoli con lo sguardo a seguirlo. Loro non parlano, sono attenti e
concentrati, ‘calamitati’ letteralmente dai suoi movimenti agili, precisi e sicuri; mentalmente li registrano,
pensano che prima o poi saranno loro a doversi mettere a loro volta alla prova. Si sale, così, di lena e
quasi senza soste per un’ora intera, ma con quella guida l’arrampicata è leggera, non ci si rende conto dello
sforzo. Anche lui sembra divertirsi, lo si intuisce qualche volta dallo sguardo compiaciuto e un po’ beffardo
che rivolge di tanto in tanto a quelli che gli tengono dietro con maggiore prontezza, che sembrano
apprezzare di più l’itinerario che quel giorno ha scelto di fare. Ogni giorno un itinerario simile, eppure
sempre diverso, sempre originale, sempre inaspettato. Niente di banale o ripetitivo. È un allenamento
costante, quotidiano, metodico, condotto con straordinaria serietà anche se si mantiene quasi sempre su
percorsi apparentemente facili, sembra voler evitare passaggi troppo impegnativi e rischiosi. Ci sarà tempo
anche per quelli. La guida non lo dice ma lo fa capire: oggi non ve li godreste, sarebbero una fatica inutile
senza la soddisfazione di arrivare in cima, imparate prima a saggiare bene il terreno, a familiarizzarvi con
ogni genere di ambiente e di tempo e, seguendo le mie raccomandazioni, godetevi anche tutto quello che di
più interessante si offre nel panorama che ci circonda.
La «scalata» a Heidegger
È così che arrivati all’inizio del terzo anno, ci è stato annunciato, senza tanti preamboli, che avremmo
«scalato» la temuta Nordwand: Heidegger. Chi l’avrebbe detto. Se a uno di noi fosse passata per la testa
un’idea simile e l’avesse proposta lui come lettura di classe, dubito che Menon si sarebbe trattenuto
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dall’espellerlo dall’aula, seduta stante. Chissà invece come gli è venuto in mente, sarà accaduto forse che
per suo divertimento avrà deciso di fare un po’ di esercizio e di dimostrare (a sé stesso) che avremmo
potuto farcela tranquillamente, come bere un bicchier d’acqua.
Così è, infatti. Scopriamo di essere allenati a usare la tecnica di studio a cui ci ha incessantemente
abituato: misurare con cura la distanza da percorrere, suddividere il tracciato in parti, attenersi alla lettera
del testo. In classe, collocato strategicamente, Menon legge, scandendo le frasi e le parole chiave,
assicurandosi che ne comprendiamo bene il pieno significato. Senza quasi rendercene conto ci troviamo
immersi nel discorso di Heidegger e riusciamo a seguirlo passo passo mentre si dipana, senza mai perdere il
filo, come giovani esecutori orchestrali che affrontano per la prima volta uno spartito musicale ostico sotto
la guida di un direttore prestigioso che invece già lo conosce a memoria.
Ci sono passaggi più facili, in cui è possibile riconoscere la corrispondenza o l’analogia con concetti già
studiati, il riferimento a problemi classici della storia del pensiero e agli autori che sia pure
superficialmente abbiamo già incontrato e imparato a conoscere. Menon li sottolinea sistematicamente questi
passaggi, ce li fa notare quando si nascondono tra le righe del testo, ci rinvia alle pagine del Lamanna, ai
luoghi dove li abbiamo originariamente incontrati e studiati, permettendoci così di usarli come «appigli»
insperati, cui afferrarci saldamente per avanzare con più sicurezza nella comprensione del testo. E ci sono
punti «difficili» in cui si avverte il rischio di rimanere bloccati come davanti a un muro. In questi passaggi
cruciali, di grado superiore, Menon apre decisamente la strada formulando parafrasi accurate ma
rigorosamente aderenti al significato dell’originale.
Non che da parte sua lasci intendere di voler prendere minimamente posizione nel merito. Anzi, al
contrario di Armando Carlini, curatore di quell’edizione del testo e delle note (il quale ogni tanto si
permette anche di correggere Heidegger o di commentare criticamente certi passaggi), con la sua rigorosa
lettura Menon mantiene, invece, la più scrupolosa neutralità: si preoccupa che, per il tramite dell’elementare
parafrasi del testo da lui proposta, il pensiero originale dell’autore ci arrivi puro e intatto come se lo
ascoltassimo direttamente di persona dalla sua viva voce.
«Lettura di Heidegger», dunque, come esemplare saggio di applicazione della «menoniana ἐποχή», che
non significa atteggiamento distaccato e scettico verso l’oggetto trattato, ma al contrario corretto
avvicinamento all’autore e testimonianza di autentica rispettosa comprensione del suo pensiero. Ma anche
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«lettura in classe di un testo di filosofia» come «disvelamento» ( ἀλήθεια) dell’atteggiamento di profondo
rispetto e di affettuosa simpatia che Menon nutriva verso i suoi allievi.
In conclusione, che cosa abbiamo appreso da Menon? Che era straordinariamente all’avanguardia:
l’insegnante non è un disseminatore d’informazione, il depositario indiscusso di un sapere universale,
astratto e decontestualizzato quanto piuttosto un facilitatore, un tutor, un coach e counselor che guida
l’allievo a riconoscere con consapevolezza e a ridefinire in modo riflessivo la trama delle sue competenze;
lo studente, trattato come «attor (giovane) protagonista», deve avere un ruolo attivo e deve abituarsi a
individuare problemi e a cercare di risolverli costruendo e verificando ipotesi, individuando le fonti e le
risorse adeguate, operando collegamenti e relazioni all’interno di una disciplina e tra discipline diverse;
l’allievo deve allenarsi alla lettura e all’interpretazione autonome di testi scritti. Insomma, ci ha fatto
vedere come si «impara a imparare»… Insomma, tutto il contrario della Scuola-Edipo e della Scuola-Narciso
descritte da Massimo Recalcati nel suo recente L’ora di lezione – Per un’erotica dell’insegnamento, un
libro profondo, emozionante (e per me in certi punti anche commovente: nel senso che mi sono proprio
commosso mentre lo leggevo) che vi consiglio caldamente di leggere, di far leggere (e vi direi perfino di
consigliare, se non lo conosce già, anche a qualcuno dei vostri migliori insegnanti; con gli altri forse non
vale neppure la pena di provarci!); e dove incontrerete e farete la conoscenza di Giulia Terzaghi…
«Der liebe Gott steckt im Detail»
Quando spiegava un testo, un passo, Menon sembrava un talmudista chassidico 1: si soffermava su ogni
parola, riga e frase spiegando, citando, collegando, chiarendo, interpretando, approfondendo: etimi, lemmi,
concetti… Allora noi capivamo poco il senso di quel suo continuo e instancabile insistere sulla precisione, il
rigore, la scrupolosità e la cura dei dettagli di quelle che ‘sembrano’ minuzie e pedanterie, ma che in realtà
– lo avremmo capito in seguito: all’università, nella vita, nelle professioni – diventano visioni interpretative
che, come ci ricorda William Blake, ti consentono divedere «a World in a Grain of Sand»)… E poi, ditemi, nel
brano che state traducendo quale sarà il significato più appropriato e corretto di ὁράω tra le 12 possibili
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Chi ha letto almeno Danny l’eletto e La scelta di Reuven (entrambi Garzanti editore) di quel grande romanziere americano che è
stato Chaim Potok (1929-2002), sa di che cosa sto parlando; a chi ancora non li conosce suggerisco di affrettarsi a farlo: sono due
tra i più belli e avvincenti romanzi di formazione (Bildungsroman) della letteratura mondiale del ‘900
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sfumature (nella sola forma attiva) riportate dal vocabolario? Non sarà mica una fisima se il Montanari
dedica un’intera pagina (1338) ai vari significati/sfumature di μετὰ. O no?
Eppure noi avremmo dovuto saperlo che per un chiodo mancante si può perdere un regno e che per un
accento sbagliato o una virgola fuori posto si può perdere la vita! E anche voi dovreste saperlo. Mi
guardate stupiti e perplessi? Ma In mancanza di un chiodo si perse il ferro di cavallo / In mancanza del
ferro di cavallo si perse il cavallo / In mancanza del cavallo si perse il cavaliere / In mancanza del
cavaliere si perse la battaglia / In mancanza della battaglia si perse il regno? Non è forse vero che se
l’accento cade sulla iota (βίος) vivi, ma se cade sull’omicron la freccia scagliata dall’arco (βιός) potrebbe
trapassarti il cuore? E che se stai per andare in battaglia un banale segno d’interpunzione deciderà se
tornerai o meno dai tuoi cari (Ibis redibis non morieris in bello)? Che il dettaglio sia importante lo pensava
anche Aby Warburg, il grande storico e critico dell’arte tedesco, che aveva eletto a suo motto la frase:
«Der liebe Gott steckt im Detail», il buon Dio abita nel dettaglio (e anche se poi qualcuno poi lo corresse
laicamente, sostituendo Teufel a Gott, il senso non cambia). Per restare nel campo delle arti, il regista
cinematografico Giuseppe Tornatore ricorda sempre che più si è capaci di scavare e rivelare il «particulare»,
più si diventa universali e che un paesino siciliano se ben ‘ascoltato’, parla a tutto il mondo.
«Filologia – ha scritto Nietzsche - è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una
cosa: farsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento. È un’arte e una perizia da orafi
della parola, che deve compiere un finissimo, attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento.
Proprio per questo ci attira e ci incanta, in un’epoca della fretta, della precipitazione indecorosa e
trafelata, che vuole sbrigare immediatamente ogni cosa, anche i libri, antichi o nuovi [che riflessione
preveggente!]. Per una tale arte non è tanto facile sbrigare una qualsiasi cosa, perché insegna a leggere
bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, con riguardi, con attenzione, lasciando porte aperte, con dita
e occhi delicati. Un’arte, una ribellione silenziosa e disciplinata al presente, un’ostinazione ad affinare
l’interpretazione perché il rigore e la delicatezza prevalgano sulla parzialità e sulla fretta».
L’insegnamento di Menon era un quotidiano allenamento a difenderci da pressapochismo, superficialità,
approssimazione, incompetenza, faciloneria, furbizia… Uno stile di insegnamento in perfetta e piena sintonia
con gli apoftegmi e le massime di vita che ci elargiva ad ogni lezione: uscite dal gregge e dalla massa, siate
egregi e non gregari, siate individui e autentici, conoscete voi stessi, non siate velleitari, non siate
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frettolosi nel dare giudizi ma praticate l’ἐποχή che per lui non significava atteggiamento scettico,
distaccato bensì al contrario corretto avvicinamento all’autore e al testo, testimonianza di autentica e
rispettosa comprensione. E poi, soprattutto, osate e rischiate sempre in nome della conoscenza, non fate
come il George Gray di Spoon River che per paura del dolore, degli imprevisti, degli inganni dell’amore non
ebbe il coraggio di alzare le vele della vita e di prendere i venti del destino e si ridusse a condurre
un’esistenza senza senso torturato dall’inquietudine e dal vano desiderio.
Controverso, «scandaloso» e poeta
Menon - era nato a Medea, in provincia di Gorizia nel 1910 quando lì era ancora territorio austroungarico ed è morto a Udine nel 2000 - ha insegnato storia e filosofia allo Stellini ininterrottamente per
30 anni: dal 1939/’40 al 1967/’68. «Per me andare a scuola a insegnare era una festa», ha lasciato scritto
in un appunto quando era già vecchio.
Per la società civile e scolastica del tempo Menon era un «sovversivo» e costituiva uno «scandalo»:
controcorrente, anticonformista, provocatore beffardo (qui riaffiorava sempre l’ex futurista e dadaista che
c’era in lui), eccentrico, anticonvenzionale, irrispettoso, snob, istrione, narciso, a volte crudele e feroce,
maschilista, manipolatore…: lo si può riconoscere un po’ in ognuna di queste definizioni, ma nessuna di esse
da sola è esaustiva, nessuna da sola può pretendere di definirlo; sono tutte vere ma incomplete.
Oltre che insegnare, l’attività che più lo ha impegnato per tutta la vita fu scrivere poesia: ne ha
scritte oltre 100mila, ben più di un milione di versi, quasi tutte inedite. La poesia è stata l’unica amante alla
quale rimase fedele per tutta la vita.
Se fate, come io ho fatto, un sondaggio tra i miei ex compagni di classe della 3ªA dell’anno scolastico
1967-’68, ancor oggi a quasi 50 anni di distanza, ne ricaverete risposte diverse e contraddittorie. Eccone un
significativo florilegio dove ho alternato giudizi negativi e positivi: «A causa sua ho lacune spaventose in
storia e filosofia»; «Mi preparò alla ben più ampia rottura con i paradigmi tradizionali che mi avrebbero
interpellata nella Trento sociologica del ’68; la mia preparazione in filosofia per la maturità era molto
buona; sollecitandoci a chiedere quando non avevamo capito, promuoveva il nostro spirito critico»; «Lo
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consideravo un complessato, maschilista ed egocentrico con gravi problemi di relazione con le donne e di
un’infelicità incolmabile, inadatto a insegnare»; «Per noi che lo abbiamo avuto vicino e abbiamo goduto
della sua presenza nelle aule e nei corridoi dello Stellini, ricordarlo e parlare di lui vuol dire continuare
a riflettere e ricostruire i passaggi più autentici della nostra crescita e maturazione»; «Umanamente
immaturo, intelligente e colto ma con una concezione aristocratica della cultura»; «La sua grandezza come
insegnante: non era per niente provinciale, ci ha mostrato che fuori di lì: scuola, famiglia, Udine… c’era
un mondo di pensiero in movimento e che noi eravamo liberi di accedervi»; «Come insegnante era una
nullità, parlava solo per chi era in grado di seguirlo, era brutale e si divertiva a mettere a disagio le
persone; io andai a ripetizione in vista dell’esame»; «Mi ha insegnato a scegliere e volere; provo per lui
gli stessi sentimenti di allora: fascinazione e compassione, gratitudine per gli orizzonti che mi, ci ha
aperto, tristezza per il sottofondo disperato e per il beffardo cinismo che traspariva dai suoi
atteggiamenti e che ha segnato la sua vita»; «Mente e cultura di indiscutibile altezza e ampiezza, ma
provavo disprezzo per le sue qualità umane e trovavo nei suoi gesti folli e nel suo maschilismo la stessa
rozzezza dei contadini e degli operai del mio paese, solo che loro avevano la scusante di non essere
acculturati; era un intellettuale borghese per il quale il sesso era il luogo dove affermare una superiorità
che si sa frustrata»; «Praticava con gli allievi l’autovalutazione: che voto ti metti?; in realtà a me del
voto non interessava nulla, mi interessava la sua stima; se l’insegnante non fosse stato Menon,
avremmo un’idea molto povera della filosofia».
Ma c’è chi la pensa diversamente, e mica uno qualunque! Marino Rosso, già ordinario di filosofia del
linguaggio all’università di Firenze nonché tra i massimi esperti italiani di Wittgenstein, uno che Menon non lo
ha conosciuto di persona ma ha solo esaminato e valutato il commento-spiegazione che Menon fece in classe
di Che cos’è la metafisica? di Heidegger, ha scritto: «Provo un’autentica ammirazione per le sue eccellenti
note esplicative e penso alla soddisfazione che proverei nel contribuire a valorizzarle; è un’esperienza
notevole leggere Heidegger in compagnia di Menon; prima o poi mi prenderò il tempo e il piacere di mettere
in parole tutto il bene che penso dell'accompagnamento menoniano al testo di Heidegger».
Sono numerosi, tra gli allievi di Menon, coloro che in seguito si sono distinti nella vita e nelle
professioni. E tutti lo ricordano con simpatia, ammirazione, riconoscenza. Ve ne cito solo alcuni: il
neuroscienziato Giacomo Rizzolatti, scopritore dei neuroni specchio; il negoziatore di pace Giandomenico Picco,
ex braccio destro dell’allora segretario generale dell’Onu Perez de Cuellar; il filologo classico della Normale
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di Pisa Antonio Carlini (che ancor oggi definisce Menon un «insegnante socratico»); il grecista Carlo Odo
Pavese; Itala Vivan, tra i massimi esperti italiani di letteratura africana anglofona; l’attrice Anna Buonaiuto.
Quirino Principe, decano dei critici musicali italiani, che dall’incontro con Menon ne ebbe, lui giovanissimo, la
vita cambiata, oggi così scrive: «L’immagine che ho sempre avuto di lui [Menon] è di una luce che si accende
improvvisa dopo un lungo buio».
Il rischioso rapporto maestro-allievo
E allora come la mettiamo? Una cosa comunque è certa: durante le sue lezioni non ci si annoiava, alle
sue lezioni era difficile restare indifferenti. Un’ora con Menon poteva aprire un mondo; le sue lezioni erano
avventure, incontri, esperienze intellettuali ed emotive profonde. Le sue lezioni erano boccate di ossigeno, di
aria fresca e nuova; assistervi era come risvegliarsi ogni volta sotto l’effetto di quel benefico e vivificante
«vento di primnavera» di cui parla Nietzsche nella Gaja scienza.
È accertato che in ognuna delle classi in cui ha insegnato – in 40 anni gli sono passate per le mani almeno
due generazioni di studenti friulani – Menon ha suscitato grandi innamoramenti e passioni (con e senza
virgolette!), soprattutto da parte delle sue giovani allieve. L’insegnante è sempre anche uno showman e «in
ogni docente efficace e carismatico si cela sempre un attore, un professionista più o meno riconosciuto
dell’eloquio e del gesto». Il rapporto maestro-allievo presenta sempre aspetti rischiosi: un professore
ispirato, un maestro carismatico tengono in pugno lo spirito dei loro allievi e «i pericoli e i privilegi sono
sconfinati». Ogni incursione nell’altro (s)confina con l’erotismo e lo innesca. Una lectio magistralis, un corso,
un seminario, perfino una conferenza possono generare un’atmosfera satura di tensioni erotiche. Platone
non ci ha forse avvertiti tanto tempo fa che non si apprende se non per via erotica? Un desiderio di
compiacere il maestro è evidente sia nel Simposio sia nell’Ultima Cena.
È difficile non ammettere che «l’erotismo, coperto o dichiarato, fantasticato o messo in atto, è
intrecciato intimamente all’insegnamento» e che nell’insegnamento è insito un inevitabile processo di
seduzione. «Il sapere si può amare, si può trasformare in corpo erotico». Il docente si rivolge alla mente,
ma anche al corpo dell’allievo, due sfere inseparabili. E Menon lo era, a tutti gli effetti, un seduttore e un
dongiovanni intellettuale; un professore del desiderio di imparare. Nel corso dei millenni e nelle società più
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diverse, la situazione dell’insegnamento ha messo intimamente a contatto uomini e donne maturi con
adolescenti e giovani. Socrate trovava appagamento nei ragazzi e nella loro radiosa nudità. È in questo
groviglio che la bruttezza fisica può sedurre la bellezza. Non mancano esempi illustri: Alcibiade e Socrate,
Cavalieri e Michelangelo… Neppure Menon era un adone: piccolo, tozzo, sdentato, ma la forza di seduzione
del maestro non conosce rivali, il lògos diventava irresistibile... Fin dal Simposio di Platone,
nell’insegnamento c’è un’attenzione speciale e particolare per l’erotico, per la sessualità in tutte le sue
sfumature. Attenzione che ravviva e intorbida la trasmissione del sapere e della saggezza filosofica dai
vecchi ai giovani, dagli uomini alle donne (talvolta, meno spesso, viceversa): si consideri la cecità del
desiderio tra Alcibiade e Socrate, tra Fillide e Aristotele, Abelardo ed Eloisa, Hannah Arendt e Heidegger.
La logica tra le braccia dell’amore!
Agostino sosteneva che una teoria della pedagogia fa sempre riferimento all’enigma del libero arbitrio e
che quindi alla fine la responsabilità è sempre individuale; è altrettanto certo tuttavia che l’insegnamento è
un’attività estremamente pericolosa per entrambe le parti in scena. Quel maestro reale che ti sta davanti
prende nelle sue mani quella che è la parte più intima dei suoi allievi, quella che George Steiner con una
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splendida immagine definisce «la materia fragile e incandescente della loro possibilità» .
2 A proposito di maestri, George Steiner scrive in quel grande libro che è La lezione dei maestri (Garzanti, Milano, 2004, p. 171):
«Libido sciendi, desiderio sfrenato per il sapere, brama per il comprendere: è il motto inciso negli uomini e nelle donne migliori. Tale
è pure la vocazione del maestro. Non esiste una professione di maggior privilegio. Risvegliare in un altro essere umano forze e sogni
superiori alle proprie; indurre in altri l’amore per quello che amiamo: è una avventura senza pari. Quando si allarga, la famiglia dei
propri studenti somiglia al ramificarsi, al rinverdirsi di un tronco che sta a sua volta invecchiando (io ho studenti in 5 continenti). È
una soddisfazione incomparabile quella di essere il servitore, il corriere dell’essenziale, anche sapendo perfettamente quanto pochi,
pochissimi, possano essere i creatori e gli scopritori di prim’ordine. Anche a un livello modesto, come quello di maestro di scuola,
insegnare, e insegnare bene, significa essere complici di possibilità trascendenti. Una volta risvegliato, quel bambino esasperante
nell’ultima fila potrà scrivere pagine o concepire teoremi che terranno impegnati per secoli. (…) Laddove uomini e donne si
affannano, scalzi, a trovare un maestro (…), la forza vitale dello spirito è salvaguardata. Abbiamo visto che il magistero è fallibile,
che gelosia, vanità, falsità e tradimento si intromettono quasi inevitabilmente. Ma quelle speranze sempre rinnovate, l’imperfetta
meraviglia della cosa, ci conducono alla dignitas della persona umana, al suo approdo alla parte migliore di sé. Nessun mezzo
meccanico per quanto rapido, nessun materialismo per quanto trionfante, possono cancellare il nuovo giorno che viviamo quando
abbiamo compreso un maestro. Quella gioia non allevia certo la morte. Ma ci rende furiosi per il suo spreco. C’è tempo per un’altra
lezione?»
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Tre doni (che riversava intorno a sé)
Tre anni fa, dopo aver riunito molti ex compagni di classe, ho constatato con piacevole stupore come
Menon sia tutt’ora indimenticabile per la grande maggioranza dei suoi allievi. Come diavolo è possibile?, mi
sono chiesto. Poi ho cercato di darmi qualche spiegazione. Aveva alcuni doni che riversava intorno a sé.
Intanto il carisma (χάριςμα), quell’attributo che significa grazia, autorevolezza, prestigio, dottrina,
saggezza, sapienza, fascino… e che, come il coraggio di don Abbondio, uno se non ce l’ha difficilmente se lo
può dare.
Poi aveva il λόγος, polisemica parola greca che vuol dire tante cose: parola, discorso, intelligenza;
ragione universale e pensiero divino secondo Eraclito, ragione generatrice che conferisce ordine e vita a
tutte le cose per gli stoici, quel qualcosa che contiene in sé il bello, il buono e il giusto stando a Plotino…
Terzo, Menon fu un impareggiabile pontifex, letteralmente un costruttore di ponti tra culture e
discipline diverse, ponti gettati verso e sul mondo per sfuggire alle ristrettezze culturali e mentali della
piccola provincia udinese; un «insegnante-testimone capace di aprire mondi attraverso la potenza erotica
della parola e del sapere che essa sa vivificare» (Massimo Recalcati). Per lui non eravamo «vasi vuoti da
riempire, ma fiaccole da accendere» (Plutarco). Che poi, a ben vedere, è lo stesso atteggiamento,
volutamente provocatorio, che Socrate adotta nei confronti del giovane Agatone nella scena iniziale del
Simposio. Su questo terzo punto in particolare potrei portarvi decine di esempi, ma basteranno quattro nomi
per darvi un’idea di quello che intendo dire: Eric Berne, Umberto Eco, Jurij Tynianov, Alan Watts. E vi prego
di considerare che stiamo parlando di mezzo secolo fa. E che eravamo a Udine, non a New York.
Storicamente ci trovavamo cioè soltanto alla vigilia di quella feconda stagione di rinnovamento nelle idee e
nelle pratiche pedagogiche che furono il ’68 e, in seguito, ma in modi e con conseguenze diversi, il ’77.
Tra il 1966 e il 1968 Menon ci parlò a lungo, sollecitandoci a leggerli, dei seguenti libri,
appartengono alla famiglia dei libri capaci di fare esistere mondi nuovi, impensati, sconosciuti:
libri che
1) A che gioco giochiamo (prima edizione Bompiani 16 febbraio 1967), il testo allora più innovativo nel settore
della psicologia dei gruppi scritto dal canadese Eric Berne (1910-1970), padre fondatore dell’analisi
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transazionale e della psicoterapia sistemico-relazionale (quello, per intenderci, del celebre THBFDP: Ti ho
beccato figlio di puttana);
2) Opera aperta, il rivoluzionario e ‘provocatorio’ saggio teorico di Umberto Eco che all’inizio degli anni ’60
dell’altro secolo segnò in Italia uno spartiacque fondamentale nell’approccio critico-interpretativo all’opera
d’arte (seconda edizione italiana Bompiani aprile 1967);
3) Il problema del linguaggio poetico di Jurji N. Tynjanov (1894-1943), filologo, teorico della letteratura e
scrittore russo, uno dei più influenti critici formalisti insieme ai sodali Viktor B. Šklovskij e di Roman
Jakobson (prima edizione italiana Il Saggiatore, maggio 1968).
4) L’ultimo esempio che vi propongo ha bisogno di una lunga illustrazione che spero non vi annoi.
Esattamente due anni fa, in questo periodo, uscì nelle sale italiane un film di Spike Jonze dal titolo Her
(Lei) che forse qualcuno di voi ricorda. Il film è ambientato in un futuro vicinissimo, in un mondo che sta
dietro l’angolo e che per certi aspetti è già tra noi. Theodore, uomo solo e introverso, di professione scrive
accorate lettere per conto di altri, dettandole al computer. Infelice per il divorzio dalla moglie, Theo nel
tempo libero cerca di distrarsi frequentando chat telefoniche. Attratto da uno spot pubblicitario, decide di
acquistare un nuovo sistema operativo, basato su un'intelligenza artificiale in grado di evolvere, adattandosi
alle esigenze dell'utente. Durante l'installazione sceglie una voce di interfaccia femminile e il sistema si dà
autonomamente il nome di «Samantha». Fra Theodore e Samantha si instaura un legame sempre più forte e
intenso; lui si apre e si confida con lei, e l’intimità si spinge così avanti che lui si innamora di Samantha e
arriva perfino a fare (virtualmente) all’amore con lei. Turbato dall’andazzo che ha preso quella strana
‘relazione’, Theodore sente il bisogno di riflettere e si rifugia in un isolato cottage di legno immerso in un
bosco innevato sulle montagne. Lì viene ‘inseguito e raggiunto’ telefonicamente da Samantha la quale a un
certo punto lo mette in comunicazione con un professore universitario con il quale da tempo ha una
‘relazione’ on line: Alan Watts. A questo punto del film, ho fatto un salto sulla poltrona. Mia moglie,
stupita, mi chiede che succede e io le rispondo: «Ma io so chi è Alan Watts!». Quanti due anni fa, a Udine,
tra coloro che hanno visto il film di Jonze, sapevano o ricordavano chi era Alan Watts? Non vorrei
esagerare, ma erano sicuramente pochi, molto pochi: per trovarne qualcuno bisogna probabilmente cercare
tra gli studiosi di filosofie orientali oppure… tra gli ex allievi di Gian Giacomo Menon! Il filosofo inglese Alan
W. Watts (1915-1973), specialista di buddhismo, zen, taoismo e induismo, ha scritto un’opera considerata
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ancora oggi fondamentale sullo Zen che Menon ci consigliava caldamente di leggere (l’esemplare in mio
possesso - seconda edizione Bompiani, 1959 , con postfazione di Umberto Eco – porta la data d’ingresso del
settembre 1967 quando stavo per cominciare la terza liceo. E il libro me lo son dovuto far spedire
contrassegno direttamente dalla casa editrice perché neppure «Tarantola», la più fornita e specializzata
libreria cittadina, ne aveva una copia!).
Confrontarsi con l’eccellenza
Chi ha avuto Menon come insegnante ha avuto una fortuna, quella di trovarsi a contatto con il
riverbero di una mente sopraffina e di alto livello. Tutti noi abbiamo sperimentato direttamente la ‘minaccia’
che tale contatto costituiva, ne siamo stati in qualche modo ‘infettati’ perché è noto che l’eccellenza può
dimostrarsi spesso brutale e che confrontarsi con essa è un agòn, un pòlemos. A scuola come nella vita.
Dopo quel contatto, però, molti di noi non hanno più potuto dimenticare né quella luminosità né quel
riverbero né quella ‘minaccia’. Forse sono inattivi e silenti quei germi, quegli agenti dell’infezione, ma sono
sempre lì, in agguato, annidati in noi e pronti a balzar fuori.
E molti di noi ex allievi ancora oggi sono fieri di essere ‘sopravvissuti’ alle sue lezioni. Quando sei
stato esposto a quel virus – anche Menon ci trasmetteva quella contagiosa ‘malattia’ che Melanie Klein ha
chiamato epistemofilia -, non importa quanto a lungo, te ne rimarrà sempre un riverbero, uno stigma. Per il
resto della tua carriera e della tua vita privata, magari del tutto normali, magari banali e prive di
distinzione, avrai sempre, come avverte George Steiner, «una protezione contro il vuoto». Considero un
privilegio l’essere stato uno dei suoi allievi. E consapevole di quello che mi ha dato, del debito che ho nei
suoi confronti, a ognuno dei miei tre figli, quando hanno fatto il loro ingresso alle superiori (quella fase che
corrisponde probabilmente alla più importante, formativa e magica stagione della vita), ho augurato
soprattutto una cosa: di avere nella loro vita scolastica almeno un insegnante, fosse pure uno solo, come la
Giulia Terzaghi di Massimo Recalcati, il John Keating dell’Attimo fuggente o il professor Menon della sezione
A dello Stellini.
Come il vecchio Dencombe di quello stupendo racconto di Henry James che è Mezza età, anche Menon
«ha fatto vibrare qualcuno» che è la cosa che più conta quando tiri le somme della tua vita. Oh, sì, Menon
ci ha fatto vibrare, ne ha fatti vibrare molti: di desiderio di sapere.
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«In una classe quanti allievi pensi che debbano seguire con partecipazione le mie lezioni perché io mi
ritenga soddisfatto?», mi chiese una volta. «Mah, non so – risposi -, la metà, un terzo…». «Uno, me ne
basta uno per classe!», rispose. Anche ai veri cabalisti e a certi maestri eremiti era concesso un solo
discepolo; Nietzsche ebbe un unico allievo.
I dialoghi platonici, le Lettere di Seneca a Lucilio, la scuola di Tagore sono lì a dimostrare che non è
importante soltanto che cosa si insegna, ma anche come si insegna.
Lo sanno bene gli insegnanti e lo sappiamo anche noi che insegnanti non siamo, che si può insegnare
in tanti modi, ma che l’unico modo per insegnare con grandezza e lasciando un segno davvero duraturo è
suscitare dubbi e domande negli allievi, aprire e far ‘sorgere’ per loro mondi nuovi, inattesi, sconosciuti,
inaspettati, allenarli al dissenso, prepararli al distacco: «Ora lasciatemi», ordina Zarathustra; Empedocle
prega il suo discepolo di lasciarlo solo sul ciglio del cratere.
Postrema lectio
Un maestro di valore alla fine deve, dovrebbe rimanere solo. Menon alla fine rimase solo anche se
avrebbe voluto un braccio al quale appoggiarsi, una piccola mano da stringere, un cuore di cui ascoltare il
palpito, qualcuno da cui trarre un po’ di calore. Perché, vedete, lui sulla soglia dei 90 anni era ancora
capace di farsi accendere e devastare dalle cose dell’amore. In una poesia del giugno-agosto 1997 c’è un
verso che parla dei: «(…) nini morti d’amore (…)» [Menon era chiamato Nino in famiglia]. Lui, che la tragica
solitudine dell’essere umano, in precedenza l’aveva sempre teorizzata e perfino rivendicata con cinica
spavalderia intellettuale, soltanto ora ne sperimenta davvero gli effetti sulla propria pelle, sente il cocente
rammarico di aver avuto/voluto «una vita non vissuta», solo ora assume la piena e dolorosa consapevolezza
che fin lì dov’è arrivato nessuno, nessuno lo ha accompagnato, che i giochi sono ormai fatti e non si può più
tornare indietro. E allora che fa? Si butta in quello scrivere «matto e disperatissimo», si stordisce con la
scrittura per ottundere il dolore, per tentare – vanamente – di allontanare da sé l’ombra della fine, il
fantasma della Vecchia Mietitrice che gli alita sul collo. Specularmente a Katherine Mansfield che non voleva
morire per poter scrivere ancora e ancora, Menon scriveva ancora e ancora per non morire. Che altro
poteva fare? «Tu dici – scrive nell’agosto 1996 rivolgendosi alla donna che è stata l’amore degli ultimi
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vent’anni – che mi stanco a scrivere, e che cosa dovrei fare in tutte queste vuote ore di solitudine?».
E ora mi piace pensare che quel verso, quei «nini morti d’amore», sia un po’ come l’ultima lezione del
professore-poeta, l’esortazione finale e conclusiva rivolta a ognuno di noi a non mandare mai in pensione,
finché abbiamo un alito di vita, i sentimenti, le emozioni, la capacità di appassionarci e di innamorarci.
Il Talmud, uno dei testi classici dell’ebraismo, dice che nella vita dovremmo fare almeno due cose a
nostro favore: la prima è trovarci un maestro, la seconda trovarci un amico. Io che vi parlo,
nell’adolescenza e nella prima giovinezza ho trovato entrambi e ho voluto, sia pure con imperdonabile e
irrimediabile ritardo, rendere loro onore: al primo curando la pubblicazione di due libri di inediti, al secondo
dedicandogli uno dei due volumi.
La scrittrice statunitense Dorothy Parker ha scritto che «per conservare qualcosa, bisogna averne
cura». Io, con Menon, ho cercato di farlo per quanto mi hanno consentito le mie deboli, inadeguate e
periferiche forze.
Cesare Sartori
con la collaborazione e il contributo di Giuliano Abate e Gabriella Burba
[info su www.giangiacomomenon.it]
[contatti [email protected]]
Biblioteca Statale Isontina, Galleria d'Arte Mario Di Iorio - mercoledì 29 – giovedì 30 luglio 2015
SPAZZATURE “D'ARTISTA”. Installazione di Ernesto Paulin. - Blitz di 48 ore presentato da Cristina Feresin
Arte non – arte, arte. Pretesto per una riflessione sulla mia poetica
E' una denuncia, è quello che noi tutti vediamo e viviamo ogni giorno.
Questa è un tipo di arte trasversale che ha un punto di vista più ampio e comprende anche la vita (cosa
peraltro non nuova), a differenza dell'arte tradizionale più estetizzante, legata al bello e alla composizione
formale.
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Certamente dato che l'intervento è fatto da un artista, dentro alla denuncia metterà anche qualche
elemento della sua evoluzione artistica. Voglio concentrarmi sul fatto che l'uomo è ormai immerso nel
consumo e di conseguenza carico di scarti di ogni tipo. La plastica ha ricoperto la terra (vorrei citare
Christo che negli anni Settanta del secolo trascorso ricopriva spazi enormi di terra, spiagge ed edifici) e
non solo la terra, anche l'acqua (mari, fiumi, torrenti). Insomma sono preoccupato per il continuo
inquinamento che l'uomo produce alla terra, all'acqua e all'aria.
E' una preoccupazione che ho da anni. Ho paura che l'uomo soffocherà immerso dagli scarti. Per questo ho
deciso di fare questo intervento all'interno di uno spazio espositivo culturale-ufficiale, dove l'uomo esprime
il suo spirito (e anche il suo corpo). Il rapporto spirito-corpo è vicendevole, c'è un continuo scambio fra il
corpo e la mente. Anche l'artista senza manualità non riuscirebbe a dare forma alle sue idee.
L'idea del “blitz” è venuta perchè ho sentito un discorso fatto al volo da M. dopo la presentazione di una
mostra a Gorizia, diceva: “Basta con queste solite mostre che durano 15, 20 giorni, un mese. Uno, due giorni
dovrebbero durare!” e così mi è venuta l'idea dell'intervento-blitz che ho ritenuto una intuizione brillante e
presa da me al volo.
L'idea è di portare dentro un luogo deputato alla cultura una sorta di provocazione ma anche di catarsi,
cioè come dire: tu uomo leggi, studi, ti riempi di teorie e non guardi dove stai seduto, dove metti i tuoi piedi,
cosa calpesti ogni giorno... Guardati intorno e non solo sulle belle teorie!
Mi piaceva anche riflettere su quello che eravamo cinquanta sessanta settanta anni fa e quello che siamo
diventati oggi. Per esempio: il mondo contadino scomparso, con i suoi riti e miti, e l'essenzialità del vivere
(qui si può citare anche Pasolini) e quello che siamo diventati oggi senza più spazi di silenzio e un continuo
navigar a caccia di notizie, di informazioni... Un continuo parlare, vociare, chiacchiericciare di nulla presi nella
rete come i pesci senza una vera libertà (come mi diceva un prete tanti anni fa: “Quando vedi che tutti
vanno da una parte, tu devi andare dalla parte opposta”).
Se una persona è considerata artista, dovrebbe essere considerato in toto, perciò tutto quello che fa (con
una certa intenzione) dovrebbe essere considerata arte (su questo argomento non c'è niente di nuovo, è già
stato teorizzato più volte). Un'azione, un gesto, non solo un prodotto vendibile è arte (mi viene in mente
Joseph Beuys e la scultura sociale). Perciò l'arte è una pura comunicazione, spazia dove vuole, è
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completamente libera e può andare là dove di solito non ci si aspetta. E' imprevedibile, mobile, questa
dovrebbe essere la vera arte. Il prevedibile non è creativo e perciò non è arte.
Ritornando alle spazzature: è un dato di fatto imprescindibile, perciò reale, che un artista etico, quale io
sono, non può trascurare.
L'arte è conoscenza, non è abbellimento dei salotti, quest'ultima non vale niente, può diventare anch'essa
spazzatura.
Un tempo mi consideravo un seguace del pensiero e dell'azione di Beuys e cioè come lui mi sentivo uno
sciamano della nostra società, o meglio quello che era allora (parlo degli anni Ottanta-Novanta del secolo
XX). Forse ancora oggi, quando agisco artisticamente in un certo modo sono dentro a quella visione del
mondo. Questo sistema di pensiero lo definisco (e non solo io, perchè è già stato codificato) come un neoromanticismo post-sessantottino. Io mi sono sempre sentito così, perchè per me quello che conta di più è
l'etica e di conseguenza l'impegno sociale non prettamente politico legato a movimenti anche quelli
antisistema che però parlano lo stesso linguaggio. Ho guardato nel mio lavoro all'uomo, alla sua condizione,
a quella sociale (il primo Homo Görz, lo Scolatoio, e altro). Ho pensato sempre al disagio che una società
sbagliata, poco comprensiva reca nelle persone sensibili ed emotivamente fragili. Di conseguenza ho sempre
pensato agli animali e alla natura in generale. Il poco rispetto che l'uomo ha nei confronti della natura
(l'uomo è comunque natura), all'arroganza nello scorazzare per strade, cieli e mari con splendide automobili,
motoscafi e jet senza rendersi conto dei danni che reca. Tanto che in quegli anni giravo con la bicicletta,
raccoglievo rospi e altri animali rinsecchiti dal sole sulle strade e li incollavo sui miei quadri. Povere
creature indifese che per l'arroganza stupida soccombono ogni giorno sulle strade! Mi sentivo come loro,
schiacciato dalla società, ingiusta e indifferente. Anche il gatto mummificato ha questa valenza: trovato in
un camerone, pensavo a quanto ha sofferto prima di morire e così io l'ho raccolto, ripulito, curato ed
elevato a qualcosa di sacro, ho tentato anche di ridargli vita soffiando attraverso delle cannule il mio fiato.
Anche l'apprendista sciamano per diventare tale deve provare ogni tipo di sofferenza, prove che rasentano
la morte e solo così, se riesce a venirne fuori, potrà diventare sacerdote sciamano. Già Beuys in una
conversazione con un filosofo del quale mi sfugge il nome, preconizzava in tempi non sospetti che in futuro
saremo immersi nelle spazzature. Allora, che fare, c'è una soluzione a questo problema? Forse bisognerebbe
ridurre i consumi, ritornare agli involucri di carta: riciclare, riciclare e riciclare. Fare delle confezioni
biodegrabili e fare attenzione a tutti i gesti che facciamo ogni giorno, perchè a lungo andare sarà
sconveniente per la nostra salute. Pesci che mangiano plastica, uccelli che fanno altrettanto e così via.
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Ai ripari, ai ripari, altrimenti sarà la fine.
Anche a Dordolla, là dove ho vissuto per sette anni, avevo proposto di ripulire il territorio, in certe zone
più nascoste è stracolmo di immondizie.
Alla fine il bene trionfa sempre sul male, perchè nel male non si sta bene, è segno di morte, di bruttezza e
nella bruttezza l'uomo inaridisce. Il mio lavoro non è indice di morte, ma di vita. Vorrei che la natura fosse
rispettata e di conseguenza anche l'uomo perchè è unico e irripetibile, è sacro così come sono sacri gli
elementi della natura che ci nutre, i silenzi, la contemplazione, la parola, la mano, il contatto fisico, il bacio
e perchè no il sesso: sono momenti sacri e di grande dignità. L'uomo per salvarsi dovrebbe recuperare
questi valori, perchè rappresentano la sua stessa stima e dignità. L'ipocrisia non salverà l'umanità, solo la
verità, l'innocenza salverà il mondo.
Perchè non accogliere chi scappa da situazioni difficili, di morte, purchè egli rispetti chi lo accoglie come
ospite e ne sia riconoscente.
Rispettare noi stessi, vuol dire rispettare anche tutto ciò che ci circonda e non solo il proprio giardino, ma
quello di tutti, perchè tutti ne godiamo. Quello che è mio, è mio sì, ma fino ad un certo punto perchè è
anche degli altri.
La terra appartiene a tutti (l'appartenenza come si sa è solo un'illusione). Noi nasciamo nudi, senza nulla e
così moriamo allo stesso modo.
Dobbiamo rispettare quello che ci circonda per noi e per quelli che verranno dopo di noi. Vorrei dire, alla
fine, a proposito della bruttezza: che l'arte ha la funzione di elevare l'uomo, di renderlo migliore ed è per
questo che è bene creare degli ambienti più vicini a questo fine. L'uomo è quello che mangia, che vede, che
sente e che tocca.
Ho sempre pensato che la realtà fosse magica, che quello che appare non è la realtà ma solo una parvenza
della realtà.
Ho dipinto anche per conoscere ciò che non conosco, per esplorare la realtà che sfugge. Alla fine ciò che ho
fatto finora è stato per un'esigenza: un qualcosa che avevo dentro e che dovevo scaraventare fuori.
UNA NECESSITA'.
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Ernesto Paulin (all'anagrafe Paolini) è nato a Belluno l'8 settembre 1950. Dopo il servizio militare, nel 1973
ha frequentato per quattro anni la scuola di mosaico di Spilimbergo conseguendo il diploma di mosaicista. Per
qualche anno ha eseguito mosaici a Milano, Monaco di Baviera, Düsseldorf e Parigi. Nel 1986 si trasferisce a
Gorizia e come autodidatta inizia a dipingere ed a eseguire le prime installazioni. In quasi trent'anni di
attività ha allestito diverse mostre e collaborato con gruppi di artisti impegnati nel sociale. Alcune sue
opere sono possedute dalla Bsi.
Vive e lavora a Gorizia in via Baiamonti n. 10.
Dialogo intorno al pianeta libro (e ai suoi satelliti)
colloquio tra Alberto Brambilla ed Angelo Colombo
Lo scritto qui presentato non è altro che il risultato finale della trascrizione di un colloquio tra Alberto
Brambilla ed Angelo Colombo, docente di Letteratura italiana presso l’Università di Besançon. Il passaggio
dalla forma orale a quella scritta ha reso indispensabile qualche ritocco formale per la corretta
interpretazione del testo.
Noi ci conosciamo da tempo, inutile fingere una distanza che non esiste. Peraltro, io da anni leggo i tuoi
scritti, conosco i tuoi lavori, ma non ho mai discusso seriamente con te dell’insieme delle tue attività,
che sono davvero molte e intersecano il campo della ricerca letteraria e di quella artistica…
Sì, lo so, ho fatto e tuttora continuo a fare molte cose, forse troppe. Secondo alcuni in tal modo disperdo
le mie energie… non approfondendo nulla… In effetti io scrivo e lavoro da più di quarant’anni. E alla base di
questo lungo periodo di attività ci sono ragioni diciamo ‘alimentari’ (tengo famiglia… direbbe Totò), ma anche
intime esigenze personali e, non lo nascondo, una forte componente ludica…
Vorrei appunto chiacchierare un po’ con te, per tracciare una specie di bilancio di quello che hai
prodotto, così vario e tale da apparire quasi dispersivo… Se sei d’accordo, visto che non abbiamo
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fretta, possiamo incominciare da lontano, per avvicinare da più angolazioni l’argomento che interessa, o
la preda, per così dire, della battuta di caccia…
Sono anch’io curioso di scoprire alla fine in che consisterà quello che – riprendendo la tua metafora –
stiamo cacciando. Ti confesso subito la mia difficoltà … non è facile parlare di se stessi, c’è il rischio di
sembrare presuntuosi o falsamente modesti. Mi viene in mente una consuetudine accademica francese (alla
quale ho dovuto anch’io in parte sottostare), cioè l’obbligo di scrivere una propria autobiografia scientifica,
di un centinaio di pagine in totale, un’esagerazione … Non si sa quale tono tenere, si è indecisi fra l’imitare
l’aspirante Premio Nobel oppure scegliere un profilo basso, da scimunito… In medio stat virtus, facile a dirsi,
ma, mutatis mutandis (sto ancora pensando a come affronterebbe la questione Totò)… è un po’ quello che
sto provando ora…
Non esagerare, sei tra amici… incomincia da dove vuoi e scegli liberamente il tono e la prospettiva. Non
dimenticare tuttavia che questa conversazione sarà resa pubblica, e non tutti sono esperti della
materia, ossia di libri d’artista, di collezioni particolari….
Grazie. Partirò da lontano, ma c’è una ragione profonda. Forse può servire a capire qualcosa di più (come
vedi mi metto in gioco io per primo), ricordare che non ho avuto un’infanzia particolarmente felice, dal punto
di vista affettivo, intendo; sono stato, come si diceva una volta ‘a balia’ presso dei contadini, in un
ambiente familiare non semplice… Poi quando sono tornato a casa, a Busto Arsizio, ho avuto difficoltà di
inserimento all’asilo e poi in prima elementare, credo di aver imparato piuttosto tardi a parlare e a leggere…
Forse è per questo che ricordo ancora con meraviglia i libri per bambini che si aprono e appaiono le figure,
storie senza parole, teatrini. A casa mia non ricordo ci fossero dei libri… Ma mio padre comprava
quotidianamente “La Gazzetta dello Sport” ed “Il Giorno”, era molto appassionato di sport. Mia madre credo
leggesse fotoromanzi o cose del genere, forse i romanzi di Mura o di Liala...
Di Busto Arsizio, una città industriale allora di circa sessantamila abitanti, piuttosto anonima e posta a
metà strada fra Varese e Milano, e delle prime classi elementari non ricordo quasi nulla, tanto meno delle
prime letture. Suppongo di avere incominciato a prendere coscienza dei libri, della cultura, quando sono
stato ‘inviato’ (un po’ per punizione, un po’ per scelta dei miei genitori) in Collegio, per frequentare la
quinta elementare (ne sarei uscito dopo la maturità classica). Il Collegio Rotondi si trovava a Gorla Minore,
si trattava di una struttura imponente, con una lunga storia alle spalle: mi rimarrà sempre impresso nella
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mente il bel cortile centrale, tardo rinascimentale; al piano superiore sui muri c’erano come delle nicchie in
cui erano raffigurati i 22 grandi… degli esempi da imitare…
Spiegati meglio…
Vi erano dipinti Dante, Petrarca (non Boccaccio, per ovvie ragioni), Cantù, Monti, Manzoni… e poi artisti come
Raffaello e Leonardo, ed altri… Quell’architettura era una sorta di rappresentazione teatrale della cultura
italiana… oggi a ripensarci mi sembra una specie di libro, e in effetti aveva una forte componente didattica e
insieme simbolica… Inoltre si favoleggiava che nel Collegio ci fosse un museo (vi si conservava un
rinoceronte nero) ed un laboratorio attrezzatissimo, dove c’erano degli strumenti inventati da Alessandro
Volta; e poi si sussurrava di nascosto che ci fosse una favolosa biblioteca, chiusa da decenni.
Era solo un miraggio?
In effetti la biblioteca c’era davvero, ma non vi si poteva accedere. Ebbi occasione di vederla solo qualche
anno dopo, di sfuggita… era davvero imponente, con testi soprattutto sette-ottocenteschi… Un ambiente,
fatte le debite proporzioni, che potrebbe ricordare un po’ la biblioteca del Nome della Rosa… Ma allora per
un adolescente ciò che contava era il fascino del luogo, non tanto quello che poteva contenere nel
dettaglio, se questo o quel volume…
E comunque non era consultabile da parte degli studenti…
No, ma nemmeno era accessibile agli insegnanti o ai sacerdoti del Collegio, solo al Rettore e, credo a
pochissimi eletti… da qui, da questa proibizione il fascino… Perché una biblioteca sempre chiusa, anzi,
nascosta? Biblioteca a parte, non è che avessi un grande interesse per i libri in sé. Del resto i testi
scolastici allora non erano particolarmente attraenti dal punto di vista grafico, in genere non avevano
immagini, erano semplici strumenti… Tant’è che io non avevo nessun problema ad acquistarli dagli alunni delle
classi precedenti, anzi. Spesso avevano già gli esercizi svolti… un anno in greco ho vissuto di rendita grazie
al libro che mi aveva venduto Maurizio Rossi, me lo ricordo ancora…
E al di fuori della scuola?
Credo di aver seguito un percorso normale, non particolarmente ricco: le solite favole, Cuore (non Pinocchio
che ho letto più tardi) e soprattutto i libri di Emilio Salgari. Quand’ero alle medie ne leggevo uno a
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settimana, me li facevo comprare dai miei, in edizione Vallardi. Ricordo soprattutto le copertine colorate,
mentre i disegni all’interno, in bianco e nero, non erano particolarmente attraenti…
Quali erano invece i tuoi interessi artistici?
Come sopra, ossia molto limitati, però, adesso che mi ci fai pensare… alle medie è accaduto un fatto per me
importante, in un certo senso decisivo. Ho infatti avuto un ottimo insegnante di educazione artistica, si
chiamava Abele Croci… Devo a lui la passione per la pittura e la sperimentazione… mi ha insegnato a
dipingere a tempera, persino ad olio… e soprattutto mi ha permesso di praticare tecniche allora insolite
come l’incisione su linoleum ed il collage. Era molto aperto, antiaccademico… ci lasciava fare e sperimentare e
ci spronava… un vero maestro.
Grazie a lui io, che allora ero molto distratto soprattutto dalla mia vera passione, il calcio, mi sono davvero
impegnato in qualcosa, ho provato delle emozioni. Ciò mi ha dato una forte autostima in campo artistico. È
grazie ad essa, suppongo, che a un certo punto della mia vita mi sono ‘buttato’ senza remore né complessi
di inferiorità nei confronti di chi era tecnicamente molto più bravo di me, avendo un Liceo artistico o
addirittura un’Accademia alle spalle…
E invece in campo, diciamo così, letterario…
Alle medie ho avuto come insegnante di lettere, credo per un paio d’anni, il prof. Luigi Caldiroli. Era un
vecchio docente prossimo alla pensione, piuttosto autoritario, ma insieme pieno di interessi e curiosità (per
altro, dote preziosa, era un acceso tifoso della squadra locale, la Pro Patria, così come lo era mio padre).
Abitava a Busto Arsizio, vicino a casa mia, era considerato un buon poeta dialettale… è stato lui ad avere
un po’ aperto la mia mente… Delle scuole superiori, frequentavo il Liceo Classico, non ho un ricordo
particolarmente positivo; anzi mi pento ancora oggi di non aver proprio studiato (per colpa mia e per la
troppo bontà del professore) la filosofia, mentre avevo un ottimo insegnante di storia. Al liceo mi sono
molto appassionato alla letteratura greca, in particolare alle tragedie. Portai alla maturità l’Edipo Re di
Sofocle che fu per molti aspetti fondamentale per la mia formazione, visto il carattere di forte ambiguità
semantica del testo, a incominciare dal nome del protagonista, dove c’è già il dna del suo destino…
Quando ti sei interessato alla letteratura moderna?
Anche in questo caso devo ringraziare un insegnante di terza liceo, Luigi Mascheroni, che mi ha introdotto
ad autori fondamentali del Novecento come Proust (ho incominciato a leggere allora la Recherche) o Joyce…
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L’idea di un libro costruito come una cattedrale mi sorprese non poco, più avanti avrei letto uno scritto di
Roland Barthes, appunto sulla cattedrale, che si riferiva questa volta al romanzo di Victor Hugo.
Ugualmente la tesi di fondo dell’Ulisse, e cioè che anche la quotidianità e la normalità può diventare epica mi
colpì molto, e a pensarci bene quello che ho pensato di fare, non senza presunzione, negli anni successivi
molto deve a Joyce. Sono state sensazioni, stimoli importanti che sono rimasti a lungo dentro di me, forse
inconsapevolmente…
Visto che ti conosco anche come collezionista, mi viene naturale chiederti quando hai incominciato a farti
una piccola biblioteca personale.
Avevo pochi soldi, e quindi mi sono per forza limitato ad acquistare quelli che venivano definiti i ‘tascabili’
economici, dunque soprattutto Oscar Mondadori (li ho ancora nella mia biblioteca) con le belle copertine di
Pinter…. Come molti ho incominciato a leggere i grandi classici ottocenteschi, specialmente i romanzieri russi.
Il mio primo acquisto importante credo sia stato il cofanetto con i sette volumi della Recherche, con la
copertina bianca e un ritratto di Proust; ho incominciato a leggerli nell’estate, in seconda ed in terza liceo…
Devo aggiungere che a Busto Arsizio dove abitavo c’era la Biblioteca Comunale piuttosto ricca… questa volta
vera, piena di libri anche di fine ottocento… Nei mesi estivi, quando non ero in Collegio, frequentavo molto la
biblioteca dove avevo stretto delle amicizie. Tra esse non posso non ricordare Renato Marazza, che aveva
qualche anno più di me ed insegnava in Collegio; ma era uno spirito fortemente anarchico, è grazie a lui che
ho potuto entrare in contatto con un mondo culturale assai lontano dalle mie normali frequentazioni… lui mi
parlava di Evola, Zolla, dei mistici orientali… ma anche di poeti come Pound…
Tutto quello che non si studiava a scuola….
Esatto. Per di più stavamo per entrare negli anni di piombo… la cultura di massa non era certamente quella
dei mistici orientali o dei filosofi medievali… Dopo il Liceo, nel 1974 incominciava la mia avventura
universitaria, all’Università Cattolica di Milano, dove sopravviveva a stento la tradizione medievale, tomistica,
già minata dalle ricerche di Emanuele Severino…
Avevi degli interessi filosofici?
No, tutt’altro, vista anche la mia ignoranza assoluta in materia… dopo il liceo ero molto affascinato dalla
letteratura del Novecento, che però all’Università era relegata ai margini, e mi piaceva molto la storia
dell’arte, così in generale, con una preferenza per l’arte romanica… In effetti dopo la doccia fredda delle
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prime lezioni accademiche avevo progettato di laurearmi in storia dell’arte; il merito era ancora di un
docente, Gian Alberto Dell’Acqua, un vero signore, uno studioso molto serio, capace di coniugare la
tradizione con le avanguardie artistiche.
Che tipo di insegnamento praticava?
Direi classico, niente di eccezionale… La differenza la fecero i due artisti che aveva scelto per il corso
monografico, completamente diversi uno dall’altro, ma entrambi dei giganti, intendo dire Albrecht Dürer e
Paul Klee. Ho studiato il primo, a cui al liceo si era solo accennato, servendomi della monografia di Hervin
Panofsky (nell’edizione Feltrinelli, 1967, che ancora possiedo), un testo veramente tosto, ma pieno di
suggestioni, che introduceva alla pittura visionaria praticata al di là del Reno. Il secondo, di cui ignoravo
l’esistenza, fu un vero e proprio pugno nello stomaco, era un autore difficile e poco digeribile per un
ragazzo di 19 anni che veniva dal Collegio…
Non ti eri mai interessato all’arte moderna?
Sì, ero come tutti attratto dagli impressionisti, da Van Gogh, da un certo Picasso… Capisci la fatica di
entrare nel pianeta Klee, studiarlo a fondo, all’interno della sua poetica, così ricca di sfumature, dove la
scienza si interseca con la musica e il sentimento… Insomma, ho impiegato circa due anni per assimilarlo, poi
è stato un amore travolgente, che dura tuttora. Nei decenni successivi non ho fatto altro che ‘rubare’ a
Klee qualche scintilla della sua creatività.
Ma, se non sbaglio, contrariamente a quanto mi stai dicendo, poi ti sei laureato con una tesi in filologia
medievale e umanistica, no?
Sì, sono i casi della vita… ero veramente innamorato dell’arte, eppure mi delusero moltissimo gli assistenti
di Dell’Acqua con cui si doveva sostenere l’esame relativo alla ‘parte generale’, da studiarsi sui volumi, per
me molto ostici, dell’Argan, allora considerato un’autorità assoluta. L’esame non andò male, ma mi deluse…
per reazione mi avvicinai a ciò che credevo più solido, la storia e la filologia.
Dunque ti sei laureato con un altro protagonista della Cattolica, Giuseppe Billanovich …
Sì, ma con una tesi particolare, sulla storia degli studi petrarcheschi tra Otto e Novecento, in particolare
sul carteggio tra Pierre de Nolhac e Francesco Novati. Inizialmente Billanovich mi aveva assegnato l’esame di
un Manoscritto Laurenziano, che raccoglieva lettere dei corrispondenti parmensi di Petrarca, se non ricordo
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male. Ma lavorare su un microfilm, trascrivendo lettere latine, non facilmente decodificabili era una
sofferenza, e non era quello che desideravo. Così Billanovich, un vero maestro, mi propose qualcosa di più…
moderno… e fece bene.
Mi stai parlando di tanti argomenti, ma forse ci stiamo troppo allontanando dalla meta…
Capisco quel che vuoi dire, ti assicuro però che l’insegnamento di Billanovich è stato anche importante per i
miei rapporti con la cultura… con i libri. È da lui che ho sentito per la prima volta parlare di edizioni, di
prefazioni, di colophon… e soprattutto di un libro come qualcosa di concreto, come supporto fisico, e non
solo; fatto di legature, di pelli, di legno, di inchiostri, di miniature, di postille… allora ovviamente mi
interessava l’aspetto del contenuto, ma incominciavo a vedere, a toccare, a sfogliare e ad annusare i
manoscritti. Mi ricordo che rimanevo incantato a vedere sui manuali di paleografia gli esempi di scrittura
visigotica piuttosto che beneventana… Ho subito la stessa meraviglia, anni dopo, davanti a certe opere di
Emilio Villa. Billanovich era poi un maestro generoso, prestava i libri, gli estratti, ogni volta si ricordava
delle tue ricerche e ti allungava una delle sue famose schedine… Erano delle schede bibliografiche, scritte a
mano da lui, con la sua bella scrittura un po’ rotonda. l’aspetto più curioso era l’utilizzo di supporti
cartacei più disparati, buste o cartoncini riciclati; io ne rimanevo sempre affascinato, era come entrare nella
vita scientifica di Billanovich… ma in qualche modo era qualcosa anche di artistico, non so… Così accadeva
anche per i libri e gli estratti, che annotava liberamente, senza alcun timore reverenziale; per lui, che pure
aveva studiato con venerazione le postille di Petrarca, i libri erano semplici strumenti, non feticci. Ricordo,
all’opposto, il rispetto maniacale di un suo assistente, emigrato poi in Svizzera, non poteva essere
altrimenti; costui invece aveva quasi paura di toccare i libri, li sottolineava a matita. Ricordo che aveva la
stessa mania per i giornali che leggeva e poi li ripiegava alla perfezione. Immagino una casa con tonnellate
di “Corriere della Sera” perfettamente impilati…Credo che le mie ‘invasioni, su cui penso torneremo più avanti
nascono proprio da questi due modi così diversi di entrare in contatto con i libri… una maniera asettica,
ostile; ed una appunto invasiva, collaborativa…
Ti stavi dunque avvicinando, mi sembra di capire, ad una percezione non tradizionale dei libri…
Intendiamoci; come ho detto, mi interessavano soprattutto come strumenti di conoscenza, di documentazione;
ma intanto incominciavo a subire il fascino della loro materialità, della carta, della straordinaria varietà, e
bellezza, delle scritture (ho esaminato per la tesi migliaia di lettere di corrispondenti di Novati). Persino la
Libreria personale di Novati, conservata alla Braidense, mi affascinava perché appunto Novati spesso
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interagiva coi libri, con gli opuscoli che gli inviavano: ci aggiungeva i suoi ex libris, ma poi li postillava, li
interfogliava, … Nel frattempo sempre gli studi – stavo ripercorrendo le fasi principali dell’allestimento della
biblioteca personale di Petrarca, sì siamo infine ritornati lì, alla Biblioteca come frutto di scelte precise –
mi avvicinavano ai manoscritti, ai codici. Ero affascinato dalle rilegature, dalle custodie, alcune molto rozze
ma davvero straordinarie con gli inserti di cuoio, di placche metalliche… C’erano già gli inserti di Burri o di
Crippa.
È interessante questo rapporto tra passato e presente… puoi proporre qualche altro esempio al
riguardo?
Mi viene ora in mente un altro episodio significativo, intendo una mostra, credo fiorentina, delle biccherne, le
tavolette dipinte con le quali nel medio evo si rilegavano i libri dei conti, erano, sono, un vero spettacolo,
dei libri d’artista in copia unica… E poi, ecco, un altro ricordo, una mostra bolognese, forse del 1983, di
disegni di Victor Hugo. Fu un’enorme sorpresa vedere i lavori di Hugo (che consideravo del tutto superato
come romanziere), davvero modernissimi, soprattutto eseguiti non con le tecniche accademiche, ma con
elementi di fortuna come il caffè nero, collages… con anticipazioni informali…
Incomincio a intuire dove vuoi mirare, certo questi cortocircuiti tra passato e presente, e tra discipline
diverse sono sorprendenti e non semplici da cogliere…
Come vedi, molte cose si legano, anch’io ne divento consapevole conversando liberamente con te. Mi accorgo
solo ora del mio curioso legame con Hugo, a cui io avrei poi dedicato a Besançon (sua città natale) un libro
d’artista; ed anche i miei lavori eseguiti con il caffè, forse derivano da quell’incontro e non soltanto, come è
più logico, dai maestri dell’informale o da altri esempi più illustri. Infine, ma siamo già al 1986, ci sarà la
fondamentale mostra sul Futurismo a Venezia, a Palazzo Grassi, con un catalogo monumentale che ancora
possiedo e consulto. Per la mia generazione, molto politicizzata, fu davvero un pugno nello stomaco quella
mostra, che in qualche modo ribaltava anche le categorie letterarie che sino ad allora avevano governato i
nostri studi… e poi, su di un piano più… estetico… fu per me l’occasione di vedere da vicino degli
spettacolari prodotti di quella stagione, come i libri latta o altre creazioni straordinarie di Fortunato Depero
e degli altri futuristi… Un mondo completamente diverso, censurato dalla scuola e dall’università.
Capisco bene che cosa vuoi dire. Ma a parte questi importanti appuntamenti, quali erano nel frattempo le
tue letture?
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Durante gli anni di università e negli anni immediatamente precedenti ho soprattutto letto libri strettamente
legati alle mie ricerche e perciò di storia, di storia della cultura accademica e poi diverse opere degli autori
che studiavo, gli eruditi ed i filologi soprattutto, poi linguisti come Graziadio Isaia Ascoli, e anche Carducci,
indagato non tanto come poeta quanto come studioso e professore bolognese. Libri, opuscoli, riviste e
moltissimi carteggi. Era affascinante esplorare gli archivi e le raccolte personali (alla Scuola Normale di Pisa
per D’Ancona, alla Biblioteca Corsiniana di Roma per Ascoli, all’Istituto di studi storici di Napoli per Croce e
così via); avevi il senso di una grande compattezza, di un’unità ma fatta di particolari, di migliaia di pezzi, di
un coro di voci amiche… E poi c’erano le Biblioteche, così affascinanti, belle anche dal punto di vista
estetico… In quegli anni, non avendo molto tempo a disposizione per concentrarmi su lavori di lunga lena,
preferivo dedicarmi alla ricerca di inediti, soprattutto lettere carducciane… è grazie a queste indagini che ho
potuto visitare molte biblioteche, la Governativa di Lucca, la Labronica di Livorno, la Palatina di Parma, la
Marucelliana di Firenze… dei veri gioielli.
Nessun’altra lettura al di fuori delle trouvailles erudite?
Non ne avevo tempo. Le poche letture erano soprattutto rivolte ai classici dell’Ottocento e del Novecento.
Non mancava però qualche sortita nei dintorni delle avanguardie. Con alcuni compagni ed amici universitari,
tra cui Pierantonio Frare che insegna in Cattolica, ci siamo avvicinati, alla fine degli anni settanta alla
poesia sperimentale che proseguiva nel solco delle ricerche del Gruppo 63; e anche noi componevamo delle
poesie (di taglio più tradizionale, però) che poi discutevamo insieme… Era una bella iniziativa, che compensava
gli altri studi, più aridi ma in fondo coglieva l’essenza di quello che ci interessava veramente, ossia la
letteratura che attraverso delle tecniche (che cercavamo di mettere in pratica) parla di ciò che conta, la
vita, la morte, l’amore, il dolore...
Non conoscevo questo aspetto ‘poetico’, che dunque comportava anche una conoscenza critica non
indifferente…
No, avevamo qualche infarinatura, non studi approfonditi. Sul piano della critica ci eravamo anche avvicinati
allo strutturalismo, che sembrava allora la magica chiave per aprire ogni testo (anch’io mi provai pubblicando
con Frare il mio primo lavoro con un’analisi su un sonetto del Foscolo). Il nostro era stato un approccio
ingenuo, un po’ artigianale, che ci proveniva soprattutto dalla generosità di Pierluigi Cerisola, un assistente
del prof. Enzo Noè Girardi, che insegnava Storia della critica in Cattolica. Da parte mia ero molto colpito
dagli studi di Stefano Agosti e dalle ricerche di Jean Starobinski sugli anagrammi di Ferdinand de
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Saussure… era la scoperta di un altro mondo, legato all’inconscio ma che si poteva comunque studiare,
analizzare…
Dopo la delusione accademica, come andava sul piano ‘artistico’?
Dal punto di vista creativo non era un momento particolarmente fecondo, si stava entrando negli anni bui, di
piombo, però c’era certamente un’ansia di comunicazione e di scrittura, ogni gruppo, anche piccolissimo,
produceva con il ciclostile dei volantini, dei documenti… persino le Brigate rosse manifesteranno questo
desiderio, con i loro ossessivi e tragici comunicati… Poi avevo incominciato a frequentare delle mostre, a
Milano e altrove, ed ero diventato un habitué di una piccola ma molto vivace galleria d’arte di Busto Arsizio,
la Bambaia ben diretta da Gianluigi Rebesco. Lì ho comprato con i primi stipendi alcune opere, in particolare
di Romano Notari e di Ruggero Savinio. Di quest’ultimo acquistai due piccole tempere (appartenenti al ciclo
dell’età dell’oro) che erano dipinte su carta da giornale che restava sullo sfondo. I supporti più umili mi
hanno sempre molto interessato, e ancora oggi di fronte a dei collage o a degli inserimenti di frammenti di
giornale mi diverto a decifrarli, cercando significati remoti e misteriosi… Mi viene in mente anche un libro,
molto intrigante, di Giovanni Orelli, Il sogno di Walacek (Einaudi 1991) che affronta questo tema,
coinvolgendo Klee…
Avevi del tutto abbandonato la pittura, il tuo lavoro artistico?
No, ho sempre continuato a … disegnare, o meglio a pasticciare e sperimentare, soprattutto con i pastelli a
cera ed anche con la tecnica del graffito… Ma alla fine degli anni settanta, sulla scia di molte suggestioni
esterne (penso alle opere di un genio come Kurt Schwitters), ho incominciato a lavorare su spazi molto
ridotti, iniziando a riflettere sui miei lavori… che si incanalavano su un aspetto molto particolare…
Quello che stai delineando mi incuriosisce molto…
Avevo riflettuto sul rapporto, in senso lato e dal punto di vista sociologico, tra artista e pubblico (mi
vengono in mente i libroni di Arnold Hauser e di Eric Auerbach che ci sciroppavamo per gli esami universitari)
e per conto mio ho scelto di lavorare su dei media, dei tramiti che mi imponevano per un verso dei limiti, per
l’altro ampliavano molto la prospettiva del mio lavoro. In particolare ho utilizzato prima delle etichette,
quelle dei vestiti, per esempio, in seguito dei biglietti del treno e della metropolitana… Milioni di persone
ogni giorno utilizzano un ticket che poi si ritrovano in tasca o buttano nei cestini subito dopo l’uso… io
invece volevo dare dignità a quei pezzetti di carta, così banali… All’inizio ho utilizzato un verso
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dell’etichetta o del biglietto, di solito bianco, per intervenire in quei pochi centimetri quadrati con un
intervento a tecnica mista, in cui certo era forte l’influsso di Klee, ma credo anche della cultura popolare,
carte da gioco, tarocchi, figurine. Poi ho pensato di non intervenire io, dall’esterno, ma in qualche modo di
lavorare su ciò che il biglietto stesso proponeva, lavorando quindi sull’aspetto grafico e su quello
linguistico… sono interventi meno belli dal punto di vista estetico, ma credo interessanti da quello
concettuale. Una successiva tappa di quei lavori stava nell’usare il biglietto per un uso alternativo ma allo
stesso tempo quotidiano; il biglietto diventava dunque luogo di riflessioni, pensierini, messaggini, in cui
inserire un numero telefonico…. Ho conservato per fortuna qualche esempio, dei molti prodotti, che regalavo
agli amici (chissà che fine avranno fatto). Ora, ripensandoci mi accorgo che senza saperlo ero già proiettato
in avanti rispetto a quello che avrei fatto dopo… C’era, c’è una specie di continuità, di coerenza a cui non
avevo pensato…
Dopo la laurea hai incominciato ad insegnare alle Scuole Medie, proseguendo tuttavia le tue ricerche in
ambito universitario…
Sì, ho incominciato ad insegnare nel 1980 in una scuola privata, lavorando in Cattolica come ‘cultore della
materia’, dando una mano a Giuseppe Frasso che insegnava Filologia italiana. Poi nel 1984 ho ottenuto la
cattedra alle scuole medie e contemporaneamente il mio primo incarico all’ISEF di Verona, che avrebbe dato
una svolta considerevole ai miei interessi culturali…
Che cosa insegnavi a Verona?
Ero professore a contratto di Letteratura italiana all’Istituto Superiore di educazione Fisica, che allora
dipendeva da Bologna. Visto l’ambito particolare cercai di trovare qualcosa di utile ed interessante per chi
sarebbe diventato un insegnante di educazione fisica, o un istruttore di qualche disciplina sportiva. Ed è
così che per caso (o per necessità) mi sono avvicinato alla scrittura sportiva, per cercare dei testi da
proporre agli studenti… un’occasione anche per frequentare la Biblioteca Civica, un’altra splendida struttura,
ricca di testi ottocenteschi, dove ho stretto amicizia con Agostino Contò e Claudio Gallo.
E che cosa hai trovato?
Una parte del corso riguardava il giornalismo sportivo, in cui analizzavo con gli studenti una serie di articoli
di varie testate, anche minori e locali; l’altra era su testi di valore letterario dove comunque lo sport aveva
una dimensione importante e specifica. Ho incominciato a studiare, a fare ricerche e mi sono imbattuto in
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Edmondo de Amicis, autore di testi pionieristici come Amore e Ginnastica o Gli Azzurri e i Rossi dedicato al
pallone col bracciale…
Qui mi sfugge qualcosa: come è stato possibile il passaggio dalla filologia al mondo dello sport?
Sì, devo qualche spiegazione supplementare. Intanto non si è trattato di un aut aut, perché io ho continuato
per molti anni (sino almeno al 2010) ad occuparmi di storia degli studi, e poi di Ascoli Carducci, Novati e
compagnia bella… Per quanto riguarda lo sport, io ho un discreto passato come calciatore ed atleta…. Il mio
primo lavoro importante (e, stranamente anche retribuito), non lo sa nessuno, è stata una storia della Pro
Patria di Busto Arsizio, uscita nell’anno del centenario, il 1981. Questo libro – scritto con scrupolo filologico
e ricerche d’archivio, mi costrinse ad occuparmi seriamente di sport, soprattutto dal punto di vista storico.
Queste competenze d’ordine generali contarono, suppongo, quando vinsi il concorso per Verona; e servirono
per le mie prime indagini sulla scrittura sportiva, che conducevano a De Amicis.
Restiamo in argomento; mi sembra che l’incontro con De Amicis sia stato per te importante, no?
Sì, per diverse ragioni; da un lato ha spostato, o meglio, arricchito le mie ricerche che da storico-filologiche
sono diventate più ‘letterarie’ se vogliamo, anche se sempre a cavallo fra Otto e Novecento; dall’altro
hanno segnato anche il mio ingresso nel collezionismo librario, proprio a partire da De Amicis.
In che senso?
Studiare de Amicis a metà degli anni 80 non era semplice, nel senso che molte sue opere non erano
disponibili, in quanto non ripubblicate da decenni. Bisognava perciò andare in biblioteca, anzi frequentare
diverse biblioteche, non solo milanesi, perché De Amicis ha scritto molto, e non era comunque facile ottenere
fotocopie… Ho incominciato dunque per caso e per necessità a frequentare delle bancarelle a Milano, poi
delle librerie antiquarie vere e proprie, soprattutto a Firenze. De Amicis non era certamente ricercato dai
collezionisti, così con poche lire potevi acquistare delle discrete edizioni ottocentesche. Così a poco a poco
ho incominciato a raccogliere libri deamicisiani, senza badare in un primo momento alla qualità degli acquisti,
avevo pochi soldi in tasca…
Mi piacerebbe che ti soffermassi su questo aspetto…
La mia collezione deamicisiana è nata per ragioni di studio (all’inizio in particolare delle opere ‘sportive’ di
de Amicis), non di collezionismo fine a se stesso. E così in un certo senso è continuata nel tempo, sino ad
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oggi… A me sinceramente non interessa la copia perfetta, intonsa, da conservare gelosamente in un
cassetto; mi preme possedere un libro per leggerlo, studiarlo, anche a rischio di rovinarlo come quasi
sempre succede con le copertine in brossura, in cui il dorso tende a staccarsi…
Quali opere di De Amicis hai raccolto in questi trent’anni e passa?
Direi che la collezione è attualmente divisa in tre parti: la prima comprende circa 350 edizioni diverse di
Cuore ovviamente in gran parte recenti, quando sono scaduti i diritti d’autore si è scatenata la ristampa …
Ho una ventina di rare edizioni ottocentesche, purtroppo non ho la prima edizione di Cuore: me l’hanno
offerta anni fa ma costava come un’automobile di media cilindrata, e insieme a mia moglie abbiamo deciso di
acquistare appunto una nuova auto, prima o poi me ne pentirò… Poi nella collezione ci sono circa 400 altri
libri scritti da De Amicis: molte prime edizioni, opuscoli anche rari e diverse edizioni moderne. Infine ho
raccolto molti testi critici o biografici su De Amicis e il suo tempo. Di recente ho aperto una piccola sezione
riguardante la fortuna dell’iconografia deamicisiana (in particolare di Cuore) in altri ambiti, come per esempio
nei quaderni scolastici, nelle cartoline o nelle figurine. Infine ci sono alcuni faldoni con appunti, schede
bibliografiche ed altro materiale di lavoro.
La tua raccolta è quindi nata, soprattutto, per ragioni pratiche, di studio…
Sì, direi che almeno all’inizio erano assenti le ragioni diciamo formali, estetiche, tant’è vero che ho
acquistato diversi libri in cattive condizioni; poi anch’io ho incominciato a capire meglio e ad apprezzare le
caratteristiche editoriali ed iconografiche. Oggi il compito è molto facilitato da internet e dalla possibilità di
‘vedere’ immediatamente alcuni dettagli per esempio delle copertine o dei frontespizi. Così è stato anche per
l’altra mia collezione, di testi relativi alla storia dello sport, e soprattutto di quella che di solito viene
definita la letteratura sportiva…
L’insegnamento veronese è risultato dunque decisivo in questa direzione…
Senz’altro perché, come ho già anticipato, dalla pratica dell’insegnamento è nato l’interesse per le diverse
forme di scrittura sportiva, a cominciare dal giornalismo sportivo in cui ci sono dei veri e propri fuoriclasse
come Gianni Brera. Mi sono poco alla volta avvicinato ai libri, sempre con l’intento dello studio e
dell’insegnamento… è stato un lavoro estremamente complesso perché contrariamente a De Amicis (su cui c’è
uno studio bibliografico molto dettagliato di Marino Parenti) per la letteratura sportiva non esistevano
bussole. Anzi, questa mancanza mi ha stimolato a raccogliere io stesso (con l’aiuto del mio amico Sergio
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Giuntini, un’autorità internazionale in materia di sport) le schede iniziali per costruire una storia bibliografica
del settore. Da queste lunghe indagini, ancora in fieri, è nato un volume scritto a quattro mani, a cui sono
particolarmente legato, Scrittura e sport. Primi sondaggi otto-novecenteschi (Verona, Libreria Editrice
Universitaria, 2003).
È certamente notevole questo legame tra insegnamento e ricerca. Fammi capire i contorni di questa
collezione sportiva, nata, se non comprendo male, da un’esigenza pratica come quella deamicisiana …
Esatto, la genesi è identica, con le medesime caratteristiche e dunque con l’intento di possedere i libri
(anche in cattivo stato, e quindi più economici) non per nasconderli in una vetrina ma per studiarli,
analizzarli da un punto di vista soprattutto storico-letterario. In estrema sintesi possiamo dire che è divisa
in due sezioni; nella prima ci sono testi che riguardano la storia e la cultura dello sport; nella seconda, più
ampia, ci sono diverse forme di scrittura sportiva, da quella giornalistica (con una sottosezione dedicata a
Gianni Brera) a quella propriamente ‘letteraria’, in cui è compresa anche una parte consacrata alla
letteratura per ragazzi, su cui ultimamente mi sono concentrato, incominciando a studiare anche le
illustrazioni. In tutto un migliaio di libri, credo, soprattutto novecenteschi, come è ovvio, visto che ho
raccolto testi a partire dai pionieri tardo ottocenteschi, vale a dire, De Amicis, Yambo, Salgari. A
quest’ultimo, ci tengo a ricordarlo, ho consacrato un recente libro: Il mammut in automobile. Corpi macchine
e sfide nella vita e nella scrittura di Emilio Salgari (Verona, Delmiglio, 2013); come vedi c’è davvero un
legame forte tra collezionismo – se così si può definire il mio caso specifico – ricerca e produzione
finale.
A sentire il nome di autori come Salgari e Yambo mi verrebbe da porti tante domande. Ma hai già messo
tanta carne al fuoco. Facciamo il punto, andando a ritroso nel tempo. Dunque mi hai detto che negli anni
ottanta insegnavi sia alle scuole statali sia all’università; e intanto continuavi le tue ricerche sulla
storia degli studi e della filologia petrarchesca… e nel frattempo avevi incominciato ad interessarti di
sport e cultura… è esatto?
Sì, è così, perché nel 1988 usciva (nella collana “Studi sul Petrarca” diretta da Billanovich) il volume
Un’amicizia petrarchesca. Carteggio Nolhac-Novati, che discendeva dalla mia tesi di laurea; mentre solo nel
1992 avrei pubblicato De Amicis. Paragrafi eterodossi (Modena, Mucchi). Più avanti sarebbero usciti, ancora
nel solco storico-filologico, Appunti su Graziadio Isaia Ascoli (Gorizia, Istituto Giuliano di storia, cultura e
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documentazione, 1996) e il Carteggio Croce-Novati (Napoli-Bologna, Istituto Italiano per gli studi storici - Il
Mulino, 1999).
Intanto non trascuravi l’aspetto creativo, artistico, giusto? Come conciliavi tutto ciò, apparentemente
così diverso, anzi di segno opposto?
Hai ragione, per un certo verso si trattava di un comportamento quasi schizofrenico… Scrivere articoli e libri
molto eruditi, scientifici… e allo stesso tempo poesie o racconti un po’ sperimentali e ancora lavorare sui
biglietti, sulle etichette e in genere sulle carte povere, anzi neglette… allora vivevo tutto ciò come una
sorta appunto di dissociazione mentale, tuttavia senza una vera e propria sofferenza psicologica…
Testimonianza di questo stato d’animo – e insieme sfogo liberatorio – è il libro d’artista che ho intitolato
Profanazioni accademiche 1893-1990; non è altro che il II volume, quello più ampio, della mia tesi di Laurea
sul carteggio Nolhac-Novati. Ma del testo originale non rimane quasi nulla perché praticamente ogni pagina è
stata ‘oltraggiata’ (oggi direi arricchita) grazie ad un mio intervento, con diverse tecniche, pennarelli, vernice
a spruzzo, collages… Un’operazione analoga riguarda il mondo bancario: da un lato espongo un prospetto
finanziario di Mediobanca, pieno di dati, asettico; dall’altro, contemporaneamente espongo lo stesso volume
lacerato, devastato ma a suo modo vivacizzato, reso un oggetto esteticamente bello, che ha profondamente
e radicalmente mutato la sua natura… Doctor Jekill & Mister Heyde, insomma.
Allora non pensavi ancora che tutto ciò, sia pure così diverso, potesse in qualche modo rientrare in
un’unica dimensione, in un “sistema”?
No, non ci pensavo, allora le motivazioni erano forse altre. C’era un tentativo di unità ma da un punto di
vista più generale… diciamo… esistenziale, quasi filosofico…
Che cosa intendi dire?
Sono un po’ enigmatico, ti capisco, ma non è facile spiegarlo neppure a me stesso. In effetti, come ho già
confessato, la filosofia non mi ha mai molto interessato, però a metà degli anni ottanta mi ha molto
incuriosito il lavoro di Jacques Derrida. Beninteso ho leggiucchiato qualcosa, Derrida si presta ad una lettura
irregolare, e ci ho capito poco o nulla; mi ha tuttavia molto colpito la paura, almeno io l’ho intesa così, che
percorre l’intera opera del francese, ossia il terrore di sparire senza lasciare nessuna traccia di sé. Questo
tema del ‘lasciare qualcosa’ di sé, dopo di sé, cioè dopo la morte… si intrecciava ad alcune mie analoghe
riflessioni – a scuola tutti abbiamo letto e meditato i Sepolcri, “sol chi non lascia eredità d’affetti / poca
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gioia ha dell’urna” etc. –, e Derrida (forse da me strumentalizzato o equivocato, non so) dava una sorta di
autorità a quanto venivo pensando e progettando. Da qui il desiderio di lasciare tracce, appunto attraverso
ciò che ero e sono in grado di dare, di proporre, vale a dire la scrittura… Anzi, attraverso le scritture,
attraverso l’opera che di volta in volta venivo producendo, e ciò per una sorta di desiderio e dovere
personale, indipendentemente dalla qualità della produzione stessa, che toccherà ad altri valutare. In questa
prospettiva sia la scrittura scientifica, sia quella diciamo creativa – che comunque si muoveva all’interno di
tipologie ‘classiche’, con poche eccezioni – e soprattutto lo sperimentalismo artistico potevano rientrare in
questa volontà di lasciare traccia di sé, di produrre memoria… e insieme identità, consapevolezza di un
percorso personale.
La strada era dunque in qualche modo segnata?
Sì, anche se confusamente cominciavo a immaginare una specie di unità (della memoria o di qualcosa di simile)
all’interno della varietà che vivevo ogni giorno. In questo mi ha aiutato ancora Klee, con le sue opere e i
suoi scritti, capace di costruire un grande mondo unitario, pur sperimentando in continuazione nuove
tecniche, intersecando tecniche e linguaggi… Anche sono servite diverse letture, per esempio il volume di
Lamberto Pignotti e Stefania Stefanelli, La scrittura verbo-visiva (L’Espresso, 1980), che ha di molto
allargato il mio orizzonte. Tramite quel libro ho scoperto che esisteva una vasta rete di possibilità di
relazioni fra parole ed immagini. Cominciava così a profilarsi nel mio cervello una sorta di supremazia della
parte ‘creativa’, mi verrebbe da dire estetica se non temessi d’essere frainteso, che tuttavia prima di uscire
alla luce e poi giungere a maturità aveva come avuto bisogno d’essere fecondata dalla conoscenza, e quindi
dai miei studi universitari e dalle successive ricerche. Contemporaneamente cresceva in me l’immagine
sintetica della forma-libro come luogo mentale (ma anche fisico) in cui far convergere, agire e reagire le
parole, le immagini e molto altro, estendendosi a tutto quello che avevo appreso e prodotto… Non c’è
bisogna di insistere credo sulla forte valenza simbolica di termini come libro e scrittura, su cui si fondano le
tre grandi religioni monoteiste…
Questo mi sembra un passaggio decisivo, vogliamo approfondirlo?
Va bene, anche se il mio discorso, me ne accorgo ora, non può che essere frammentario ed incerto.
D’altronde, io non ho una mente sistematica, e dall’esterno è difficile immaginare la coesione di quanto sino
ad allora avevo sperimentato su piani diversi; aspirazione ad una coesione che a dire il vero anch’io avrei
perseguito molto più avanti. C’è anche il rischio, me ne accorgo pienamente, di precipitare nel vecchio
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stereotipo dell’artista decadente (la vita come opera d’arte di dannunziana memoria), o l’imperativo interiore
del giovane Pavese, impegnato sin dall’adolescenza a costruire il suo mito, o altri cascami del pensiero di
Nietzsche…
Lasciamo dunque stare le disquisizioni filosofiche e descriviamo piuttosto i tuoi passi dopo il sorgere di
questa nuova consapevolezza…
Consapevolezza, mi preme precisare, sempre fragile, esitante e dubbiosa… Per sintetizzare diciamo che al
passaggio del millennio ho dato un peso maggiore alla parte creativa, sia sul piano della scrittura vera e
propria, sia su quello della produzione artistica, che si è decisamente concentrata sul libro d’artista, nelle
sue differenti possibilità, e anche con una serie di variazioni parallele (ad esempio la progettazione di
agendine, quadernini, segnalibri…). Analogamente ho cercato appena possibile di recuperare, o rivisitare,
anche le mie passate indagini storico-filologiche orientandole in una nuova dimensione, creando dove possibile
dei legami, dei riferimenti sottotraccia… Così in un certo senso avevo già operato scrivendo alla fine degli
anni novanta Viola come il sangue (Arezzo, Limina, 1999) dove era presente una sorta di paranoia filologica,
questa volta applicata al calcio.
Qui irrompono con forza e in maniera sistematica le tue sperimentazione sul libro d’artista…
Sì, a livello artistico mi sono applicato in maniera sistematica al libro d’artista, un pianeta complesso e a
suo modo inesauribile, che al suo interno può a sua volta contenere un’infinità di indirizzi, penso alla poesia
visiva, alla poesia concreta, al situazionismo…. Come devo averti già confessato non amo le definizioni
teoriche, dovrebbero essere le opere a parlare. Qui preferisco sottolineare che ho sperimentato molte
tecniche, anche distruggendo parecchi lavori precedenti che non mi piacevano più e conservando nel mio
archivio solo qualche elemento significativo. In generale mi sono sempre stancato di produrre delle serie di
opere identiche o comunque appartenenti ad una stessa ‘logica estetica’, anche se tutto ciò è a volte
indispensabile per incasellare un artista, renderlo riconoscibile. Dopo un po’ mi annoiavo, volevo andare
avanti (o indietro, non so) e comunque cambiare. Non esiste quindi, almeno credo, un segno o una tecnica
distintiva, quanto piuttosto un costante orientamento sperimentale… e questo vale anche per l’oggi.
Non ho mai avuto occasione di avvicinarmi alla tua opera giovanile… Però ho visto parecchi tuoi lavori e
mi hanno incuriosito quelli in cartapesta, me ne vuoi parlare?
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Alla fine degli anni ottanta avevo incominciato a lavorare molto con la carta, preparando una specie di
cartapesta molto rozza, che lasciasse comunque intravedere i componenti dell’impasto, vale a dire i
frammenti cartacei dei giornali o dei libri in macerazione. Non so bene per quale ragione ma ero come
convinto – anche se allora non c’erano né cellulari né computer o erano solo agli inizi, un po’ goffi – che
l’occidente fosse a una specie di cesura epocale, e che si sarebbe precipitati in un’epoca di ignoranza o
comunque di controllo delle menti (ero stato molto colpito dalla lettura del libro e poi dalla visione del film
Fahrenheit 451). Collegavo spontaneamente tale tracollo a quello, analogo, della caduta dell’Impero Romano,
o a un’enorme catastrofe nucleare. Da qui la produzione di una serie di libri oggetto, o se vogliamo di librisculture (ma io miravo quasi ad una specie di biblioteca misteriosa, sapienziale, ma praticamente illeggibile da
tramandare ai posteri) che si rifacevano appunto alle invasioni barbariche e si caratterizzavano per
l’inserimento di elementi naturali (le conchiglie o i sassi o il legno) o di altri inserimenti metallici, in
funzione estetica, decorativa. Permaneva nella mia memoria come la traccia retinica e mentale dei codici
medievali che avevo ammirato in diverse biblioteche, ma cambiava completamente la prospettiva; io creavo
libri chiusi, non sfogliabili e tuttavia composti da migliaia di frammenti testuali… rimaneva solo la formalibro, come l’ombra, l’ancestrale riflesso mnemonico di qualcosa di perduto…
Poi il tuo lavoro ha subito un’evoluzione, vero?
Sì, come ti ho detto, ho prodotto dei libri-scultura come dire post moderni, postatomici (nel senso della
disgregazione del pianeta) in cui si manteneva l’impasto cartaceo, i giornali ed i libri impastati, confusi e
dispersi, come migliaia di lingue…, ma si inserivano elementi tipici della modernità, come elementi comuni di
plastica, come bottiglie o bicchieri…
Hai poi insistito in questa direzione?
Sì, ma con molte variazioni e sperimentazioni, come ti ho confessato non riesco a concentrarmi a lungo su
una serie di elementi simili, preferisco cambiare… così ho lavorato soprattutto sulla ‘forma’ libro creando
appunto dei libri non sfogliabili, ermeticamente chiusi, magari inserendo un elemento ‘letterario’; mi spiego
con un esempio concreto; impastavo un oggetto a forma di libro e vi inserivo per esempio una tazzina da
caffè, e poi davo un titolo fortemente allusivo e insieme riconoscibile, per esempio La bottega del caffè
(l’esemplare in questione è alla Biblioteca Nazionale di Firenze).
In qualche modo il tuo secondo (o primo non so), lavoro, la letteratura usciva fuori…
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Sì, anche in altre versioni. Ho infatti voluto approfondire il tema della forma, dell’involucro esterno che
tuttavia presuppone, richiede, un contenuto…. Questa volta però non creando mio un libro-oggetto, ma
ricavandolo da quanto trovavo per caso. L’esempio più semplice, che mi viene in mente, è stato l’utilizzo
delle scatole di cartone che contenevano dei grossi volumi della Storia della Letteratura Italiana che la
Salerno editrice pubblicava negli anni novanta. Utilizzavo i contenitori per creare, attraverso degli inserti di
elementi vari e il colore delle ipotetiche nuove storie letterarie in cui avevano largo spazio elementi non
europei. Anche qui volevo alludere ad una rottura profonda della tradizione… ma ho anche realizzato altri
libri oggetto, utilizzando diversi tipi di scatole sia di cartone (come quelle per cioccolatini, oppure quelle più
piccole dei profumi o dei medicinali) sia di altri materiali, come la plastica … certo la letteratura… la cultura
affiora sempre anche quando lavori su materiali umili, addirittura degli scarti…
Continua, il discorso mi interessa, non importa se non seguiamo strettamente una linea cronologica, in
fondo stiamo sempre parlando di libri…
Contemporaneamente ai libri ‘chiusi’ ho sperimentato diverse tipologie di libri ‘apribili’ ma solo in forma di
dittico, ossia di scatole che erano come delle nicchie, dei tempietti (o, se vogliamo dei teatrini) che
contenevano degli elementi in un certo senso narrativi, che facevano immaginare delle storie, appunto come i
libri animati per bambini che avevo prima citato. Una serie interessante in questa direzione è stata quella
che usava i contenitori dei panini McDonald, sempre credo degli anni novanta. Lì mi affascinava il materiale,
una specie di polistirolo colorato, la forma di libro-scrigno in cui allestire appunto una sorta di…
scenografia; purtroppo si tratta di materiali molto delicati e deperibili, ma credo di averne conservato
qualche esemplare…
Mi sembra di capire che davvero hai voluto esplorare il pianeta libro, nelle versioni artistiche più
diverse…
Sì, diciamo che non ho mai fatto la cosa più semplice e più comune, ossia di illustrare un libro, lavorando
dunque sul rapporto stretto fra testo e immagine. L’ho sempre avvertita come un’operazione troppo
vincolante, e forse anche difficile per me, che in fondo non so disegnare, non sono in grado di riprodurre
fotograficamente la realtà…, lavoro su di un piano concettuale. Le tipologie da me praticate sono molto
lontane da questo principio, e sono molto varie: a volte ho utilizzato un vero libro e l’ho trafitto da lunghi
chiodi, ma qui l’operazione nasce dal titolo, che tradotto dal tedesco voleva dire più o meno “Le gioie
dell’amore”; oppure penso a quello, volutamente kitsch, consacrato alla morte di Lady Diana.
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Hai usato molti materiali diversi…
Pochi anni fa sono stato colpito dal legno, che è davvero un materiale semplice e straordinario insieme. Ero
in vacanza a Luino; passando spesso per un cantiere ho incominciato a raccogliere delle tavolette, dei
parallelepipedi di legno che gli operai scartavano dopo aver segato le assi per le impalcature… Ciò mi ha
fatto pensare alla loro abilità artigianale, che aveva una lunga tradizione, sprofondando addirittura nel
tempo dell’arte muratoria…. Così grazie a objects trouvés (solo in parte da me rielaborati) ho creato una
serie di oggetti in forma di libro, utilizzando altri scarti come il cordame. Ne è uscito un lavoro
interessante, almeno credo: volevo dimostrare che quelle specie di sculture contenevano e rappresentavano
le antiche conoscenze delle maestranze, erano appunto il condensato della loro abilità, erano dunque dei
libri sui generis.
So però che non hai trascurato del tutto il libro tradizionale, quello, per intenderci, che si apre, che
contiene delle pagine… da leggere o almeno da guardare?
Sì, in pratica non li ho mai abbandonati, ma anche
esempio creando libri, ovviamente illeggibili o quasi,
utilizzato scarti di acciaio per creare libri… Solo di
carta, in cui tuttavia non c’è un testo, ma piuttosto
in questo caso ho voluto sperimentare nuove vie, per
con materiali vari, come stoffe di vario genere; ma ho
recente sono tornato a costruire libretti sfogliabili, di
assemblaggi, collages… grammatiche diverse…
Ho visto alcuni tuoi lavori, credo abbastanza recenti, in cui utilizzavi dei semplici quadernini d’appunti…
sembrerebbe un ritorno… alla normalità.
Sì, dal punto di vista diciamo dell’impatto visivo hai ragione, però qui ho tentato un salto ulteriore… forse
presuntuoso, non so. A monte ci sono i taccuini dei piccoli e grandi viaggiatori, penso ai moleskine di Bruce
Chatwin che conoscono tutti, ma anche ai taccuini di De Amicis, o di Dino Buzzati che ho avuto occasione di
studiare: vedi che la diversità tende all’unità. Importante è stata inoltre la conoscenza personale di un
autore multiforme come Roberto Sanesi (deceduto nel 2001) e lo studio delle sue opere in cui mescola
abilmente scrittura, poesia e colore… Mirando appunto ad un processo unitario, ad una specie di forma-libro
ideale (il mio personale ed unico libro dei libri, o qualcosa di simile) che contenga tutte le scritture e le
iconografie possibili o almeno da me praticabili, anche i miei libretti di appunti inizialmente pensati per un
fine esclusivamente pratico, contingente, possono essere una parte del tutto… E comunque non sono
solamente meri documenti, registrazioni, ma in qualche modo (almeno nelle mie intenzioni) diventano opere che
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hanno un valore estetico, magari per qualche semplice dettaglio, un piccolo inserto, un collage che io
inserisco volutamente come a dire (ma in maniera se vogliamo ironica e dubitativa), guarda che adesso il
taccuino si sta trasformando, è diverso…
Un’operazione concettuale. Qui però ritorni anche a Derrida, alla memoria…
Senz’altro. Credo che ciascuno di noi abbia il dovere di lasciare qualcosa di sé al mondo, di positivo intendo…
c’è chi lascia la ricetta di una torta, chi una formula chimica, chi un giardino, chi dei figli, ciascuno secondo i
suoi talenti. I miei sono, senza falsa modestia, la scrittura e una certa immaginazione artistica…. Con la
maturità ho mirato a costruire un… microcosmo, alla composizione delle lacerazioni e delle divisioni, nella
convinzione che ogni atto è, anche se inconsapevolmente, legato all’altro. E non si tratta solo di un auspicio,
di un desiderio, perché davvero quando studiavo la scrittura visigotica o gli autografi di Petrarca mi
avvicinavo agli esperimenti di Emilio Villa… e anche il collezionare libri, ammirare le copertine, sentire l’odore
dell’inchiostro, la grammatura della carta, la ruvidità… tutto ciò mi è servito per conoscere ma poi ha avuto
anche una ricaduta sul mio modo di immaginare i libri… ed in effetti da una decina d’anni insisto su questo
tema, ricercando consapevolmente il passaggio, la condivisione, da uno all’altro settore. Così avviene anche
nella scrittura; in quella creativa, per esempio, tento appena possibile di inglobare frammenti dei miei studi
letterari o filologici, mi sembra un modo per renderli cosa viva… E poi anche all’interno della scrittura mi
sforzo di sperimentare diverse tipologie testuali, dalla recensione (rivisitata spesso in maniera originale,
come è accaduto in Palleggi in punta di tastiera, del 2007, che molto deve a Giorgio Manganelli) al romanzo
al racconto, attraversando diverse zone intermedie, come il linguaggio della pubblicità o quello del cinema, a
cui mi sono appena accostato. Oltre ciò, appena mi è possibile inserisco degli elementi di continuità, come a
segnalare a chi legge “attento, questa reca la mia impronta!”.
Stai alludendo in particolare al personaggio-guida chiamato Giacomo, suppongo…
Vedo che hai studiato. Sì appena ne ho l’occasione inserisco nei miei scritti un personaggio-guida appunto di
nome Giacomo. In prima battuta alludo naturalmente alla doppia vita intellettuale di Leopardi, erudito e
poeta (ma in lui non ci sono contraddizioni, una componente ravviva l’altra e viceversa), ma anche
all’apostolo Giacomo, il pellegrino. Io non ho come lui certezze, ma cerco di mettermi costantemente in
viaggio, alla ricerca del mio campus stellae…
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Non abbiamo purtroppo il tempo di passare in rassegna le diverse serie dei tuoi lavori, che bisognerebbe
soprattutto vedere, toccare… L’ultimo passo da te compiuto è stato quello delle falsificazioni e delle
invasioni…
In un certo senso… dico così perché di molte cose non ho contezza, però è vero che ultimamente mi diverto
– questa volontà ludica sta alla base di ogni mio tentativo artistico e letterario – ad intervenire in maniera
sistematica e cosciente su testi, su libri scritti da altri.
Spiegati meglio…
Se è vero – come ci ha insegnato Umberto Eco – che ogni testo è come una specie di partitura che esige
di essere ‘eseguita’, cioè interpretata soggettivamente, così non bisogna avere paura ad intervenire anche
fisicamente sul testo, che non è un idolo, ma uno strumento… quindi io non ho nessuna difficoltà (così come
facevano, per altri fini, Novati, o Billanovich) ad entrare concretamente nel libro. È un modo appunto per
comprenderlo, per completarlo direi… l’autore dovrebbe esserne contento… Vero è che io in genere
intervengo quasi esclusivamente sull’aspetto paratestuale, sulle copertine, sui frontespizi… occupo di solito
gli spazi bianchi, quelli non occupati dal testo scritto. Ma in alcuni casi, là dove il testo risulta davvero di
pessima qualità intervengo con degli inserti, o con dei tagli, degli strappi. Il libro diventa così un’altra cosa,
una specie di quinta teatrale… ritorniamo all’infanzia.
Mi veniva in mente, quando toccavi l’aspetto paratestuale dei libri, in funzione di un tuo intervento
artistico, che ancora una volta questa attenzione è in qualche modo collegata alle ricerche che stavi
svolgendo a livello accademico, riproponendo quell’azione circolare su cui hai tanto insistito…
Sinceramente non ci pensavo, hai comunque ragione e davvero questo dialogo serve forse più a me, a
chiarirmi (o confondermi?) le idee che a chi ci leggerà. In effetti a monte di queste operazioni, in apparenza
molto istintive, c’è l’amore-odio del collezionista nei riguardi dell’oggetto dei propri, spesso insani, desideri…
Scherzi a parte, come collezionista, ma in questo caso un po’ distratto, delle opere di Piero Chiara, mi sono
un po’impegnato appunto sul versante del paratesto, studiando per esempio la logica sottesa alle copertine
de Il piatto piange (un vero capolavoro della narrativa novecentesca) e de Il balordo; queste indagine sono
infine sfociate nel volume Segni sui margini. Con Piero Chiara e i suoi libri (Macerata, Biblohaus, 2013).
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Il nostro incontro sta per volgere alla fine, ma vorrei trovare il tempo per rivolgerti ancora alcune
domande, per togliermi qualche curiosità… Prima rievocavi l’uso della tecnica del caffè, puoi aiutarmi a
capire meglio?
Disegnare, dipingere con il caffè è una forma d’arte antica, Victor Hugo la praticava, e possiamo tutti
immaginare cosa potesse accadere ai tavolini di un caffè a Parigi o a Firenze agli inizi del Novecento. Più
modestamente la mia non è una tecnica, non uso pennelli, solo le dita… In pratica, soprattutto di sabato, mi
capita di leggere dopo pranzo qualche libro non particolarmente impegnativo. Me ne sto in poltrona e mia
moglie gentilmente mi porta il caffè. Ne lascio sempre un po’ nella tazzina, di solito rimane un po’ di
zucchero di canna. Allora, come assalito da un raptus ne verso il contenuto su una pagina o due del libro…
e qualcosa appare …anche se non è quasi mai legato in linea logica rispetto al contenuto del volume…
Stai descrivendo l’operazione come se fosse una specie di rito…
In un certo senso lo è, il caffè e lo zucchero residuo formano una miscela magica; è un gesto a metà strada
tra irrazionale (si tratta sempre di una sorta di oltraggio nei confronti dell’altro…) e razionale, perché poi
cerco di dare comunque una forma compiuta a ciò che appare, correggendo o integrando con una matita o
una biro… Credo che il termine invasione sia solo in parte esatto, ho preferito insistere sulla parte
violenta, negativa… ma a volte è come se il libro stesso chiedesse d’essere completato o liberato da
qualche impedimento…
E che cosa mi puoi dire delle tue ‘falsificazioni’?
Sono degli inganni, quasi sempre onestamente dichiarati. Rientrano nel discorso precedente, che presuppone
un testo come qualcosa di aperto, in fieri. Qui c’è un aspetto più dada, più ludico, che contempla
l’appropriazione parziale di un’opera, mai però in funzione di plagio, se mai per virare verso una direzione
diversa, verso, se vogliamo fare il professore, una risemantizzazione. Teorie a parte, del resto non le ho
mai amate, c’è un aspetto fortemente ludico e forse un atteggiamento da paguro bernardo, ossia di simbiosi
mutualistica, quindi un fondo di pigrizia, non tanto intellettuale quanto pratica…
Conoscendo un po’ i tuoi lavori mi sembra che esistano diverse modalità di falsificazione, o sbaglio?
Non sbagli. Nello spirito pienamente dada, con qualche suggerimento tratto da Borges o da Pessoa, invento
(dunque falsifico) delle collaborazioni mai avvenute o magari solo sfiorate; ugualmente mi nascondo dietro
degli eteronimi (di solito utilizzando degli avi materni), oppure semplicemente altero le città di
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progettazione-realizzazione dei miei libri, anche se in fondo si tratta di luoghi reali a me davvero molto cari,
sempre gli stessi. Qualche volta devo aver falsificato delle dediche autografe (quella di François Hollande,
mi pare, che pure ho davvero incontrato di persona a Besançon durante la sua propaganda elettorale), ma
da qualche parte ho letto che faceva altrettanto – per burla – Patrick Modiano, Premio Nobel 2014 per la
letteratura. Sono quindi in ottima compagnia, direi…
Voltiamo pagina. Finora mentre parlavi ho avuto l’impressione di un lavoro molto vario e costante, ma
perseguito sostanzialmente da solo senza il sostegno o il conforto d’un gruppo, è così?
Qui hai toccato un tasto dolente. È vero, gran parte del cammino l’ho percorso in solitudine, anche con una
certa vergogna, una ritrosia credo comprensibile. Non ero sempre sicuro, né lo sono ora, della qualità dei
miei lavori. Quindi avevo anche timore a mostrarli agli altri; in più c’è sempre stato in me, devo confessarlo,
anche un sentimento opposto, una sorta di presunzione, d’essere un genio incompreso; insomma, è lo
stereotipo e… la scusa di chi non fa mai il salto… Per anni ho quindi lavorato in perfetta solitudine, dal
punto di vista artistico, intendo… poi naturalmente, per mia fortuna, le cose sono cambiate, almeno per
qualche anno…
In che senso? Che cos’è accaduto?
Nel piccolo mondo di Busto Arsizio, dove ho sempre vissuto, ho incominciato sin dagli anni settanta ad
incontrare galleristi, artisti più o meno affermati, critici. E da metà degli anni ’90 sino al 2001 ho collaborato
con alcuni di loro, di cui sono diventato un po’… amico, che hanno aperto a Busto la Galleria Aquifante, una
piccola ma vivace struttura espositiva. All’inizio non ho rivelato che anch’io avevo… una produzione artistica,
e quindi ho sfruttato piuttosto altre doti e ho svolto un’attività diciamo da… ‘addetto stampa’, dando una
mano ad organizzare mostre a tema, scrivendo recensioni e testi introduttivi a tali eventi, oppure a
cataloghini artigianali o a libretti d’amici.
Come è stato l’incontro con questo mondo?
L’impatto diretto con gli artisti è stato per me salutare. Alcuni mi hanno davvero impressionato per la
tecnica e l’abilità manuale; altri mi hanno colpito per la lucidità intellettuale nel perseguire un loro progetto
a lungo termine. Tra i molti devo fare almeno i nomi di Graziano Cattini, Piero Cazzola, Silvano Cei; e
soprattutto del mio carissimo Giannetto Bravi, morto purtroppo nel 2013: a lui, a cui debbo tra l’altro un
incontro memorabile con Pierre Restany, ho consacrato un piccolo libro. Come al solito, all’inizio mi hanno
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intimorito, poi, conoscendoli meglio ho capito (o mi sono illuso) che anch’io avrei potuto seguire un mio
percorso originale, perché non ero proprio un disastro come avevo paventato… In tal modo mi sono fatto
avanti timidamente e gli artisti (alcuni anche di rilievo e destinati ad un buon successo) mi hanno ‘accettato’,
consentendomi di partecipare con qualche mio pezzo alle mostre collettive. Come era ovvio, appena possibile
ho tirato l’acqua al mio mulino, proponendo una mostra collettiva sui libri d’artista che poi è stata allestita
in diverse sedi…
Incominciava così la tua vera e propria carriera d’artista…
Non scherzare, sai che non è proprio la verità... Non posso però negare che grazie alla galleria ed al
contatto con altri artisti ho potuto partecipare a mostre di un certo livello, collegandomi (grazie alla
generosità di Fernando Andolcetti) anche alla Galleria Il Gabbiano di La Spezia, che a sua volta aveva
allacciato diversi contatti di prestigio. Alle loro iniziative spesso partecipava Luciano Caruso, che da tempo
era uno dei miei punti di riferimento e di cui conoscevo la varietà della sua opera. Grazie ad una comune
amica fiorentina, Rossana Melis, ebbi la fortuna di incontrare Luciano ad una cena. Ne nacque un’amicizia,
purtroppo breve per la sua morte prematura (2002), ma per me davvero decisiva. Caruso riuniva in sé una
serie di esperienze esemplari, che riusciva a gestire con professionalità: insegnava all'Istituto d’arte di
Firenze, era uno studioso molto serio delle avanguardie e specialmente del Futurismo, era un artista ed un
instancabile animatore culturale. Da lui, dalla sua disponibilità al confronto e dalla sua generosità
intellettuale credo di aver ricavato molto. In particolare ho acquisito maggiore consapevolezza delle mie
capacità ed ho ricavato una visione più ampia del lavoro intellettuale in cui insegnamento, studio e ricerca
potevano convivere, così come le diverse forme di scrittura e le varie sperimentazioni in ambito artistico. Ho
incominciato anche a farmi una cultura più specifica, studiando le diverse avanguardie storiche o le
esperienze legate al rapporto parola-immagine, ritornando in maniera più consapevole su alcuni testi
medievali od umanistici, in questo aiutato, oltre che da Caruso, dal volume fondamentale di padre Giovanni
Pozzi, La parola dipinta, Adelphi, 1981.
Grazie a queste nuove conoscenze sei diventato anche un collezionista, no?
Come devo aver già anticipato, sin dall’inizio degli anni ’80 ho collezionato, coi primi stipendi da insegnante,
qualche opera di artisti che allora mi interessavano ed erano accessibili; poi i soldi sono sempre stati
insufficienti, e quindi come molti mi sono limitato a dei disegni (tra cui un pezzo di Giuliano Collina) qualche
piccola opera grafica, ad esempio di Guerreschi, Morlotti, Ferroni. Negli anni novanta di importante ho
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acquistato qualche lavoro storico di Caruso (in particolare due ‘cancellature’ del 1969), ma soprattutto ho
scambiato le mie opere con lavori di amici o di artisti che esponevano alla Galleria Aquifante. Anche alcuni
miei testi critici, che circolavano soprattutto in occasione delle mostre, mi hanno fruttato qualche disegno
da parte di artisti riconoscenti. Per il resto mi sono limitato a comprare libretti di pochissimi artisti (tra cui
ricordo un’operina di Agostino Bonalumi), di solito però di autori molto giovani (che vanno perciò aiutati);
oppure di autori sconosciuti, dilettanti appassionati ma senza futuro dal punto di vista del mercato…
Quest’ultima tua amara considerazione mi serve per trasferire il discorso su di un piano diverso, quello
che tu hai citato, della critica…
Se intendi la mia attività come critico d’arte, che è una definizione per me esagerata, è stata
quantitativamente molto limitata; ho scritto una decina di ‘testi di servizio’ per la Galleria Aquifante, poche
introduzioni per mostre di amici. Sono tutti testi non tanto critici (non ne avrei gli strumenti) quanto mossi
da ragioni personali ed affettive, come il già menzionato libretto L‘angelo di Rembrand. Scritti e
testimonianza per Giannetto Bravi. Alcuni di questi testi sono rimasti inediti e forse un giorno li
raccoglierò. Devo confessarti che non scrivo mai di arte, di opere astratte, ma soprattutto di artisti, di
uomini con cui cerco sempre di instaurare una simpatia… Se invece vuoi, come suppongo, riferirti ai miei
rapporti con i Critici Professionisti sono stati e sono praticamente nulli, ad esclusione forse di qualche
amico, che però è minima pars di questa categoria, e penso a Stefano Crespi, un intellettuale raffinato…
troppo in questo mondo di squali. Diciamo che la mia esperienza con i critici, sia pure osservata da un angolo
visuale ristretto, non mi è sembrata molto esaltante, rispetto all’ambito letterario, che conosco meglio,
diciamo che circolano molti più soldi… e personaggi d’ogni genere. Viene da pensare, con rimpianto, ai critici
d’un tempo… o forse è solo stupida nostalgia… Certo, se avessi avuto la possibilità di frequentare Emilio
Villa – sua nonna, una Redaelli era di Busto Arsizio –.
Da che cosa deriva questo tuo amore per Villa?
È il grande assente del nostro Novecento, e insieme, come dire, l’ubiquo; perché a ben vedere, a
scandagliare nella sua biografia e nella sua bibliografia egli è ovunque presente e partecipe: è stato
l’iniziatore di mille imprese, l’ispiratore di progetti, il guru più o meno celato di confraternite segrete,
magari raccolte in piccoli centri di provincia, che affidavano a microedizioni artigianali o a fogli volanti le
loro iniziative. Ricordo ancora con sorpresa con quale affettuosa riverenza Caruso mi parlava del suo amico
Emilio, l’uomo più colto ed intelligente che avesse mai incontrato. Villa era sempre avanti, oltre l’avanguardia
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quando levava la voce il Gruppo 63, anarchico e dinamitardo prima del 68, e nel contempo eccezionale
talent-scout di giovani artisti, a cui generosamente regalava introduzioni sproporzionate, in cui rivelava la
cifra più recondita e magica del loro lavoro, ed anche il percorso futuro da seguire (e vengono qui alla
mente le presentazioni scritte per Alberto Burri, e poi per Claudio Parmiggiani o Mimmo Paladino). Villa era
anche e soprattutto il grande sapiente, colui che, forte di solidi studi filologici (incominciati in Seminario),
conosceva i segreti delle lingue più remote; e allo stesso tempo era colui che poteva inventarsi una sua
lingua personale e inimitabile miscelando italiano e francese e altre lingue per forgiare un pastiche
misterioso e polisemico… Insomma, un mito, almeno per me.
Prendo la palla al balzo per un’altra considerazione. Ascoltandoti parlare mi sono accorto che tu non
hai mai fatto cenno ai critici, alle mostre, al mercato…
Rispetto al mio lavoro artistico, a parte i soliti testi di routine, pochissimi hanno parlato delle mie opere, né
io a dire il vero ho mai pregato (e tantomeno pagato come è purtroppo abitudine) qualcuno perché si
occupasse di me, se non persone che conosco e stimo, e che so che sono veramente interessate al mio
lavoro. Io poi non amo molto le mostre personali (così come odio promuovere i miei libri): c’è troppo lavoro
preparatorio, io non sono predisposto a chiedere a pregare, forse per mancanza di umiltà, oppure per un mix
di timidezza e pigrizia. Infine c’è il giorno dell’apertura, la paura che non ci sia gente… tutto è molto
stressante. Perciò, a parte l’entusiasmo iniziale che mi ha portato a organizzare due piccole personali (nei
lontani anni 1996 e 1998), ho sempre preferito ‘nascondermi’ in mostre collettive, lasciando ad altri oneri ed
onori. Tuttavia, dopo la chiusura della Galleria Aquifante, ho deciso di ritornare a lavorare in solitudine, e
ho partecipato solo raramente a delle mostre collettive organizzate in Irlanda. Ho fatto una sola eccezione,
di recente, solo perché si trattava di una mostra collettiva consacrata all’amico Bravi.
Quali sono i motivi di questa ritrosia?
Il mercato con le sue leggi, i suoi riti, le tensioni… non fa per me. Tra l’altro come avrai compreso il mio è
un lavoro di nicchia, che non sopporta un’esposizione normale… Come puoi mostrare ad un pubblico vasto dei
piccoli quaderni, dei taccuini? Alla mia età non ho più bisogno di generici e spesso ipocriti consensi,
preferisco concentrarmi sul lavoro e pensare alla sua globalità, al senso complessivo di quarant’anni di
sforzi e di un progetto unitario che ho fin qui tentato di descrivere. Ogni tanto a dire il vero cerco ancora,
tramite i vecchi amici, qualche contatto con dei gruppi che si interessano di Libri d’artista. Non ne mancano,
ma spesso sono autoreferenziali, covano gelosie, veti incrociati. O almeno io li vedo così, può essere un mio
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limite. Quindi alla fine scelgo di non scendere direttamente in campo, ma sono molto curioso e cerco di
conoscere ed imparare appena possibile. Quanto al cosiddetto ‘mercato’ i miei lavori sono assolutamente
inadeguati, sono fuori dal mercato. Il che in fondo non mi dispiace perché ho la fortuna di guadagnarmi pane
e companatico con altri mezzi. Non vorrei però mitizzare la mia posizione, definendola consapevolmente
alternativa. Anche perché oggi, in questa confusione della rete, piena di energie, non è semplice essere
alternativi a qualcosa. Credo di aver venduto tre o quattro pezzi in tutta la mia vita; ho preferito fare dei
regali o scambiare i miei pezzi con quelli di altri. Come è facile da comprendere, ciò mi ha impedito (c’è stato
un momento in cui l’avevo pensato, collegandomi con qualche galleria di Parigi) qualsiasi accesso al pubblico,
almeno passando attraverso i normali canali istituzionali.
Non hai mai pensato di superare questi canali sempre più desueti per sfruttare le nuove tecnologie e
mostrare finalmente le tue opere al pubblico più vasto?
Sopra accennavo, con un misto di timor reverentialis e di meraviglia, alle cosiddette potenzialità ‘della
rete’, che io però assolutamente non pratico, e forse è oggi ciò davvero un limite insopportabile. Non
frequento assolutamente i cosiddetti social network ed altre simili diavolerie. Sto solo usando il PC per
archiviare le mie opere; mia moglie le scansiona e poi le inserisco nelle cartelle. Quest’operazione, puramente
meccanica, mi ha offerto qualche spunto per progettare dei ‘libretti d’artista virtuali’, ma per ora ho fatto
solo dei goffi tentativi, vista anche la mia risibile competenza in materia. Invece ho lavorato tempo fa con la
fotografia, con una piccola macchina digitale, ma è un mezzo che devo ancora studiare…
Non posso a questo punto non porti una domanda che è a mio avviso fondamentale. Da decenni lavori in
gran parte da solo, senza conforti critici, senza la risposta positiva del mercato, che dici di evitare.
Molti altri avrebbero gettato la spugna… che cosa ti fa andare avanti?
È una domanda che anch’io mi pongo, sia chiaro. E credo perseguiti le migliaia di persone che ancora oggi
cercano di produrre letteratura ed arte, pur essendo esclusi da qualsiasi logica economica e senza speranza
di successo critico. Perché mi piace, verrebbe da rispondere, o perché comunque non saprei fare altro. Tutto
vero e poi c’è il resto, quanto ho cercato sin qui di esporre. Una sorta di imperativo categorico, un
disperato bisogno di compiere il proprio dovere di uomo, ossia di cercare di migliorare ed arricchire il mondo
secondo le proprie potenzialità. C’è molto egoismo e presunzione in questa affermazione? Forse, ma è la
verità.
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In quest’ultima risposta mi pare di cogliere una contraddizione. Da un lato infatti insisti sul tuo lavoro
come produttore di bello, di arricchimento del mondo, dall’altro tendi ad una specie di autoreferenzialità,
di isolamento…
In questo non posso darti torto. E tuttavia io non voglio cedere ai ricatti del mercato. Potrei accordarmi con
dei critici importanti o con dei galleristi e pagare io stesso per ottenere ‘visibilità’. Qualche mio amico l’ha
fatto, considerandolo un investimento, e alla fine ha anche riscosso un certo successo… sino a poco tempo
fa’ cercavo di eludere questo problema, non ci pensavo. Forse per il solito orgoglio, o per presunzione. Di
recente ho immaginato altre vie alternative. Così ho incominciato a donare qualche pezzo a delle Biblioteche
pubbliche di prestigio; qualcuna me li ha anche chiesti sua sponte, e io li ho volentieri regalati. Molto meglio
che restare chiusi negli armadi o ad ammuffire in cantina. Del resto ancora oggi sarei molto in difficoltà se
qualcuno volesse acquistare qualcosa di mio…
Come credi, dunque, di valorizzare il tuo lavoro, o almeno di non disperderlo in mille rivi?
Da circa un paio d’anni sto in effetti pensando a cosa fare delle mie collezioni, e anche delle opere da me
realizzate. Per i mille motivi che sai, ritengo sia importante conservarne l’unità, per cui penso che le darò in
comodato a qualche istituzione interessata, anche se in Italia sta diventando difficile, per mancanza di fondi
e di disinteresse. Vedremo. Per i libri d’artista ho già ‘versato’, con la formula del comodato (poi diventerà
una donazione vera e propria) parecchi dei miei lavori (e di quelli altrui appartenente alla mia collezione) alla
Biblioteca Isontina di Gorizia. Ora sto provvedendo ad un secondo versamento di modo che la Biblioteca
possegga un ventaglio cronologicamente e qualitativamente esaustivo delle mie sperimentazioni.
Perché hai pensato proprio a Gorizia?
Ragioni diverse; di stima e di amicizia per il Direttore, Marco Menato, che è persona competente, uno
studioso serio di storia della stampa che sa apprezzare anche i libri d’artista. Poi Gorizia è città di confine,
luogo d’incrocio di lingue e culture, perciò a livello simbolico esprime molto bene una delle caratteristiche
principali del mio lavoro, che appunto mescola diverse modalità… infine ci sono ragioni culturali, anzi
sentimentali, perché a Gorizia ho ambientato il mio romanzo Viola come il sangue e a lungo ho studiato
due… glorie locali Graziadio Isaia Ascoli e Carlo Michelstaedter. Pensare che nella stessa struttura siano
conservati i miei lavori insieme agli scritti e ai disegni di Carlo mi emoziona molto…
Che cosa ti aspetti da questa tua iniziativa?
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L’unica richiesta da parte mia è che tutto il materiale da me offerto venga appunto valorizzato con qualche
esposizione mirata. Nella speranza che venga apprezzato e studiato. In fondo si tratta di me, della mia vita.
È anche il mio augurio. Grazie per la chiacchierata.
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Biblioteca Statale Isontina
via G. Mameli, 12
34170 Gorizia
Italia
Info: [email protected] e [email protected]
tel. 0481.580215 / 225
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Orari della Bsi: da lunedì a venerdì 7.45 - 18.45, sabato fino alle 13.30. Domenica e festivi chiuso
Editing, stampa e conversione elettronica di Livio Caruso
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