I bronzi di Riace

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I bronzi di Riace
I bronzi di Riace (metà del V sec. a.C. ca.) statue in bronzo; alt. m 2 ca., Museo Nazionale, Reggio Calabria.
Le due sculture furono ritrovate nel mare Ionio, a 300 metri dalle coste di Riace in provincia di Reggio
Calabria, nel 1972. L’eccezionalità del ritrovamento fu subito chiara, date le poche statue originali che ci
sono giunte dalla Grecia. Furono trasportate a Firenze dove fu curato il restauro presso l’Opificio delle Pietre
Dure, uno dei più specializzati laboratori di restauro del mondo. Nel 1980 furono esposte in una mostra, che
ebbe un successo eccezionale, e quindi trasportate nel museo archeologico di Reggio Calabria dove sono
tuttora esposte.
L’analisi stilistica e quella scientifica sui materiali e le tecniche di fusione hanno entrambe determinato la
differenza sostanziale tra le due statue: sono da attribuirsi a due differenti artisti e a due epoche distinte.
Quella raffigurata a sinistra viene normalmente chiamata "statua A", mentre quella a destra "statua B".
L’attribuzione odierna, in base ai confronti stilistici oggi possibili, è di datare la "statua A" al 460 a.C., in
periodo severo; mentre al periodo classico, e più precisamente al 430 circa a.C., viene datata la "statua B".
Si tratta di determinazioni che possono ancora essere modificate, anche perché sappiamo davvero
pochissimo di queste due statue. Ignoti sono sia gli autori, sia i personaggi raffigurati, sia la collocazione che
avevano nell’antichità. Al momento possiamo solo ritenere che si tratti genericamente di due atleti o di due
guerrieri, raffigurati come simbolo di vittoria.
Entrambe le statue sono raffigurate nella posizione definita a chiasmo, presentandosi con una notevole
elasticità muscolare. Soprattutto la "statua A" appare di modellato più nervoso e vitale, mentre la "statua B"
ha un aspetto più rilassato e calmo. Ma entrambe trasmettono una grande sensazione di potenza, dovuta
soprattutto allo scatto delle braccia che si distanziano con vigore dal torso. Il braccio piegato doveva
sicuramente sorreggere uno scudo, mentre l’altra mano impugnava con probabilità un’arma. La "statua B" ha
la calotta cranica modellata in quel modo perché doveva sicuramente consentire la collocazione di un elmo
di stile corinzio, oggi disperso.
Le statue furono con probabilità realizzate ad Atene e da lì furono rimosse per essere portate a Roma, forse
destinate alla casa di qualche ricco patrizio. Ma il battello che le trasportava dovette affondare e il prezioso
carico finì sommerso dalla sabbia a circa 8 metri di profondità. Non è da escludere che all’epoca fu già fatto
un tentativo di recupero, andato infruttuoso così che le statue sono rimaste incastrate nel fondale per circa
duemila anni, prima che ritornassero a mostrarci tutto il loro splendore.
Ma vediamo come venivano realizzate le statue in bronzo. La tecnica può essere sintetizzata in questi
passaggi. Per prima cosa si modellava la statua in argilla. Su di essa, in una seconda fase, veniva collocato
uno strato di cera, dello spessore di alcuni millimetri. Terza fase, il tutto veniva ricoperto da altra argilla o
terra refrattaria, per costituire un blocco solido e resistente. A questo punto, attraverso un’opportuna serie di
fori, praticati nel masso finale per giungere allo strato di cera, veniva colato il bronzo portato a temperatura di
fusione (circa 1000° C). Il bronzo, infilandosi in questo masso composto all’interno e all’esterno della forma
scolpita da terra refrattaria, andava naturalmente a collocarsi lì dove trovava la cera, la quale, a contatto con
il grande calore del bronzo fuso, si scioglieva e colava da opportuni fori ricavati inferiormente. Quando il
bronzo si raffreddava aveva preso tutto il posto dove prima era la cera. A questo punto si poteva liberare la
statua di tutta la terra refrattaria che la ricopriva. Appariva la statua in bronzo, che però all’interno conteneva
ancora l’argilla usata per la prima modellazione. Si aveva ovviamente cura di far sì che la forma non fosse
totalmente chiusa, in modo da poter liberare la statua dell’argilla interna. Nel caso dei bronzi di Riace, ad
esempio, le due figure sono aperte sotto i piedi, fori che ovviamente non si vedono quando le statue sono
collocate in posizione eretta, e da questi fori fu possibile, con paziente lavoro, asportare l’argilla interna. Non
tutta l’argilla si riusciva ad asportare, tanto che nel caso dei bronzi di Riace recenti interventi di restauro
interno, condotti con microsonde radiocomandate, hanno permesso di asportare ancora un quintale circa di
argilla che era rimasto negli anfratti interni delle due statue. Se le statue non erano fuse in un unico blocco, il
lavoro risultava più agevole. In questo caso le parti venivano saldate a posteriori in punti appositamente
studiati per non influire nella visione dell’opera. Questa tecnica era definita fusione "a cera persa". Di fatto
questa tecnica messa a punto dai greci è la stessa che si usa ancora oggi, pur nella diversità dei materiali
odierni e della evoluzione tecnologica, a dimostrazione che il modello di procedura era il migliore possibile.
Tale procedimento era dettato dalla imprescindibile necessità di realizzare statue che fossero cave
all’interno. Se una statua in bronzo è di piccole dimensioni, nell’ordine di alcune decine di centimetri, si può
ragionevolmente realizzarle a blocco pieno. In questo caso basta predisporre solo una forma cava al
negativo, che fungesse da formatura della statua. Quando però una statua in bronzo raggiunge le
dimensione di uno o due metri di altezza non è più possibile di realizzarle a blocco pieno. Primo perché
richiederebbe molto metallo e ne verrebbe fuori una statua dal peso incredibile; ma secondo, il motivo di
maggior ostacolo, è che una statua di così grandi dimensioni, una volta colata nella forma, nella fase di
raffreddamento, per effetto della differente temperatura tra interno ed esterno con conseguente divario di
dilatazione e contrazione, sarebbe sollecitata a tensioni interne così forti che ne determinerebbero
automaticamente la distruzione.
Le statue in bronzo erano quindi internamente vuote. Questa circostanza permetteva di risolvere anche un
problema particolare: far mantenere le statue in verticale risolvendo eventuali squilibri della forma finita con
l’inserzione all’interno della statua di opportuni contrappesi che ne determinavano il giusto equilibrio. Quando
però le statue in bronzo venivano copiate in marmo, il problema dell’equilibrio non poteva più essere risolto
con contrappesi nascosti. In questo caso si ricorreva a diversi accorgimenti, quali, il più comune, era di
inserire dietro le figure tronchi e arbusti che saldassero le membra inferiori in un unico blocco. In questo
modo si alterava l’immagine finale, anche se ciò non produceva un risultato estetico del tutto negativo. Ciò è
possibile notarlo in tante statue greche i cui originali in bronzo non ci sono pervenuti, perché sicuramente
fusi per ricavarne il bronzo per altri usi, e di cui ci rimangono solo copie in marmo di età ellenistica o romana.
Altri esemplari molto noti di sculture in bronzo di età severa sono l’Auriga di Delfi e Zeus di Capo Artemision, date al 470-460 a.C.,
periodo in cui fu realizzata anche la "statua A" dei bronzi di Riace.