la capacità contributiva nell`imposta sul valore aggiunto

Transcript

la capacità contributiva nell`imposta sul valore aggiunto
LA CAPACITÀ CONTRIBUTIVA NELL’IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO
Sommario: 1. Premessa – 2. Il principio di capacità contributiva – 3. La capacità contributiva e
l’ordinamento comunitario – 4. La natura giuridica dell’Iva.
1. PREMESSA
Il presente intervento affronta due temi, tra loro strettamente collegati, su cui il dibattito
continua ad essere fortemente accesso; mi riferisco al concetto di “capacità contributiva” ed alla natura
giuridica dell’Iva.
Poiché la natura dell’imposta è una conseguenza dell’individuazione della capacità contributiva
colpita dalla stessa, in primo luogo cercherò di esporre, senza pretesa di esaustività, le teorie formulate
sull’argomento soffermandomi sul dibattito sorto a seguito dell’istituzione dell’Irap in quanto è
espressione emblematica dei diversi modi di intendere il principio di capacità contributiva. Inoltre, alla
luce della natura comunitaria dell’Iva alcuni cenni saranno dedicati alla verifica di come il quadro
costituzionale in materia tributaria ed, in particolare, l’art. 53 Cost., si innesti nel processo di
armonizzazione e se esso rappresenti un limite all’applicazione in Italia del diritto comunitario.
Comunque, intendo chiarire sin d’ora che le conclusioni a cui si giungerà in materia di Iva
prescindono dall’accoglimento di una tesi in particolare in quanto la legittimità costituzionale
dell’imposta è generalmente riconosciuta.
2. IL PRINCIPIO DI CAPAC ITÀ CONTRIBUTIVA
Come è noto il principio di capacità contributiva trova espressione nel primo comma dell’art. 53
Cost. il quale dispone testualmente che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione
della loro capacità contributiva”.
La tesi prevalente attribuisce all’art. 53 una funzione solidaristica, nel senso che chiunque è in
grado di concorrere all’azione della collettività è a ciò tenuto a prescindere da un eventuale beneficio.
Il carattere solidaristico si rinviene dal collegamento dell’art. 53 con l’art. 2 Cost. che richiede
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. In pratica la capacità
contributiva dovrà essere valutata in base alla sua idoneità a realizzare il valore costituzionale del
“dovere di solidarietà”.
Comunque, l’indirizzo solidaristico non è sufficiente; si richiede, infatti, l’idoneità economica del
soggetto inciso dal tributo quale elemento di garanzia nei confronti del potere legislativo. In altre parole
l’indice rilevatore di ricchezza assunto a presupposto d’imposta deve essere rapportato alla disponibilità
economica complessiva del soggetto. In tal modo non è sufficiente che il presupposto sia
economicamente valutabile, ma occorre che tale fatto esprima la situazione economica del soggetto
inciso1.
La versione più evoluta2 di detta tesi individua nel principio di capacità contributiva un limite
assoluto inteso come requisito oggettivo di qualunque presupposto cui si può ricollegare la
partecipazione alle pubbliche spese ed un limite relativo inteso quale elemento giustificativo di una
diversa contribuzione imposta a taluni consociati.
In tal senso Giardina, Le basi teoriche del principio di capacità contributiva, Milano, 1961, pp. 434 ss.; Manzoni, Il principio di
capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1964, pp. 67 ss.; A.M. Gaffuri, L’attitudine alla contribuzione,
Milano, 1969, pp. 63 ss.; F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973; I D., Capacità contributiva, in Enc. giur.
Treccani, vol. V, Roma, 1988; G. Marongiu, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria, Padova, 1995, pp. 108 ss.; G.
Falsitta, Il doppio concetto di capacità contributiva, in Riv. dir. trib., 2004, p. 889.
2 A. Fantozzi, Il diritto tributario, 2003, p. 38.
1
1
La Corte costituzionale ha individuato il limite assoluto ed oggettivo nella potenzialità
economica3, cioè nei fatti espressivi di ricchezza in senso lato, mentre il limite relativo nella scelta fra
presupposti che, seppur tutti espressivi di potenzialità economica, siano congrui e coerenti con i
principi, costituzionali e non, presenti nell’ordinamento nel momento storico considerato4. Affinché il
tributo possa essere costituzionalmente legittimo è necessario che la capacità contributiva intesa quale
forza economica sia riferita al soggetto piuttosto che al fatto presupposto del tributo e sia effettiva5 ed
attuale6.
La tesi contrapposta7 alla precedente ritiene che il principio di capacità contributiva impone al
legislatore di scegliere criteri di riparto del carico impositivo che siano equi, coerenti, ragionevoli e
consentano di comparare – e differenziare – le posizioni dei singoli contribuenti sulla base di elementi
economicamente valutabili, anche se privi di contenuto patrimoniale o non rappresentativi di un
arricchimento del soggetto obbligato. In altre parole l’art. 53 esprime un principio di razionalità e
coerenza che impone un raffronto sistematico con tutte le norme dell’ordinamento e, quindi, non
sarebbe una norma di garanzia in senso proprio ma espressione della funzione di razionale ripartizione
tra i consociati dei carichi pubblici che giustifica il sindacato di congruità della disciplina dettata dal
legislatore.
In tale prospettiva viene compressa la componente solidaristica e valorizzato il ruolo del
principio di uguaglianza, e quindi i relativi corollari della razionalità e coerenza delle scelte legislative,
quale canone fondante l’art. 53, comma 1 Cost., norma applicabile a tutti i tributi.
Entrambe le tesi riconoscono la possibilità dell’utilizzo extrafiscale del tributo. La prima in
quanto ritiene che l’interesse collettivo cui deve essere finalizzato il dovere di solidarietà deve essere
ricavato dai valori costituzionali idonei a definire nei diversi casi la maggiore o minore capacità
contributiva; la seconda teoria poiché collega il tributo extrafiscale agli altri principi costituzionali
presenti nell’ordinamento.
La differenza di fondo tra le due correnti di pensiero si rinviene nell’individuazione degli indici
rilevatori della potenzialità economica. Invero, per la teoria solidaristica la disponibilità economica del
soggetto inciso dal tributo è rappresentato dal reddito, dal patrimonio (o incrementi del patrimonio) e
dai consumi, mentre la teoria che riduce la capacità contributiva a raziona le criterio di riparto ritiene
sufficiente che al soggetto sia riferibile il presupposto colpito dal tributo, in qualche modo
economicamente valutabile.
Queste opposte concezioni hanno trovato terreno di scontro nell’Imposta regionale sulle attività
produttive (IRAP). Infatti, i fautori del criterio di ripartizione sostengono che non è rilevante che il
parametro dell'imposta rappresenti ricchezza disponibile del soggetto passivo, ma è piuttosto necessario
3 Ex
multis: Sentenze n. 45/1964; n. 91/1972; 23 maggio 1985 n. 159, in Dir. e prat. trib., 1985, II, p. 580; n. 4 maggio 1995 n.
143, in Dir. e prat. trib., 1996, II, p. 285; 22 aprile 1997 n. 111, in Rass. trib., 1998, p. 492; 21 maggio 2001 n. 156, in Rass. trib.,
2001, p. 833.
4 Sentenza 26 marzo 1980 n. 42, in I Quattro Codici della Riforma Tributaria big, Cd-rom, IPSOA.
5 Non deve trattarsi di una capacità meramente ipotizzata o fittizia. Detto requisito determina l’illegittimità delle norme che
prevedono presunzioni assolute come rilevato dalla Corte cost. nella sentenza n. 200 del 1976 nella quale si è affermato che
“se è pur lecito formulare previsioni logicamente valide ed attendibili, non è peraltro consentito trasformare tali previsioni in
certezze assolute, impuramente statuite, senza possibilità che si ammetta la prova del contrario e si salvaguardi, quindi,
accanto all’esigenza indiscutibile di garantire l’interesse della pubblica finanza alla riscossione delle imposte, il ricordato ed
altrettanto indiscutibile diritto del contribuente alla prova della effettività del reddito soggetto ad imposizione”.
6 Nel senso che la capacità deve esistere al momento in cui è imposto dalla legge il dovere di concorrere alle spese pubbliche.
Si ricollegano al requisito dell’attualità il sindacato sulle norme tributarie retroattive e sui prelievi anticipati.
7 A. Fedele, Gli incrementi “nominali” di valore nell’Invim ed il principio di capacità contributiva, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1982, I, pp. 56 ss.;
I D., Prime osservazioni in tema di Irap, in Riv. dir. trib., 1998, p. 472; F. Gallo, Ratio e struttura dell’Irap, in Rass. trib., 1998, p. 631.
Favorevole alla tesi della capacità contributiva come razionale criterio di riparto L. Del Federico, Tassa, tributi paracommutativi
e prezzi pubblici, Torino, 2000, p. 102. “I tributi solidaristici, denominati anche “tributi a titolo contributivo” (o meglio
redistributivo), sono caratterizzati dal conseguimento di finalità generali, rectius dal finanziamento dei servizi indivisibili (…).
Per tali tributi l’equo e ragionevole criterio di riparto non può che essere la capacità economica “solidaristica”. Per i tributi
paracommutativi l’equo e ragionevole criterio di riparto non può che rivenirsi nella responsabilità individuale per la spesa
pubblica specificamente causata, ovvero nella necessità di compensare la situazione di vantaggio ch e il contribuente ritrae
dall’espletamento di un servizio pubblico o dal godimento di un bene pubblico (o per i contributi dalla realizzazione di
un’opera pubblica)”.
2
che esso sia economicamente valutabile in modo obiettivo e che consenta un’imparziale ripartizione del
carico tributario. Mentre contraria dottrina avverte che detta interpretazione non è ammissibile perché il
principio di capacità contributiva è espressione del dovere di solidarietà tra i consociati sancito dall'art. 2
Cost., il quale esprime la concezione personalistica che ispira la Carta costituzionale, da cui deriva che la
nozione di capacità contributiva deve essere riferita alle sostanze economiche di cui la persona abbia
effettiva disponibilità.
Sulla questione ha avuto modo di esprimersi la Corte costituzionale la quale con la sentenza 21
maggio 2001, n. 1568 ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate,
ritenendo l’imposta rispettosa del principio di capacità contributiva. In particolare la Corte afferma che
“nel caso dell'IRAP il legislatore, nell'esercizio di tale discrezionalità, ha individuato quale nuovo indice di capacità
contributiva, diverso da quelli utilizzati ai fini di ogni altra imposta, il valore aggiunto prodotto dalle attività
autonomamente organizzate.
La scelta di siffatto indice – diversamente da quanto i rimettenti assumono – non può dirsi
irragionevole, né comunque lesiva del principio di capacità contributiva, atteso che il valore aggiunto
prodotto altro non è che la nuova ricchezza creata dalla singola unità produttiva, che viene, mediante
l'IRAP, assoggettata ad imposizione ancor prima che sia distribuita al fine di remunerare i diversi fattori
della produzione, trasformandosi in reddito per l'organizzatore dell'attività, i suoi finanziatori, i suoi
dipendenti e collaboratori.
L'imposta colpisce perciò, con carattere di realità, un fatto economico, diverso dal reddito,
comunque espressivo di capacità di contribuzione in capo a chi, in quanto organizzatore dell'attività, è
autore delle scelte dalle quali deriva la ripartizione della ricchezza prodotta tra i diversi soggetti che, in
varia misura, concorrono alla sua creazione.
Irrilevante, ai fini della valutazione della conformità dell'imposta al principio di capacità
contributiva, è d'altro canto la mancata previsione del diritto di rivalsa da parte del soggetto passivo
dell'imposta stessa nei confronti di coloro cui pure il valore aggiunto prodotto è, pro quota, riferibile (e
cioè i lavoratori ed i finanziatori).
Come si verifica per qualsiasi altro costo (anche di carattere fiscale) gravante sulla produzione,
l’onere economico dell’imposta potrà essere infatti trasferito sul prezzo dei beni o servizi prodotti,
secondo le leggi del mercato, o essere totalmente o parzialmente recuperato attraverso opportune scelte
organizzative”.
Dalle argomentazioni addotte sembrerebbe che la Corte non abbia assunto una posizione netta
ma abbia cercato di mediare tra le due teorie individuando nel valore aggiunto della produzione un
indice di ricchezza ulteriore rispetto al reddito-patrimonio-consumo riferibile al soggetto organizzatore
dell’attività, ma, allo stesso tempo, rilevando che il valore aggiunto non è altro che la ricchezza destinata
a remunerare i fattori della produzione, quindi anche dei finanziatori e dei dipendenti, ha sentito la
necessità di giustificare l’imposizione soltanto in capo all’organizzatore-imprenditore sottolineando la
possibilità che lo stesso ha di recuperare il costo relativo all’imposta attraverso la traslazione economica
o opportune scelte organizzative.
Il riferimento della Corte al trasferimento dell’onere economico dell’imposta sui prezzi dei beni
e servizi prodotti o il recupero dell’imposta attraverso scelte organizzative può rappresentare il tema di
svolta per individuare il concetto di capacità contributiva fatto proprio dalla Corte9.
8 In
Rass. trib., 2001, p. 833.
La rilevanza data dalla Corte costituzionale alla traslazione economica ha verosimilmente influenzato le conclusioni
dell’Avvocato generale della Corte di giustizia nella causa relativa al presunta violazione dell’art. 33 della direttiva n.
388/77/CEE da parte della disciplina dell’IRAP (in Rivista SSEF, n. 3 del 2005). L’avvocato generale nella sue conclusioni
ha cercato di dimostrare che l’imposta regionale sulle attività produttive, presenta le seguenti caratteristiche:
– è riscossa su tutte le persone fisiche e giuridiche che esercitano abitualmente un’attività diretta alla produzione o allo
scambio di beni o alla prestazione di servizi;
– colpisce la differenza tra i ricavi e i costi dell’attività tassabile;
– è applicata in ordine a ciascuna fase del processo di produzione e di distribuzione corrispondente ad una cessione o ad una
serie di cessioni di beni o servizi effettuate da un soggetto passivo;
– impone, in ciascuna di tali fasi, un onere che è globalmente proporzionale al prezzo al quale i beni o servizi sono ceduti;
e, quindi, dev’essere qualificata come un’imposta sulla cifra d’affari vietata dall’art. 33, n. 1, della sesta direttiva.
9
3
Il ragionamento seguito ha come filo conduttore la traslazione economica dell’onere impositivo dal cedente/prestatore al
cessionario/committente. Infatti, l’analisi dell’avvocato generale, muovendo dall’esplicazione delle quattro caratteristiche
essenziali dell’IVA (applicazione generalizzata alle cessioni di beni o di servizi; proporzionalità al prezzo di tali beni o servizi,
qualunque sia il numero di operazioni intervenute; l’applicazione ad ogni fase del processo di produzione e di distribuzione;
il fatto di gravare sul valore aggiunto dei beni e/o ai servizi di cui trattasi), condizioni tanto necessarie quanto sufficienti
perché un’imposta sia vietata ai sensi dell’art. 33 della sesta direttiva, cerca di giustificare l’asserita somiglianza tra le due
imposte soffermando l’attenzione sul trasferimento del peso economico dell’IRAP. Al punto 35) rileva che “una distinzione
comunemente accettata tra imposizione diretta e indiretta è che la prima grava su una ricchezza o su un reddito a disposizione di una stessa
persona (fisica o giuridica), senza alcuna possibilità di traslazione ad un’altra persona, mentre la seconda è riscossa su spese o consumi e il suo
onere può essere – e di fatto normalmente è – trasferito sul consumatore finale e da esso sopportato. Alle luce di ciò mi sembra che il meccanismo
descritto dal governo italiano sia quello di un’imposta indiretta, il cui onere sarà sostanzialmente sopportato dal consumatore finale” e prosegue
affermando che il fatto che l’IRAP venga riscossa in un momento precedente alla cessione effettiva dei beni, non le
impedisce di gravare sulla successiva cessione come se essa fosse stata riscossa a quel momento, con un risultato esattamente
equivalente a quello dell’IVA (punto 37). Simili considerazioni vengono ulteriormente rafforzate ai punti 64) e ss. nei quali
attraverso considerazioni economiche si rileva che in fin dei conti l’onere di un’imposta riscossa in ciascuna fase di una
catena commerciale sarà in genere trasferito lungo la catena stessa e che quindi l’onere verrà sopportato alla fine della catena.
Al riguardo si prospetta una comparazione tra la situazione in cui un operatore decide di «assorbire» l’onere di un’imposta
(IRAP) e quella in cui egli riduce il suo margine di profitto per far fronte alle spinte competitive (IVA), per concludere che
non sussiste alcuna differenza.
Simili conclusioni lascia perplessi per svariate ragioni. In primis si rileva che in virtù della determinazione dell’IRAP a
consuntivo e per periodo d’imposta, l’onere tributario non può essere completamente traslato in quanto l’eventuale aumento
dei prezzi pari all’imposta che si dovrebbe trasferire determinerebbe a sua volta un maggior valore aggiunto su cui al termine
del periodo d’imposta verrà calcolata l’IRAP.
Al riguardo si può obbiettare che la maggior parte dell’imposta, comunque, sarà traslata e soltanto in minima parte resterà a
carico del soggetto passivo. A questo punto, però, sovviene un ulteriore osservazione alle conclusioni dell’avvocato generale.
Esso considera l’IRAP una imposta indiretta come l’IVA, assumendo quale fatto notorio la possibilità di traslazione
dell’imposta sul consumatore finale. In realtà il fenomeno della “traslazione economica” su cui si imposta il teorema
ricostruttivo (o distruttivo) dell’avvocato generale non è altro che una “questione di fatto” su cui va impostato un “giudizio
di fatto” ineludibilmente imperniato di un carattere probabilistico dalla cui gradazione dipende la certezza, intesa quale
espressione convenzionale per indicare quell'alto grado di probabilità ritenuto sufficiente per una certa decisione (In tal
senso R. Lupi, Discrezionalità, diritto e tributi, in Il sole 24, 2005).
Nella fattispecie in esame non è possibile parlare di fatto notorio, caratterizzato dalla distinta identità storica che si imponga
alla osservazione o alla percezione della collettività e dalla comune conoscenza dello stesso, o perché incidente sull’interesse
pubblico, o perché appartenente alla cultura media della collettività, ma bisognerebbe instaurare un giudizio prognostico
sulla probabilità che simile fenomeno si realizzi in via generalizzata. A tal fine non è irrilevante l’aspetto della generale
applicazione dell’IRAP a tutte le attività economiche.
Infatti, non si comprende su quali basi l’avvocato generale afferma che il meccanismo dell’IRAP sostanzialmente determina
la sopportazione dell’onere tributario da parte del consumatore finale. Sol che la condizione di una società petrolifera sia
identica a quella di un produttore di scarpe? È evidente che dalla tipologia di prodotto e/o servizio, dalle condizioni e libertà
del mercato, dalle prospettive di sviluppo, dipende la possibilità per l’imprenditore di incidere sui prezzi e traslare l’onere
fiscale. Mentre per le imprese petrolifere che operano in regime di oligopolio ed hanno prodotti essenziali ed infungibili la
traslazione dell’imposta è altamente probabile se non certa, per una impresa manifatturiera, caratterizzata dalla fungibilità del
prodotto e da un mercato altamente concorrenziale, difficilmente è possibile incidere sul prezzo in modo da trasferire il
carico fiscale. In quest’ultimo caso la traslazione sarebbe possibile ma non probabile. La stessa Corte di giustizia CE
(Sentenza 9 novembre 1983, causa C-199/82, San Giorgio Spa, in Racc. 1983, p. 3595) ha sottolineato che “in una economia di
mercato basata sulla libera concorrenza, la questione se e in quale misura l’onere fiscale imposto all’importatore abbia potuto essere effettivamente
riversato sugli stadi economici successivi comporta un margine di incertezza” tale da impedire l’operatività di presunzioni legali.
Dunque, la scarsa probabilità della traslazione economica dell’imposta nella maggioranza delle attività produttive (giudizio di
fatto) avrebbe dovuto spingere verso una compatibilità dell’IRAP rispetto all’IVA, ove la traslazione è in generale certa.
Proprio gli elementi dell’Iva sottovalutati nelle conclusioni, quali la rivalsa, il diritto alla detrazione ed il rimborso,
garantiscono quella certezza della traslazione che non è possibile riscontrare in linea generale, nemmeno in termini
probabilistici, nell’IRAP. Invero, è sufficiente analizzare la posizione del commerciante al minuto, che potrebbe sembrare
simile nei due tributi in quanto nell’Iva il corrispettivo è comprensivo dell’imposta, per rendersi conto della differenza
sostanziale. Il soggetto Iva attraverso lo scorporo dal prezzo determinerà l’imposta trasferita al consumatore finale ch e
influirà sull’imposta da versare ovvero sull’eccedenza detraibile o rimborsabile, con la realizzazione di due effetti: neutralità
per il soggetto Iva e tassazione del consumatore. Nell’IRAP, non essendo previsto l’istituto del rimborso, l’impossibilità di
trasferire sul prezzo il peso economico dell’imposta realizza un depauperamento patrimoniale del soggetto IRAP.
Quindi, cade il presupposto su cui si fonda la presunta incompatibilità comunitaria dell’IRAP, ovvero la classificazione della
stessa nell’ambito delle imposte indirette in quanto non è il consumatore finale a sopportare l’onere tributario (In ordine
all’importanza della rivalsa obbligatoria ai fini della differenziazione tra IVA ed IRAP, v. anche G. Marongiu, Secondo
l’Avvocato generale l’IRAP è contraria alle norme comunitarie, in Corr. trib., 2005, p. 1274).
4
La traslazione economica farebbe propendere per la tesi solidaristica poiché il trasferimento
dell’onere tributario sarebbe lo strumento attraverso il quale è garantita l’incidenza del tributo sugli altri
soggetti (dipendenti e finanziatori) manifestanti la capacità contributiva, i quali concorrono alla
creazione della nuova ricchezza che verrà assoggettata ad imposizione ancor prima che sia distribuita al
fine di remunerare i diversi fattori della produzione; mentre il recupero dell’onere tributario attraverso
“opportune scelte organizzative” può spingere verso la tesi del “criterio di ripartizione” poiché la
capacità contributiva si esprime nel dominio su un’unità produttiva organizzata in forma d’impresa. Il
“dominio” sui fattori della produzione è proprio ed esclusivo del soggetto organizzatore.
Invero, bisognerebbe domandarsi quale delle due opzioni è realisticamente realizzabile. Ritengo
che, per una imposta “generalista”, intesa come imposta che colpisce tutti gli imprenditori e lavoratori
autonomi a prescindere dal tipo di produzione o servizio, la mera possibilità della traslazione economica
dell’onere fiscale non sia sufficiente a fornire legittimità costituzionale, in quanto è un fattore
influenzato da tante variabili indipendenti che potrebbe portare a delle discriminazioni dei soggetti incisi
in base al tipo di bene prodotto, alla domanda del mercato, alla congiuntura internazionale, ecc.
La garanzia che il soggetto inciso dall’imposta sia quello che manifesti l’effettiva capacità
contributiva può aversi soltanto in presenza di una traslazione prevista normativamente (si pensi alla
rivalsa obbligatoria nell’Iva) ovvero, anche in assenza di previsione normativa, purché la traslazione
economica sia certa, ossia presenti un alto grado di probabilità di realizzarsi (v. nt. n. 12), in virtù delle
caratteristiche dell’imposta, del mercato e del prodotto colpito. In particolare mi riferisco all’accisa sugli
idrocarburi dove, in virtù della presenza di oligopoli sia nella produzione sia nella distribuzione,
dell’assenza di combustibili alternativi agli idrocarburi facilmente accessibile per la soddisfazione dei
bisogni e dell’elevato carico fiscale, la traslazione economica dell’imposta è pressoché sicura10.
Di contro è senz’altro un fattore riferibile e dominabile dall’imprenditore l’organizzazione e le
relative scelte.
Alla luce di ciò soltanto la capacità contributiva intesa quale dominio su una unità produttiva
organizzata in forma d’impresa può legittimare costituzionalmente l’imposta e, quindi, la teoria che
maggiormente si sposa con un simile indice di potenzialità economica è quella che individua nell’art. 53
Cost. un criterio di ripartizione dei carichi pubblici.
Tuttavia una simile conclusione sembrerebbe essere ostacolato dalle considerazioni della Corte
in ordine alla ricuperabilità dell’imposta gravante sul valore aggiunto prodotto riferibile pro quota ai
lavoratori ed ai finanziatori. Ciò lascia intravedere la preoccupazione della Corte in ordine alla necessità
Appare, inoltre, priva di fondamento l’affermazione che “non vi è nessuna differenza di natura pratica o economica tra la situazione in
cui un operatore decide di «assorbire» l’onere di un’imposta e quella in cui egli riduce il suo margine di profitto, ovvero, forse più verosimilmente,
ridistribuisce i suoi margini di profitto tra varie categorie di cessioni in risposta a spinte competitive”. A parte il fatto che l’assorbimento
dell’onere di una imposta non è mai una libera scelta, è ovvio che da un punto di vista pratico o numerario 100 di imposta e
100 di minor guadagno sia la stessa cosa. Ma qualitativamente è possibile affermare che le due situazioni siano comparabili?
Una mela è uguale ad un’arancia? Entrambe rappresentano un’unità, ma sono diverse. L’imposta determina un
depauperamento patrimoniale, la riduzione del margine di profitto determina un minor incremento patrimoniale. Come già
sottolineato (D. Stevanato E R. Lupi, Il caso IRAP-IVA: le necessità del diritto tributario di riaprioparsi dei concetti economici alla base
dell’imposizione fiscale, in Dialoghi di diritto tributario, 2004, p. 1571) una simile confusione porta all’utilizzazione di concetti “a
rilevanza economica” visti con occhi non di giuristi. Quando si afferma che l’IRAP è una imposta “indiretta” perché venive
etichettata come tributo sul valore aggiunto, si trascura che esiste un valore aggiunto “tipo reddito” e uno “tipo consumo”
(E. De Mita sul Il sole 24 ore del 18 marzo 2005). Il “valore aggiunto” è un concetto che accomuna reddito e consumi e si
rileva che “in generale, i corrispettivi su cui si basa l’imposizione sui consumi, servono anche a costruire l’imposizione sui
redditi” con una sovrapposizione che – portando le affermazioni dell’Avvocato generale alle loro logiche conseguenze –
determinerebbe l’incompatibilità di tutte le imposte dirette, perché tutto il valore aggiunto IVA è anche colpito da IRES o
IRPEF, sulle componenti del profitto, del salario o dell’interesse.
10 Contro la rilevanza della traslazione economica in tema di accise ai fini dell’individuazione della capacità contributiva
colpita da tali tributi Cipolla, Presupposto, funzione economica e soggetti passivi delle accise nelle cessioni di oli minerali ad intermediari
commerciali, in Rass. trib., 2003, pp. 1872 ss.; in generale M. Allena, Gli effetti giuridici della traslazione delle imposte, Milano, 2005,
secondo cui il fenomeno traslativo, tendenzialmente irrilevante per il diritto, acquista rilevanza giuridica (ed esplica quindi
effetti giuridici) soltanto quando il legislatore espressamente e formalmente lo disciplina: l’ordinamento deve garantire che il
soggetto cui è esteso il dovere di contribuzione abbia la sicura possibilità di far ricad ere l’onere tributario sul soggetto che
manifesta la capacità contributiva colpita.
5
che il presupposto sia non solo economicamente valutabile, ma esprima la situazione economica del
soggetto inciso in ossequio alla tesi tradizionale.
Conseguentemente, si potrebbe osservare che se per la Corte costituzionale la legittimità
dell’imposta è dovuta alla possibilità di recuperare l’onere fiscale, la capacità organizzativa
dell’imprenditore influisce sull’entità del carico fiscale che incide il soggetto. Dunque, si tasserebbero le
qualità personali e ciò in evidente violazione del principio di capacità contributiva.
3. LA CAPACITÀ CONTRIBUTIVA E L’ORDINAMENTO COMUNITARIO
È ormai assunto quale dato incontrovertibile la prevalenza dell’ordinamento comunitario
rispetto a quello interno; mentre tale principio è valido per la legislazione ordinaria esso vacilla in ordine
ad un eventuale contrasto tra norme comunitarie e norme costituzionali interne aventi ad oggetto diritti
fondamentali.
Questo potenziale conflitto viene generalmente esorcizzato attraverso dei tentativi di
conciliazione dei due ordinamenti che trovano espressione in alcune tesi. Una prima tesi definita di
“riduzionismo costituzionale” esclude il paventato rischio di conflitto sulla base della natura
costituzionale dei Trattati e quindi il confronto si porrebbe su elementi formali e sostanziali omogenei.11
Ad essa si contrappone la “teoria della compatibilità implicita” secondo la quale le precise e puntuali
disposizioni del Trattato, espressione delle limitazioni di sovranità ex art. 11 Cost., forniscono sicura
garanzia, talché appare difficile configurare anche in astratto l’ipotesi che una norma comunitaria possa
incidere in materia di rapporti civili, etico-sociali, politici, con disposizioni contrastanti con la
Costituzione.12 In essa si rinviene un collegamento con la “teoria dei controlimiti” in base alla quale la
violazione dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione rappresenta il limite alle
concessioni di sovranità ex art. 11 Cost.13.
Infine, si riscontra la tesi della “circolarità dei valori giuridici costituzionali” elaborata dalla Corte
di giustizia CE 14 ed istituzionalizzata attraverso l’introduzione nella Carta costituzionale Europea all’art.
II-112, comma 415. In base a detta teoria la salvaguardia dei diritti fondamentali avviene attraverso una
interpretazione ispirata ed in armonia alle tradizioni costituzionali degli Stati membri. In tal modo si
realizza “una sorta di teoria della circolarità dei valori costituzionali che parte dal basso verso la Corte,
ove i principi vengono interpretati e rielaborati e successivamente riemessi negli ordinamenti
nazionali”16.
Nonostante le varie tesi prospettate sembrano escludere a priori un contrasto tra diritto
comunitario e diritti costituzionali fondamentali, simile certezza lascia alquanto perplessi, in virtù del
carattere prettamente economico dell’ordinamento comunitario e della contraddizione tra
l’affermazione dell’impossibilità del conflitto e la teoria della disapplicazione con il conseguente obbligo
di eliminazione delle norme interne in contrasto con il diritto comunitario.
Per questo, sia pur brevemente, occorre interrogarsi sui riflessi dell’art. 53 Cost. in ordine
all’ordinamento comunitario. In altri termini ci si domanda se un regolamento, una direttiva o una
sentenza della Corte in contrasto con il principio di capacità contributiva possa trovare applicazione
ovvero ciò sia precluso, anche perché l’ordinamento comunitario non prevede esplicitamente una tale
nozione17, nonostante essa sia conosciuta in altri ordinamenti nazionali.18
In tal senso Corte di giustizia CE, 23 aprile 1986, causa n. 294/83, Le Vert, in Racc., p. 1365.
tal senso Corte costituzionale, 8 giugno 1984, n. 170, in Giur. Cost., 1984, I, p. 1098.
13 Sulla teoria dei controlimiti, Cartabia, Principi inviolabili e integrazione europea, Milano, 1995.
14 Sentenza 14 maggio 1974, causa 4/73, Nold, in Racc., p. 491.
15 (Portata e interpretazione dei diritti e dei principi) Laddove la presente Carta riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle
tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni.
16 C. Sacchetto, Il diritto comunitario e l’ordinamento tributario italiano, in Dir. e prat. trib. int., 2000, p. 40. Conforme L. Del
Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, ed. provv., Pescara, 2003, p. 32.
17 Un principio generale comunitario che si presta ad un confronto con l’art. 53 Cost. è il principio di non discriminazione.
18 In Spagna l’art. 31, comma 1, della Costituzione stabilisce che “Tutti devono concorrere alle spese pubbliche, in ragione
della propria capacità economica, per mezzo di un equo sistema tributario ispirato ai principi di uguaglianza e di
progressività che, in nessun caso, può avere scopo di confisca”.
11
12 In
6
Come innanzi rilevato il principio di capacità contributiva così come affermatosi nella dottrina
italiana e nella giurisprudenza costituzionale, a seconda della teoria accolta, si ricollega all’art. 3 Cost.
che nel disporre il divieto di discriminazione impone delle scelte razionali, ovvero all’art. 2 Cost. che
sancisce il dovere fondamentale di solidarietà. Di conseguenza, il principio di capacità contributiva,
definito dall’art. 53 della Costituzione, assume la natura di principio fondamentale dell’ordinamento e,
quindi, è qualificabile come principio di ordine pubblico internazionale19. In quanto tale esso
rappresenta un limite all’applicazione in Italia del diritto comunitario in contrasto con il principio di
capacità contributiva20.
Da ciò ne deriva che anche una imposta comunitaria qual è l’Iva deve trovare la propria
giustificazione nella capacità contributiva così come definita nell’ordinamento interno e non solo
nell'interpenetrazione delle economie attraverso la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi,
dei capitali e nella creazione di un mercato comune che implichi una sana concorrenza.
Al riguardo non si ritiene sufficiente al fine di evitare un eventuale contrasto la previsione di un
controllo di legittimità per violazione della Costituzione esercitata dalla Corte di giustizia dell’Unione
Europea sulle leggi e leggi quadro europee, sugli atti del Consiglio, della Commissione e della Banca
centrale europea che non siano raccomandazioni o pareri, nonché sugli atti del Parlamento europeo e
del Consiglio europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi (art. III-365 Cost. EU)21.
In primo luogo perché la Costituzione europea non prevede il principio di capacità contributiva quale
intesa nei singoli ordinamenti nazionali, talché l’art. II-112 nella parte in cui prevede che “laddove la
presente Carta riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli
Stati membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni” sarebbe di difficile
applicazione; inoltre, l’art. III-365 prevede un termine di decadenza piuttosto breve per proporre
ricorso in ordine alla legittimità dell’atto normativo diversamente dal diritto interno nel quale
l’illegittimità costituzionale può essere rilevata senza limiti di tempo.
4. LA NATURA GIURIDICA DELL’IVA
Come è noto l’Iva è stata introdotta attraverso direttive comunitarie22 per armonizzare le
imposte che colpivano la circolazione di beni e servizi. Essa è finalizzata alla eliminazione di ogni
discriminazione nella circolazione delle merci ed alla attuazione di un mercato comune fondato sulla
libera concorrenza dei vari operatori economici. L’Italia ha dato attuazione alle direttive comunitarie
attraverso il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.
Per lo Stato francese un principio simile è affermato nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789 in cui
all’art. 13 si prevede che “per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese d’amministrazione, è indispensabile un
contributo comune: esso deve essere ugualmente ripartito fra tutti i Cittadini in ragione delle loro capacità economiche”.
La costituzione della Germania non prevede esplicitamente il principio della capacità contributiva, ma la Corte costituzionale
tedesca (Bundesverfassungsgericht) lo ha desunto dall’interpretazione dell’art. 3, comma 1, Cost. che dispone l’eguaglianza di tutti
gli uomini innanzi alla legge; infatti, per la Corte, il principio di uguaglianza non esige un contributo uguale da parte di ogni
cittadino residente al fine del finanziamento dei carichi pubblici, bensì richiede che ogni cittadino sia inciso in maniera eguale
in ragione della sua capacità contributiva.
La costituzione greca stabilisce all’art. 4, comma 5, che “I cittadini greci contribuiscono senza distinzioni alle spese
pubbliche in proporzione ai loro mezzi”.
19 Per il concetto di “ordine pubblico internazionale” quale limite operativo delle norme di conflitto cfr. E. Vitta e
F.Mosconi, Corso di diritto internazionale privato e processuale, Torino, 1994, p. 160.
20 P. Braccioni, Capacità contributiva e principi fondamentali dell’ordinamento comunitario, in Dir. e prat. trib., 1989, p. 1142.
21 Art. 230 del Trattato Istitutivo della Comunità Europea.
22 Prima direttiva 67/227/CEE del Consiglio, dell'11 aprile 1967, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati
Membri relative alle imposte sulla cifra d'affari; Seconda direttiva 67/228/CEE del Consiglio, dell’11 aprile 1967, in materia di
armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari – Struttura e modalità
d’applicazione del sistema comune d’imposta sul valore aggiunto; Sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio
1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati Membri relative alle imposte sulla cifra di affari - Sistema
comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme; Direttiva 91/680/CEE del Consiglio, del 16 dicembre
1991, che completa il sistema comune di imposta sul valore aggiunto e modifica, in vista della soppressione delle frontiere
fiscali, la direttiva 77/388/CEE; Direttiva 92/111/CEE del Consiglio, del 14 dicembre 1992, che modifica la direttiva
77/388/CEE in materia di imposta sul valore aggiunto e che prevede misure di semplificazione.
7
L’art. 1 del D.P.R. n. 633 del 1972 stabilisce che l’Iva si applica “sulle cessioni di beni e le
prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e
professioni e sulle importazioni da chiunque effettuate”.
In generale, trascurando le importazioni ed alcuni casi marginali ove l’imposta si applica
forfetariamente, il procedimento di applicazione dell’Iva si articola nel seguente modo: i soggetti passivi
Iva, individuati ai sensi degli artt. 423 e 524 del D.P.R. n. 633 del 1972, sono tenuti al versamento
dell’imposta relative all’ammontare delle operazioni imponibili effettuate al netto delle detrazioni per
l’Iva addebitata a titolo di rivalsa.
La rivalsa, prevista dall’art. 18, si sostanzia nell’obbligo facente capo al cedente o prestatore di
addebitare l’imposta relativa all’operazione al cessionario o committente. Questi ultimi, a seguito
dell’esercizio della rivalsa, hanno il diritto di detrazione dell’imposta addebitata in relazione ai beni e
servizi afferenti all’esercizio dell’impresa, arte o professione, nei limiti previsti dall’art. 19 e ss.
Il versamento è previsto per periodi (mensile, trimestrale ed annuale), quindi la differenza tra
“Iva a debito” ed “Iva a credito” avviene cumulativamente su “masse d’imposta”. Nel caso in cui
l’ammontare detraibile è superiore a quello dell’imposta relativa alle operazioni imponibili, il soggetto
passivo può computare l’eccedenza detraibile nell’anno successivo oppure chiedere il rimborso nelle
ipotesi di cui all’art. 30 del decreto.
Come si può notare l’imposta è strutturata in maniera tale da risultare neutrale nei confronti dei
cd. soggetti passivi in quanto attraverso il meccanismo della rivalsa-detrazione il peso economico
dell’imposta viene traslato in capo al consumatore finale.
Ciò nonostante la dottrina risulta essere ancora dibattuta sulla giustificazione dell’imposta in
termini di capacità contributiva e sull’identificazione dei soggetti che contribuiscono alle spese
pubbliche, oltre che all’individuazione del presupposto d’imposta.
Parte della dottrina 25, osservando che in presenza di soggetto passivo cessionario o committente
che effettui operazioni esenti o che operi in regime forfetario (imprenditore agricolo) per i quali sono
previsti limiti alla detrazione, non si realizza l’integrale compensazione e, quindi, il depauperamento
patrimoniale avviene prima del passaggio dal dettagliante al consumatore finale, ha ravvisato il
presupposto dell’Iva nell’insieme delle operazioni imponibili attive e passive realizzate in un periodo
d’imposta, spostando l’attenzione dalle singole operazioni imponibili al saldo Iva. In base a detta
ricostruzione assume rilevanza l’esercizio dell’attività da parte dell’imprenditore o del lavoratore
autonomo e la capacità contributiva corrisponde al valore aggiunto globale dell’impresa.
Una simile ricostruzione, che pone l’Iva sullo stesso piano economico delle imposte dirette,
lascia perplessi in quanto risulta comunque difficile, soprattutto in assenza di esenzioni o regimi
forfetari, sostenere che l’unico portatore di capacità contributiva sia il soggetto Iva alla luce della rivalsa
obbligatoria che lo stesso effettua nei confronti dei propri cessionari o committenti e del diritto al
rimborso dell’eccedenza detraibile che differenzia l’eccedenza dalla perdita reddituale. Inoltre, l’Iva
come imposta sulle attività economiche mal si concilia con l’applicazione dell’Iva alle importazioni da
chiunque effettuate (imprenditore o privato).
Altra parte della dottrina26 individua il presupposto dell’imposta nelle singole operazioni
imponibili definite dall’art. 1 del decreto, considerando soggetto passivo colui che pone in essere l’atto
di scambio in quanto dall’effettuazione dell’operazione nasce l’obbligazione d’imposta che determina
l’impoverimento; effetto che potrebbe non prodursi per l’esercizio della rivalsa.
Il compimento dell’operazione, quindi, determina gli effetti tipici dell’imposizione, cioè: il
depauperamento del soggetto passivo e l’arricchimento dell’ente impositore. Infatti “imposta (o
L’art. 4, comma 1, dispone quale principio generale che “per esercizio d’imprese si intende l’esercizio per professione
abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli articoli 2135 e 2195 del c.c., anche se non
organizzate in forma d’impresa, nonché l’esercizio di attività, organizzate in forma d’impresa, dirette alla prestazione di
servizi che non rientrano nell’art. 2195 del c.c.”. Per le cd. società commerciali (Spa, Srl, Snc, ecc) è prevista una presunzione
assoluta di soggettività passiva. I commi 3 e ss. specificano la disciplina da applicare agli enti non commerciali.
24 Esercizio di arti e professioni intesa quale esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di qualsiasi attività di
lavoro autonomo.
25 A. Fantozzi, Presupposto e soggetti passivi dell’imposta sul valore aggiunto, in Dir. prat. trib., 1972, I, p. 725.
26 F. Bosello, Appunti sulla struttura giuridica dell’imposta sul valore aggiunto, in Riv. dir. fin., 1978, I, p. 420.
23
8
l’obbligazione d’imposta) resta sempre e solo quella che sorge per aver ceduto un bene, prestato un
servizio, effettuata una importazione”27.
Una simile impostazione che inquadra il problema in un ottica strettamente giuridica evitando di
indagare in ordine agli effetti economici dell’imposta, lascia ancora irrisolto il problema della
giustificazione costituzionale dell’imposta e l’individuazione dei soggetti che contribuiscono alle spese
pubbliche.
Al riguardo, al fine di superare il problema, si è rilevato28 che la capacità contributiva è realizzata
da entrambi i soggetti (cedente/prestatore e cessionario/committente) che pongono in essere
l’operazione di scambio. Mentre la capacità manifestata dal consumatore finale è evidente, quella del
soggetto Iva si rinviene nel minor guadagno ritraibile dall’operazione in virtù dell’imposizione fiscale.
Infatti il maggior costo per il consumatore finale rappresentato dall’onere tributario sarebbe potuto
essere un maggior reddito per l’imprenditore.
In tal caso l’indice rivelatore di capacità contributiva si rinviene nel fatto obiettivo dello scambio
e il presupposto d’imposta è l’operazione imponibile.
La struttura dell’Iva prevede la tassazione al momento del consumo; di conseguenza il
meccanismo dell’Iva (rivalsa, detrazione, rimborso) ha lo scopo di eliminare gli effetti cumulativi
dell’applicazione dell’imposta nei passaggi intermedi e di garantire la neutralità dell’imposta nei
confronti dei soggetti Iva.
Dunque, sia la detrazione sia la rivalsa assolvono ad esigenze di politica tributaria. La prima è il
mezzo attraverso cui vengono detassate gli scambi all’interno della catena produttiva/distributiva e
l’eccedenza detraibile, a cui si ricollega la posizione creditoria ed il diritto al rimborso, non è altro che il
risultato del meccanismo di detassazione.
La rivalsa obbligatoria garantisce che il cedente/prestatore addebiti l’Iva al
cessionario/committente in modo da evitare salti d’imposta e permette un controllo sulla corretta
applicazione dell’imposta.
Infine, troviamo la tesi che individua nel consumo la giustificazione costituzionale del tributo29.
I soggetti Iva assolvono ad un ruolo meramente strumentale, consistente nel trasferimento dell’onere
economico sul soggetto effettivo portatore della capacità contributiva, cioè il consumatore finale.
Con il termine “consumo” si intende tutti gli acquisti effettuati al di fuori dell’esercizio
d’impresa ovvero arti e professioni. In pratica, il concetto di consumo, presuppone che il soggetto che
versa al proprio fornitore l’imposta addebitata a titolo di rivalsa sull’acquisto di un bene o di un servizio
non possa esercitare il diritto alla detrazione30.
F. Bosello, op. cit., p. 435.
R. Lupi, Imposta sul valore aggiunto, in Enc. giur., XVI, 1989, p. 5.
29 La Corte di giustizia CE si è più volte espressa in relazione all’Iva quale imposta generale sul consumo, v. sentenza 10
luglio 1985, causa 16/84, Commissione / Regno dei Paesi Bassi, in Racc. p. 2371, sentenza 29 febbraio 1996, causa 215/94, Jurgen
Mohr, in Racc. p. 959. Sull’onda della giurisprudenza della Corte di giustizia, partendo dai principi di diritto comunitario
primario e derivato su cui si basa il processo di armonizzazione delle imposte indirette, A. Comelli, Iva comunitaria e Iva
nazionale, Padova, 2000, pp. 943 ss. ricostruisce teoricamente l’Iva come imposta generale sul consumo. L’A. ritiene che
“questi principi, in considerazione dell’autorevolezza della fonte dai quali scaturiscono, si riflettono direttamente
sull’ordinamento italiano, al pari degli altri ordinamenti tributari degli altri Stati membri, e condizionano in misura
significativa la formulazione della teoria giuridica dell’imposta, nel senso che in virtù del sistema delle fonti del diritto
tributario, tra le quali assumono in parte qua una specifica rilevanza quelle di origine comunitaria, anche in relazione al
sistema italiano occorre qualificare il tributo de quo come un’imposta generale sul consumo..”.
30 Conforme M. Giorgi, Detrazione e soggettività passiva nell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2005, p. 40 il quale afferma che “il
consumo finale ai fini Iva si verifica, quando i beni ed i servizi sono impiegati per effettuare operazioni diverse da quelle
soggette ad imposta; il consumo finale, cioè, si verifica ai fini Iva ogniqualvolta i beni e i servizi sono impiegati in attività
diverse dalle attività soggette all’imposta sul valore aggiunto” ed individua nell’istituto della detrazione “la “preventiva”
funzione di non far gravare l’imposta su coloro che non effettuano un consumo finale dei beni e dei servizi”; Per una
diverso concetto di consumo, G. Fransoni, Spunti sulla nozione di “consumo” di beni e servizi nell’Iva con particolare riferimento alle
operazioni internazionali, in Riv. dir. trib., 2004, p. 543, il quale ha cercato di individuare attraverso l’analisi del dato normativo
una nozione di “consumo” rilevante ai fini Iva distinguendo tra beni e servizi. Per i beni il consumo è identificato con la
titolarità – ottenuta attraverso uno scambio sul mercato – di un diritto reale sulla cosa in funzione della soddisfazione di un
interesse finale del soggetto passivo. Non si da luogo ad un consumo rilevante ai fini dell’imposta sul valore aggiunto ogni
qual volta tale assetto proprietario – e, quindi, l’insieme dei poteri e delle facoltà che garantiscono il godimento della cosa –
si realizzi nell’ambito di un ordinamento diverso. La modifica della collocazione spaziale del bene giustifica il rimborso
27
28
9
Comunque all’interno della teoria dell’imposta di consumo si possono rinvenire alcune
differenze concettuali. La dottrina più risalente31 distingue tra obbligazione tributaria in senso stretto,
avente ad oggetto il pagamento a titolo definitivo a favore dell’Ente impositore, che realizza
l’arricchimento di quest’ultimo e l’impoverimento del contribuente in cui le applicazioni dell’imposta
anteriore al passaggio al consumo finale sono considerati meri acconti, ed obbligazioni connesse che
non riguardano l’Ente impositore e sono dirette a regolare i rapporti tra i soggetti passivi.
Un altro orientamento32 distingue l’Iva come mera obbligazione anticipatoria rispetto al prelievo
definitivo, facente capo ai soggetti passivi il cui presupposto di fatto è dato dall’eventuale saldo positivo
o differenza attiva tra crediti di rivalsa e debiti di rivalsa afferenti le operazioni imponibili effettuate nel
periodo di riferimento e l’Iva come imposta, cioè come prelievo a titolo definitivo, che ha il suo
presupposto di fatto nelle singole operazioni imponibili di acquisto poste in essere da un soggetto Iva,
che in quanto tale soggiace alla rivalsa ma non ha diritto alla detrazione.
I più recenti sviluppi33, incentrati su un’analisi dinamica dell’imposta, pongono l’attenzione sugli
istituti della rivalsa e della detrazione considerati elementi strutturali dell’Iva, i quali assicurano la
neutralità dell’imposta e la giustificazione costituzionale del tributo34 35.
Quest’ultimo orientamento ha affrontato e cercato risolvere l’obiezione secondo cui nelle
operazioni indicate dall’art. 22 del D.P.R. n. 633 del 197236 effettuate nei confronti di consumatori finali
dell’imposta. Il tutto si spiega alla luce della disciplina della territorialità che si incentra sul luogo di esistenza del bene e alla
quale si può ricondurre tutte le disposizioni che consentono il rimborso dell’imposta nel caso in cui il bene,
successivamente all’acquisto, venga spostato all’estero (rimborsi ex art. 38-ter e 38-quater). Per quanto riguarda i servizi si
sostiene che affinché si voglia costruire una generale categoria del “consumo”, non può che aversi riguardo all’interesse
comune della realizzazione del dovere di cooperazione, cioè all’adempimento. In altre parole, per i servizi, il luogo di
svolgimento della prestazione (consumo) coincide con il luogo “dell’esatto adempimento” individuato ai sensi dell’art. 1182
c.c. Nel luogo dell’esatto adempimento, infatti, la prestazione, estinguendo il credito del committente, produce i conseguenti
effetti nella sfera patrimoniale del prestatore. Quindi, nelle prestazioni di servizi assume centralità il rapporto giuridico, che
però necessità dell’esistenza di una duplicità di interessi. Da tale ricostruzione si perviene “all’idea secondo cui, nell’ambito
dell’imposta sul valore aggiunto, l’attività d’impresa della casa madre e della stabile organizzazione sono considerate in modo
del tutto unitario, restando così esclusa la possibilità di configurare come prestazioni di servizi – anche adottando il criterio
del rapporto unisoggettivo – le attività “interne” svolte a livello centralizzato e ridondanti (anche) a beneficio delle sedi
periferiche stabilite all’estero” (Per la irrilevanza ai fini Iva dei rapporti tra casa madre e stabile organizzazione E. Della Valle,
Si va verso una soluzione definitiva del problema relativo alla rilevanza o meno, ai fini Iva, dei servizi interni resi dalla casa madre alla sua
stabile organizzazione (e viceversa), in Riv. dir. trib., 2004, p. 526; Ludovici, Il regime impositivo della stabile organizzazione agli effetti
dell’imposta sul valore aggiunto, in Riv. dir. trib., 1998, p. 68. Contra M. Giorgi, L’unitarietà della soggettività passiva d’imposta e gli scambi
tra sede centrale del soggetto non residente e sedi periferiche, in Dialghi, 2004, p. 493; G. Marini, Soggettività tributaria della stabile
organizzazione nel sistema dell’Iva, in Rivista SSEF, n. 12/2004, p. 256).
Simile ricostruzione della nozione di “consumo” lascia alquanto perplessi. In relazione ai beni, si sostiene che la nozione di
consumo si rico llega all’assetto proprietario. La fuoriuscita del bene dal territorio nazionale determina l’assoggettamento ad
un altro ordinamento a cui si ricollega il consumo e, quindi, si ha diritto al rimborso dell’imposta sostenuta per l’acquisto.
Invero, proprio l’analisi del diritto al rimborso per i soggetti non residenti (art. 38-ter del D.P.R. n. 633 del 1972) porta ad
escludere una simile ricostruzione. Basti pensare alle richieste di rimborso da parte di soggetti non residenti dell’Iva relativa
all’acquisto sul territorio nazionale di carburante per autotrazione. In tal caso non si ha un trasferimento del bene
(carburante) all’estero, che, anzi, verosimilmente verrà utilizzato all’interno dello Stato; ciò nonostante il soggetto non
residente, ricorrendo le condizioni previste dalla disciplina comunitaria, avrà diritto al rimborso dell’Iva. È evidente, dunque,
che la nozione di “consumo” fatto proprio nel sistema dell’Iva non può ricollegarsi alla collocazione spaziale del bene, ma
deriva dall’assenza di inerenza del bene all’attività esercitata dal soggetto passivo. La medesima osservazione è valida anche
per le prestazioni di servizi in quanto l’esistenza di un rapporto giuridico e di contrapposti interessi non determina di per se
il “consumo” del servizio, ma anche in tal caso bisognerebbe verificare l’inerenza del servizio all’attività d’impresa.
31 A. Berliri, L’imposta sul valore aggiunto, Milano, 1971, p. 214.
32 G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Padova, 2000, p. 458.
33 L. Salvini, Rivalsa, detrazione e capacità contributiva nell’imposta sul valore aggiunto, in Riv. dir. trib., 1993, I, p. 1287.
34 Già F. Gallo, Profili di una teoria dell’imposta sul valore aggiunto, Roma, 1974, p. 62, aveva rilevato l’importanza della traslazione
del tributo al fine di far gravare sul consumatore l’onere economico del prelievo. Inoltre aveva sottolineato come la rivalsa
nel suo operare in stretta ed inscindibile connessione con il diritto di deduzione concorre a soddisfare la ratio del tributo e le
norme che la prevedono, in quanto determinano l’oggetto della prestazione tributaria, concorrono ad integrare il sistema
normativo in cui il tributo, quale istituto giuridico, si identifica.
35 In ordine alla detrazione e alla rivalsa quali istituti fondamentali per l’attuazione dell’Iva cfr. A. Comelli, op. cit., p. 957; L.
Cecamore, Valore aggiunto (imposta sul), in Dig. disc. priv., sez. comm., XVI, Torino, 1999, p. 353; M. Giorgi, Detrazione e soggettività
.., cit., p. 48.
10
non esiste una rivalsa giuridica in quanto l’imposta è incorporata nel prezzo e, dunque, si dovrebbe
giungere alla conclusione che in questi casi soggetto passivo del tributo sarebbe il cedente (soggetto Iva)
ovvero colui che immette in consumo il bene mentre nei casi di rivalsa obbligatoria (o facoltativa)37,
esercitata attraverso l’indicazione separata dell’Iva in fattura, soggetto passivo del tributo sarebbe il
consumatore finale per il quale non è prevista la detrazione dell’imposta. Nella prima ipotesi il
presupposto d’imposta sarebbe “l’immissione in consumo”, nella seconda il “consumo”.
Senonché, ponendo come premessa il principio della necessaria coincidenza tra effettivo
sostenimento dell’onere tributario e capacità contributiva38, da cui ne deriva quale corollario che il
presupposto d’imposta deve essere individuato facendo riferimento alla definitività del prelievo, si è
posto l’accento sulla rilevanza giuridica che, nel primo caso, assume la traslazione economica. Invero, si
sostiene che “il legislatore è tenuto a costruire il tributo in modo tale che la traslazione giuridica arrivi
“il più vicino” possibile (date le caratteristiche del tributo e le circostanze di fatto collegate alla sua
applicazione) al soggetto passivo del tributo che deve restare inciso, lasciando poi l’effettiva incisione
all’id quod plerumque accidit. La rispondenza dell’effettiva incisione al criterio di normalità va valutata in
relazione alla posizione del soggetto passivo di diritto rispetto al soggetto che manifesta la capacità
contributiva colpita dal tributo”39. Quindi, attraverso un’analisi del dato normativo incentrata sul dirittoobbligo di rivalsa ed sul diritto di detrazione, si è rilevato che la struttura dell’Iva è costituita in funzione
dell’incisione del consumatore finale nonostante in determinati ipotesi, per ragioni tecniche, la rivalsa
giuridica si ferma al momento dell’immissione in consumo. L’assenza della rivalsa giuridica viene fatta
rientrare nella logica complessiva del tributo che normalmente genera la traslazione economica
dell’imposta.
Maggiori problematiche si riscontrano a seguito della negazione del diritto di detrazione ad un
soggetto diverso dal consumatore finale, anche se in tal caso la giustificazione è rinvenuta nella
equiparazione del soggetto passivo al consumatore finale ovvero, per i soggetti che effettuano
operazioni esenti, nella traslazione economica che “consente di traslare – se l’operazione è svolta nei
confronti di un consumatore finale – un quid minore dell’imposta teoricamente gravante sull’operazione
in assenza di esenzione, commisurato all’ammontare dell’Iva indetraibile per il soggetto che effettua
l’operazione esente”40.
36 (Commercio
al minuto e attività assimilate) L'emissione della fattura non è obbligatoria, se non è richiesta dal cliente non oltre il
momento di effettuazione dell'operazione:
1) per le cessioni di beni effettuate da commercianti al minuto autorizzati in locali aperti al pubblico, in spacci interni,
mediante apparecchi di distribuzione automatica, per corrispondenza, a domicilio o in forma ambulante;
2) per le prestazioni alberghiere e le somministrazioni di alimenti e bevande effettuate dai pubblici esercizi, nelle mense
aziendali o mediante apparecchi di distribuzione automatica;
3) per le prestazioni di trasporto di persone nonché di veicoli e bagagli al seguito;
4) per le prestazioni di servizi rese nell'esercizio di imprese in locali aperti al pubblico, in forma ambulante o nell'abitazione
dei clienti;
5) per le prestazioni di custodia e amministrazione di titoli e per gli altri servizi resi da aziende o istituti di credito e da società
finanziarie o fiduciarie;
6) per le operazioni esenti indicate ai numeri da 1) a 5) e ai numeri 7) , 8) , 9) , 16) e 22) dell'art. 10.
La disposizione del comma precedente può essere dichiarata applicabile, con decreto del Ministro delle finanze, ad altre
categorie di contribuenti che prestino servizi al pubblico con caratteri di uniformità, frequenza e importo limitato tali da
rendere particolarmente onerosa l'osservanza dell'obbligo di fatturazione e degli adempimenti connessi.
Gli imprenditori che acquistano beni che formano oggetto dell'attività propria dell'impresa da commercianti al minuto ai
quali è consentita l'emissione della fattura sono obbligati a richiederla.
37 Nei casi in cui il cliente-consumatore finale richieda l’emissione della fattura.
38 L’art. 53 Cost. richiede che sia il patrimonio del soggetto che manifesta la capacità contributiva a restare inciso dal tributo.
39 L. Salvini, op. cit., p. 1325.
40 Conforme, E. Fazzini, Il diritto di detrazione nel tributo sul valore aggiunto, Padova, 2000, p. 13, il quale partendo dallo schema
applicativo del tributo ove assumono primaria importanza la detrazione e la rivalsa, ritiene che in relazione alle operazioni
esenti, con l’esclusione della rivalsa ex lege e, al contempo, del diritto di detrazione, si è inteso esentare dal tributo il solo
valore aggiunto relativo alla fase afferente l’attività svolta dal soggetto passivo, senza, nel contempo, spostare la riferibilità
della manifestazione della capacità contributiva assoggettata all’imposta dal consumatore finale al soggetto passivo e quindi
senza mutare la natura giuridica del tributo. “Del resto, se è ben vero che, giuridicamente, nelle dette ipotesi non ha luogo
l’addebitamento del tributo ex lege, in via di rivalsa, nei confronti del consumatore finale, è altrettanto indubitabile che
l’ammontare non detraibile del tributo sugli acquisti costituisca per il soggetto passivo un elemento di costo che a sua volta
11
Nonostante la tesi appena esposta sia condivisibile in ordine alla rilevanza giuridica riservata agli
istituti della detrazione e della rivalsa ai fini dell’individuazione della capacità contributiva e del
presupposto dell’imposta, lascia in parte perplessi in relazione alla necessità di elevare la traslazione
economica quale elemento caratterizzante il presupposto d’imposta nelle fattispecie previste dall’art. 22
e nei casi di effettuazione da parte del soggetto passivo di operazioni esenti.
Nella prima ipotesi un simile ragionamento sottovaluta il diritto al rimborso che, in quanto
corollario del diritto alla detrazione41, rappresenta un aspetto determinate per il corretto funzionamento
dell’Iva. Infatti, il rimborso dell’eccedenza detraibile evita che l’imposta resti a carico del soggetto
passivo anche nell’ipotesi in cui lo stesso, a causa di fattori relativi al mercato, sia stato costretto ad
effettuare la cessione del bene ad un prezzo inferiore al costo d’acquisto. In tal caso non è possibile
affermare l’esistenza della traslazione economica; ciò nonostante il soggetto inciso dal tributo sarà,
comunque, il consumatore finale sul quale graverà a titolo definitivo una imposta pari alla differenza tra
l’Iva chiesta a rimborso dal soggetto passivo e l’ammontare dell’imposta addebitata a titolo di rivalsa
nelle operazioni di scambio al netto delle detrazioni42.
Quanto alle operazioni esenti sembra che non si sia tenuto in debita considerazione la finalità
dell’esenzione fiscale prevista dall’art. 13 della sesta direttiva43 che non è uno sgravio per i soggetti
d’imposta, bensì uno sgravio a favore del consumatore finale44, che normalmente è il soggetto su cui
viene a gravare l’onere dell’Iva. Se la finalità dell’esenzione è la diminuzione del costo del bene o del
servizio, elevare la traslazione economica a giustificazione costituzionale dell’imposta determina ipso facto
l’abrogazione implicita del vantaggio fiscale45.
In realtà bisognerebbe inquadrare le esenzioni nel sistema dell’imposta. Secondo una
giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia CE46 le esenzioni costituiscono nozioni autonome di
diritto comunitario le quali vanno inquadrate nel contesto generale del sistema comune dell'IVA
instaurato dalla sesta direttiva. Esse costituiscono deroghe al principio generale secondo cui l'imposta
sul valore aggiunto è riscossa per ogni cessione di beni e prestazione di servizi effettuate a titolo
oneroso da un soggetto passivo ed in quanto tali devono essere interpretati restrittivamente47. Ne deriva
concorre (salvo il caso di ipotesi patologiche di operazioni in perdita) nella determinazione del prezzo di vendita. Alla rivalsa
ex lege si sostituisce pertatnto la traslazione economica del tributo il cui onere, sotto l’aspetto economico è, anche in tal
caso, comunque sopportato dal consumatore finale, contribuente di fatto”. Circa la possibilità di traslazione dell’imposta in
presenza di operazioni esenti ved. M. Giorgi, Detrazione ..cit., p. 47, il quale ritiene che “il soggetto Iva tenderà a traslare,
seppure in modo non giuridicizzato, il carico d’imposta sul consumatore finale in modo tanto maggiore quanto maggiore
sarà la quota di imposta indetraibile”. L’A., comunque, diversamente dalla suddetta tesi, non subordina alla possibile
traslazione l’individuazione del presupposto dell’imposta nel consumo finale.
41 La Corte di giustizia nella sentenza del 18 dicembre 1997, Molenheide BVBA, Cause riunite C-286/94, C-340/95, C-401/95
e C-47/96, in Racc., 7281, ha affermato che l’obbligo delle amministrazioni fiscali nazionali di procedere a un rimborso
immediato dell’eccedenza di Iva a favore di un contribuente è collegato al diritto di quest’ultimo all’esercizio immediato del
suo diritto a detrazione. Sul carattere pregiudiziale del rapporto che intercorre tra detrazione e rimborso, nel senso che
all’esercizio della detrazione può far seguito l’emersione di una situazione attiva, l’eccedenza detraibile, idonea a generare una
pretesa di rimborso v. M. Basilavecchia, Situazioni creditorie del contribuente e attuazione del tributo, ed. provv., Pescara, 2000.
42 Es.: Tizio (soggetto passivo) cede a Caio (soggetto passivo) un bene al costo di 100 + Iva 20% (20). Caio a sua volta cede
lo stesso bene a Sempronio (soggetto passivo – dettagliante) al costo di 200 + Iva 20% (40). Sempronio, a causa di una
obsolescenza del bene, cede lo stesso ad un consumatore finale al prezzo di 200. Ai sensi dell’art. 27 del D.P.R. n. 633 del
1972 l’Iva scorporata sarà pari a 33. Ponendo che sia l’unica operazione del periodo, avremo la seguente situazione:
Tizio: Iva a debito 20 – Versamento 20
Caio: Iva a credito 20; Iva a debito 40 – Versamento 20
Sempronio: Iva a credito 40; Iva a debito 33 – Rimborso 7
L’imposta definitivamente incassata dall’erario è 33, cioè pari all’imposta facente carico al consumatore finale.
43 Art. 10 del D.P.R. n. 633/72.
44 La Corte di giustizia individua nelle esenzioni l’obiettivo di ridurre i costi delle prestazioni oggetto delle operazioni per
renderle più accessibili ai cittadini; sentenza 6 novembre 2003, causa C-45/01, Dornier; sentenza 10 settembre 2002, causa C141/00, Kugler; sentenza 11 gennaio 2001, causa C-76/99, Commissione contro Repubblica francese.
45 In ordine alla irrilevanza della rivalsa occulta in tema di esenzioni contemplate dalla VI direttiva v.: Corte di giustizia, 14
luglio 1988, causa 207/87, Gerd Weissgerber, in Racc. p. 4433.
46 Sentenze 26 marzo 1987, causa 235/85, Commissione/Paesi Bassi, in Racc. p. 1471; 15 giugno 1989, causa 348/87, Stichting
Uitvoering Financiële Acties, in Racc. p. 1737.
47 In tal senso Corte di giustizia: sentenza 12 febbraio 1998, causa C-346/95, Blasi; sentenza 5 giugno 1997, causa C-2/95,
SDC, in Racc. pag. I-3017; sentenza 11 agosto 1995, causa C-453/93, Bulthuis-Griffioen.
12
che non può essere dato troppo rilievo all’eccezione per l’identificazione del modello ricostruttivo del
tributo.
Come detto, l’esenzione si spiega con l’esigenza di ridurre i costi delle prestazioni oggetto delle
operazioni per renderle più accessibili ai cittadini48; ciò avviene estromettendo dal circuito applicativo
dell’imposta l’operazione esente, in tal modo cristallizzando il consumo finale rilevante per il sistema
d’imposta nello stadio di circolazione dei beni e servizi in cui è prevista l’esenzione49.
In altre parole il legislatore, per ragioni extrafiscale50, ha previsto delle deroghe all’applicazione
dell’imposta tali da rendere possibile che l’onere fiscale facesse carico a un soggetto diverso da colui che
normalmente ne è gravato (consumatore finale).
Al riguardo si potrebbe dubitare della legittimità costituzionale delle norme di esenzione
assumendo la contrarietà al principio della generalità dell’obbligo contributivo inteso come divieto di
addossare soltanto ad alcuni soggetti passivi di imposta l’onere di finanziare gli interventi a sostegno di
una particolare categoria di altri soggetti sottolineando il carattere distorsivo prodotto dalla norma di
esenzione.
Una simile argomentazione proposta in relazione agli artt. 6 e 7 del D.lgs. n. 446 del 1997
(decreto IRAP), per contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost., nella parte in cui stabilisco per le imprese
bancarie ed assicuratrici un regime di applicazione del tributo non vantaggioso rispetto ad altri settori,
già è stata superata dalla Corte costituzionale la quale ha rilevato che una “siffatta lettura del principio di
generalità dell’obbligo di concorrere alle spese pubbliche è erroneo perché non considera il necessario collegamento con la
capacità contributiva postulato dallo stesso art. 53, comma 1, Cost. e perché, di conseguenza, impedirebbe ogni politica
redistributiva del carico fiscale”51.
In linea generale il fenomeno distorsivo delle agevolazioni potrebbe rilevare sul piano della
legittimità costituzionale, ma le volte in cui la Corte Costituzionale si è pronunciata su simili questioni
non è mai pervenuta ad una sentenza di accoglimento in quanto si è affermato che è compito del
legislatore in virtù del potere discrezionale, il cui esercizio si sottrae al sindacato costituzionale salvo
sconfinamenti nell’irrazionalità e nell’arbitrio, quello di apprestare adeguati rimedi ai possibili effetti
distorsivi del sistema, operando le più convenienti scelte normative52.
La sesta direttiva individua con il termine esenzioni anche le operazioni che nel diritto interno sono definite non
imponibili (esportazioni, cessioni intracomunitarie). In tal caso la giustificazione si rinviene nel fondamentale principio della
neutralità che ha la funzione di assicurare la neutralità impositiva nei passaggi intermedi il consumo finale. Poiché
quest’ultimo, si verifica quando i beni ed i servizi sono impiegati per effettuare operazioni diverse da quelle soggette ad
imposta, la non imponibilità delle cessioni all’esportazione e delle cessioni intracomunitarie si rende necessario per evitare
una doppia imposizione.
49 In tal senso M. Giorgi, op.cit., p. 45; Farmer – Lyal, EC Tax Law, Oxford, 1994, p. 170.
50 F. Moschetti, Agevolazioni fiscali, in Digesto, disc. priv., sez. comm., I, Torino, 1987, p. 75 ritiene che “il principio di capacità
contributiva, in quanto disposizione costituzionale da interpretare (anche) alla luce delle altre norme contenute nello stesso
sistema giuridico, non può non tener conto del particolare favor che deve essere garantito laddove intervenga nei settori
giuridici costituzionalmente protetti. La qualificazione in termini di capacità contributiva deve tener conto della norma
costituzionale di favore e questa, a sua volta, concorre a determinare la maggiore o minore capacità contributiva. Pertanto,
mentre un’applicazione dell’art. 53 avulsa dalle norme costituzionali di favore potrebbe non comportare alcun trattamento
agevolativo nel particolare settore da queste considerato ed un’applicazione delle norme agevolative isolata dall’art. 53 non si
estenderebbe necessariamente alla materia fiscale, la considerazione del combinato disposto sembra comportare necessariamente
un trattamento fiscale differenziato in quanto il concetto di capacità contributiva deve essere armonizzato con la norma di
favore”. Contra, A. Fedele, Profilo dell’imposta sugli incrementi di valore di valore delle aree fabbricabili, Napoli, 1966, p. 109, per il
quale l’art. 53 non sarebbe implicato dalle disposizioni agevolative, e A. Fantozzi, op. cit., p. 47 secondo cui le norme di
esenzione e agevolazione sono costituzionalmente legittime ogni volta che la deroga al principio di capacità contributiva
trovi razionale e congrua giustificazione in altri principi, di rango costituzionale o meno, presenti nell’ordinamento. Nello
stesso senso F. Fichera, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992, pp. 145 ss., per il quale l’agevolazione è una deroga rispetto al
trattamento ordinario in ordine ad un indice rilevatore di ricchezza già qualificato dall’ordinamento in termini di capacità
contributiva ed ha, quindi, una sua autonomia rispetto al piano della tassazione ordinaria; di conseguenza non è rilevante la
capacità contributiva in quanto ad uguale capacità economica può corrispondere un trattamento differenziato in forza di
finalità extrafiscali. Per un quadro generale sulle varie tesi in tema di esenzioni, M. Basilavecchia, Agevolazioni, esenzioni ed
esclusioni, in Rass. trib., 2002, p. 421.
51 Sentenza 19 gennaio 2005, n. 21, in Rivista SSEF, n. 1/2005, p. 436.
52 Sentenza n. 76 del 1983 e n. 179 del 1976. In dottrina, F. Fichera, op. cit., pp. 185 ss..
48
13
Come è stato giustamente rilevato, dato le caratteristiche delle attività esenti (ved. infra) le cui
prestazioni sono ad “alto valore aggiunto” rispetto alla quantità di beni e servizi gravati da Iva
necessarie per esercitarle, le limitazioni alla detrazione hanno, normalmente, una ridotta incidenza53.
Da ciò si potrebbe facilmente desumere che il legislatore abbia ponderato gli effetti
disfunzionali della esenzione ma li abbia ritenuti irrilevanti in relazione agli interessi sociali perseguiti.
In relazione all’Iva, rientrano nell’ambito delle esenzioni alcune attività di interesse pubblico,
quali quelle dirette alla tutela della salute del cittadino54, le prestazioni relative all’assistenza ed alla
sicurezza sociale55, l’educazione e la scuola56, le prestazioni creditizie e di assicurazione,57 nonché le
attività collegate all’abitazione ed alla proprietà contadina 58.
È fin troppo evidente che le prestazioni per le quali è prevista l’esenzione dall’imposta sono
dirette al perseguimento di interessi primari delle collettività sociali che trovano espressione in molte
norme costituzionali. Si pensi all’art. 32 che tutela la salute come fondamentale diritto dello individuo e
interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti, all’art. 38 che riconosce il diritto
all’assistenza e previdenza sociale, all’art. 33 che garantisce il diritto allo studio ed infine all’art. 47 il
quale prevede la tutela del risparmio in tutte le sue forme ed affida alla Stato il compito di disciplinare,
coordinare e controllare l'esercizio del credito, oltre che a favorire la proprietà dell'abitazione e la
proprietà diretta coltivatrice.
Dunque, sia se si accoglie la funzione solidaristica della capacità contributiva che individua nei
doveri di solidarietà ex art. 2 Cost., dei quali gli articoli innanzi indicati sono espressione, il criterio
interpretativo ed ispiratore dell’art. 53 Cost., sia se si opta per la tesi che individua nell’art. 53 la
funzione di razionale ripartizione tra i consociati dei carichi pubblici che impone un raffronto
sistematico con tutte le norme dell’ordinamento, in primis quelle costituzionali, si deve necessariamente
convenire sulla legittimità delle norme di esenzione che derogano alla struttura ordinaria del tributo
rendendo giuridicamente impossibile la traslazione dell’imposta.
Simile deroghe che sono dirette alla tutela di interessi costituzionali, in quanto limitate ma
comunque giustificate da finalità redistributive ed alla luce delle caratteristiche delle attività esentate,
scarsamente incidenti sull’onere tributario, non sono sufficienti ad incidere sul contesto generale
R. Lupi, Diritto tributario, Parte speciale, Milano, 2002, p. 317; M. Giorgi, Detrazione .. cit., p. 47.
e le cure mediche nonché le operazioni ad esse strettamente connesse, assicurate da organismi di diritto
pubblico oppure, a condizioni sociali analoghe a quelle vigenti per i medesimi, da istituire ospedalieri, centri medici e
diagnostici e altri istituti della stessa natura debitamente riconosciuti; le prestazioni mediche effettuate nell'esercizio delle
professioni mediche e paramediche quali sono definite dagli Stati membri interessati; la fornitura di organi, di sangue e di
latte umani; le prestazioni dei servizi effettuate nell'esercizio della loro professione dagli odontotecnici, nonché le forniture
di protesi dentarie effettuate dai dentisti e dagli odontotecnici.
55 Le prestazioni di servizi e le cessioni di beni strettamente connesse con l'assistenza sociale e la sicurezza sociale, comprese
quelle fornite dalle case di riposo, effettuate da organismi di diritto pubblico o da altri organismi riconosciuti come aventi
carattere sociale dallo Stato membro interessato; le prestazioni di servizi e le forniture di beni strettamente connesse con la
protezione dell'infanzia e della gioventù, effettuate da organismi di diritto pubblico o da altri organismi riconosciuti dallo
Stato membro interessato come aventi carattere sociale.
56 L'educazione dell'infanzia e della gioventù, l'insegnamento scolastico o universitario, la formazione o la riqualificazione
professionale nonché le prestazioni di servizi e le forniture di beni con essi strettamente connesse compiuti da organismi di
diritto pubblico, o da altri organismi riconosciuti dallo Stato membro interessato come aventi finalità simili; le lezioni
impartite da insegnanti a titolo personale e relative all'insegnamento scolastico o universitario.
57 Le operazioni di assicurazione e di riassicurazione, comprese le prestazioni di servizi relative a dette operazioni, effettuate
dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione; la concessione e la negoziazione di crediti nonché la gestione di crediti da
parte di chi li ha concessi; la negoziazione e la presa a carico di impegni, fideiussioni e altre garanzie nonché la gestione di
garanzie di crediti da parte di chi ha concesso questi ultimi; le operazioni, compresa la negoziazione, relative ai depositi di
fondi, ai conti correnti, ai pagamenti, ai giroconti, ai crediti, agli assegni e ad altri effetti commerciali, ad eccezione del
ricupero dei crediti; le operazioni, compresa la negoziazione, relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio, ad
eccezione delle monete e dei biglietti da collezione; sono considerati da collezione le monete d'oro, d'argento o di altro
metallo e i biglietti che non sono normalmente utilizzati per il loro valore liberatorio o presentano un interesse per i
numismatici; le operazioni, compresa la negoziazione, eccettuate la custodia e la gestione, relative ad azioni, quote parti di
società o associazioni, obbligazioni, altri titoli, ad esclusione: - dei titoli rappresentativi di merci; - dei diritti o titoli di cui
all'articolo 5, paragrafo 3; la gestione di fondi comuni d'investimento quali sono definiti dagli Stati membri.
58 L'affitto e la locazione di beni immobili; le cessioni di fabbricati o di una frazione di fabbricato e del suolo ad essi attiguo;
le cessioni di fondi non edificati diverse dalle cessioni dei terreni edificabili.
53
54 L'ospedalizzazione
14
dell’imposta sul valore aggiunto che in virtù degli istituti tipici della detrazione e della rivalsa non può
che avere la natura giuridica di imposta sul consumo.
Gabriele Marini
Dottorando di ricerca in diritto tributario
presso l’Università degli Studi Chieti-Pescara
15